Sul tema, nel sito, si cfr.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
IL NUOVO SUDAFRICA: UN ARCOBALENO DI LINGUE, IN MOVIMENTO.
Poesia citata dal Presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, nel suo discorso di insediamento (1994)
LA MEDITAZIONE
di Marianne Williamson *
La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: "Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso?"
In realtà chi sei tu per Non esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 6.
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La società dell’inimicizia può essere decostruita a partire dalla relazione
SCAFFALE. «Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia» un saggio del filosofo camerunense Achille Mbembe
di Francesco Marchi(il manifesto, 31.8.2019)
«Il ventunesimo secolo si apre con un’ammissione, quella dell’estrema fragilità di tutti». Fragilità politica ed esistenziale, legata a doppio filo alla vulnerabilità del soggetto nel mondo globale. Da queste considerazioni finali si articola l’ultimo libro del filosofo camerunense Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia (Laterza, pp. 171, euro 18, traduzione di Guido Lagomarsino), volume che parzialmente riprende tematiche e concetti sviluppati precedentemente nell’importante saggio Necropolitica (Ombre Corte) e in Emergere dalla Lunga Notte (Meltemi). L’asse portante dell’analisi di Mbembe ruota attorno alla critica del tempo globale, tramite un procedimento che mette in costante dialogo il presente con la modernità, quel tempo mai veramente terminato che ha sancito il «farsi mondo» del soggetto europeo.
E SE IL NOSTRO è «il tempo del ripopolamento e della globalizzazione del mondo sotto l’egida del militarismo e del capitale e, come ultima conseguenza, dell’uscita dalla democrazia», è proprio a partire dalla modernità che dobbiamo scovare le differenti tracce nascoste che sono alla base della crisi, apparentemente senza uscita, delle democrazie contemporanee. Muri, elogio delle frontiere, derive securitarie, paranoie manichee, sistematica violazione del diritto alimentano uno stato di guerra globale permanente al terrore portando a quella che Mbembe definisce la società dell’inimicizia. Società che vive e si riproduce perpetuando gli assunti mitici del suolo e del sangue, grazie al razzismo che si è fatto molecolare, permeando trasversalmente istituzioni, discorsi, convinzioni e immaginari.
LA VIOLENZA in nome della razza sarebbe dunque una delle cifre centrali del nostro tempo. Violenza fisica, ma anche culturale, militare ed economica: in altre parole la violenza del capitale contemporaneo che, ci dice Mbembe, si articola mischiando forme nuove di sfruttamento e dominio, quali le macchine digitali e la computazione della vita, con vecchie pulsioni di stampo tribale, portando a un dominio senza responsabilità. Le democrazie liberali, o l’immagine sbiadita che ne rimane, si ribaltano così nel loro opposto.
L’errore da non commettere è considerare il proliferare del nanorazzismo e dell’insicurezza sociale uno novità assoluta all’interno dello sviluppo della democrazia moderna. Al contrario, «il mondo coloniale, progenie della democrazia, non era l’antitesi dell’ordine democratico. È sempre stato il suo doppio o il suo volto notturno. La democrazia non esiste senza il suo doppio, la sua colonia, comunque si chiami o sia strutturata». E se nella modernità la democrazia esternava nelle colonie la sua violenza originaria e costitutiva, nel mondo globale risulta oramai impossibile distinguere il qui e l’altrove, il dentro e il fuori, cosi che gli scheletri nell’armadio dimenticati dal progetto occidentale infestano inesorabilmente i nostri spazi e le nostre vite. Lo schiavo e la donna negra sono quelle figure paradigmatiche che in maniera diversa sono state rimosse dai nostri archivi, sulle quali la democrazia ha potuto costruirsi e proclamarsi universale. Il migrante, il rifugiato, la donna «negra» rappresentano oggi quell’umanità di scarto che mette in scacco ogni possibile riaffermarsi dell’umanesimo occidentale.
DA DOVE RIPARTIRE? Non dall’uomo, ma dalla relazione, questo sembra suggerire Mbembe. «Nelle antiche tradizioni africane, il punto di partenza dell’interrogativo sull’esistenza umana non è la questione dell’essere, ma quella della relazione, della reciproca implicazione». E se il tempo odierno sembra negare con virulenza questa relazionalità costitutiva, è solo attraverso la relazione e la reciprocità che ci potrà essere una riparazione della fragilità che ci caratterizza. Una riparazione non in nome dell’universale, ma del condiviso. Mentre il primo termine implica «inclusione in un’entità già costituita, il secondo presuppone un rapporto di co-appartenenza, di avere qualcosa in comune, l’idea di un mondo che è il solo che abbiamo e che per durare deve essere condiviso da tutti quelli che ne hanno diritto». Una democrazia della specie, nelle parole dell’autore, da svilupparsi a partire da nuove tradizioni e diversi paradigmi.
L’afrofuturismo, corrente artistica e politica, si fa così portatore di alcune istanze di cambiamento radicale. Non per rivivere un passato mitico, violento ed escludente, ma per costruire comunità politiche in divenire, capaci di superare quei limiti moderni che hanno fatto dell’altro e della natura semplici oggetti di sfruttamento e dominio.
Nelson Mandela
Non volevo essere presidente
Gli appunti che compongono l’ultima parte dell’autobiografia, adesso in uscita in Italia, svelano il lato inedito del leader sudafricano E il suo scetticismo alla vigilia dell’elezione che gli avrebbe cambiato la vita
di Nelson Mandela (la Repubblica, 20.02.2018)
La carica di primo presidente democraticamente eletto nella storia della Repubblica del Sudafrica mi fu praticamente imposta contro la mia volontà.
Quando la data delle elezioni generali era ormai vicina, tre leader dell’Anc mi comunicarono di aver condotto ampie consultazioni all’interno dell’organizzazione e che la decisione unanime era stata che, nel caso in cui avessimo vinto le elezioni, io sarei dovuto essere presidente.
Questo, mi dissero, era ciò che avrebbero proposto al primo incontro del nostro comitato direttivo parlamentare.
Io mi dissi contrario a quella decisione, per il fatto che quell’anno avrei compiuto settantasei anni e che sarebbe stato ben più saggio trovare un candidato più giovane, uomo o donna che fosse, che avesse vissuto fuori di prigione, incontrato capi di Stato e di governo, preso parte a incontri di organizzazioni locali e mondiali, qualcuno addentro agli ultimi eventi nazionali e internazionali e che fosse in grado, per quanto possibile, di prevedere il corso futuro di tali eventi.
Dissi che avevo sempre ammirato quegli uomini e quelle donne che avevano posto le proprie doti al servizio della comunità, e che si erano guadagnati rispetto e ammirazione in virtù dei loro sforzi e sacrifici, anche se non svolgevano alcuna funzione all’interno del governo o della società.
La combinazione di talento e umiltà, la capacità di essere a proprio agio con i poveri cosi come con i ricchi, con i deboli e i potenti, con la gente comune e i reali, con i giovani e i vecchi - gli uomini e le donne dotati di una sintonia con la gente, a prescindere dalla loro razza e provenienza, sono oggetto di ammirazione da tutto il genere umano in ogni parte del mondo.
L’Anc è sempre stato pieno di uomini e donne di talento, che hanno preferito rimanere nelle retrovie destinando giovani promettenti a posizioni di prestigio e di responsabilità, al fine di metterli di fronte ai principi basilari e ai problemi della leadership sin dagli inizi della loro carriera politica, e anche al modo in cui gestire tali problemi.
Il leader ha sempre suscitato un’impressione formidabile su molti di noi. Il compagno Walter Sisulu è un uomo del genere; e questo spiega perché egli ci abbia sempre sovrastati, indipendentemente dalle funzioni che ricoprivamo nel movimento o nel governo.
Insistetti con quei tre leader che avrei preferito dare il mio contributo senza assumere alcun ruolo nel movimento o nel governo. Ma uno di essi mi mise al tappeto. Mi ricordo che avevo sempre perorato la crucialità della leadership collettiva, e che finché avessimo tenuto fede scrupolosamente a un simile principio non avremmo mai sbagliato.
Senza mezzi termini, mi chiese se non stessi ripudiando ciò che predicavo da anni. Sebbene tale principio non fosse mai stato inteso a escludere la strenua difesa di ciò in cui si crede, decisi di accettare la loro proposta. In ogni caso, misi in chiaro che avrei svolto un solo mandato.
La mia dichiarazione sembrò coglierli di sorpresa - risposero che avrei dovuto lasciarlo decidere all’organizzazione -, ma io non volevo che vi fossero ambiguità in merito.
Poco dopo la nomina a presidente, annunciai pubblicamente che avrei svolto un unico mandato e che non avrei cercato di essere rieletto.
Agli incontri dell’Anc rimarcavo spesso che non volevo compagni deboli, burattini che accettavano supinamente tutto quello che dicevo solo perché ero il presidente dell’organizzazione. Auspicavo un rapporto sano in cui potessimo discutere delle questioni non come servo e padrone, ma da pari a pari, in cui ogni compagno potesse esprimere le proprie opinioni liberamente e in modo franco, senza timore di essere angariato ed emarginato.
Per esempio, una delle mie proposte che aveva suscitato molta rabbia e clamore era stata l’abbassamento dell’età per votare a quattordici anni, una misura che era già stata adottata da vari paesi nel resto del mondo. Questo perché, in quei paesi, i giovani all’incirca di quell’età erano impegnati in prima linea nelle lotte rivoluzionarie. Era stato proprio il loro contributo a indurre i governi vittoriosi a premiarli concedendo loro il diritto di voto.
La mia proposta incontrò un’opposizione talmente violenta e schiacciante da parte del Comitato esecutivo nazionale, che fui costretto a battere in ritirata.
Il quotidiano The Sowetan caricaturò la vicenda pubblicando una vignetta con un neonato con il pannolino intento a votare. Fu uno dei modi più vividi con cui venne messa in ridicolo la mia idea. Non ebbi più il coraggio di insistere ulteriormente. Ci sono stati, tuttavia, dei casi in cui non mi sono sentito vincolato dal principio della leadership collettiva.
Per esempio, quando respinsi senza esitazione la decisione di una conferenza programmatica in base alla quale il governo avrebbe dovuto essere nominato dalla conferenza stessa. Inoltre, rifiutai la prima rosa di negoziatori con il regime dell’apartheid fornita dall’Anc, che ci fu consegnata dalla leadership a Lusaka.
Degli undici nomi presenti, otto appartenevano a un unico gruppo etnico composto di neri e non c’era una sola donna.
Ricapitolando, il principio della leadership collettiva, di lavoro di squadra, non è uno strumento rigido e dogmatico da applicare meccanicamente senza tenere conto delle circostanze. Deve essere sempre esaminato alla luce delle condizioni predominanti.
In qualità di presidente dell’Anc e del paese, esortavo i membri dell’organizzazione, del governo e i parlamentari a parlare senza remore agli incontri dell’Anc e del governo. Ma immancabilmente li avvisavo che essere schietti non significava affatto essere disfattisti o negativi. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che lo scopo principale di un dibattito, interno ed esterno all’organizzazione, negli incontri politici, in Parlamento e negli altri organi governativi e quello di uscirne - per quanto forti possano essere le nostre divergenze - più coesi e uniti e più fiduciosi di prima.
Eliminare le differenze e i sospetti reciproci all’interno dell’organizzazione dovrebbe essere sempre il nostro principio guida. Tutto questo risulta relativamente semplice quando cerchiamo, nei limiti delle nostre capacita, di non mettere mai in dubbio l’integrità di un compagno o di un membro di un’altra organizzazione politica che esprime un punto di vista diverso dal nostro.
Nel corso della mia carriera politica mi sono reso conto che in ogni comunità - africana, meticcia, indiana e dei bianchi - e in tutte le organizzazioni politiche senza alcuna eccezione, ci sono uomini e donne perbene che desiderano ardentemente vivere la propria vita, che anelano alla pace e alla stabilità, che vogliono un reddito dignitoso, abitazioni decenti e vogliono mandare i propri figli nelle scuole migliori, persone che rispettano il tessuto sociale e che vogliono preservarlo.
I leader capaci sanno perfettamente che eliminare le tensioni sociali, di qualunque natura esse siano, pone in primo piano i pensatori più creativi generando un ambiente ideale affinché uomini e donne lungimiranti possano influenzare la società. Al contrario, gli estremisti prosperano in un clima di tensioni e di diffidenza reciproca. Il pensiero lucido e la buona pianificazione non sono mai stati la loro arma.
- © 2017 by Nelson R. Mandela and the Nelson Mandela Foundation © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Published by Arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara
E il Sole disse al vento: chi di noi è più forte?
In un breve apologo che risponde a questa domanda si riassume la leadership per Mandela: un addestramento virtuoso e paziente contro le tentazioni della rabbia e della vendetta
di Martha C. Nussbaum (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)
Negli scritti di Mandela non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (...) La rabbia porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono, alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa storia). (...)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla “posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle buone relazioni con le guardie - spesso inquinate dagli attriti di classe - era «il rispetto, il semplice rispetto».
Quando il suo avvocato giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome. L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che erano».
La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia: egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori. Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché si era fatto da sé. Era indipendente e studiava». Quindi non solo la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta, ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben più utili. (...)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò.
La scelta di organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto rapporto anche con il concetto africano di ubuntu. (...) Egli richiama ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina l’orientamento al futuro. (...) In generale Mandela non sembra avere mai pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (...)
Gli atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla prova con un viaggiatore... una persona avvolta in una coperta. Il più forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere, dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi... fino a quando l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più, perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela, naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è che il suo metodo funziona. (...)
Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci. Suggeriva di fare così anche ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più proficuamente, con strategie non rabbiose.
Molto più tardi, nei primi tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un momento decisivo per tutti noi [...] Dobbiamo usare il dolore, il lutto e l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo [...] rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un profondo dolore per la sua morte.
OLIMPIADI DI FILOSOFIA
Apriamo gli studenti all’ubuntu
di Luca Maria Scarantino (Il Sole-24 Ore, 05 giugno 2016)
Donna non si nasce, lo si diventa: commentando questa celebre massima di Simone de Beauvoir, due liceali della Corea del Sud hanno vinto le Olimpiadi mondiali di filosofia. La terza medaglia d’oro, ex-aequo, è andata a uno studente turco, autore di un saggio sulla logica di Aristotele. Nessun paese aveva mai ottenuto due primi posti in una stessa edizione.
Leggendo gli elaborati nello splendore fiammingo di Gent, ripensavo alle parole di un collega della giuria. «Stanno vincendo», mi aveva detto il giorno prima, mentre i militari belgi in tenuta di guerra ci perquisivano in prossimità dell’aeroporto di Charleroi: nell’Europa sotto attacco siamo noi le armi che i nostri nemici stanno preparando. Non si tratta solo di abitudini quotidiane sconvolte da questo stato d’assedio strisciante. È la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi in una tradizione, in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme circoscritto, rassicurante, quasi tribale di coordinate culturali. Gli scritti dei liceali venuti a Gent da tutto il mondo per comporre un breve saggio di filosofia dicevano cose molto diverse.
«Ogni volta che devo barrare una casella, la società mi impone di scegliere “femmina”; eppure tutto dentro di me si sente maschio»: inizia all’incirca così uno degli elaborati vincitori. «Sono donna perché da diciassette anni la società mi impone di esserlo... ma ogni donna dovrebbe battersi non solo per il diritto di diventare donna, ma anche per quello di non diventarlo»: parole decise, coraggiose e piene di vita di ragazze e ragazzi coreani, svizzeri, norvegesi, croati che non hanno paura di esplorare i propri sentimenti e la propria identità di genere, servendosi della filosofia per capire meglio se stessi e la società in cui vivono. Oltre metà delle medaglie d’oro e d’argento, compresi due dei tre vincitori, sono andate a saggi dedicati a questi temi. Non è strano che adolescenti cerchino di costruirsi, né che si interroghino sul proprio rapporto con la società che li circonda; ma è evidente che la rilevanza sociale delle questioni di genere sta diventando un fenomeno universale, parecchio sentito da questi ragazzi che si chiedono in modo consapevole quanto siano pertinenti per la loro vita le norme tradizionali che regolano l’identità di genere: e lo fanno con stili, convinzioni, tesi e conclusioni assai diverse.
Alcuni colleghi europei si chiedevano quanto gli studenti giapponesi, indiani, coreani o cinesi conoscano la tradizione filosofica occidentale. I saggi arrivati in finale ci dicono che maneggiano assai bene Aristotele e Putnam, Locke e Wittgenstein, Foucault, Heidegger, Sartre e Derrida, la tradizione analitica e il pensiero femminista... Questa familiarità con altri mondi, unita a sistemi educativi particolarmente efficaci, aiuta a capire i ripetuti successi degli studenti asiatici.
Chiediamoci allora quanto i nostri studenti, liceali o universitari, conoscano delle altre culture e siano esposti al confronto con esse. Cosa sanno i ragazzi italiani (e prima ancora: cosa sappiamo noi) di Nishida, Wonhyo, Dasan, Laozi, dell’ubuntu, di Senghor, Iqbal e di tanti altri autori e autrici di formidabile rilievo teorico e culturale? Qualcosa si muove, certo; le iniziative rivolte ad aprire l’insegnamento della filosofia e delle scienze umane in senso interculturale non si possono più trascurare; e l’Italia non sta peggio di altri paesi europei. Eppure, troppo spesso si continua a identificare la filosofia con la filosofia occidentale.
È tesi corrente, in Italia e non, che molte delle espressioni culturali non occidentali siano forme di spiritualità, di religiosità, di saperi tradizionali - ma non siano filosofia. Può darsi. Ma da sempre il pensiero filosofico trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e pratiche culturali, sino a fondersi con esse: si pensi all’indissolubile rapporto con la religione che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale, o all’importanza dell’astrologia che attraversa l’intero Rinascimento. Certo, proprio questi saperi, una volta esaurito il proprio ruolo storico, sono stati rifiutati, evacuati dalla comprensione storica del pensiero filosofico: al punto che oggi non siamo quasi più in grado di riconoscerli.
Ma a cosa può aspirare oggi una filosofia che si mura entro un’unica tradizione, lasciando fuori e anzi respingendo oltre i propri confini intere tradizioni spirituali e di pensiero? Davvero vogliamo escludere dall’ambito del pensiero filosofico interi secoli di storia della cultura, abbandonare ad altre discipline lo studio del sufismo, del confucianesimo, delle tradizioni dell’India? Aprire invece, viene da pensare, spalancare le porte della propria mente a culture, filosofie, letterature, religioni di tutto il mondo, anche a costo di scardinare alcuni riflessi culturali ben radicati nella tradizione europea: è di questo che hanno bisogno questi ragazzi per competere nel mondo di oggi e di domani.
La Corea raccoglie i frutti di decenni di investimenti in cultura, educazione, scienze; ed è comunque probabile che già l’anno prossimo si abbiano vincitori di paesi diversi. Eppure, da uno dei più suggestivi borghi della vecchia Europa giunge un segnale da non sottovalutare: al netto di facili generalizzazioni, molti ragazzi extra-europei, e asiatici in particolare, sembrano assai meglio preparati a muoversi nella complessità del mondo di oggi. Ne capiscono e ne affrontano di petto i problemi, le esigenze, le difficoltà. Anche con qualche ingenuità, certo. Ma non hanno alcuna paura di mettersi in gioco: sono gay, ci dice la ragazza coreana con inesorabile forza argomentativa, e se la società vuole a tutti i costi fare di me una donna, allora la società va cambiata. Chissà se i risultati delle Olimpiadi di Gent saranno motivo di stimolo e di accresciuta apertura anche per il nostro sistema educativo.
Sulla lunga strada per la libertà
Una trilogia per Mandela
di Carla Moreni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22 maggio 2016)
È difficile raccontare la vita di un uomo in un libro, in un film. Figuriamoci in un’opera o addirittura in un musical. La sfida sembra impossibile. Eppure Mandela Trilogy coglie nel segno: nella forma ibridata del musical, che però suona anche come opera; con molti richiami al Novecento di Britten, molti inserti di jazz, ma anche molti sguardi al repertorio sudafricano. Il ritratto che ne esce è insieme storia e teatro. Con tanti pugni chiusi. Teso sulla velocità di cambi continui di scena e situazione, contagioso per l’esuberanza fisica del canto e della recitazione.
Si parte con un Prologo, come nella più classica tradizione. Vista dall’alto, siamo nella cella di un prigioniero, con branda, cuscino, orinatoio: archetipo di claustrofobica reclusione. Il prigioniero in questo momento è fuori dalla cella. Siamo nel 1976 e Nelson Mandela ha già scontato 14 anni di prigione. Su di lui pesa una condanna all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento, per le battaglie contro la segregazione razziale e l’incitazione alla lotta armata. Lo vediamo mentre ha di fronte un bianco in divisa, che gli offre con poche parole scandite la libertà. Ma a condizione che accetti di trasferirsi nel Transkei, uno dei ghetti creati dal governo sudafricano per i neri.
Mandela rifiuta. Sorridendo, cantando pacatamente. Non potrebbe essere altrimenti la sua lotta per la libertà, quel cammino sulla lunga strada per la libertà al quale è intitolato Ravenna Festival. Coraggiosamente, in una città fortemente caratterizzata dalla presenza di comunità di colore e in un teatro a palchetti come l’Alighieri, si rompono gli schemi.
Si racconta una storia passata, che tuttavia nella forma immediata dell’impianto di Mandela Trilogy non potrà che riflettersi sul presente. Colorata, giocata tutta sui corpi, semplice ma possente nei gesti di gruppo, l’opera viene da Cape Town. È una produzione nata il 18 giugno 2012, giorno del novantaquattresimo compleanno del più famoso presidente del Sudafrica, dal 1994 al 1999: primo presidente eletto dopo l’apartheid e premio Nobel per la pace nel 1993. Alle spalle quei 27 anni di prigione, interrotti nel 1990 per una pressione contro la sua condanna a vita che aveva preso ormai dimensioni mondiali.
Un coro etnico, parlato, sulle sonorità e gli accenti caratteristici della lingua xhosa, la lingua madre di Mandela, fa da sfondo al suo rifiuto ad accettare una libertà individuale e condizionata. Che avrebbe solo il sapore di una resa. Madiba non accetta. Non viene liberato. Non può sottostare alla regola del bantustan, del ghetto, del territorio forzato.
Il racconto della sua storia, scritto su libretto di Michael Williams, anche regista, e con la collaborazione di due compositori, Péter Louis van Dijk, per il primo e terzo atto, e Mike Campbell, per il secondo, diventa una Trilogy. Scandita in tre atti, in ciascuno presenta un Mandela diverso: prima quello giovane, il ragazzo cresciuto tra i riti iniziatici e i combattimenti della madre Africa, nel paese natale di Mvezo, un piccolo villaggio incontaminato; poi quello disinvolto e seduttivo dei cinema e dei jazz club di Sophiatown, la Harlem sudafricana, dove Mandela svetta, tra echi di jazz e canzoni di Miriam Makeba, nello storico Jig Club, prima delle incursioni della polizia; e infine il Mandela della prigione, delle tre diverse carceri di Robben Island, Pollsmoor, Victor Verster.
Le celle sono linde, forse troppo per una ricostruzione realistica. Le divise ben stirate. La piccola biblioteca ha i libri in ordine: Mandela legge tenacemente, tra compagni mansueti, interrogativi, pacati. Non vuole scaldare gli animi, quest’opera-musical, né rilanciare sguardi retrospettivi che scatenino ribellioni sul vissuto. E questo si spiega pensando alla matrice originaria, di Mandela Trilogy: uno spettacolo di canzoni, al debutto a Cape Town il 17 luglio 2010, intitolato African Songbook.
Anche qui, pur nello stile diverso dei due compositori, van Dijk e Campbell, uno più vicino a Gershwin e alla canzone americana, al pianoforte, l’altro più sperimentale, corale e con citazioni evidenti, ad affiorare in primo piano rimane soprattutto un elemento: la difesa di una cultura identitaria, di tradizione. Attraverso la musica canta e ritma la volontà di libertà. Non di omologazione. La dice la richiesta di attenzione rispettosa, magnetica e sensuale nelle danze arcaiche delle donne di Mvezo, dagli enormi copricapi colorati. Viene echeggiata nei Songs di Dolly Rathebe, la fantastica giovane e procace star del Jig Club, dove Mandela balla e canta in elegantissimo gessato.
Con un triplice protagonista, la Trilogia offre anche una triplice scansione cronologica. Nel primo atto siamo tra il 1934 e il 1941 (dai 16 ai 23 anni del protagonista) il maggiormente caratterizzato sotto il profilo etnico, con abbondante uso della lingua xhosa; nel secondo si passa al 1955, con un eclatante salto dal folklore della campagna africana alla libertà felice della città, tra cinema e jazz-club. È fulmineo il rapido annientamento di queste isole felici, cancellate dalla violenza delle leggi sull’apartheid. Nel terzo atto si copre invece la lunga arcata che va dal 1960, coi primi processi e le prigione, al 1994 dell’elezione alla presidenza del Sudafrica.
Regia e libretto, efficacissimi, si sposano con due ore di musica continuamente variata, polistilistica, che comprende un grande uso di percussioni, ma anche un moderno declamato, per il grande discorso di insediamento di Madiba, presidente eletto il 10 maggio 1994. La produzione originale dell’Opera di Cape Town, già festeggiata in Inghilterra e Germania, è al debutto in Italia. Solisti e coro sono sudafricani, ma in buca batte il cuore dell’Orchestra Cherubini.
«Così feci arrestare quel comunista di Nelson Mandela»
Sudafrica. Le rivelazioni di un ex agente Cia. Donald Rickard indicò ai colleghi di Pretoria dove trovare il simbolo della lotta contro il regime dell’apartheid
di Rita Plantera (il manifesto, 17.05.2016) *
Nelson Mandela, il «comunista più pericoloso al mondo al di fuori dell’Unione Sovietica», uno che «andava fermato e io l’ho fermato» prima di dar vita a «una rivoluzione che avrebbe aperto la strada» a un «intervento russo»: parola di spia. Dell’ex spia della Cia Donald Rickard, operativo a Durban - Sudafrica - come agente dei servizi segreti americani fino al 1978 e in veste di vice-console americano all’epoca della presidenza Kennedy.
A fornire l’occasione per riaprire la querelle sul credo comunista del leader sudafricano antiapartheid e rivelare la longa manus dell’intelligence americana durante gli anni vergognosi del regime segregazionista sudafricano, è stato un film presentato in questi giorni al festival di Cannes - Mandela’s Gun - sul periodo precedente l’arresto di Nelson Mandela nel 1962.
Intervistato dal regista britannico John Irvin poche settimane prima di morire, Rickard avrebbe confermato l’ipotesi che alcuni quotidiani avevano già fatto trapelare nei decenni scorsi: e cioè che dietro la cattura di Mandela ci fosse una soffiata della Cia all’intelligence sudafricana. Nello specifico, le rivelazioni dell’agente Rickard sul posto e l’ora in cui la polizia avrebbe potuto intercettare Mandela, allora alla testa dell’ala armata dell’African National Congress (Anc), l’Umkhonto we Sizwe (Spear of the Nation, una sorta di joint venture tra l’Anc e il Communist Party), formato da non più di qualche centinaia di membri con accesso a tutte le risorse del Communist Party e alle sue connessioni internazionali.
Le rivelazioni di John Irvin affidate al Sunday Times hanno dato il via - come c’era da aspettarsi - a un carosello mediatico in tutte le lingue. In realtà la notizia non è tanto il fatto che Mandela 54 anni fa sia stato arrestato grazie alla cooperazione in auge tra le intelligence dei due Paesi, quanto che ad ammetterlo sia stato proprio un ex-agente della Cia, esattamente quell’agente che praticamente passò l’informazione ai colleghi sudafricani diventando l’artefice di quella cattura. E sulle cui dichiarazioni finora la Cia non si è ancora espressa.
Nell’agosto del 1962 Nelson Mandela fu catturato dalla polizia mentre viaggiava in macchina tra Durban e Johannesburg. Sui suoi legami con l’Umkhonto e sulla campagna di sabotaggio contro il governo sudafricano dell’apartheid, le autorità che gli davano la caccia potevano vantare non più che sospetti.
E infatti la Corte poté solo incriminarlo di incitazione dei lavoratori africani a scioperare illegalmente e di aver lasciato il paese nei mesi precedenti senza un valido documento di viaggio e condannarlo a 5 anni di reclusione. Verrà accusato di sabotaggio e condannato al carcere a vita solo successivamente al raid presso la Lilliesleaf Farm, quartier generale dell’Umkhonto we Sizwe per la lotta contro il regime segregazionista.
Come raccontava già nel 1986 dalle colonne del New York Times Andrew Cockburn, «il suo arresto è avvenuto a seguito di una soffiata della Central Intelligence Agency alle autorità». Citando quanto riportato dai locali The Johannesburg Star e CBS News, Cockburn raccontava che «Mandela era in viaggio per incontrare un ufficiale della Cia che stava lavorando per il Consolato Usa a Durban, la capitale del Natal. Invece di partecipare alla riunione, l’uomo della Cia disse alla polizia esattamente dove e quando poteva essere trovato l’uomo più braccato del Sudafrica». Tutto terribilmente in linea col fatto che «alla fine degli anni ‘60, la Cia forniva consulenza e assistenza nella creazione del famigerato Bureau of State Security».
Quanto alla fede comunista di Mandela, questi non ne ha mai fatto alcuna ammissione. A rivelarla per la prima volta sono stati invece il South African Communist Party (Sacp) e l’African National Congress (Anc) nel dicembre del 2013 il giorno dopo la sua morte: «Al suo arresto nell’agosto del 1962, Nelson Mandela non era solo un membro dell’allora clandestino South African Communist Party, ma era anche un membro del Comitato Centrale del Sacp».
Primo Moroni: difendere la libertà diffondere la libertà ovunque
Sempre poco allineati. Esistenze indipendenti
A cura dell’Archivio Primo Moroni. Con la partecipazione di Sergio Bologna, Giairo Daghini.
Primo Moroni nacque a Milano nel 1936. Interrotti anzitempo gli studi in una scuola di avviamento professionale, si cimentò prima come addestratore di cani e poi come cameriere nella trattoria del padre. Irrequietezza e contrasti lo spinsero ad abbandonare la famiglia, a perfezionarsi alla scuola alberghiera di Stresa e a lavorare all’estero. In Costa Azzurra, all’hotel Negresco di Nizza, divenne capocameriere, chef de rang.
Nel 1953 si iscrisse al Partito comunista. Molti ed eterogenei furono dunque gli universi sociali con i quali entrò in contatto: dall’alta borghesia, cólta e spregiudicata nei comportamenti, alla solida comunità delle sezioni di partito. Frequentando i locali notturni milanesi, Moroni scoprì la passione e l’inclinazione per il ballo e iniziò a studiare danza classica. Partecipò a importanti concorsi internazionali distinguendosi nel charleston (vinse un campionato europeo) e nel rock’n roll, giungendo alle finali dei campionati mondiali. Un incidente al ginocchio, durante un’esibizione, mise fine alla sua carriera di ballerino.
Autodidatta, nella sua formazione culturale e politica Moroni trasse alimento dalla frequentazione della Casa della cultura. Centro organizzativo di concerti, spettacoli, mostre d’arte, presentazioni di libri, la Casa aveva i suoi principali punti di riferimento in Rossana Rossanda e Mario Spinella.
Nel 1963 lasciò il Pci. Per alcuni anni lavorò come investigatore privato e poi come addetto alle vendite di importanti editori (Fabbri, Mondadori, Vallardi). In breve, grazie alla tenacia e alle indubbie capacità, divenne responsabile di settore per la Antonio Vallardi.
Influenzato dagli autori della beat generation, dal movimento milanese dei capelloni, da riviste come «Quaderni Piacentini» e «Classe operaia», maturò una nuova cultura politica. Sul finire del 1967 si licenziò dalla Vallardi e con la liquidazione aprì, assieme ad altri, il circolo «Si o Si club». Oltre a gestire un ristorante, organizzare concerti, spettacoli, letture di poesia, dibattiti politici e culturali aperti a migliaia di iscritti, il club introdusse nel dibattito temi di forte rilevanza sociale come l’aborto e la questione femminile.
Nel 1970 si sposò con Sabina Miccoli, dal matrimonio con la quale nacque la prima figlia Maysa. Il club chiuse nel 1969 e nell’inverno 1971-72 Moroni aprì la libreria Calusca nel quartiere Ticinese che divenne un punto di riferimento nazionale per la diffusione delle pubblicazioni dei movimenti di estrema sinistra, un luogo di incontro per militanti e insegnanti e di reperimento di materiali sulla storia del movimento operaio.
Moroni non militò nei gruppi della sinistra extraparlamentare formatisi dopo il Sessantotto ma, attraverso la libreria, svolse un’opera di collegamento e riflessione trasversale sulle lotte sociali e sui loro riferimenti storici, per l’intero arcipelago di gruppi e movimenti.
La Calusca fu anche editore. Molto rilievo ebbe «Primo maggio», rivista di storiografia militante fondata da Sergio Bologna. A partire dalla Calusca, Primo e Sabina svilupparono una rete nazionale di distribuzione editoriale, la Cooperativa Punti Rossi che, formata da 65 tra librerie e centri di documentazione, permise la circolazione di produzioni editoriali alternative, di base e locali fino ad allora escluse dalla distribuzione commerciale.
Con la fine degli anni Settanta lo scenario mutò profondamente. Mentre la ristrutturazione economica andava distruggendo i poli industriali, iniziò la proliferazione dei gruppi armati. L’attività di diffusione di materiali di informazione politica molto radicali comportò alcune perquisizioni da parte della polizia, mentre numerosi habitués della Calusca furono arrestati in relazione alla loro militanza. A seguito di questi processi, la libreria registrò un sensibile cambiamento della domanda culturale, sempre più orientata verso psicoanalisi, medicina e alimentazione alternative, esoterismo e poesia.
Negli anni Ottanta Moroni orientò il suo impegno soprattutto verso le questioni giudiziarie e carcerarie che coinvolgevano molti suoi compagni. Attento al ruolo modernizzante dei movimenti, fu tra i primi a valorizzare le potenzialità controculturali dei gruppi punk milanesi impegnati nell’occupazione di nuovi spazi di socializzazione e autoproduzione musicale e culturale.
Nella primavera 1986 iniziò un nuovo rapporto sentimentale con Anna Pellizzi, dal quale nacque Chiara. In questi anni lavorò come ricercatore esterno per il Consorzio Aaster fondato e diretto da Aldo Bonomi, dedito ad analisi territoriali, sociologiche e culturali. Pubblicò, con Balestrini, L’orda d’oro, dove ricostruiva la storia dei movimenti politici e controculturali della nuova sinistra. Nel 1992 riaprì la libreria Calusca City Lights, in omaggio al poeta-libraio-editore Lawrence Ferlinghetti, all’interno del centro sociale autogestito Cox 18 di Milano e partecipò alla nascita delle riviste «Altreragioni» e «DeriveApprodi».
Morì a Milano nel 1998.
Intervista a Nanni Balestrini: "Caro Nichi Vendola, con il piccolo Tobia fai trionfare la logica capitalistica..."
di Nicola Mirenzi, (L’Huffington Post, 07.03.2016)
Nanni Balestrini per prima cosa ricorda: “Nell’antichità, gli esseri umani che si compravano e si vendevano erano gli schiavi, individui che non avevano né identità né libertà. Oggi gli schiavi offerti sul mercato sono i bambini”.
Scrittore, poeta, saggista, pittore, Balestrini è stato insieme a Umberto Eco uno dei fondatori del Gruppo 63, la macchina che ha impiantato nella letteratura italiana l’avanguardia. In politica, è stato un militante nella sinistra extraparlamentare degli anni settanta su cui ha scritto romanzi (“Gli invisibili”, “Vogliamo tutto”, “La violenza illustrata” - tutti ripubblicati da DeriveApprodi) e saggi (“L’orda d’oro”, insieme a Primo Moroni).
Non si può dire che sia un tradizionalista. Eppure, la scelta di Nichi Vendola di avere un figlio da una madre che ha partorito per lui alimenta i suoi dubbi: “I commenti fatti su questa vicenda - dice all’Huffington Post, che l’ha incontrato nel suo studio a Roma, tra i quadri e la scrivania su cui lavora - sono di due tipi. Da una parte ci sono quelli maschili, secondo cui l’uomo ha il diritto a una discendenza. Dall’altra quelli femminili, che dicono: la donna è libera di vendere il proprio corpo, prostituirsi e anche affittare il proprio utero.
Nessuno prende in considerazione i diritti della persona più interessata a questa scelta: il figlio. Che viene considerato alla stregua di un oggetto, come un cagnolino nato da una madre e poi regalato, non un soggetto che ha dei diritti sin dal terzo mese dal concepimento».
Anche la donna, però, ha diritto di disporre del proprio corpo.
Ma la madre non è proprietaria del bambino che partorisce. Anche quando affitta il suo utero, il bimbo non è suo, non è qualcosa di cui può disporre. Alcuni dicono: “È come vendere un rene”. Ma il bambino non è un organo interno. È altro da te. Non puoi nemmeno dire che vuoi fare un figlio e poi regalarlo a un altro, per generosità, perché il bambino non è nemmeno un pacco dono. Provi a immaginare quando diventerà grande, un bambino così, e andrà in giro a dire che è stato comprato e venduto. Che ferita si ritroverà?
È contro questa pratica?
A me non piace l’idea dell’utero in affitto. Credo, però, che il non regolarla giuridicamente renda tutto molto più confuso. Serve una normativa che metta in primo piano i diritti del nascituro, spingendo le persone ad adottare i bambini già nati, orfani, che non hanno una famiglia. Non è entusiasmante ricorrere a questi mezzi per avere un figlio. Quest’idea di volersi creare un bimbo su misura, sceglierselo come lo si vuole, diventa un atto di egoismo. Non voglio dire che non sia legittimo desiderare di avere un figlio. E ci tengo a specificare che secondo me Nichi Vendola lo alleverà nel migliore dei modi possibili. Ma non è questo il punto. Il punto è che la logica capitalistica, l’idea che tutto si possa comprare e vendere sul mercato non solo è penetrata negli aspetti più intimi della nostra vita, ma ormai ci domina. E non a caso questa storia si svolge in America, il paese in cui tutto ha un prezzo, anche la vita di un bimbo.
Lei appartiene a una generazione politica - quella degli anni settanta - che è stata sconfitta. Che cos’è oggi, per lei, la politica?
La politica è stata completamente trasformata. Le lotte collettive sono finite. Se guardo la realtà, avverto la necessità che la generazione dei giovani precari si organizzi, si rivolti: ma mi rendo conto che è difficilissimo. Gli operai stavano tutti insieme in un luogo fisico, la fabbrica. I precari dove stanno? Ognuno ha il suo luogo di lavoro. Non c’è un luogo di aggregazione. Come si possono unire?
L’esperienza del Gruppo 63 è stata anche attraversata dalla questione generazionale. Vi opponevate a quelli più vecchi di voi per rinnovare la letteratura. Su un altro piano, dovrebbe accadere la stessa cosa oggi?
La mia generazione, come ha detto Umberto Eco, aveva dietro cinquanta milioni di morti. Di fronte a noi abbiamo trovato il campo libero. Molti hanno avuto la cattedra universitaria a trent’anni, oggi non ce l’hanno neanche a sessanta. Entravamo nella Rai. Facevano le case editrici. Questa generazione si trova di fronte a una situazione bloccata. Ma i giochi non sono mai fatti. Lo scontro frontale è sempre utile. Però bisogna costruirlo, organizzarlo, inventarsi un modo per farlo durare.
Vede qualcuno che può farlo? Per esempio, il Movimento Cinque stelle: la su base sociale, in gran parte, è costituita da giovani.
È un movimento interessante, ma vuoto politicamente. La protesta, se non è organizzata, non porta a niente. A maggior ragione, se è fatta con un personale politico mediocre e incapace. Se hai più del venti per cento e ti riduci a far vedere in televisione che urli in parlamento, senza avere una teoria politica né una strategia, tutto finisce lì.
E la sinistra?
Non ne parliamo: lì ci sono solo macerie.
Le sottopongo un parallelo: voi del Gruppo ’63 spingete per il cambio generazionale con la letteratura d’avanguardia. Renzi con la sua politica di rottamazione. Vede una similitudine?
Ogni presa del potere - seppur la nostra sia stata minima e non duratura - è determinata e favorita da situazioni storiche. Noi avevamo davanti a noi l’Italia che cambiava, la necessità d’inventare una lingua per rappresentare una nuova società, mandando a quel paese quelli più vecchi di noi. Nel caso di Matteo Renzi il passaggio storico è diverso. E bisogna tornare all fine degli anni settanta per decifrarlo. Allora, ci sono state due generazioni (quella del ’68 e del ’77) che non sono state solo sconfitte, ma sono state decimate: trentamila persone passate per le carceri, i suicidi, il dilagare dell’eroina. Bisogna ricordare che la parte migliore di quella generazione stava nel movimento, non nei partiti politici. Voglio dire: le persone più preparate, i migliori teorici della politica. In quei movimenti, c’era una classe dirigente che è stata completamente distrutta dalla repressione, dalla disperazione della sconfitta, dalla droga. Dall’altra parte, il massimo che il partito comunista è riuscito a esprimere sono stati D’Alema e Veltroni: non proprio due geni. Ecco dove inizia il declino della classe politica italiana. Che ha favorito l’ascesi di Renzi, il quale sostanzialmente si è trovato di fronte la strada spianata. Perché, diciamoci la verità, la rottamazione non è stata poi così complicata. Chi aveva contro? Il povero Bersani? L’hanno definito un parroco di campagna. Io non voglio arrivare a tanto. Ma, insomma, non mi sembra nemmeno lui una grande figura politica.
Il suo romanzo sugli ultrà, I furiosi, è stato adattato in un’opera teatrale che è in giro per l’Italia. Com’è cambiato il tifo calcistico?
Negli anni ottanta mi avevano affascinato quei tifosi che parlavano delle loro trasferte in maniera mitica. Celebravano il senso della comunità. Si sentivano parte di qualcosa. Oggi, però, il tifo è diventato un luogo di manifestazione dell’estremismo fascista. Colpa della quantità enorme di denaro che ha cominciato a circolare. Che ha trasformato anche il tifo in una lotta per il potere. Il potere di determinare la fortuna di un giocatore, l’indirizzo della squadra, influenzando la società. La tifoseria che io ho rappresentato, probabilmente, esiste ancora da qualche parte. Ma anche nel calcio è cambiato tutto.
Qual è il vero volto dei nostri nemici
Invece di cercare ovunque persone da combattere, occorre impegnarsi a impedire gli atti ostili. È la lezione di Mandela
Nei totalitarismi si individua costantemente un responsabile lontano e collettivo di quel che non va nel mondo
Le riflessioni sul bisogno di avere sempre un avversario da eliminare
di Tzvetan Todorov (la Repubblica, 25.01.2016)
Durante la mia infanzia e adolescenza in Bulgaria, paese che apparteneva allora al «campo comunista», sottoposto quindi a un regime totalitario, la nozione di «nemico» (vrag) era una delle più indispensabili e utilizzate. Permetteva di spiegare l’enorme sfasamento fra la società ideale, dove dovevano regnare prosperità e felicità, e la cupa realtà in cui eravamo immersi. Se le cose non andavano bene come promesso, la colpa era dei nemici. I nemici erano principalmente di due specie.
C’era innanzitutto un nemico lontano e collettivo, quello che chiamavamo «l’imperialismo angloamericano» (una formula fissa), responsabile di quello che non andava nel vasto mondo. Accanto a questo, c’era un nemico vicino, fornito di un volto individuale e identificato in seno a istituzioni che facevano parte della nostra esperienza diretta: la scuola dove studiavamo, l’impresa dove lavoravamo, le organizzazioni di cui facevamo parte. La persona designata come nemico aveva buoni motivi per preoccuparsi: una volta che gli veniva appiccicata addosso questa etichetta infamante, poteva perdere il lavoro, la possibilità di frequentare la scuola, il diritto di vivere in una certa città, e a tutte queste misure poteva far seguito la prigione o più facilmente un campo di rieducazione, istituzione di cui la Bulgaria dell’epoca era riccamente dotata.
Adottando questo approccio, i rappresentanti delle autorità si comportavano in conformità con i precetti lasciati dagli strateghi della rivoluzione, e in particolare da Lenin, fondatore del regime totalitario comunista, che interpretava la vita sociale in termini militari. Una simile situazione di conflitto giustifica qualsiasi misura repressiva. Il totalitarismo è un manicheismo che divide la popolazione terrestre in due sottospecie che si escludono a vicenda e incarnano il bene e il male, e di conseguenza anche gli amici e i nemici.
La stessa suddivisione rigida si ritrova fra i teorici del fascismo nazista, e dunque la stessa importanza attribuita al concetto di nemico. Carl Schmitt riduce la categoria stessa della politica alla «discriminazione dell’amico e del nemico», assimilando a sua volta la vita del cittadino alla guerra.
Consustanziale alle concezioni totalitarie della storia, il concetto di nemico non gioca un ruolo di primo piano nella vita dei paesi democratici, ma è utilizzato sporadicamente nello stesso senso. In tempo di guerra, questo vocabolo designa, per convenzione, il paese o l’organizzazione che si combatte. Nel periodo della guerra fredda, il nemico era il comunismo nella sua versione sovietica, e coloro che in patria manifestavano simpatia verso di esso. Il nemico è invocato nel discorso del populismo demagogico, che ama additare alla riprovazione popolare un personaggio colpevole di tutti i mali che ci affliggono.
A volte il nemico è identificato con una popolazione specifica: gli immigrati dai Paesi poveri, i musulmani. L’effetto di queste affermazioni è di instillare nella popolazione un sentimento di paura, e dunque stimolare un numero importante di elettori a votare per il partito che promette di far scomparire il nemico. Siamo ai margini del quadro democratico.
Dovremmo allora, per non essere accostati ai personaggi compromettenti che hanno utilizzato questo termine in passato, rinunciare a usarlo? Una conclusione simile sembra inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello che attraversiamo, dove non abbiamo alcun problema a individuare il nemico, poiché è un nemico che ci minaccia di morte. L’osservazione candida del mondo intorno a noi non ci induce a pensare che ogni ostilità sia scomparsa dalla faccia della terra.
Per poter conservare l’uso del concetto di nemico in un regime democratico, è opportuno tuttavia correggerne il senso. Al giorno d’oggi, un certo consenso si è venuto a creare fra coloro che si interrogano sulla specificità della specie umana: è diventato impossibile affermare che il combattimento, la violenza, la guerra rappresentano la caratteristica dominante della nostra specie. Se dovessimo attribuire questo titolo a un’unica attività, sarebbe la cooperazione più della lotta all’ultimo sangue. Ed è una caratteristica che riguarda tutte le popolazioni del pianeta.
Ci ritroviamo allora non a individuare il nemico in un gruppo umano, ma a ricercare la sua origine in un’ideologia o in un dogma, in un’emozione o una passione. Gli individui diventano «nemici» solo parzialmente e provvisoriamente. Se rinunciassimo a fare del nemico una sostanza a parte, potremmo vedere in esso semmai un attributo, uno stato puntuale e passeggero che si ritrova in tutti e in ognuno. Invece di eliminare i nemici, ci si darebbe come compito di impedire gli atti ostili.
È la lezione che ci insegna il percorso di quel combattente esemplare che è stato Nelson Mandela: riuscì ad abbattere un nemico imponente, l’apartheid, senza versare una sola goccia di sangue, perché scoprì nei suoi potenziali nemici uno «sprazzo di umanità», perché comprese le ragioni della loro ostilità e riuscì in quel modo a trasformarli in amici.
I paesi occidentali che hanno subito aggressioni «terroristiche», come gli Stati Uniti o gli altri che sono seguiti, non si sono impegnati su questa strada. I loro dirigenti hanno preferito adottare la massima di Lenin secondo la quale bisogna «sterminare senza pietà i nemici della libertà».
All’indomani dell’11 settembre 2001, il presidente Bush aveva assegnato come compito al suo Paese garantire con tutti i mezzi possibili il trionfo della libertà sui suoi nemici. Con l’occasione era stata addirittura creata una nuova categoria, quella dei «combattenti nemici», che non godevano né dello status del criminale, giudicato secondo le leggi nazionali, né di quello del prigioniero di guerra, protetto dalle convenzioni di Ginevra: sono le persone che popolano il campo di prigionia di Guantánamo. Il risultato di queste diverse misure è stato, come sappiamo, un’estensione del terrorismo.
Non si tratta, in questo caso, di una semplice inflessione semantica nell’uso di una parola, di un dibattito esclusivamente filosofico. Bisogna sbrigarsi ad abbandonare le etichette accecanti di cui continuano a servirsi i dirigenti politici, che di fronte a un’aggressione invocano «il nemico barbaro», «gli atti mostruosi», «i personaggi diabolici». Comprendere il nemico consente di scoprire mezzi specifici per combatterlo. L’uso della forza, militare o poliziesca, deve restare sempre possibile, un attacco imminente dev’essere fronteggiato con le armi. Ma a ciò si aggiunge un’altra conseguenza: comprendere l’agente aggressivo dal suo punto di vista diventa il preambolo indispensabile di ogni lotta contro di lui. Perché dietro gli atti fisici ci sono sempre pensieri ed emozioni, e anche su di essi si può agire. L’ostilità può essere motivata da un sentimento di umiliazione, o dall’ingiustizia subita, o dalla collera, o da sogni di potenza, oppure può essere il risultato dell’ignoranza. I nemici sono degli esseri umani, come noi. Per neutralizzarli non dobbiamo servirci necessariamente di bombe o di missili: ma ci sarà sempre bisogno di coraggio e di perseveranza.
© Tzvetan Todorov / Ediciones El País, 2016. Traduzione di Fabio Galimberti
NELSON MANDELA, L’ ATTACCABRIGHE: "(...) in Sudafrica, dove sembra che l’avventura di tutto il genere umano sia cominciata, si ricordano e sanno, come tutto ha avuto inizio, e, con un bel termine e un bel concetto - ubuntu, così traducono e dicono: “Le persone diventano persone attraverso altre persone”. Nelson Mandela (Rolihlahla,, il suo nome originale e tribale significa “colui che tira il ramo di un albero” o se si vuole e più chiaramente “colui che è un attaccabrighe” contro l’ingiustizia e la disumanità), questo l’ha appreso sin da piccolo, non l’ha più dimenticato, e ne ha fatto la stella-guida di tutta la sua vita e della sua lotta (...)" ( F. La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto de lla Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della pre istoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e, p. c., a Nelson Mandela ), Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 2001, pp. 10-11)
Elogio del rompiscatole
di Pier Aldo Rovatti (Forum salute mentale, 10 giugno 2013)
“Sono un rompiscatole”, aveva detto di sé don Gallo, il “prete di strada” più amato d’Italia, una vita intera dedicata concretamente ai deboli e ai diversi, ai tossicodipendenti, alle prostitute e a tutti quelli che stanno ai bordi della società o ne vengono rifiutati.
E chissà quante volte questa espressione è stata pensata e usata nei suoi confronti anche dall’istituzione cui apparteneva, ovvero la Chiesa, che di fatto lo ha emarginato e ignorato.
Non è l’unico, né si tratta solo di preti battaglieri: il “rompiscatole” è una figura emblematica del mondo in cui viviamo, uno che sa rompere gli equilibri e non si presta mai a essere disciplinato, perciò diventa un corpo estraneo, temuto sia da chi ha il compito di governare e raffreddare le istituzioni, sia dalla massa opaca di coloro che credono di poter barattare la propria servitù volontaria con il mantenimento di privilegi acquisiti e pallide promesse di carriera.
Quando un grande e produttivo rompiscatole muore, l’istituzione tira finalmente un sospiro di sollievo che maschera a fatica con onoranze postume e perfino riti di beatificazione. Quando, invece, sono i tanti piccoli rompiscatole a lasciare il terreno, il cinismo ovunque trionfante non ha neppure bisogno di cerimonie riparatrici e fa calare in fretta un pesante sipario di silenzio. L’etica minima, in questi casi, è surclassata da una convinta e completa assenza di moralità civile.
Avrei voluto esserci, sabato scorso, dentro la chiesa del Carmine a Genova, durante le esequie di don Gallo, in mezzo a quel popolo che ringraziava, insieme dolente e battagliero. Si era mosso perfino, a officiarle, il cardinal Bagnasco, il capo dei vescovi; e poiché l’encomio riparatore da lui pronunciato aveva evitato qualunque accenno di autocritica, allora qualcuno ha cominciato a tossire e in breve la tosse pur sommessa ha prodotto una cascata assordante e la cerimonia si è bloccata diventando un caloroso e irrituale omaggio. Il funerale si è così trasformato in un inno alla vita.
Si parla tanto dello spirito critico di cui avvertiamo distintamente la mancanza. Ognuno di noi vorrebbe averne un poco o magari di più, ma poi quasi sempre ci si arresta ai buoni propositi, ci si appaga di parole e discorsi gratificanti. Questi ultimi, sì, non mancano e in essi circola soprattutto la lamentazione.
Ci lamentiamo di continuo delle storture e delle ingiustizie, stigmatizziamo i comportamenti dei potenti, i cattivi modelli dei politici, e abbiamo un’imponente materia per farlo. Ma non basta. Infatti, bisognerebbe superare la linea e osare rischiare qualcosa. Lo spirito critico avvista innumerevoli “scatole” che imprigionano i comportamenti individuali e sociali, inanella denunce su denunce, ma finché non tenta di “rompere” questi involucri ingabbianti, non comincia davvero a farlo, resta solo la voce di un’anima bella, intellettualistica e inerte. Ciascuno, là dove vive, nell’ambiente che gli è proprio, in quel pezzo di sociale che frequenta, può scendere giù tra la gente. Uno spirito critico che rinuncia a “questa” politica è un falso spirito critico, addormentato, già cadaverizzato.
L’esempio dei grandi rompiscatole - cui dedico questo modestissimo elogio - ci insegna che ciascuno di noi può incrinare, dovunque e in qualsiasi momento, la pellicola delle convenienze che continuiamo ad accettare per quieto vivere o per qualche astuta viltà.
Il rompiscatole è il contrario del furbo, cioè di quello che sembra essere ormai diventato il nostro abituale stile di vita. Il furbo calcola cosa è più profittevole per lui, misura vantaggi e svantaggi personali di ogni suo minimo atto. Il rompiscatole se si limitasse a calcolare, non esisterebbe neppure. Così, ciascuno di noi, se non fosse anche un po’ rompiscatole (nei confronti degli altri ma anche di se stesso), non agirebbe mai.
I grandi rompiscatole (come don Gallo) sono molto rari, forse inimitabili. Noi, normalmente, siamo un misto in cui la furbizia conserva la sua parte e dove, però, il rischio di rompere le uova nel paniere del “così fan tutti” potrebbe avere - sempre - uno spazio proprio.
Quello che possiamo fare, quotidianamente, è cercare di comprimere al massimo la parte dell’egoismo individuale e di dare una dimensione sempre più ampia alla parte di noi che si avventura a infastidire l’accettazione acritica di ogni scatola sociale, dai luoghi di educazione dei bambini alle case di riposo, dal mercato del lavoro alle forme del welfare, per non parlare di tutti gli scomparti in cui viene rinchiusa normalmente ogni diversità.
Un Commento a “Elogio del rompiscatole”
Michela 12 giugno 2013 alle 8:06 pm
Zico Perani ci invia: don Gallo era presente, uno che rispondeva “io ci sono”, soprattutto di fronte al vuoto del mondo. Non abbandonava un’anima viva per strada perché, se Dio c’è, Dio ha lasciato il posto a un prete che sapeva amare, che aveva in cuore il primato della libertà di coscienza e la resistenza del suo mondo, che non aveva dubbi sul fatto che la speranza vive nel cuore dell’umanità quando ama la pace, la libertà e ogni vita al mondo. A oltranza.
L’intellettuale e la sindrome di Belen
di Nicolas Martino (alfapiù, 26 maggio 2015)
«Lo stesso intellettuale ignora assolutamente l’origine sociale delle sue forme concettuali»1. È bene tenere a mente queste parole di Alfred Sohn-Rethel per provare a svolgere qualche riflessione a partire dall’ultimo numero di «aut aut» (365/2015) dedicato a indagare il lavoro intellettuale in epoca neoliberale e significativamente intitolato «Intellettuali di se stessi».
Già, perché l’intellettuale è ormai interamente colonizzato dalla forma di vita neoliberale che ha fatto di ogni vivente un imprenditore di se stesso, e quindi catturato in quel marketing del sé che non sembra lasciare alcuna via di scampo. Eppure proprio a partire da questa figura iperindividualizzata è possibile che emergano figure di vita comune, è possibile aprire un discorso che sottragga il lavoro intellettuale all’infelicità di un narcinismo (narcisimo + cinismo) esasperato. Questa, molto sinteticamente, la cornice approntata dai curatori, Dario Gentili e Massimiliano Nicoli, all’interno della quale si svolgono gli interventi dei curatori stessi, di Roberto Ciccarelli, Carlo Mazza Galanti, Federico Chicchi e Nicoletta Masiero, Andrea Mura, Alessandro Manna e Vincenzo Ostuni.
Quella dell’intellettuale è una storia lunga e complessa, recentemente ricostruita da Enzo Traverso in un volumetto snello quanto prezioso (recensito qui), che ha segnato di sé il Novecento, ma quella dell’intellettuale imprenditore di se stesso è relativamente recente ed è possibile farla risalire alla metà degli anni Settanta, in coincidenza con la grande controrivoluzione neoliberista, ed è il risultato della consumazione di quella figura dell’intellettuale separato chiamato a distinguere il vero dal falso e il bene dal male dall’alto del suo isolamento - consumazione indotta dalla trasformazione postfordista imperniata sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e sulla valorizzazione del lavoro intellettuale e creativo diffuso - e però anche del fallimento della risposta che a quella grande trasformazione tentò di dare quell’intellettualità di massa prepotentemente emersa sulla scena delle metropoli occidentali dopo i «Trenta gloriosi».
Ecco perché, dicevo, è bene tenere presenti le parole di Sohn-Rethel e cercare di tratteggiare l’origine sociale di quelle forme concettuali che hanno catturato l’intellettuale dentro la nuova ragione del mondo (per dirla con Dardot e Laval), per cercare delle exit strategies dalle gabbie di quella che qui chiamiamo «la sindrome di Belen» e dalla sua infelicità diffusa.
E questa origine, l’emergere dell’intellettuale di se stesso, l’aveva individuata subito Gilles Deleuze in una straordinaria intervista del 1977 sui «nouveaux philosophes». All’intervistore che gli chiedeva cosa pensasse di questa nuova schiera di giovani pensatori per lo più ex maoisti e normalisti, Deleuze risponde subito: «Nulla. Credo che il loro pensiero sia nullo» [...] ma al tempo stesso «più fragile è il contenuto del pensiero, più acquista importanza il pensatore, e tanto più grande è l’importanza che si attribuisce il soggetto d’enunciazione rispetto agli enunciati vuoti».
Insomma dopo l’avanguardia che aveva messo in discussione la funzione autore, in musica, in pittura, nel cinema e anche nella filosofia, si assisteva ora a «un massiccio ritorno a un autore o a un soggetto vuoto e alquanto vanitoso», ritorno che rappresentava «una sgradevole forza reazionaria», in virtù della quale però i nouveaux philosophes si presentavano come dei «veri innovatori» che introducevano in Francia il marketing letterario e filosofico2. E aveva proprio ragione Deleuze, perché un anno prima, nel 1976, BHL aveva inventato la pub-filosofia confezionando ad hoc un dossier su «Les Nouvelles Littéraires» e lanciando il fenomeno mediatico che avrebbe funzionato da modello per tanti altri che si sarebbero succeduti: i nuovi critici, i nuovi pittori, i nuovi designer, il nuovismo d’assalto degli anni Ottanta3.
Eccola dunque l’invenzione dell’intellettuale imprenditore di se, a cui va riconosciuto senz’altro il merito di aver intuito subito il senso della sussunzione del lavoro culturale sotto il capitale e le chanches offerte dalla società dello spettacolo. L’Italia non è stata da meno, e anzi è riuscita anche ad anticipare i cugini francesi con la velocità di ABO che già nel ’72, con una geniale operazione di marketing, fece affiggere a Roma dei manifesti dove sotto la sua figura comparivano le parole: «Io sono Achille Bonito Oliva, il critico, dunque il coglione». L’intellettuale mediatico e imprenditore di se, senza resti, è una delle possibilità aperte dalla controrivoluzione neoliberista, che disegna però le forme concettuali all’interno delle quali si trova catturato l’intellettuale in generale e il knowledge worker del Quinto Stato.
Ma l’intellettuale di se stesso non esiste fuori dalla restaurazione della funzione autore e quindi da una ipersoggettivazione individualista, narcinista e caricaturale. Sono queste forme concettuali che vanno abbandonate, ricordando per esempio che prima dell’«Italian Theory» c’è stata la «Conricerca», non un brand da spendere sul mercato internazionale della cultura, ma una pratica teorico-politica, oltre la funzione autore, per rovesciare lo stato di cose presente. Forse da qui si può ripartire per guarire dalla «sindrome di Belen» e costruire quelle forme di vita in comune che auspichiamo insieme agli autori di «aut aut» e che altro non possono essere se non «ciò a cui si riferiva Marx parlando del compositore di musica e dell’opera d’arte come anticipazione formale di una produzione senza dominio»4.
Il fascicolo di «aut aut» viene presentato oggi 26 maggio a Villa Mirafiori (via Carlo Fea 2, Roma) - ore 17.30 aula XV. Intervengono i curatori, gli autori dei saggi e Giuseppe Allegri, Ilaria Bussoni, Ilenia Caleo, Viola Giannoli, Nicolas Martino, Elettra Stimilli.
Alfred Sohn-Rethel, Il denaro. L’apriori in contanti, Editori Riuniti 1991, p.14. [↩]
Gilles Deleuze, À propos des nouveaux philosophes et d’un problème plus general, supplemento al n. 24 di «Minuit», maggio 1977; trad.it. A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale, in Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi 2010. [↩]
Per un’analisi del fenomeno mediatico dei nouveaux philosophes si veda anche François Aubral-Xavier Delcourt, Contro i «Nuovi filosofi», Mursia 1978. [↩]
Paolo Virno, I sognatori di una vita riuscita, in «Metropoli» n.1. 1979, p.45. [↩]
Mandela: io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima
di Ugo Tramballi *
Deceduto per le ferite riportate nella lotta contro l’apartheid, scriverà il coroner della Storia. E’ un’infezione polmonare causata da una polmonite contratta nella prigione di Robben Island, che lo ha ucciso insieme all’età. Con quella lesione ha vissuto per quasi cinquant’anni, ignorandola, combattendo fino all’ultimo istante pur conoscendo l’esito della battaglia. Tante cose sono state dette e molte ancora se ne scriveranno per raccontare Nelson Rolihlahla Mandela, nato fra le colline del Transkei il 18 luglio 1918. Tuttavia, per sintetizzare il carattere dell’uomo bastano due versi di una poesia, "Invictus", la sua preferita anche se piena della retorica vittoriana dell’autore, William Ernest Henley: "I am the master of my fate. I am the captain of my soul".
A dispetto del colonialismo inglese, del razzismo, dell’apartheid degli afrikaners bianchi che avevano metodicamente codificato la separazione razziale sudafricana. A dispetto dell’esilio e della prigione, nessuno è mai riuscito a privare Mandela del controllo del suo destino e del possesso della sua anima.
"Ndiyindoda!" fu la parola che Nelson gridò a 16 anni il giorno in cui fu circonciso sulle rive del fiume Mbashe, nell’Eastern Cape. "Sono un uomo", parte della tribù thembu, della nazione xhosa, dell’Africa intera. Madiba, il nome che indicava l’origine tribale, finiva la prima stagione della sua vita, quella delle radici. Iniziava quella dell’uomo.
Sono due le scuole principali che hanno fatto di Mandela l’uomo che conosciamo. L’Università di Fort Hare, la prima che gli inglesi aprirono per i neri del loro impero africano. Vi avrebbero studiato anche Robert Mugabe dello Zimbabwe, il tanzaniano Julius Nyerere, il presidente dello Zambia Kenneth Kaunda e del Botswana Seretse Khama. Per un certo periodo il cappellano dell’università fu Desmond Tutu.
La seconda fu l’ "Università di Robben Island". La chiamarono così i dirigenti e gli attivisti dell’African National Congress rinchiusi nell’isola prigione davanti a Capetown. Mandela vi passò vent’anni, dal 1962 all’82. Altri sette, gli ultimi, li fece nel carcere di Pollsmoor.
Fu qui che maturarono il leader e la politica che avrebbero creato un modello rivoluzionario per l’Africa e il mondo: la Rainbow Nation, la nazione arcobaleno, la società multirazziale nella quale la maggioranza nera avrebbe vissuto insieme ai suoi antichi persecutori. In pace, cittadini della stessa nazione, con gli stessi diritti. Robben Island non fu solo scuola di vita per la durezza dei carcerieri. Rischiando punizioni severe, i detenuti studiavano testi di politica ed economia entrati clandestinamente in carcere, discutevano di quale sistema e quale Paese avrebbero costruito, convinti che un giorno vi sarebbero riusciti.
In mezzo, tra Fort Hare e Robben Island, ci fu la pratica da avvocato, la lega giovanile dell’Anc, le prime battaglie, la crescita di Johannesburg come prima officina metropolitana politica e sociale d’Africa; i processi in difesa dei compagni di lotta e quelli contro di lui, sostenuti dal regime boero che nel 1948 aveva vinto le elezioni (solo per bianchi) e imposto l’apartheid.
La separazione razziale prevedeva anche che nelle scuole dei neri non si dovesse insegnare la matematica: il ruolo che avrebbero avuto nella società non lo richiedeva.
E’ un miracolo che da tanto odio potesse nascere il Sudafrica che conosciamo oggi. Prima di essere processato e condannato definitivamente, Mandela aveva creato e comandato l’Umkhonto we Sizwe, la Lancia della nazione, l’ala militare dell’Anc. Senza passare attraverso la lotta armata e l’uso del terrorismo, forse non ci sarebbe stata una Rainbow Nation né la riconciliazione razziale.
Nel 1988, appena uscito da 27 anni di prigione, Mandela incontrò l’uomo che non avrebbe voluto liberarlo, l’allora primo ministro P.W. Botha, un uomo duro, incapace di capire il mutare dle tempo. Lo affrontò e lo stese "con una robusta stretta di mano e un gran sorriso".
Tanti anni fa Albert Eistein scrisse del Mahatma Gandhi: "Le generazioni che verranno a fatica crederanno che un uomo così abbia camminato in carne e ossa su questa Terra". Abbiamo avuto la fortuna di averne un altro di questi uomini straordinari. Forse è una ragione di ottimismo in questa nostra solitudine, senza Madiba Mandela.
Mandela, modello di umanità
di Marcello Flores (Il Sole-24 Ore, 8 dicembre 2013)
È difficile individuare la data più importante nella storia di Nelson Rolihlahla Mandela, oggi che Madiba - il nome datogli dalla tribù Xhosa cui apparteneva - è pianto non solo in Sudafrica, ma universalmente in ogni parte del mondo.
Due, tuttavia, vengono immediatamente alla mente: il 20 aprile 1964, quando concluse la sua arringa finale al processo di Rivonia, che lo avrebbe condannato all’ergastolo, con le parole «Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica in cui tutte le persone possano vivere insieme in armonia e con uguali opportunità. È un ideale per cui spero di vivere e di poter raggiungere. Ma se fosse necessario, è un ideale per cui sono pronto a morire»; e il discorso di insediamento come Presidente della Repubblica democratica del Sudafrica il 10 maggio 1994 - trent’anni dopo in cui disse «Abbiamo trionfato nello sforzo di istillare la pace nei petti dei milioni di appartenenti al nostro popolo. Il nostro accordo solenne è di costruire una società in cui tutti i Sudafricani, neri e bianchi, potranno camminare a testa alta, senza paura nei loro cuori, sicuri del loro inalienabile diritto alla dignità umana - una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo».
Mandela era già stato arrestato prima del processo di Rivonia, e assolto il 29 marzo 1961 insieme ad altri 29 dirigenti dell’ANC (African National Congress), dall’accusa di tradimento. Proprio nel corso di questa detenzione essi avevano deciso di passare alla lotta armata per difendersi da violenze e discriminazioni che il regime di apartheid rendeva sempre più intense e continue. Una decisione che nel luglio 1961 aveva approvato anche Albert Luthuli, il leader pacifista dell’ANC che verrà premiato nell’ottobre di quell’anno con il Premio Nobel per la pace e che continuerà a perorare in disparte la causa di una battaglia non violenta.
In un discorso nel centenario della nascita di Luthuli, nel 1998, Mandela lo celebrò come un capo di cui aveva seguito il cammino, anche se proprio una settimana dopo il suo ritorno da Oslo per ritirare il Premio Nobel, erano iniziati le azioni di sabotaggio violento del MK (Umkhonto we Sizwe - La lancia della Nazione), il braccio armato dell’ANC, quei «combattenti della libertà» le cui azioni Mandela rivendicò proprio al processo di Rivonia.
Convinto che nei primi anni ’60 anche l’azione di lotta del MK si sarebbe inserita nella guerriglia che si stava sviluppando in molte parti del mondo, Mandela cercò sempre di suggerire una strategia che contemplasse la violenza contro i simboli e le istituzioni dell’apartheid solo quando necessario, privilegiando la mobilitazione di massa e le ribellioni popolari, come quelle che ebbero luogo a Soweto e in altre township nel 1976 per opporsi all’uso obbligatorio dell’afrikaans nelle scuole per neri.
Nei ventisette anni della sua detenzione a Robben Island (dal ’62 all’82) e poi nella prigione di Pollsmoor (dall’82 all’88) e di Victor Verster (dall’88 al ’90), Mandela si confrontò criticamente con i giovani prigionieri del movimento Black Consciousness che auspicavano una lotta radicale anche contro i bianchi contrari all’apartheid, con i fautori delle uccisioni delle spie e traditori interni all’ANC e al MK, con chi suggeriva e praticava, negli anni ’80, azioni di tipo terroristico che colpivano vittime civili innocenti. Respingendo sempre, al tempo stesso, ogni richiesta del governo di dichiarare la fine della lotta armata in cambio di condizioni migliori di detenzione e di uno sconto di pena.
Quando l’11 febbraio 1990 Mandela uscì libero, in una giornata di sole, dal carcere di Victor Verster, le televisioni di tutto il mondo registrarono il suo appello alla riconciliazione ma anche l’invito a non smantellare l’organizzazione di lotta che era stata costruita negli anni. Presto l’abbandono della lotta armata venne ufficializzato e Mandela iniziò a prodigarsi con De Klerk - il Presidente sudafricano che aveva annunciato l’insostenibilità dell’apartheid, la legalizzazione dell’ANC e la liberazione dei prigionieri politici poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino - in quella lunga e difficile transizione alla democrazia, boicottata dalla violenza di gruppi bianchi e neri ostili alla riconciliazione, che ebbe termine con la grande festa democratica delle prime elezioni libere del 27 aprile 1994.
Assicurata la democrazia al Sudafrica, Mandela si prodigò in quello che è forse il lascito più importante e duraturo della sua azione da uomo libero: la creazione della TRC (Truth and Reconciliation Commission - Commissione per la verità e la riconciliazione) cui diede vita con l’aiuto dell’Arcivescovo Desmond Tutu, anche lui premiato nel 1984 con il Premio Nobel per la Pace (Mandela e De Klerk lo ottennero insieme nel 1993).
Alla base della TRC vi era la convinzione che la giustizia punitiva non avrebbe permesso il processo di riconciliazione, mentre era necessario che l’intero paese venisse a conoscenza del quadro più possibile completo di cosa fosse stato il regime di apartheid, delle sue cause, azioni, effetti, violenze e violazioni gravissime dei diritti umani che aveva perpetrato per decenni. Per questo si cercò di combinare la possibilità di amnistiare i colpevoli che avessero pienamente confessato i loro delitti con un processo pubblico di racconto della verità in cui veniva data possibilità alle vittime di far sentire pienamente la propria voce.
Il riconoscimento delle passate atrocità, accompagnato da quello della dignità calpestata e perduta per milioni di persone, consegnava alla nuova democrazia una politica fondata sulla morale, che la nuova Costituzione del 1996 riassumeva mirabilmente nelle prime parole del suo preambolo: «Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del passato; onoriamo coloro che soffrirono per la giustizia e la libertà della loro terra; rispettiamo coloro che hanno lavorato per costruire e sviluppare il nostro paese; e crediamo che il Sudafrica appartenga a tutti coloro che ci vivono, uniti nella loro diversità».
Nei quindici anni successivi alle prime elezioni democratiche si sono confrontate, sul terreno della memoria, due discorsi tra loro in competizione, due strategie che avevano obiettivi diversi.
Il primo è quello che è stato chiamato «rainbowism», la cultura arcobaleno promossa da Mandela e da Tutu e che la TRC ha fatto più di ogni altra istituzione per radicare nella mentalità collettiva. Questa strategia ha cercato di enfatizzare la storia condivisa del Sudafrica, gli aspetti comuni, i valori universali, nella convinzione che solo la cooperazione e la solidarietà potevano superare un passato di divisioni e di lutti.
La seconda strada è stata quella dell’«africanism», che ha posto, invece, la leadership africana nella lotta di liberazione e nel governo post-apartheid al centro della propria rappresentazione, in modo esclusivo e trionfalista, facendo della narrazione della lotta di liberazione il perno della storia nazionale divenuta sempre più coerentemente storia ufficiale del paese. Finché la memoriali Mandela rimarrà viva, la sua cultura continuerà a rappresentare un modello di cui l’umanità intera, e non solo il Sudafrica, hanno estremamente bisogno.
“Ciascuno è la vera chiesa”
intervista ad Ermanno Olmi
a cura di Arianna Prevedello (“settimana” - attualità pastorale, 4 marzo 2012)
“Cinema, specchio della vita” è il titolo di una serie di iniziative della diocesi di Padova che, attraverso la "settima arte", mette a confronto registi, presbiteri e operatori pastorali su tematiche di forte attualità per la comunità ecclesiale. Ecco un estratto del primo incontro avvenuto il 13 febbraio. Successivamente alla proiezione de Il villaggio di cartone i presbiteri diocesani hanno intensamente dialogato con il regista Ermanno Olmi.
Maestro Olmi, lei è uno sposo da tanti anni, eppure con questo film ha saputo raccogliere il sentimento interiore di moltissimi sacerdoti. Dove ha trovato ispirazione?
Non si sa mai da che parte arrivi l’ispirazione. È come quel vento dello Spirito che non si sa da dove viene e dove vada. Pensate quando, alla fine di alcuni appuntamenti di tipo culturale, ci accorgiamo di aver ascoltato cose interessanti fuori dalla nostra aspettativa.
Quando Picasso disse «vorrei dipingere come i bambini», intendeva dire che i bambini non hanno la consapevolezza necessaria ad amministrare la loro potenzialità comunicativa. Sentono l’esigenza di comunicare senza preoccuparsi della forma. Dovremmo arrivare all’età della libertà, come per esempio la mia, attrezzati in questo senso e pretendendo di essere ascoltati con l’innocenza dei bambini. Quindi, l’ispirazione non sai da dove arriva. Arriva, e senti che lì ci sono domande che ti poni e tenti di dare alcune risposte, ma non è mai "la" risposta. Il modo di pronunciare una frase cambia il senso di ciò che vuoi comunicare. Pur essendo rigidamente confezionata in un testo, la frase cambia di significato a seconda di come tu cambi. Lo stesso Vangelo cambia a seconda di come noi cambiamo. Nel momento in cui non lo leggiamo più perché pensiamo di conoscerlo o di poterlo ripetere a memoria, quello è il momento del fallimento. È come se, amando una persona, dicessimo «adesso non ho più parole d’amore». Quando senti che non hai più parole, vuol dire che hai perduto quell’amore.
La religione si basa come intima convinzione su alcuni principi che abbiamo ascoltato, condiviso e che ora manteniamo vivi. È davvero così se ogni giorno, leggendo una frase di quella religione, sentiamo che quella frase cambia significato. Altrimenti è un fatto puramente amministrativo e, se fossi il Padre eterno, mi incavolerei, perché ha dato la possibilità di vivere la realtà come la più bella opportunità di scoperta delle grandi manifestazioni che abbiamo sotto gli occhi. Altrimenti le religioni rischiano di essere delle gabbie mortificanti.
Perché un film come il suo è scomparso subito dalle sale?
Il problema non è che questo film è scomparso dalle sale, ma che capita a questo film e a molti altri film più belli del mio, come il Faust, Leone d’Oro a Venezia, o Una separazione, Orso d’Oro a Berlino. In realtà, nell’ultima stagione ci sono state produzioni italiane che hanno incassato bene e che rispetto ma sono tutti film di genere "spensierato".
Le persone cercano rifugio in occasioni - e lo capisco - che non danno il tempo di soffermarsi sulla gravità di problemi che dovremo arrivare ad affrontare. Prima di tutto la chiesa! Nel vedere ogni giorno la realtà che abbiamo intorno, per alcune cose pensiamo di poter rispondere, per altre veniamo interrogati e non abbiamo risposte. Un’infinità di interrogativi irrisolti, e allora io chiamo il Maestro. Se tu, Cristo, fossi al mio posto, cosa faresti? Secondo voi, Cristo si preoccuperebbe del cattolicesimo o di quella religione del perdono per relazionarci agli altri, per renderci disponibili agli altri. Se io guardo il suo percorso, ogni giorno c’è sempre un insegnamento che mi riguarda.
Il cattolicesimo - come apparato - oggi è diventato forse troppo ingombrante. So che qualcuno non è d’accordo con me... e va bene. Non pretendo questo, ma mi domando qual è il cristianesimo di oggi. Tante volte dico ai cattolici: «ricordatevi che siete anche cristiani».
Qual è oggi il modello di Cristo? Cristo ha chiamato Pietro e gli ha detto «chi dici che io sia?». Chi diciamo che sia questo Cristo? Un orpello appeso ai punti apicali delle volte delle chiese? O è quell’altro chenon osa entrare in chiesa perché non ha i panni adatti?
La chiesa di questo film è chiesa quando si è svuotata dagli orpelli, quando qualcuno che non è cristiano ha bisogno di aiuto. Gli devo chiedere «sei cristiano? cattolico? Allora entra, se no stai fuori...». Cristo dice «Tu che sei Pietro, tu sei pietra». Tu! Ciascuno di noi è la vera chiesa. C’è qualcosa che mi fa dire in questo momento: «Cristiani svegliamoci! È il nostro momento». È il momento di presentarci agli altri dicendo all’altro «Ecco il volto di Cristo!».
Quando rincasiamo, possiamo dire alla sera: oggi ho visto Cristo? Oppure, ho visto il ragioniere, l’architetto, il neretto all’angolo della strada? Quale volto di Cristo abbiamo visto in ogni giorno della nostra vita?
Ecco perché non rispondo a chi si preoccupa se sono o meno cristiano, io non mi preoccupo se loro lo sono. Mi basta guardarti, sei una creatura di Dio. E poi, quando ci innamoriamo, è il massimo. E l’estasi dell’umanità. Anche quel prete nel film che guarda gli occhi di una fanciulla. E perché no? Quanti preti innamorati infelici! Io credo che l’innamoramento sia una chiamata, certo che poi dobbiamo comportarci di conseguenza. Rispetto all’innamoramento, c’è un passaggio difficile da accettare: quando il prete dice al Cristo della piccola Pietà «sei troppo lontano nel tempo perché io possa amarti come dovrei». Ma che cosa, allora, si riconosce di quel piccolo Cristo? Anche Cristo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo istante. Dio, che è venuto e ha parlato a profeti e ad angeli, non ha parlato a Cristo nel silenzio dell’ultimo respiro. Come mai? Avrebbe - credo - intaccata la santa, la sacra eroicità della donazione. Dobbiamo accettare la solitudine dell’ultimo respiro.
Nel film il prete sintetizza tante epoche, stagioni e passaggi della vita. Alla fine cos’è diventato quel prete?
All’inizio il prete rimpiange il fatto che non sarà più quel prete lì, perché gli manca lo strumento della sua pratica sacerdotale. Quando non c’è più un fedele, lui fa quella predica alle panche vuote, si confida con esse. Dice «quante volte qui alla domenica, quando la chiesa era piena di fedeli... eppure ogni tanto avevo il dubbio!». Guai ad avere le certezze assolute. Ti siedi comodamente su queste certezze e rinunci alla tua vita come continua curiosità della riscoperta. Se qualcuno mi dice che crede in Dio, prega Dio, ama Dio in maniera così graniticamente definitiva, ho l’impressione che non conosca il termine amore. L’amore è una lotta continua, un travaglio che non ci dà tregua.
All’inizio il prete si accontentava di avere la chiesa piena di fedeli. Nel momento in cui essa diventa vuota, scopre che cosa significa essere prete. Anche grazie alle circostanze che è costretto a vivere con un gruppo di pellegrini erranti che sostano nella sua chiesa mettendo in piedi quel villaggio di cartone di chi è continuamente in cammino e che non è affatto di cartone. Di cartone sono i muri di cemento armato. Anche Cristo ci dice «non ho nemmeno una pietra su cui poggiare il capo».
Tutte cose di cui il prete non si poneva più una domanda, ma era fermamente convinto della giustezza delle risposte. Finalmente avverte l’idea del porsi la domanda. Quale volto di Cristo ho incontrato?
Tutti i giorni la medesima domanda, perché infinite sono le risposte. La risposta che il prete dà al sacrestano: «mi sono fatto prete per fare del bene. Ho capito che il bene è più della fede».
Perché il bene è più della fede? Lo dico in maniera grezza: quando recitiamo le nostre preghiere, abbiamo la sensazione di compiere un atto di fede; poco dopo usciamo ed abbassiamo lo sguardo senza guardare in faccia l’umanità. Allora la fede è fare del bene o è dire "ho fede"? Si riesce perfino a pregare pensando ad altro. Il prete a quel nero che lo ringrazia per averli accolti dice «anch’io sto tornando alla casa del Padre». Questo è l’atto di fede. Sapere che il Padre è lì che mi aspetta. Siamo tutti dei "figliol prodigo". L’importante è capirlo e tornare a lui.