di ANNA FOA*
Come gli individui, che non possono costruirsi identità e autonomia senza fare i conti con la propria storia individuale, così le collettività, i popoli e le società non possono senza conseguenze assai gravi rimuovere il proprio passato, la propria storia. "Il passato, scriveva nel 1999 l’arcivescovo Desmond Tutu, presidente della Commissione di verità e riconciliazione del Sudafrica, rifiuta di starsene tranquillo al suo posto". Di qui l’inutilità dell’amnesia e il bisogno di custodire e preservare la memoria. Ma a che scopo? In funzione di quale progetto, di quale futuro? Perché ricordare, infatti, quando si parla di ricordare i massacri infiniti di questo secolo passato e quelli che già insanguinano il nuovo secolo? Una prima immediata risposta è perché la memoria è un risarcimento. Il nome degli assassinati nei campi nazisti di sterminio, pronunciato ad alta voce nelle cerimonie in sinagoga o nel bellissimo Memoriale dei bambini a Yad Vashem, risarcisce le vittime strappandole all’oblio.
Nello stesso modo, nella Russia dei primi anni Novanta gli attivisti del movimento Memorial ricostruivano per prima cosa i nomi e la storia delle vittime del gulag, di quelli che erano scomparsi nel nulla.
Su questo ruolo della memoria, l’accordo è generale. Ma, oltre al risarcimento, la memoria è forse anche altro. E’ un processo, artificiale senz’ombra di dubbio, volto alla costruzione della nostra identità: noi siamo la nostra storia, e questa è la ragione più forte per cui non possiamo eliminarla, abolirla. Rifiutandoci alla memoria, riusciremmo solo ad affermare un altro genere di memoria. Una memoria che costruisce un muro difensivo intorno a noi, individui come società, per impedirci di fare i conti con il passato.
In realtà, la memoria è ovunque, ci assedia da ogni parte. Ma diversi sono i fini a cui la rivolgiamo. Per aiutarci ad individuare i possibili usi della memoria, torniamo ancora a Desmond Tutu: "Per quanto possa essere un’esperienza dolorosa -scriveva ancora -, non possiamo permettere che le ferite del passato arrivino a suppurazione. Devono essere aperte. Devono essere pulite. Devono essere spalmate di balsamo perché possano guarire. Questo non significa essere ossessionati dal passato. Significa preoccuparsi che il passato sia affrontato in modo adeguato per il bene del futuro."
Nel momento che stiamo vivendo, in cui sembriamo esser ripiombati nella barbarie, dovremmo forse domandarci se all’origine di questa barbarie non vi sia anche la mancata riconciliazione della nostra società con il suo passato.
Una mancata riconciliazione, credo, che non è dovuta ad una carenza di memoria, per quanto da molte parti si lamenti proprio l’assenza della memoria, la perdita del senso del passato. Quanto a me, io non credo che ci troviamo di fronte ad una perdita della memoria, ad una sua voluta cancellazione. Credo che ci troviamo, invece, di fronte ad una trasformazione della memoria che comporta, come tutti i momenti di passaggio, perdite e nuovi approfondimenti, cancellazioni di ciò che non risponde più alle nostre domande di oggi, e nuovi stimoli verso le domande di domani.
Ma la trasformazione comporta anche paura, senso di colpa che ci fa arroccare in una sterile difesa, timore che cambiare voglia dire cancellare. Questa paura di dimenticare è, credo, all’origine della prassi diffusa di riaprire le ferite, di evitare ogni guarigione, ogni pacificazione con il passato, come se pacificazione ed oblio fossero la stessa cosa. E così, mentre ci trasformiamo in custodi di una memoria immobile, altre atrocità si aggiungono alle antiche senza che muoviamo un dito per impedirle.
Riconciliazione ed oblio sono infatti due modi assolutamente opposti di rapportarsi al passato. L’oblio porta alla cancellazione di quanto è avvenuto, la riconciliazione parte necessariamente dalla memoria e non può prescindere dal riconoscimento delle responsabilità. L’oblio nega e rimuove le responsabilità; la riconciliazione, a differenza anche del perdono, si costruisce solo sull’accettazione e l’individuazione delle responsabilità.
Nel caso del Sudafrica, dove tutto lasciava presagire che la fine dell’apartheid sarebbe avvenuta nel sangue e nella vendetta, si è invece arrivati, pur tra enormi difficoltà, ad una riconciliazione, grazie appunto all’opera della Commissione sudafricana guidata da Desmond Tutu e fondata sull’idea che la riconciliazione è necessaria per guardare avanti, che le ferite non si possono lasciare aperte. Certo, sappiamo bene che sotto la parola "riconciliazione" possono nascondersi la tentazione dell’amnesia e il favore verso i perpetratori. In questo senso è stata intesa in Italia la proposta di "riconciliazione" tra partigiani e repubblichini, e forse a ragione, perché tendeva a fare degli uni e degli altri un sol fascio, dimenticando responsabilità e colpe.
Ma c’è un terreno in cui l’idea stessa di riconciliazione appare aberrante, ed è quello della Shoah: ci sembra infatti, a parlarne, di proporre l’oblio, la perdita della memoria, l’abbandono dei sei milioni di assassinati. Di dar ragione ai nazisti quando distruggevano sistematicamente le prove dello sterminio per cancellarne la memoria.
Ma non è forse l’ora di elaborare questo lutto, di accettare l’idea che piano piano smetta di farci male, di riconciliarci insomma con il passato? Tutti, ebrei e non ebrei, abbiamo ancora dentro di noi il veleno di quanto è successo nei campi di sterminio. E non può essere anche questa una vittoria postuma dei nazisti, non l’oblio ma un uso della memoria volto ad impedire l’elaborazione del lutto e la riconciliazione? E’, credo, ora di accettare coraggiosamente l’idea che il nostro compito è cambiato. Non più quello di tener desta la memoria, ma quello di far sì che la memoria miri a pacificare invece che a esacerbare gli odi, a gettare ponti invece che costruire muri. Dobbiamo, per riprendere l’immagine pregnante del vescovo Tutu, tentare di guarire le ferite invece di farle suppurare.
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www.golemindispensabile.it, n° 4 - maggio 2004.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. -"La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
A NELSON MANDELA, UN OMAGGIO SOLARE: "INVICTUS".
FLS
Profilo
Desmond Tutu (1931-2021)
Una figura iconica della lotta all’apartheid in Sudafrica e un grande esempio di cristianesimo incarnato nel suo tempo. Vincitore, nel 1984, del premio Nobel per la Pace, è rimasto impegnato per la giustizia globale fino alla morte
di Gianluigi Gugliermetto (Il Mulino, 01 febbraio 2022)
Desdmond Mpilo Tutu (1931-2021) è stato una figura iconica della lotta all’apartheid in Sudafrica e un grande esempio di cristianesimo incarnato nel suo tempo. Balzato sulla scena internazionale nel 1984, quando ricevette il premio Nobel per la Pace, è rimasto impegnato per la giustizia globale fino alla sua morte, avvenuta poco più di un mese fa, il 26 dicembre 2021. In un’intervista recente, ha detto che «il premio Nobel per la pace ti obbliga alla responsabilità nei confronti del mondo. [...] Il mondo, per così dire, possiede un pezzo di te».
Alla domanda su quale fosse stato il momento decisivo della sua vita, Tutu rispondeva sempre tornando con la memoria alla sua infanzia, quando faceva i compiti al pomeriggio nella grande cucina dell’istituto per ciechi dove sua madre lavorava come cuoca. Diverse volte alla settimana il reverendo Trevor Huddleston, un prete anglicano bianco, attraversava la cucina dopo essere passato dalla porta di servizio e salutava rispettosamente togliendosi il cappello: «Buonasera, signora Tutu!». Questo semplice gesto ripetuto si scolpì nella memoria del piccolo Desmond, il quale si era già abituato al fatto che i bianchi non trattassero i neri con rispetto o gentilezza. Più tardi, avrebbe fatto risalire a questo la scelta di diventare a sua volta prete anglicano e di impegnarsi con tutte le sue forze per la lotta contro l’apartheid, ricordando con commozione immutata l’orgoglio della madre nel rispondere al saluto del cappellano dell’istituto.
La figura di Huddleston torna in evidenza nella biografia di Tutu quando nel 1948, all’età di 17 anni, ammalato di tubercolosi, ne riceve le visite durante la lunga degenza in sanatorio. Questo prete e monaco, che Nelson Mandela definirà il bianco che di più ha fatto per sconfiggere l’apartheid, trasmette al giovane Tutu non soltanto la passione per la giustizia ma anche la spiritualità contemplativa che, insieme, costituiranno la trama della sua vita quotidiana. Il 1948 è anche l’anno dell’istituzione del sistema dell’apartheid che permette alla minoranza bianca di mantenere il controllo del Paese attraverso la creazione di Stati fantoccio (bantustan) nei quali masse di lavoratori neri possono essere deportate all’occorrenza. In questo clima, Desmond riesce comunque a diventare insegnante e nel 1955 sposa una collega, Nomalizo Leah Shenxane. Entrambi però abbandonano la professione a causa delle nuove leggi che prevedono che le scuole per neri siano non soltanto segregate, ma private di risorse e di scarso livello. Nel 1960 Tutu viene ordinato prete anglicano e, nel 1962, viene aiutato dalla Comunità della Resurrezione di Huddleston a recarsi nel Regno Unito per perfezionare i propri studi teologici. Quando ritorna in Sudafrica, nel 1966, Tutu inizia una prodigiosa carriera di insegnante di teologia e di ministro di culto, lasciandosi alle spalle ogni traccia di inferiorità razziale e facendosi conoscere per la sua contagiosa vivacità e il suo senso dell’umorismo, congiunti a un profondo rispetto per l’umanità di tutti i suoi interlocutori. Nel 1985 Tutu è il primo vescovo nero di Johannesburg e l’anno seguente il primo arcivescovo nero di Città del Capo, un ruolo che coincide con l’ufficio di primate della chiesa anglicana del Sudafrica.
Durante gli anni della sua carriera pubblica, Desmond Tutu denuncia senza sosta l’ipocrisia e l’immoralità fondamentale dell’apartheid, che i suoi sostenitori presentano come un sistema di rispetto delle differenze culturali e razziali. Egli afferma al contempo che la violenza non può risolvere il problema alla radice:
Queste parole risalgono al 1983, quando Tutu ricopre il ruolo di segretario del Consiglio nazionale delle Chiese sudafricane. La sua opposizione alla violenza non è assoluta o ideologica. Egli comprende bene che le persone oppresse spesso non vedono altra soluzione alla loro situazione che imbracciare le armi. Tuttavia, rimane sempre convinto che la trattativa a oltranza col nemico e le forme di lotta nonviolenta siano non soltanto più etiche, ma anche più foriere di risultati. Negli anni successivi, Tutu sponsorizza apertamente il boicottaggio internazionale dell’economia sudafricana, che alla fine provoca la caduta del regime razzista.
Dal 1996 al 1999, Tutu presiede la Commissione «Verità e Riconciliazione» che rappresenta a tutt’oggi uno dei più grandi esperimenti di giustizia non punitiva mai intentati. A coloro che confessano pubblicamente la loro partecipazione a specifici atti di violenza commessi durante il regime dell’apartheid, lo Stato concede l’amnistia preventiva. Tutu insiste fin dall’inizio che il compito della Commissione è favorire la completa confessione, il perdono e la riparazione (ovviamente sempre soltanto parziale) dell’ingiustizia. La statura morale della figura di Tutu emerge in questo ruolo più che in ogni altro. Egli non fa sconti a nessuno, nemmeno a quelli della propria parte, e mostra pubblicamente la sua capacità di empatia nei confronti di vittime e carnefici. «Dovevamo guardare la bestia negli occhi, perché altrimenti ci avrebbe perseguitato per sempre», dirà più tardi. Alcuni anni dopo, quando il nuovo governo a maggioranza ANC (African National Congress) delude amaramente le sue aspettative di giustizia, sia per la corruzione rampante sia per l’esclusione delle persone afrikaaner (di discendenza bianca) dai ruoli di responsabilità, Tutu dichiara con fermezza: «Vi avverto che pregheremo per la caduta di questo governo. Esattamente come abbiamo pregato per la caduta del governo dell’apartheid, pregheremo per la caduta di questo governo che non ci rappresenta».
Dopo il suo pensionamento, Desmond Tutu intensifica la sua lotta contro l’ingiustizia a livello globale. Nel 1998, quando l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, favorisce una mozione di condanna dell’omosessualità in quanto «non-biblica», gli scrive pubblicamente: «Mi vergogno di essere anglicano». Tutu protesta pubblicamente contro la guerra in Iraq, contro la presenza cinese in Tibet, e contro il trattamento dei palestinesi da parte del governo di Israele. In alcuni casi, egli ripropone le forme di lotta e di riconciliazione che ha sperimentato in prima persona in Sudafrica, ad esempio sostenendo il boicottaggio dell’economia israeliana e delle industrie estrattive, e ripresentando la struttura della Commissione sudafricana «Verità e Riconciliazione» come presidente di un’analoga commissione nelle Isole Salomone. Le sfide del cambiamento climatico globale, le sofferenze dei Rohingya in Myanmar, le politiche repressive del governo saudita, e molte altre cause hanno visto l’arcivescovo emerito del Sudafrica sempre in prima fila. Desmond Tutu ha chiaramente scelto di spendere la sua notorietà per portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla sofferenza globale e sui modi per superarla. Le tante onorificenze e premi che gli sono stati attribuiti non hanno mai scalfito la sua umiltà, né le aspre critiche di partigianeria ne hanno mai abbattuto l’umorismo. Il suo cuore si è fermato nel giorno di santo Stefano, servitore dei poveri e primo grande testimone di Cristo. Una bella coincidenza per la vita profetica di questo infaticabile cristiano.
È morto Desmond Tutu
Il premio Nobel per la pace aveva 90 anni, fu tra i più importanti oppositori dell’apartheid in Sudafrica
È morto Desmond Tutu, arcivescovo anglicano sudafricano tra i principali oppositori dell’apartheid in Sudafrica negli anni Ottanta e premio Nobel per la pace nel 1984. Tutu aveva compiuto da poco 90 anni, la notizia della sua morte è stata confermata dal presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa.
Da arcivescovo di Johannesburg e in seguito di Città del Capo, Tutu si dedicò a numerose iniziative politiche e a sostegno delle proteste contro l’apartheid, la politica di segregazione razziale in vigore nel Sudafrica dalla fine degli anni Quaranta e stabilita dalla minoranza bianca al governo. Insieme ad altri grandi attivisti come Nelson Mandela, si batté per la fine della segregazione sostenendo la necessità di mantenere pacifiche le proteste. Dopo la scarcerazione di Mandela nel 1990 e la sua elezione a presidente nel 1994, Tutu divenne presidente di una commissione incaricata di indagare sui casi di violazione dei diritti umani avvenuti durante l’apartheid.
Tutu era nato il 7 ottobre del 1931 a Klerksdorp, una città rurale circa 160 chilometri a sud-ovest di Johannesburg in una famiglia di modeste condizioni. Studiò per diventare insegnante, prima di cambiare idea e decidere di diventare prete.
Negli anni della sua formazione visse molto all’estero, studiando teologia all’Università di Londra a metà anni Sessanta. Tornò in Sudafrica dove ebbe una rapida carriera ecclesiastica, dimostrando da subito di avere una particolare attenzione per il tema dei diritti umani. Carismatico e in grado di tenere discorsi spesso descritti come emozionanti e trascinanti, in breve tempo Tutu divenne tra i più grandi oppositori dell’apartheid.
Da arcivescovo, Tutu divenne una delle figure più autorevoli a sostenere la necessità di abolire la segregazione. Fortemente avversato dal Partito Nazionale, che guidava il paese sostenendo l’importanza dell’apartheid, Tutu fu tra i sostenitori più convinti delle sanzioni internazionali nei confronti del Sudafrica per fare pressioni sul governo per garantire i diritti umani a tutta la popolazione e senza distinzioni.
Nel farlo, Tutu mantenne sempre una certa distanza dal Congresso nazionale africano (ANC), il partito principale sostenitore del movimento di liberazione e che dopo la fine dell’apartheid sarebbe diventato partito di governo per più di 20 anni e di cui faceva parte anche Mandela. Tutu non sostenne mai il braccio armato del partito e fu spesso critico nei confronti dei suoi leader. Condivideva comunque la visione di Mandela sulla necessità di avere una società senza discriminazioni, nella quale tutti potessero vivere con pari diritti. Il suo impegno gli valse il Nobel per la pace nel 1984.
Quando dieci anni dopo Mandela divenne presidente del Sudafrica, chiese a Tutu di presiedere la Commissione per la verità e la riconciliazione (TRC), un tribunale per raccogliere e valutare le testimonianze sui crimini commessi durante la segregazione da entrambe le parti. Le udienze furono trasmesse spesso in televisione, dando a Tutu la possibilità di raggiungere milioni di persone non solo in Sudafrica, ma anche nel resto del mondo.
Il tribunale fu un importante momento per la transizione del Sudafrica al termine dell’apartheid, ma ricevette qualche critica per i metodi impiegati. Durante il periodo a capo della TRC, Tutu fu duramente attaccato dai membri di estrema destra della minoranza bianca, ma anche da alcuni componenti dell’ANC. Le testimonianze spesso molto dure e crude di chi aveva subito violenze durante la segregazione ebbero un forte impatto anche su Tutu, che non nascose mai la propria sofferenza e costernazione.
Alla fine degli anni Novanta, a Tutu fu diagnosticato un tumore alla prostata. Ridusse gli impegni pubblici e si dedicò con maggiore assiduità alla famiglia, ma non mancò di criticare l’ANC e di continuare a interessarsi di politica internazionale. Nel 2015 avviò un’iniziativa per chiedere ai presidenti e capi di governo del mondo di aderire a un piano per passare alle fonti di energia rinnovabile entro 35 anni, per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.
Commentando la sua morte, il presidente sudafricano Ramaphosa ha detto: «La morte dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu segna un altro capitolo nei lutti della nostra nazione e nel dare l’addio a una generazione di incredibili sudafricani che ci hanno lasciato in eredità un Sudafrica libero».
* Fonte: Il Post, domenica 26 Dicembre 2021
Arcivescovo Canterbury: "Via statue razziste dalle chiese" *
Le statue legate al periodo del colonialismo e della schiavitù potrebbero essere rimosse dalle più importanti chiese britanniche. Lo ha detto alla Bbc l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, intervenendo nel dibattito avviato negli Stati Uniti, dove da giorni i manifestanti prendono di mira i monumenti dedicati a personalità che vengono legate ad un passato razzista. "Alcune dovranno essere rimosse - ha detto il capo della Chiesa anglicana - Alcuni nomi dovranno cambiare. Esamineremo molto attentamente la questione e vedremo se devono restare lì".
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FLS
Il tramonto dell’Anc in Sud Africa
A più di vent’anni dalla fine dell’apartheid, l’African National Congress ha imboccato la via del declino: sorgono interrogativi sul prossimo futuro del Paese, oggi preda di pericolose turbolenze interne
di Immanuel Wallerstein *
Il tramonto dell’Anc in Sud Africa. In Sud Africa una lunga lotta ha portato all’abbattimento del sistema dell’apartheid, e all’indizione di elezioni a suffragio universale. Il principale artefice di questa trasformazione è stato l’African National Congress (Anc) e l’eroe principale di questa lotta è stato il suo leader Nelson Mandela, che con maggioranza schiacciante è stato eletto primo presidente del governo post-apartheid nel 1994. Il risultato elettorale ha dato all’Anc il pieno controllo dell’Assemblea nazionale.
Mandela ha rifiutato di candidarsi alla rielezione nel 1999 e gli è succeduto, per due mandati - il massimo consentito dalla legge - Thabo Mbeki. Jacob Zuma è stato eletto una prima volta nel 2009 e rieletto nel 2014. Mentre i primi due presidenti erano xhosa, uno dei due principali gruppi etnici in Sud Africa, Zuma invece è zulu, e rivendica con orgoglio la propria origine etnica.
Il maggiore partito di opposizione, la Democratic Alliance (Da), formato da gruppi di bianchi liberali organizzatisi già durante il regime dell’apartheid, ha ricevuto inizialmente uno scarso sostegno al di fuori della comunità bianca, che rappresenta ancora circa il 20% della popolazione. Esso ha cercato tuttavia di attirare il consenso degli elettori neri della classe media e negli ultimi anni ha scelto come leader dei politici neri.
L’altro grande partito di opposizione, costituitosi negli ultimi anni, si chiama Economic Freedom Fighters (Eff). Alla sua guida c’è Julius Malema, ex capo della lega giovanile dell’Anc. Malema ha incentrato il suo programma sulla questione irrisolta della terra, proponendo la confisca della terra dei contadini bianchi, che controllano tuttora la maggior parte dei migliori terreni coltivabili. Le sue opinioni provocatorie hanno portato alla sua espulsione dall’Anc, dopo di che egli ha creato l’Eff per perseguire questi obiettivi.
Il 3 agosto di quest’anno si sono tenute le elezioni amministrative. Fino ad oggi, l’Anc è stato il partito di governo in tre delle quattro maggiori città e nelle province di cui queste fanno parte. L’unica eccezione era Città del Capo, dove i neri sono in minoranza e dove il gruppo più numeroso è quello di ascendenza mista, i cosiddetti Coloureds del regime dell’apartheid. Quest’anno, tuttavia, l’Anc ha perso due grandi città a vantaggio della Da (Tswane e Nelson Mandela Bay) e ha conservato con pochissimo margine Johannesburg. L’Eff ha ottenuto risultati migliori del previsto, superando il 10% in diversi centri. Le elezioni amministrative sono state generalmente considerate una grande sconfitta elettorale per l’Anc.
Perché questo è accaduto, e cosa succederà ora? La debolezza dell’Anc ha diverse cause. Una sono le accuse frequenti di corruzione che hanno colpito i capi dell’Anc in generale e il presidente Zuma in particolare. La seconda è il fatto che a vent’anni dalla fine dell’apartheid non è stato attuato alcun programma significativo di restituzione della terra ai neri, e l’Anc non sembra avere in programma iniziative in questa direzione. La terza sono le crescenti difficoltà economiche del paese, causate dalla crescita mondiale della disuguaglianza economica.
Tuttavia, il fattore più importante nel declino dell’Anc è il ricambio generazionale. Nel 2016 la maggioranza degli elettori è nata dopo la fine dell’apartheid. Essi non hanno memoria personale della vita sotto l’apartheid, e quindi non premiano più l’Anc per quello che ha ottenuto, anzi forse non sono nemmeno in grado di capire che cosa abbia significato lottare contro l’apartheid. Si può affermare che l’Anc ha imboccato la via del declino allo stesso modo di altri movimenti di liberazione nazionale, come ad esempio il partito del Congresso in India. Tale processo può solo intensificarsi con il passare degli anni.
Il problema per il Sud Africa è cosa succederà da ora in avanti. Al momento la Da non ha un seguito sufficiente a permetterle di governare da sola a livello provinciale o nazionale, e dovrebbe dunque valutare la possibilità di un’alleanza con l’Eff. Da e Eff hanno però programmi praticamente opposti. Mentre la Da è fondamentalmente un partito neoliberale conservatore, l’Eff sostiene un programma economico di sinistra che prevede in particolare la rinazionalizzazione delle industrie più importanti. La Da ambisce a essere un partito multietnico mentre l’Eff evidenzia aggressivi accenti xenofobi.
E l’Anc? In pratica, anche se non a livello di dichiarazioni politiche, il suo programma, neoliberista in economia e multietnico, non si differenzia granché da quello della Da. L’Anc rischia la completa disintegrazione. È probabile invece che l’Eff continuerà a rafforzarsi. La sua combinazione di linguaggio di sinistra e istanze xenofobe ha avuto successo in molti paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale. Perché non in Sud Africa?
Il Sud Africa, tuttavia, non è un Paese africano come gli altri. Esso ha conferito una solida base di stabilità alla regione dell’Africa australe e non solo. Il suo declino in termini di potere avrà un effetto a catena su un gran numero di Stati. E quale sarà la risposta degli altri membri del Brics che si sono affidati al Sudafrica come prova vivente che i Paesi del gruppo sono realmente interessati all’Africa, il continente più povero?
L’ultima considerazione è chiedersi se vi siano le condizioni affinché nasca dal basso un vero e proprio movimento di sinistra. Può nascere in Sud Africa qualcosa come Podemos o Syriza? Forse, ma nulla del genere si è ancora formato nonostante i coraggiosi tentativi di piccoli gruppi di attivisti.
Dal modello di democrazia che affermava di essere, il Sud Africa è oggi diventato l’epicentro di turbolenze interne che potrebbe essere difficile considerare democratiche.
* IL MULINO, 06 settembre 2016
[Copyright © 2016 Immanuel Wallerstein, used by permission of Agence Global. Traduzione di Giovanni Arganese]
La rivolta di Soweto *
Soweto è una township alla periferia di Johannesburg, in Sudafrica. Costruita dopo la fine della seconda guerra mondiale, negli anni settanta ci vivevano segregati i neri e gli indiani, arrivati in città per lavorare nelle miniere d’oro. Il 16 giugno 1976 cominciò qui una protesta che divenne fondamentale nella lotta contro l’apartheid.
Un decreto governativo entrato in vigore nel 1975 obbligava tutte le scuole nere sudafricane a utilizzare come lingue per l’insegnamento l’inglese e afrikaans, una lingua germanica derivata principalmente dall’olandese. Per i neri, però, l’afrikaans era “la lingua degli oppressori”. In protesta per questa decisione governativa organizzarono una serie di scioperi e, il 16 giugno 1976, 20mila studenti provenienti da tutte le scuole nere di Johannesburg marciarono verso lo stadio. Durante la manifestazione intervenne la polizia e cominciarono le violenze.
Hector Pieterson, un bambino di 12 anni, morì durante gli scontri. La foto dello studente che lo porta in braccio fece il giro del mondo. Le violenze continuarono fino all’aprile del 1977. Una commissione d’inchiesta anni dopo accertò che morirono 575 persone, di cui 451 uccise dalla polizia. Altre fonti sostengono invece che il numero delle vittime sia stato molto più alto.
In seguito alle proteste del 16 giugno, il governo sudafricano decise che le scuole potevano usare la lingua di insegnamento che preferivano.
Desmond Tutu spiega perché i testi sacri possono essere strumenti per combattere le oppressioni come accaduto in Sudafrica
La Bibbia è un libro sovversivo
I missionari hanno messo nelle mani di noi neri un oggetto rivoluzionario
In quelle pagine viene proclamato il valore di ogni essere umano senza distinzioni
di Desmond Tutu (la Repubblica, 17.10.2015)
Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia».
La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti.
Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. [...]
Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’Imago Dei). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante.
Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente.
Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva.
Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid.
Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio.
Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te».
Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.
© Desmond M. Tutu 2014
© EMI 2015 Traduzione di Mario Mansuelli
Il mio Madiba non c’è più, ha reso il mondo migliore risorgendo dalla sofferenza
di Desmond Tutu (la Repubblica, 7 dicembre 2013)
Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.
Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative.
Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco.
Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.
Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.
Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.
Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.
Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?
Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.
Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.
Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.
Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in
Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi
dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta
sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.
(Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)
La straordinaria avventura di Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace
Dal villaggio nel Traskei alla militanza nell’Anc, giovane avvocato e poi militante della lotta armata. Gli amori, le mogli, la tragedia dei figli strappati dall’Aids. La lunga prigionia che lo rafforza al punto da diventare la leva che scardina l’apartheid. Gli anni della gloria, dal Nobel alla presidenza. Il nuovo impegno nella lotta al virus e la scelta di ritirarsi dalla scena pubblica, che fino all’ultimo non ha appannato la sua popolarità universale. 95 anni vissuti dalla parte della libertà
di DANIELE MASTROGIACOMO (la Repubblica, 05 dicembre 2013)
PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all’ergastolo, rinchiuso per 27 anni in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro l’apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c’è stato un altro uomo o un’altra donna che hanno speso gran parte della vita per sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore l’intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di carcere durissimo nell’isola-prigione di Robben Island.
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell’importanza della scuola e dell’educazione.
E’ convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all’epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell’apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all’African national congress (Anc). E’ molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell’Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell’Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell’Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E’ diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l’inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l’assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell’Anc con l’accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell’apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L’Aids, che all’epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E’ un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all’ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell’Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l’esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d’uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E’ il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L’Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E’ accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all’ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l’invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E’ trasferito nell’isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l’apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall’atteggiamento di quest’uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell’embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell’inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all’11 febbraio del 1990. E’ una data storica, una domenica: l’ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un’immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l’ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l’uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l’uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all’ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell’Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E’ il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all’apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l’unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell’India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell’Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un’icona immortale. E’ un uomo. Conserva la saggezza, l’equilibrio, la disciplina, la tenacia, l’ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E’ molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l’energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un’ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia.
Sudafrica vietato per il Dalai Lama L’ira del vescovo Tutu
di Alessandra Muglia (Corriere della Sera, 05 ottobre 2011)
Un compleanno amaro per Desmond Tutu: «Mi ritrovo in un Paese peggiore che ai tempi dell’apartheid». Un bilancio doloroso per il primo arcivescovo nero del Sudafrica che proprio per la sua lotta contro la discriminazione razziale è stato insignito del Nobel per la pace nel 1984. Tutu ha sfogato ieri tutta la sua delusione e la sua rabbia per la deriva del «Paese arcobaleno», per mano dello stesso Anc, il partito fondato da Nelson Mandela che si era battuto per farlo nascere.
L’arcivescovo (in pensione) ha parlato in una conferenza stampa a Città del Capo, convocata in fretta e furia dopo aver saputo del «regalo» confezionato dalle autorità per i suoi 80 anni: il mancato rilascio del visto d’ingresso all’invitato principe ai suoi festeggiamenti, il Dalai Lama, «mio amico e fratello spirituale», come lo ha definito più volte. Poche ore prima, era stato il leader spirituale tibetano, atteso nel Paese da giovedì su invito dal Centro per la pace Desmond Tutu, ad annunciare l’annullamento del viaggio, dopo cinque settimane di vana attesa: «Poiché il governo sudafricano sembra trovare sconveniente consegnare il visto a Sua Santità, il Dalai Lama ha deciso di annullare la sua visita» recita il comunicato sul suo sito.
Pretoria tenta di chiamarsi fuori: «È stato lui ad annullare il viaggio, è una sua decisione e noi ne abbiamo preso nota, del resto ha presentato l’originale del passaporto soltanto il 20 settembre», ha farfugliato un portavoce del ministero degli Esteri sudafricano. Pretoria ha negato di aver ricevuto pressioni da Pechino, impegnata a dissuadere gli Stati dall’ospitare il leader «separatista».
Ma è evidente che il Sudafrica ha chiuso la porta al Dalai Lama per non urtare la suscettibilità della Cina, suo maggior partner commerciale. Come del resto aveva già fatto due anni fa, quando l’allora neopresidente Jacob Zuma gli aveva rifiutato apertamente il visto. Da allora la Cina ha «ricompensato» il governo sudafricano con generosi investimenti, che hanno consentito al Paese di entrare - quest’anno - a far parte del club dei Paesi emergenti, i Brics.
«Che lo ammettano o no, il governo è determinato a non fare nulla che possa far arrabbiare la Cina» ha tuonato Tutu. «Signor Zuma, lei e il suo governo rappresentate i vostri interessi» ha gridato. «Vi avverto - ha poi ammonito sempre rivolgendosi al leader dell’Anc, il partito al potere ininterrottamente dal 1994 - come avevo avvertito i nazionalisti (al potere durante l’apartheid, ndr): un giorno pregheremo per la caduta di un governo che non ci rappresenta più», ha inveito l’arcivescovo, aggiungendo che l’Anc non deve credersi al sicuro solo perché ha una larghissima maggioranza nel Paese. Anche «Mubarak ce l’aveva. E pure Gheddafi. State in guardia» ha minacciato Tutu.
Che l’aria potrebbe cambiare lo testimoniava la folla riunitasi ieri davanti al Parlamento di Pretoria per denunciare uno Stato che avrebbe abdicato alla sua sovranità. Atto dimostrativo che non basterà a far partecipare il leader tibetano alle celebrazioni, al fianco di altre personalità come l’ex presidente americano Jimmy Carter e l’ex segretario Onu Kofi Annan. Almeno non di persona: perché, come confermano al Corriere dall’entourage di Tutu, la sorpresa nella sorpresa potrebbe essere un Dalai Lama in videoconferenza che dialoga in pubblico con l’arcivescovo. I due anziani Nobel lontani ma vicini.
INCHIESTA
Dal Sudafrica al Perù, sono ormai oltre 30 gli istituti che hanno regolato i conti con la storia superando la giustizia dei tribunali.
Un avvocato fa la mappa
Commissioni Verità, la voce delle vittime
da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 07.06.2009)
« In molti Paesi, i tribunali penali stanno evolvendo e ciò è dovuto anche all’influenza delle commissioni Verità e riconciliazione, molto più attente alle vittime rispetto alle istituzioni della giustizia tradizionale». Ad esserne convinto è l’avvocato e militante dei diritti umani Etienne Jaudel, di cui fa molto discutere in Francia l’ultimo saggio Justice sans châtiment («Giustizia senza castigo», edizioni Odile Jacob). Già segretario generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo, Jaudel analizza il ruolo vieppiù cruciale delle commissioni durante il crollo di regimi coperti d’obbrobrio, come in Sudafrica, e in generale dopo l’abominio di crimini di massa. «Anche se la riconciliazione è un obiettivo che solo il tempo può aiutare a raggiungere, le commissioni facilitano spesso almeno la coesistenza».
Professor Jaudel, cosa distingue le commissioni rispetto alle altre istituzioni di giustizia?
«Non si tratta di organismi giudiziari. Rappresentano in teoria un complemento ai tribunali, anche se di fatto sono state spesso create in Paesi dove la giustizia non funzionava. In effetti, i giudici non entrano in gioco e non si può neppure dire che i membri delle commissioni siano disinteressati. Del resto, non viene chiesto loro di essere obiettivi. Basta ricordare, in proposito, le celebri scene di Desmond Tutu che bacia i testimoni: scene inconcepibili in un tribunale. Lo scopo primario delle commissioni non è di condannare i colpevoli, ma di ascoltare le vittime».
La creazione delle commissioni serve a colmare certi limiti dei tribunali penali?
«Direi di sì, soprattutto se si pensa alla promozione delle vittime, i cui interventi restano spesso secondari nella giustizia tradizionale, così attenta invece alla parola dei colpevoli. C’è poi un altro aspetto. Di fronte ai crimini di massa, sanzionare i responsabili risulta sempre estremamente difficile. Le prove sono difficili da ottenere, i mezzi della giustizia si rivelano spesso insufficienti, i responsabili sono innumerevoli. Le commissioni si distinguono inoltre per la loro flessibilità di funzionamento, che le rende particolarmente adattabili ai diversi contesti».
Nel lavoro delle commissioni, che tipo di riparazione è in gioco?
«La compensazione appartiene soprattutto al registro dell’emozione. Le vittime spesso non reclamano vendetta, ma vogliono innanzitutto conoscere la verità. Credo si tratti dell’aspetto essenziale di questa nuova forma di giustizia. Rispetto a questa ricerca collettiva della verità, passa in secondo piano persino la condanna dei responsabili».
Organismi quasi sempre non neutrali, le commissioni debbono nondimeno conservare una forma d’indipendenza?
«Il problema dell’indipendenza resta, ma è di natura particolare. È assolutamente indispensabile che gli esperti e i membri delle Commissioni siano totalmente indipendenti dall’autorità pubblica. In altri termini, non sono accettabili compromissioni col potere, che fra l’altro le commissioni si preparano a sanzionare simbolicamente. Non viene richiesta, al contrario, alcuna neutralità nei confronti delle vittime. Anzi, un rapporto ravvicinato con le vittime può spesso giovare. In Marocco, del resto, la commissione era presieduta da un ex prigioniero politico».
Data la gravità dei singoli contesti, la ricerca di un presidente ideale per queste commissioni pare un’impresa ardua...
«In effetti, è una scelta molto difficile e lo stesso vale per tutti i membri. In Togo, dove una commissione è in corso di formazione, si è trattato a lungo di uno dei problemi cruciali. Solo nei giorni scorsi si è designato un presidente nella persona di Nicodème Barrigah, vescovo di Atakpamé. In alcuni Paesi, i commissari sono stati designati non a caso dalle Nazioni Unite. In altri, da istanze religiose o tradizionali. Non c’è uno schema fisso».
È già possibile tracciare un primo bilancio generale?
«Non si può certamente parlare di un successo generalizzato. In Sierra Leone, ad esempio, la commissione non ha ben funzionato, anche perché abbinata in modo probabilmente improprio con un tribunale internazionale. Nondimeno, ogni volta che si giunge a transizioni politiche particolarmente gravi, o quando emergono crimini di massa, viene posto il problema della costituzione di una commissione verità. Esiste dunque un reale bisogno e la tipologia istituzionale gode di un crescente successo. In questo momento, se ne discute anche in Madagascar, dov’è in corso una difficile transizione. O ancora in Libano e in Algeria. Un altro innegabile successo riguarda il dovere di memoria, data la straordinaria documentazione a disposizione degli storici prodotta dalle commissioni».
La popolarità attuale delle commissioni risente anche dell’esperienza ormai celebre del Sudafrica?
«Il successo mediatico della commissione sudafricana, fondato anche sul carisma personale di Desmond Tutu, ha contribuito largamente alla diffusione della formula. L’esperienza sudafricana ha dimostrato più di altre che il fatto di non ricercare in primo luogo dei responsabili consente delle testimonianze molto più complete e molto meno contestabili. Ma è al contempo vero che la commissione sudafricana, ancor oggi non poco criticata nello stesso Sudafrica, resta per molti aspetti unica. In particolare, per via della sua facoltà di concedere l’amnistia. Una scelta rischiosa molto raramente applicata altrove».
IL GRANDE SCRITTORE FRANCESE RACCONTA IL DOPO-APARTHEID
Lapierre Il nuovo Sudafrica di Mandela e Tutu
Verità in cambio di riconciliazione. Una transizione pacifica portò al Paese democrazia e libertà: una forte lezione d’umanità per il pianeta
di Dominique Lapierre (Avvenire, 19.10.2008) *
Amandla Ngawethu! «Il potere al popolo!». La celebre espressione non era più un appello alla speranza. Era una realtà. Con il 62,65% dei voti l’Anc, il partito di Nelson Mandela, aveva ottenuto 252 seggi sui 400 della prima assemblea democratica della nazione arcobaleno. Con il 24,4%, Frederik de Klerk e il suo partito della dominazione bianca se ne erano aggiudicati solo 82. Il 2 maggio 1994, 4 giorni dopo la proclamazione dei risultati, l’ultimo presidente dell’era dell’apartheid si presentò davanti ai microfoni della radio e alle telecamere per riconoscere la sconfitta e congratularsi con il suo successore. Con voce ferma e vibrante, ma anche emozionata, De Klerk espresse la soddisfazione di collaborare con Mandela nel primo governo di unità nazionale del nuovo Sudafrica. Ma voleva anche mettere in guardia il leader nero.
«Dopo il lungo cammino che ha percorso, oggi si trova in cima a una montagna - dichiarò -. Non potrà fermarsi per contemplare il paesaggio perché, al di là di quella montagna, ce n’è un’altra, e dietro, un’altra ancora. Il suo viaggio non sarà mai finito». Con lo sguardo magnetico che fin dal primo incontro aveva sedotto Mandela, il leader bianco fissò le telecamere puntate su di lui. Sapeva che 5 milioni di compatrioti e un numero incalcolabile di neri seguivano con il fiato sospeso e la gola stretta quel prodigioso appuntamento con la storia. «Le parole di Frederik de Klerk erano talmente belle che mi sono dovuto dare dei pizzicotti per poterci credere» confiderà l’arcivescovo Desmond Tutu.
Cinque giorni dopo, il 10 maggio, Nelson Mandela ricevette la consacrazione suprema. La cerimonia si svolse nel magnifico anfiteatro degli Union Building di Pretoria, che per 5 anni aveva ospitato le grandi cerimonie della supremazia bianca. Lo accompagnava Zenani, la figlia maggiore. Il suo discorso fece aleggiare sulla platea una straordinaria ondata di emozione. «Oggi, con la nostra presenza, tutti noi... tributiamo onore e speranza alla libertà appena nata - dichiarò l’ex ergastolano di Robben Island -. Dall’esperienza di straordinarie sofferenze umane, che troppo a lungo si sono protratte, deve nascere una società di cui tutta l’umanità sarà fiera... Mai, mai e poi mai dovrà accadere che questa splendida terra conosca di nuovo l’oppressione dell’uomo sull’uomo!... Che la libertà possa regnare in eterno! Dio benedica l’Africa!». Dio benedica l’Africa! Nessuna invocazione poteva risuonare più opportunamente in quel luminoso autunno australe.
Dopo essere stato «sommerso dal senso della Storia» durante la sua investitura, il primo presidente nero fu costretto a tornare sulla terra per scoprire le realtà che si dissimulavano sotto quelle montagne evocate da Frederik De Klerk. La prima, e sicuramente la più allarmante, era la terrificante criminalità che minacciava la sicurezza di tutti i cittadini, sia bianchi sia neri. Nel primo anno di democrazia, omicidi, aggressioni a mano armata, stupri e furti con scasso erano quasi raddoppiati.
Dalle frontiere dello Zimbabwe alle rive del Capo si commetteva un omicidio ogni mezz’ora, uno stupro ogni tre minuti, un furto con scasso ogni due minuti. Sotto la seconda montagna si nascondeva il devastante tasso di disoccupazione che riguardava il 40% della popolazione attiva nera. A buon diritto Mandela aveva invitato i suoi a «essere pazienti».
Mancavano tre milioni di alloggi, ventimila scuole, tremila ospedali, 300 mila chilometri di linee elettriche e quasi altrettanti di condutture dell’acqua potabile. La sfida più difficile non era tuttavia di ordine economico, bensì di ordine morale. «Dobbiamo essere uniti ai fini di una riconciliazione nazionale» aveva affermato Mandela la sera del voto. Lui stesso ne dava l’esempio con una grandezza d’animo che suscitava l’ammirazione dei suoi concittadini e dell’opinione pubblica mondiale.
Alla cerimonia della sua investitura aveva invitato i due rappresentanti della giustizia dell’apartheid che l’avevano condannato a vivere in prigione per il resto dei suoi giorni. Ma per quanto nobili e generosi, quei gesti non potevano distogliere dalla volontà di vendetta tante vittime dell’oppressione razziale. Si rivolse a uno dei più emblematici sopravvissuti al terrore bianco.
Invece di un tribunale che avrebbe giudicato i colpevoli, come era accaduto per i criminali nazisti al processo di Norimberga, l’arcivescovo Desmond Tutu propose di istituire una commissione che avrebbe offerto il perdono della nazione a tutti coloro che avessero accettato di rivelare i crimini commessi in nome dell’apartheid. Una sfida rivoluzionaria che Nelson Mandela accettò con entusiasmo. «Verità e Riconciliazione»: sarà questo il suo nome. Verità in cambio di riconciliazione. Così il Sudafrica compì il miracolo di uscire dall’apartheid senza il bagno di sangue annunciato da tutti i profeti di sventura. Una transizione pacifica ed esemplare portò il Paese della repressione e dell’ingiustizia alla democrazia, alla libertà e all’uguaglianza. Fu un’impresa senza precedenti nella storia dei conflitti fra gli uomini. E un’eccezionale lezione di umanità offerta all’intero pianeta. L’ex prigioniero della cella 466/64 del penitenziario di Robben Island era ormai al timone per realizzare un secondo miracolo e mantenere così la promessa di edificare una nazione arcobaleno, capace di «far nascere un mondo nuovo».
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IL LIBRO
Verso la libertà
Dopo la Parigi della guerra, dopo la nascita di Israele, dopo l’indipendenza dell’India, continua il viaggio di Dominique Lapierre tra le grandi epopee di liberazione dei popoli del mondo. Questa volta tocca al Sudafrica; e Un arcobaleno nella notte (Il Saggiatore, pp. 346, euro 17,50), da cui traiamo stralci dell’epilogo, riesce a rintracciare persino nelle tenebre più oscure del regime segregazionista quelle «luci del mondo» che per lo scrittore francese sono costituite dagli uomini e dalle donne che lavorano per gli altri.
Nelson Mandela, 90 anni spesi per i neri e la pace
di Gabriel Bertinetto *
Festeggerà il novantesimo compleanno in famiglia, Nelson Mandela, l’uomo che passerà alla storia per avere guidato il Sudafrica fuori dall’ignominia dell’apartheid. Autorità e giornalisti non avranno accesso oggi alla casa in cui, dopo il ritiro dalla vita politica, «Tata» (papà, il soprannome affettuosamente affibbiatogli dai connazionali) trascorre gran parte del tempo. Nel villaggio natale di Qunu ci saranno solo gli intimi, a cominciare dalla consorte Graca Machel, vedova dell’ex-presidente mozambicano Samora. Nelson l’ha sposata il 18 luglio 1998, e i novant’anni di vita coincidono dunque con il primo decennale delle nozze. L’arcivescovo Desmond Tutu, che è grande amico di entrambi e fa parte della ristretta cerchia degli invitati, li descrive come «una coppia profondamente innamorata, reduci da una perenne luna di miele».
Per Mandela, Graca è la terza moglie. Dopo Evelyn Ntoko Mase che fu al suo fianco fra il 1944 ed il 1955. E dopo Winnie Madikizela, che fu compagna di lotta e di ideali, prima che le loro strade si dividessero anche politicamente, fino alla separazione nel 1992 ed al divorzio nel 1996, dopo ben trentasei anni di matrimonio. Che Nelson aveva peraltro trascorso per buona parte lontano da lei, nel carcere sull’isola di Robben Island, dove era registrato con il numero di matricola «46664». I compagni di prigionia raccontano che bastava guardarlo camminare in cortile durante l’ora d’aria, dritto e pieno di dignità, per sentirsi rincuorati e guardare con fiducia al futuro.
Un leader carismatico, allora come oggi. In lui i concittadini vedono incarnato il Sudafrica che avevano sognato quando finì il regime della discriminazione etnica. Lo amano e rispettano, tanto quanto li deprime il distacco fra le speranze di allora e la realtà di quest’oggi. Un Paese devastato dalla criminalità in aumento, dall’Aids dilagante, da conflitti sociali in cui riaffiora la piaga del razzismo, questa volta non più legato al colore della pelle: neri contro neri, gente del posto contro immigrati in fuga dalla violenza e dalla miseria dello Zimbabwe e di altri Paesi vicini.
«C’è ancora troppa discordia, odio, divisione, conflitto e violenza nel nostro mondo all’inizio del ventunesimo secolo», ha detto Mandela, intervenendo sabato scorso ad un convegno a Johannesburg. Probabilmente aveva in mente anche la situazione in cui versa oggi la sua patria. Quel giorno fu avvicinato dagli abitanti di una baraccopoli, Kliptown, che sorge a due passi dal lussuoso hotel Soweto. A lui consegnarono una lettera piena di riflessioni amare su quelle promesse di un avvenire più roseo per tutti, che un giorno avevano ascoltato dalle sue labbra e che ancora attendono tradursi nei fatti.
Atto d’accusa rivolto non a Mandela, ma a chi, venuto dopo di lui, non si è dimostrato all’altezza del compito. In particolare il bersaglio delle critiche è l’attuale capo di Stato, Thabo Mbeki, che era braccio destro di Mandela nel quinquennio della sua presidenza, dal 1994 al 1999. «Mandela unì la nazione -afferma Barney Mthombothi, direttore del Financial Mail-. Mbeki l’ha divisa. Subentrò a Mandela e pareva un principe, ma s’è tramutato in ranocchio».
L’African National Congress (Anc), la creatura politica di Mandela, il movimento che s’oppose in una prima fase anche con le armi al potere bianco, oggi è spaccato. L’ala guidata da Zuma accusa Mbeki di perseguire una politica economica troppo sbilanciata a favore della borghesia imprenditoriale e di fare poco per alleviare le sofferenze dei lavoratori, mentre l’inflazione galoppa e la disoccupazione registrata dalle statistiche arriva al 23%, ma secondo alcune stime è assai più alta. Purtroppo nemmeno l’immagine di Zuma rifulge di immacolato splendore, viste le pressioni che i suoi fidi stanno esercitando per frenare la magistratura che lo ha incriminato per episodi di corruzione. Entrambi, Zuma e Mbeki, saranno comunque ospiti di Mandela domani nella seconda giornata di festeggiamenti, quando la residenza di Qunu si aprirà alla visita delle autorità e degli antichi compagni di battaglia.
«Un leader che ha l’umiltà e la grazia di un vero aristocratico», definisce Mandela negli auguri di compleanno il suo ex-rivale Frederik de Klerk, ultimo presidente bianco del Sudafrica. Assieme negoziarono la fine dell’apartheid e il passaggio alla democrazia. Assieme furono premiati con il Nobel per la pace nel 1993. Fu proprio con l’abbandono delle armi e la decisione di puntare tutto sul dialogo, che Mandela divenne famoso e conquistò consensi e ammirazione nel mondo intero. Una decisione assolutamente non facile, che riuscì ad imporre a compagni di lotta recalcitranti. Cyril Ramiphosa, che nel 1985, anno della svolta, dirigeva il sindacato dei minatori, racconta che «eravamo in molti nell’Anc a pensare che ci stesse svendendo. Andai a trovarlo e gli chiesi cosa mai stesse combinando. Era davvero un’iniziativa incredibile. Un azzardo». Ma secondo Richard Stengel, che aiutò Mandela a scrivere la sua autobiografia, «negoziare oppure no, per lui era solo una questione di scelta tattica, non di principi. Quello che non mutò mai fu l’obiettivo di rovesciare l’apartheid e instaurare il sistema democratico: un uomo, un voto». In questo senso, aggiunge Stengel, si può definirlo «il più pragmatico degli idealisti».
Quelle coraggiose trattative ebbero un passaggio chiave nella sua scarcerazione, l’11 febbraio del 1990. Quattro anni dopo Nelson stravinse le prime elezioni presidenziali in cui i neri ebbero diritto di voto e annunciò la volontà «di costruire una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». E fu davvero il presidente di tutti i sudafricani quello che il 1995 comparve in pubblico indossando la divisa verde-oro della squadra nazionale di rugby, che era composta quasi esclusivamente di bianchi, per celebrare la vittoria in Coppa del mondo.
* l’Unità, Pubblicato il: 18.07.08, Modificato il: 18.07.08 alle ore 12.56