Il nuovo film del regista americano racconta la storia del mitico incontro di rugby del 1995
Si affrontarono gli All Blacks e il Sudafrica multirazziale voluto dal Presidente Nelson Mandela
Parigi, tutti in piedi per il film anti-apartheid
Ovazione per Clint Eastwood e Morgan Freeman
di FRANCESCO MERLO *
PARIGI - Mai in una sala cinematografica avevo visto tutti gli spettatori, ma proprio tutti - 215 - alzarsi in piedi e applaudire un film in modo così caldo e convinto. È successo ieri a Parigi in un cinema del boulevard Saint Germain alla fine di "Invictus" che racconta e celebra la vittoria del Sudafrica nella coppa del mondo di rugby del 1995.
Era l’anno successivo all’elezione di Nelson Mandela alla presidenza della Repubblica.
Ed è stato uno spettacolo più emozionante dello spettacolo perché i parigini sono freddi e cortesi e anche al cinema non si fanno troppo incantare dalle ribalte fatate. Invece ieri sera, dopo un’ora e mezza di epica dello sport coniugata con la democrazia e con l’antirazzismo, non sembrava più di essere al cinema ma a teatro o meglio ancora allo stadio Ellis Park di Johannesburg dove appunto i ragazzi verde oro, gli Springbocks, battevano gli avversari, i leggendari All Blacks della Nuova Zelanda, ma soprattutto battevano i pronostici e se stessi, l’apartheid, l’odio razziale, i pregiudizi che sino ad allora, sotto la commedia del tifo civile ed elegante, avevano incarnato e simboleggiato.
Il film racconta la geniale intuizione di Mandela: appropriandosi di quei colori e di quel simbolo sportivo che il popolo nero, ferocemente umiliato, voleva comprensibilmente abolire, riuscì a trasformare la squadra nell’officina democratica di un intero Paese, la squadra dei pingui poliziotti bianchi e dei malnutriti ladruncoli neri, del ricco spaventato e del povero rancoroso. Mandela capì che lo sport poteva accendere la passione unitaria, diventare uno strumento formidabile di integrazione, il laboratorio di un’idea di Paese, lo scrigno magico di nuovi valori condivisi, la banca delle risorse del sudafricano del futuro.
Il film è uno schiaffo per un italiano che è abituato alle Curve Nord e alle Curve Sud dove l’odio è permesso e tollerato, luoghi a statuto speciale dove si picchia e si lincia, si insulta e ci si divide e senza neppure la lealtà dello scontro, nascosti e protetti dalla folla, che è la dimensione del fuorilegge, l’anomia e l’impunità. Anche in Sudafrica, prima di Mandela, lo stadio era diventato la nicchia del nativismo e del razzismo con i neri che tifavano sempre e comunque contro gli Springbocks, sgolandosi e dimenandosi e sputando sui colori del proprio paese. Mandela rovescia il mito che era stato costruito per opprimere, scova il valore che cova in ogni sport ed espugna la cittadella inespugnabile.
Ma c’è di più in quel lungo applauso del pubblico parigino. C’è l’ovazione alla pulizia di un cinema che racconta i sapori forti, la morte crudele e il più violento dei conflitti etnici e razziali, con le allusioni e con gli accenni discreti. Niente brutte parole, niente sangue, niente bestemmie. C’è un Mandela poeta, il magnifico Morgan Freeman, che lascia una prigione dove penetrava una luce divina, e cerca di imporre al proprio disgraziato e bellissimo paese la cultura del pudore. Mandela amplifica sino all’epopea i colori tenui delle buone maniere e la dolcezza delle mezze tinte, è il massimo della gentilezza contro il massimo della ferocia.
Il film è prodotto e diretto da Clint Eastwood, che nella vecchiaia è diventato un artista leggero come una piuma, senza più la voglia di ingombrare del "biondo" di Sergio Leone o del Dirty Harry che dice "come on punk, make my day" "fallo brutto schifoso e rendi allegra la mia giornata", un Eastwood che quasi domanda perdono per gli eccessi compiuti nella presunzione degli anni del vigore. Ha fatto dei suoi 79 anni l’età della perfezione artistica, senza sotterfugi, senza furbizie di mestierante. E sui marciapiedi degli Champes Elysees Parigi gli dedica un’affollatissima mostra di fotografie. C’è Clint con la barba e con il sigaro, con la pistola, con il fucile, con la macchina da presa, il titolo è "Cinema in libertà", e c’è anche una foto con De Sica ("Le streghe" 1967).
Ma il film è soprattutto un film sullo sport che sarebbe piaciuto a Gianni Brera che lo usava come pretesto per raccontare i popoli e la politica, lo sport che rivelava la fantasia o la forza o la presunzione, insomma il carattere dei paesi. Ma sarebbe piaciuto anche a Candido Cannavò perché mite e cattolico credeva che tutti possono diventare campioni, lo sport come generosità e lealtà, la democrazia come gara.
Gli Springbocks partono perdenti e vincono tutte le partite. Nel film non c’è un intreccio, non c’è sesso, non c’è pulp fiction, la trama è la costruzione di queste vittorie, il film stesso è una lunga partita e Mandela è l’allenatore, un pasticciere che mette assieme i sapori e i colori, gli investimenti dell’America e dell’Arabia saudita con le mete e i calci piazzati di François Pienaar, un bellissimo Matt Damon attozzato e angoloso come i campionissimi del rugby, elegante e timido come Jonny Wilkinson. Mandela è un leader che insegna al capitano della squadra a rischiare la propria leadership, a praticare lo sport insegnando la vita e viceversa. Lo sport continua e anticipa la vita, è la vita combattuta con altre armi. E ogni Paese si scopre alla stadio. L’Italia che spara a Rosarno è la stessa che nelle curve insulta Balotelli, l’italiano nero che aspetta il suo Mandela e il suo Eastwood.
© la Repubblica, 14 gennaio 2010
Il titolo del film è tratto da una poesia del poeta inglese William Ernest Henley i cui versi aprono prorpio il trailer del film.
INVICTUS - William Henley *
OUT of the night that covers me,
Black as the Pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.
* WILLIAM E. HENLEY (1849-1903)
TRADUZIONE ITALIANA *
Invictus
William Henley
Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio quali che siano gli dei
per la mia inconquistabile anima.
Nella morsa delle circostanze,
non mi sono tirato indietro, ne’ ho pianto.
Sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime appare minaccioso ma l’orrore delle ombre,
e anche la minaccia degli anni non mi trova,
e non mi troverà spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta...
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima.
* Gianluca Colletta (06-11-2009)
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)
E il Sole disse al vento: chi di noi è più forte?
In un breve apologo che risponde a questa domanda si riassume la leadership per Mandela: un addestramento virtuoso e paziente contro le tentazioni della rabbia e della vendetta
di Martha C. Nussbaum (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)
Negli scritti di Mandela non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (...) La rabbia porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono, alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa storia). (...)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla “posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle buone relazioni con le guardie - spesso inquinate dagli attriti di classe - era «il rispetto, il semplice rispetto».
Quando il suo avvocato giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome. L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che erano».
La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia: egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori. Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché si era fatto da sé. Era indipendente e studiava». Quindi non solo la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta, ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben più utili. (...)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò.
La scelta di organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto rapporto anche con il concetto africano di ubuntu. (...) Egli richiama ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina l’orientamento al futuro. (...) In generale Mandela non sembra avere mai pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (...)
Gli atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla prova con un viaggiatore... una persona avvolta in una coperta. Il più forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere, dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi... fino a quando l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più, perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela, naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è che il suo metodo funziona. (...)
Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci. Suggeriva di fare così anche ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più proficuamente, con strategie non rabbiose.
Molto più tardi, nei primi tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un momento decisivo per tutti noi [...] Dobbiamo usare il dolore, il lutto e l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo [...] rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un profondo dolore per la sua morte.
La rivolta di Soweto *
Soweto è una township alla periferia di Johannesburg, in Sudafrica. Costruita dopo la fine della seconda guerra mondiale, negli anni settanta ci vivevano segregati i neri e gli indiani, arrivati in città per lavorare nelle miniere d’oro. Il 16 giugno 1976 cominciò qui una protesta che divenne fondamentale nella lotta contro l’apartheid.
Un decreto governativo entrato in vigore nel 1975 obbligava tutte le scuole nere sudafricane a utilizzare come lingue per l’insegnamento l’inglese e afrikaans, una lingua germanica derivata principalmente dall’olandese. Per i neri, però, l’afrikaans era “la lingua degli oppressori”. In protesta per questa decisione governativa organizzarono una serie di scioperi e, il 16 giugno 1976, 20mila studenti provenienti da tutte le scuole nere di Johannesburg marciarono verso lo stadio. Durante la manifestazione intervenne la polizia e cominciarono le violenze.
Hector Pieterson, un bambino di 12 anni, morì durante gli scontri. La foto dello studente che lo porta in braccio fece il giro del mondo. Le violenze continuarono fino all’aprile del 1977. Una commissione d’inchiesta anni dopo accertò che morirono 575 persone, di cui 451 uccise dalla polizia. Altre fonti sostengono invece che il numero delle vittime sia stato molto più alto.
In seguito alle proteste del 16 giugno, il governo sudafricano decise che le scuole potevano usare la lingua di insegnamento che preferivano.
Sulla lunga strada per la libertà
Una trilogia per Mandela
di Carla Moreni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22 maggio 2016)
È difficile raccontare la vita di un uomo in un libro, in un film. Figuriamoci in un’opera o addirittura in un musical. La sfida sembra impossibile. Eppure Mandela Trilogy coglie nel segno: nella forma ibridata del musical, che però suona anche come opera; con molti richiami al Novecento di Britten, molti inserti di jazz, ma anche molti sguardi al repertorio sudafricano. Il ritratto che ne esce è insieme storia e teatro. Con tanti pugni chiusi. Teso sulla velocità di cambi continui di scena e situazione, contagioso per l’esuberanza fisica del canto e della recitazione.
Si parte con un Prologo, come nella più classica tradizione. Vista dall’alto, siamo nella cella di un prigioniero, con branda, cuscino, orinatoio: archetipo di claustrofobica reclusione. Il prigioniero in questo momento è fuori dalla cella. Siamo nel 1976 e Nelson Mandela ha già scontato 14 anni di prigione. Su di lui pesa una condanna all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento, per le battaglie contro la segregazione razziale e l’incitazione alla lotta armata. Lo vediamo mentre ha di fronte un bianco in divisa, che gli offre con poche parole scandite la libertà. Ma a condizione che accetti di trasferirsi nel Transkei, uno dei ghetti creati dal governo sudafricano per i neri.
Mandela rifiuta. Sorridendo, cantando pacatamente. Non potrebbe essere altrimenti la sua lotta per la libertà, quel cammino sulla lunga strada per la libertà al quale è intitolato Ravenna Festival. Coraggiosamente, in una città fortemente caratterizzata dalla presenza di comunità di colore e in un teatro a palchetti come l’Alighieri, si rompono gli schemi.
Si racconta una storia passata, che tuttavia nella forma immediata dell’impianto di Mandela Trilogy non potrà che riflettersi sul presente. Colorata, giocata tutta sui corpi, semplice ma possente nei gesti di gruppo, l’opera viene da Cape Town. È una produzione nata il 18 giugno 2012, giorno del novantaquattresimo compleanno del più famoso presidente del Sudafrica, dal 1994 al 1999: primo presidente eletto dopo l’apartheid e premio Nobel per la pace nel 1993. Alle spalle quei 27 anni di prigione, interrotti nel 1990 per una pressione contro la sua condanna a vita che aveva preso ormai dimensioni mondiali.
Un coro etnico, parlato, sulle sonorità e gli accenti caratteristici della lingua xhosa, la lingua madre di Mandela, fa da sfondo al suo rifiuto ad accettare una libertà individuale e condizionata. Che avrebbe solo il sapore di una resa. Madiba non accetta. Non viene liberato. Non può sottostare alla regola del bantustan, del ghetto, del territorio forzato.
Il racconto della sua storia, scritto su libretto di Michael Williams, anche regista, e con la collaborazione di due compositori, Péter Louis van Dijk, per il primo e terzo atto, e Mike Campbell, per il secondo, diventa una Trilogy. Scandita in tre atti, in ciascuno presenta un Mandela diverso: prima quello giovane, il ragazzo cresciuto tra i riti iniziatici e i combattimenti della madre Africa, nel paese natale di Mvezo, un piccolo villaggio incontaminato; poi quello disinvolto e seduttivo dei cinema e dei jazz club di Sophiatown, la Harlem sudafricana, dove Mandela svetta, tra echi di jazz e canzoni di Miriam Makeba, nello storico Jig Club, prima delle incursioni della polizia; e infine il Mandela della prigione, delle tre diverse carceri di Robben Island, Pollsmoor, Victor Verster.
Le celle sono linde, forse troppo per una ricostruzione realistica. Le divise ben stirate. La piccola biblioteca ha i libri in ordine: Mandela legge tenacemente, tra compagni mansueti, interrogativi, pacati. Non vuole scaldare gli animi, quest’opera-musical, né rilanciare sguardi retrospettivi che scatenino ribellioni sul vissuto. E questo si spiega pensando alla matrice originaria, di Mandela Trilogy: uno spettacolo di canzoni, al debutto a Cape Town il 17 luglio 2010, intitolato African Songbook.
Anche qui, pur nello stile diverso dei due compositori, van Dijk e Campbell, uno più vicino a Gershwin e alla canzone americana, al pianoforte, l’altro più sperimentale, corale e con citazioni evidenti, ad affiorare in primo piano rimane soprattutto un elemento: la difesa di una cultura identitaria, di tradizione. Attraverso la musica canta e ritma la volontà di libertà. Non di omologazione. La dice la richiesta di attenzione rispettosa, magnetica e sensuale nelle danze arcaiche delle donne di Mvezo, dagli enormi copricapi colorati. Viene echeggiata nei Songs di Dolly Rathebe, la fantastica giovane e procace star del Jig Club, dove Mandela balla e canta in elegantissimo gessato.
Con un triplice protagonista, la Trilogia offre anche una triplice scansione cronologica. Nel primo atto siamo tra il 1934 e il 1941 (dai 16 ai 23 anni del protagonista) il maggiormente caratterizzato sotto il profilo etnico, con abbondante uso della lingua xhosa; nel secondo si passa al 1955, con un eclatante salto dal folklore della campagna africana alla libertà felice della città, tra cinema e jazz-club. È fulmineo il rapido annientamento di queste isole felici, cancellate dalla violenza delle leggi sull’apartheid. Nel terzo atto si copre invece la lunga arcata che va dal 1960, coi primi processi e le prigione, al 1994 dell’elezione alla presidenza del Sudafrica.
Regia e libretto, efficacissimi, si sposano con due ore di musica continuamente variata, polistilistica, che comprende un grande uso di percussioni, ma anche un moderno declamato, per il grande discorso di insediamento di Madiba, presidente eletto il 10 maggio 1994. La produzione originale dell’Opera di Cape Town, già festeggiata in Inghilterra e Germania, è al debutto in Italia. Solisti e coro sono sudafricani, ma in buca batte il cuore dell’Orchestra Cherubini.
«Così feci arrestare quel comunista di Nelson Mandela»
Sudafrica. Le rivelazioni di un ex agente Cia. Donald Rickard indicò ai colleghi di Pretoria dove trovare il simbolo della lotta contro il regime dell’apartheid
di Rita Plantera (il manifesto, 17.05.2016) *
Nelson Mandela, il «comunista più pericoloso al mondo al di fuori dell’Unione Sovietica», uno che «andava fermato e io l’ho fermato» prima di dar vita a «una rivoluzione che avrebbe aperto la strada» a un «intervento russo»: parola di spia. Dell’ex spia della Cia Donald Rickard, operativo a Durban - Sudafrica - come agente dei servizi segreti americani fino al 1978 e in veste di vice-console americano all’epoca della presidenza Kennedy.
A fornire l’occasione per riaprire la querelle sul credo comunista del leader sudafricano antiapartheid e rivelare la longa manus dell’intelligence americana durante gli anni vergognosi del regime segregazionista sudafricano, è stato un film presentato in questi giorni al festival di Cannes - Mandela’s Gun - sul periodo precedente l’arresto di Nelson Mandela nel 1962.
Intervistato dal regista britannico John Irvin poche settimane prima di morire, Rickard avrebbe confermato l’ipotesi che alcuni quotidiani avevano già fatto trapelare nei decenni scorsi: e cioè che dietro la cattura di Mandela ci fosse una soffiata della Cia all’intelligence sudafricana. Nello specifico, le rivelazioni dell’agente Rickard sul posto e l’ora in cui la polizia avrebbe potuto intercettare Mandela, allora alla testa dell’ala armata dell’African National Congress (Anc), l’Umkhonto we Sizwe (Spear of the Nation, una sorta di joint venture tra l’Anc e il Communist Party), formato da non più di qualche centinaia di membri con accesso a tutte le risorse del Communist Party e alle sue connessioni internazionali.
Le rivelazioni di John Irvin affidate al Sunday Times hanno dato il via - come c’era da aspettarsi - a un carosello mediatico in tutte le lingue. In realtà la notizia non è tanto il fatto che Mandela 54 anni fa sia stato arrestato grazie alla cooperazione in auge tra le intelligence dei due Paesi, quanto che ad ammetterlo sia stato proprio un ex-agente della Cia, esattamente quell’agente che praticamente passò l’informazione ai colleghi sudafricani diventando l’artefice di quella cattura. E sulle cui dichiarazioni finora la Cia non si è ancora espressa.
Nell’agosto del 1962 Nelson Mandela fu catturato dalla polizia mentre viaggiava in macchina tra Durban e Johannesburg. Sui suoi legami con l’Umkhonto e sulla campagna di sabotaggio contro il governo sudafricano dell’apartheid, le autorità che gli davano la caccia potevano vantare non più che sospetti.
E infatti la Corte poté solo incriminarlo di incitazione dei lavoratori africani a scioperare illegalmente e di aver lasciato il paese nei mesi precedenti senza un valido documento di viaggio e condannarlo a 5 anni di reclusione. Verrà accusato di sabotaggio e condannato al carcere a vita solo successivamente al raid presso la Lilliesleaf Farm, quartier generale dell’Umkhonto we Sizwe per la lotta contro il regime segregazionista.
Come raccontava già nel 1986 dalle colonne del New York Times Andrew Cockburn, «il suo arresto è avvenuto a seguito di una soffiata della Central Intelligence Agency alle autorità». Citando quanto riportato dai locali The Johannesburg Star e CBS News, Cockburn raccontava che «Mandela era in viaggio per incontrare un ufficiale della Cia che stava lavorando per il Consolato Usa a Durban, la capitale del Natal. Invece di partecipare alla riunione, l’uomo della Cia disse alla polizia esattamente dove e quando poteva essere trovato l’uomo più braccato del Sudafrica». Tutto terribilmente in linea col fatto che «alla fine degli anni ‘60, la Cia forniva consulenza e assistenza nella creazione del famigerato Bureau of State Security».
Quanto alla fede comunista di Mandela, questi non ne ha mai fatto alcuna ammissione. A rivelarla per la prima volta sono stati invece il South African Communist Party (Sacp) e l’African National Congress (Anc) nel dicembre del 2013 il giorno dopo la sua morte: «Al suo arresto nell’agosto del 1962, Nelson Mandela non era solo un membro dell’allora clandestino South African Communist Party, ma era anche un membro del Comitato Centrale del Sacp».
La meditazione
di Marianne Williamson *
La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: " Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? "
In realtà chi sei tu per Non esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Edizioni Ripostes, Roma-salerno 2001, p. 6.
*
dal libro "Ritorno all’amore" di Marianne Williamson,
PensieriParole
Sudafrica, l’ultimo addio a «Madiba»
I funerali nel villaggio natale di Qunu
La sepoltura del leader della lotta contro l’apartheid nel cimitero di famiglia
Ai funerali hanno assistito 4.500 persone. In prima fila la vedova Graca Macel *
Nelson Mandela è stato sepolto nel cimitero di famiglia, nel villaggio natale di Qunu. L’inumazione è stata salutata da un volo della pattuglia acrobatica sudafricana. Prima della sepoltura la cerimonia solenne. La bara, avvolta nella bandiera sudafricana, è stata accolta nel luogo della celebrazione dal canto di un coro accompagnato da un’orchestra. Il coro ha intonato un inno religioso in lingua xhosa, l’etnia a cui Mandela apparteneva. Ai funerali, che si sono svolti su una terra di proprietà dei Mandela, hanno assistito 4.500 persone. In prima fila la vedova Graca Macel (vestita di nero e col tradizionale turbante), i familiari, l’attuale presidente Jacob Zuma e dignitari sudafricani e stranieri.
All’ultimo minuto, Desmond Tutu ha cambiato idea e ha partecipato alla cerimonia per Nelson Mandela, il suo amico e compagno di lotta. Il presidente sudafricano Jacob Zuma, invece, è stato nuovamente fischiato oggi quando ha raggiunto il leggio per il suo intervento. Zuma era stato fischiato anche alla commemorazione di Madiba nel Soccer City Stadium di Johannesburg. Egli ha comunque poi intonato l’inno con i presenti e ha infine cominciato a parlare accolto ancora per qualche secondo da un misto di applausi e contestazioni.
«Non lo consideravo un amico. Per me era un fratello maggiore». Così Ahmed Kathrada, 84 anni, uno dei vecchi compagni di Nelson Mandela nella lotta contro l’apartheid e nella detenzione a Robben Island, ha ricordato commosso Madiba alla cerimonia funebre in corso nel villaggio di Qunu. Kathrada è stato uno dei tanti ospiti che si è alternato sul palco, sotto la gigantografia di Mandela, dinanzi alla quale brillavano 95 candele, una per ogni anno d’età. «Quando Walter Sisulu (un pilastro della lotta anti-apartheid, scomparso nel 2003, ndr) è morto, ho perso un padre. Ora ho perso un fratello. La mia vita sta affrontando un vuoto e non so più a chi rivolgermi», ha proseguito Kathrada nel suo intervento davanti a 4.500 invitati alla cerimonia.
Con voce spesso rotta dall’emozione, Kathrada ha raccontato anche di come si è commosso durante una delle ultime visite in ospedale a Madiba. «Ho visto un uomo impotente e ridotto all’ombra di se stesso e l’inevitabile è accaduto», ha soggiunto con voce commossa. Durante questa visita, «sono stato sopraffatto dall’emozione e dalla tristezza, e ho pianto. Ha tenuto la mia mano, è stato straziante, non ho retto all’emozione».
«Automaticamente, la mia mente è tornata all’immagine dell’uomo grande e forte che ho conosciuto 67 anni fa, il pugile, il prigioniero che ha gestito con facilità la pala e il piccone, quando noi altri detenuti noi non eravamo in grado di farlo». ««Addio mio caro fratello, mio mentore, mio leader», ha concluso Kathrada, a lungo applaudito. A ricordare Madiba è stato anche Kenneth Kaunda, l’ex presidente dello Zambia, che ha voluto sottolineare la grande eredità lasciata da Mandela.
* La Stampa, 15/12/2013
La lezione di speranza di Madiba
di Leonardo Boff *
Nelson Mandela, con la sua morte, si è immerso nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più: si è trasformato in un archetipo universale, quello della vittima di ingiustizia che non serba rancore, che sa perdonare, riconciliare poli antagonisti e trasmetterci l’incrollabile speranza che esiste ancora una via di salvezza per l’essere umano. Dopo 27 anni di reclusione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, ha realizzato la grande sfida di trasformare una società strutturata in base alla suprema ingiustizia dell’apartheid - che disumanizzava le grandi maggioranze nere del Paese negando loro i diritti della persona - in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera.
Ed è riuscito nel compito scegliendo il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione. Perdonare non significa dimenticare. Le ferite sono lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e determinino il corso della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, è cambiare pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, quelle di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale solo quando c’è l’ammissione completa dei crimini da parte dei responsabili e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale di fronte a tutta la società.
Una soluzione, sicuramente originalissima, viene da un concetto estraneo alla nostra cultura individualista: l’ubuntu, che vuole dire “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Senza un legame permanente di tutti con tutti, la società è, come lo è la nostra, a rischio di lacerazioni e di conflitti interminabili.
Dovrebbe comparire nei manuali scolastici di tutto il mondo la seguente umanissima affermazione di Mandela: «Ho lottato contro il dominio dei bianchi e ho lottato contro il dominio dei neri. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutte le persone possano vivere unite e in armonia e abbiano pari opportunità. Questo è il mio ideale e vorrei vivere per realizzarlo. Ed è un ideale per il quale, se fosse necessario, sono disposto a morire».
Perché la vita e la saga di Mandela costituiscono una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché ci stiamo avvicinando al nucleo centrale di una congiunzione di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Ci troviamo nel pieno della sesta grande estinzione di massa. Cosmologi come Brian Swimme e biologi come Edward Wilson ci avvertono che, se lasciamo le cose come stanno, intorno al 2030 arriveremo al culmine di questo processo devastante. Vuol dire che la convinzione persistente, nell’intero mondo come in Brasile, che la crescita economica materiale ci porterà sviluppo sociale, culturale e spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.
Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, ex consulente del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, il quale scrive, al termine del suo Lo scontro delle civiltà (1997): «La legge e l’ordine sono il primo requisito della civiltà; in buona parte del mondo sembra stiano evaporando; su scala mondiale, sembra che per molti versi la civiltà stia cedendo alla barbarie, creando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, un’Età delle Tenebre mondiale che si abbatte sull’umanità».
Aggiungo l’opinione del noto filosofo e politologo Norberto Bobbio che, come Mandela, credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per ridurre il problema della violenza fra gli Stati e per garantire una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista dichiarò: «Non saprei dire come sarà il Terzo millennio. Le mie certezze vengono meno ed è solo un enorme punto interrogativo ad agitarsi nella mia testa: sarà il millennio della guerra di sterminio o quello della concordia tra gli esseri umani? Non sono nelle condizioni di rispondere».
Di fronte a questi scenari bui, Mandela di sicuro risponderebbe, basandosi sulla sua esperienza politica, che, sì, è possibile che l’essere umano si riconcili con se stesso, che sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri un nuovo modo di stare insieme nella stessa Casa.
Vale la pena riportare le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu che coordinò il processo di Verità e Riconciliazione: «Abbiamo affrontato la bestia del passato a viso aperto, abbiamo chiesto e ricevuto perdono; ora voltiamo pagina: non per dimenticare questo passato, ma per non lasciare che ci imprigioni per sempre. Cerchiamo di avanzare verso il futuro glorioso di una nuova società nella quale le persone valgano non in ragione di dettagli biologici o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio».
Questa è la lezione di speranza che ci lascia Mandela: potremo vivere se, senza fare alcuna discriminazione, realizzeremo l’ubuntu.
* Adista Documenti n. 45 del 21/12/2013
La straordinaria avventura di Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace
Dal villaggio nel Traskei alla militanza nell’Anc, giovane avvocato e poi militante della lotta armata. Gli amori, le mogli, la tragedia dei figli strappati dall’Aids. La lunga prigionia che lo rafforza al punto da diventare la leva che scardina l’apartheid. Gli anni della gloria, dal Nobel alla presidenza. Il nuovo impegno nella lotta al virus e la scelta di ritirarsi dalla scena pubblica, che fino all’ultimo non ha appannato la sua popolarità universale. 95 anni vissuti dalla parte della libertà
di DANIELE MASTROGIACOMO (la Repubblica, 05 dicembre 2013)
PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all’ergastolo, rinchiuso per 27 anni in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro l’apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c’è stato un altro uomo o un’altra donna che hanno speso gran parte della vita per sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore l’intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di carcere durissimo nell’isola-prigione di Robben Island.
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell’importanza della scuola e dell’educazione.
E’ convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all’epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell’apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all’African national congress (Anc). E’ molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell’Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell’Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell’Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E’ diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l’inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l’assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell’Anc con l’accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell’apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L’Aids, che all’epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E’ un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all’ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell’Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l’esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d’uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E’ il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L’Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E’ accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all’ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l’invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E’ trasferito nell’isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l’apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall’atteggiamento di quest’uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell’embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell’inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all’11 febbraio del 1990. E’ una data storica, una domenica: l’ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un’immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l’ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l’uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l’uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all’ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell’Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E’ il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all’apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l’unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell’India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell’Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un’icona immortale. E’ un uomo. Conserva la saggezza, l’equilibrio, la disciplina, la tenacia, l’ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E’ molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l’energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un’ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia.
Il sorriso del “nonno” di tutti capace di parlare anche ai nemici
Personalità accattivante, mito non scalfito dalla storia e nessun desiderio di vendetta: «Un angelo mi dirà: sei tu Madiba? Scendi ai cancelli infuocati»
di Gianni Riotta (La Stampa, 06/12/2013)
L’ex presidente sudafricano Nelson Mandela amava raccontare agli amici questa storiella: «Quando morirò, mi presenterò alle Porte del Paradiso e l’Angelo mi chiederà “Lei chi è?”. Io risponderò usando il mio nome tribale, “Madiba”. “E da dove viene?” insisterà l’Angelo, ed io “Dal Sudafrica”. L’Angelo mi guarderà “Ah, lei è quel Madiba. Credo debba accomodarsi ai Cancelli Infuocati, là sotto!”».
E qui Nelson Mandela scoppiava nella sua accattivante risata, che in galera aveva confortato i compagni per 27 anni e poi affascinato leader politici, star dello spettacolo e dello sport, intellettuali, la giuria del Nobel e milioni di persone semplici. Autocondannandosi per scherzo all’Inferno, Mandela provava a schermarsi dall’icona di profeta della libertà e della giustizia più amato al mondo, e così facendo, con grazia, aumentava solo la sua influenza. Il mito del Che Guevara è offuscato dalla corruzione del regime cubano e dalle rivelazioni sulla sua durezza personale nella biografia di Anderson. John Kennedy resta amato, ma ha subito mille pesanti gossip sulla vita privata, il fratello Bob ha la saggezza di Mandela, ma la morte tragica nel 1968 gli ha impedito di lavorare davvero nella Storia. Ai leader comunisti asiatici, Ho Chi Minh in Vietnam e Mao in Cina, i successi contro il colonialismo e la popolarità nel 1968 degli studenti non bastano a cancellare la repressione feroce contro i propri cittadini e il disprezzo della democrazia.
Mandela, nato Rolihlahla Dalibhunga, ha avuto la grazia di maturare in un politico capace di parlare a chiunque, perché persuaso di non detenere la verità e davvero umano, cordiale. Nelle sue memorie, tradotte in italiano da Feltrinelli, Mandela ricorda il carcere duro di Robben Island, quando le guardie costringevano i detenuti neri a indossare i pantaloncini per disprezzo, a lavori umili e faticosi, chiamandoli con il nomignolo razzista «Kaffir boy», oggi fuorilegge in Sud Africa. Come il patriota italiano Silvio Pellico nel suo libro «Le mie prigioni» riconosce tra le sofferenze che il carceriere austriaco Schiller aveva il carattere di un uomo buono, così Mandela, nell’odio feroce dell’apartheid che divideva il suo paese, impara osservando i secondini che non tutti i bianchi sono «diavoli». Capisce, da leader politico geniale, che l’odio, il rancore, il risentimento perenne non porteranno che all’oppressione infinita dei neri e, alla caduta del regime Afrikaner, alla guerra civile e alla dittatura, tra massacri.
La qualità migliore di un leader è saper maturare, guardare non solo alle proprie idee e ai propri militanti, ma alle ragioni, i sentimenti, la cultura degli avversari. Un percorso difficilissimo in condizioni normali, ma quasi impossibile nel Sudafrica con i militanti neri uccisi, milioni di cittadini in condizioni di povertà, il disprezzo del razzismo. Quando va a studiare legge all’Università, Mandela siede accanto a uno studente bianco, che ricorda «per le orecchie a sventola». Quello, sdegnato, si alza subito per non avere compagno di banco un «coloured» e si allontana. Mezzo secolo dopo, quando gli ex allievi tengono una riunione celebrativa, il presidente Mandela fa cercare il ragazzo dalle orecchie a sventola, ma è morto. «Mi spiace - commenta Mandela - gli avrei chiesto della sua vita, gli avrei stretto la mano e assicurato che non gli serbavo rancore».
Né le prove terribili della politica, né le angosce private, i divorzi, gli adulteri della moglie, la morte precoce dei figli in incidenti o per l’Aids, hanno alterato la «buona volontà» di Nelson Mandela e il suo sorriso, il cercare l’intesa, il dialogo anche nelle feroci guerre civili della sua adorata Africa che cercava di conciliare. Il mondo lo ha adottato come «nonno» di tutti riconoscendo questa qualità. È facile ora dimenticare, nel tripudio dei riconoscimenti unanimi, che Nelson Mandela lasciò il carcere solo nel 1990, che a lungo - negli anni della Guerra Fredda quando il Sud Africa anticomunista che sorvegliava le rotte di due oceani era roccaforte importante - l’Occidente chiuse un occhio sulla tragedia dell’apartheid, e che il business ascoltò distratto le voci che chiedevano «divest», non finanziare o fare affari con Pretoria. Le prime pagine di tanti giornali, fino alla fine degli Anni Ottanta, testimoniano malinconiche questa ipocrisia.
Mandela ha chiesto di essere sepolto nell’ancestrale Qunu, area orientale cara alla sua famiglia: «Là sono stato un bambino felice, prendevo passeri con la fionda, raccoglievo miele selvatico, frutta e ortaggi, bevevo il latte caldo appena munto, nuotavo nei torrenti gelati e andavo a pescare con una lenza di filo di ferro». Il patriarca non ha mai perduto il sorriso di quel bambino, né nella sconfitta, né nella vittoria, né nella cella umida dove contrasse la tubercolosi, né nei palazzi del potere che lo ricevettero in gloria. Il miracolo dell’umanità di Nelson Mandela ha dunque parlato a ciascuno di noi, e per questo lo abbiamo amato e la sua icona ha brillato nella storia, come un sorriso di bimbo.
Sudafrica: la famiglia bianca che provò la vita black
di Paolo G. Brera (la Repubblica, 17 Settembre 2013)
Un giorno gli Hewitt, proprietari di una bella casa nel verde di East Pretoria, hanno detto addio al loro mondo di certezze e sicurezza, di comodi sofà e ronde di vigilantes, e si sono trasferiti dieci chilometri e un altro pianeta più in là: alla porta accanto della loro donna delle pulizie, nello slum dei neri di Mamelodi , un villaggio di baracche affogato dalla malavita e dai pidocchi, dall’Aids e dalla droga. Lo hanno fatto per un esperimento di «empatia sociale » durato un mese, nato in sordina e finito sotto i riflettori di mezzo mondo, in un mare di polemiche.
Insieme a Julia e Jessica, i loro angioletti biondi di due e quattro anni, Julian e Ena volevano provare sulla loro pelle di sudafricani bianchi della middle class come fanno milioni di concittadini neri a sopravvivere in una stamberga di lamiera di 9 metri quadrati senza energia elettrica né acqua corrente, con una latrina maleodorante in comune con venti famiglie e un fornelletto a paraffina per cucinare qualche zuppa. «Sai che c’è? Spero che il fornelletto si rovesci e che ci bruciate vivi, nella baracca. Addio», li ha demoliti su twitter una blogger nera,@keratilwe.
Ma il loro esperimento senza apparenti doppi fini - niente libri in arrivo né programmi tv - ha diviso il Paese, tra lodi per il «coraggio» e accuse di «pornografia della miseria»; tra gli abbracci dei vicini di bicocca e le critiche feroci piovute sui social network e negli editoriali: «Hanno cercato e accettato simpatia e lodi per i disagi che altri subiscono quotidianamente senza nulla in cambio», li accusa lo scrittore Osiame Molefe dalle pagine del New York Times, uno dei quotidiani internazionali ad aver ripreso una storia così insolita. Loro si difendono con passione, attraverso il blog mamelodiforamonth. co.za che hanno aperto per raccontare la loro avventura.
«Ci hanno accusato di aver preso in giro la povertà, ma non è così. Come tanta gente nel nostro Paese vivevamo in una bolla. E abbiamo deciso di uscirne ». Dalla loro villetta si sono portati dietro solo dieci dollari al giorno - la stessa somma con cui campano ogni giorno milioni di neri nelle township - e un catino di vestiti, qualche materasso da stendere per terra e poche coperte, troppo poche per le rigide notti agostane dell’inverno di Pretoria, a 1350 metri di altitudine sull’altopiano del Transvaal. Si sono presi la febbre, hanno perso 5 chili a testa e hanno scoperto quanto sia difficile e costoso - il 47% del budget - andare al lavoro con autobus e treni. E «quanto mi è mancata la doccia... una pentola d’acqua calda e un secchio per lavarsi la testa è troppo, per me. Il secchio poi lo devi riusare per i piatti e i vestiti, ci vorrebbe un’ora e mezza per scaldare altra acqua al fornelletto», racconta Ena. Hanno vissuto senza sconti, ma per un mese soltanto: poi loro sono tornati a casa, gli altri no.
Amici e parenti li avevano implorati almeno di lasciare a casa le bimbe. Troppo pericoloso, nel Sudafrica che vent’anni dopo l’apartheid continua a camminare in bilico su un’integrazione difficile e dolorosa. A Pretoria come nel resto del paese, i bianchi si barricano in quartieri protetti da alte mura, con l’incubo perenne di essere rapinati o uccisi da un nero dello slum. Ma gli Hewitt hanno scoperto che c’è un altro Sudafrica: «Non potevamo fare 50 metri senza che ci salutassero e ci fermassero per fare due chiacchiere. Una famiglia nera in un sobborgo bianco verrebbe accolta allo stesso modo?».
Il presidente Usa rende omaggio all’uomo che liberò i neri dalla segregazione
Il mio maestro Mandela
Mentre il futuro presidente del Sudafrica era in prigione un giovane studente americano incominciava a fare politica Il passaggio di testimone nella nuova biografia del leader anti-apartheid
Uno era il prigioniero più famoso del mondo, leader della lotta all’apartheid, futuro presidente del Sudafrica L’altro uno studente universitario che scopriva la politica, futuro presidente degli Stati Uniti. Ora l’ex allievo rende omaggio al maestro nella nuova biografia dell’uomo che liberò i neri dalla segregazione. Ne anticipiamo un brano
di Barack Obama (la Repubblica, 10.10.2010)
Come tanti altri al mondo, ho conosciuto Nelson Mandela da lontano, quando era imprigionato a Robben Island. Per molti di noi lui era più di un uomo: era un simbolo della lotta per la giustizia, l’uguaglianza e la dignità in Sudafrica e in tutto il pianeta. Il suo sacrificio era così grande da incitare ovunque le persone a fare tutto ciò che era in loro potere per il progresso dell’umanità. Nel più modesto dei modi, sono stato uno di coloro che hanno cercato di rispondere al suo appello. Ho cominciato a interessarmi di politica negli anni del college, unendomi alla campagna di disinvestimento e per la fine dell’apartheid in Sudafrica. Nessuno degli ostacoli personali che mi trovavo ad affrontare come giovane uomo era paragonabile a quello che le vittime dell’apartheid vivevano ogni giorno.
E potevo solo immaginare il coraggio che aveva portato Mandela a rimanere in quella cella per così tanti anni. Ma il suo esempio contribuiva ad aumentare la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto. Con le sue scelte, Mandela dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com’è, che possiamo fare la nostra parte perché diventi come dovrebbe essere.
Nel corso degli anni ho continuato a guardare a Nelson Mandela con ammirazione e umiltà, ispirato dal senso di possibilità che la sua vita dimostrava e sgomento di fronte ai sacrifici necessari per coronare il suo sogno di giustizia e uguaglianza. Di fatto, la sua vita racconta una storia che si erge in netta opposizione al cinismo e alla rassegnazione che così spesso affliggono il nostro mondo. Un prigioniero è diventato un uomo libero; un simbolo di emancipazione è diventato una voce appassionata a favore della riconciliazione; un leader di partito è diventato un presidente che ha promosso la democrazia e lo sviluppo. Anche dopo avere lasciato gli incarichi ufficiali, Mandela continua a lavorare per l’uguaglianza, l’ampliamento delle opportunità e la dignità umana. Ha fatto così tanto per cambiare il proprio Paese, e il mondo, che è difficile riuscire a immaginare la storia degli ultimi decenni senza di lui.
Poco più di vent’anni dopo aver fatto il mio ingresso nella vita politica e nel movimento per il disinvestimento come studente di college in California, sono entrato in quella che era stata la cella di Mandela a Robben Island. Ero appena stato eletto senatore degli Stati Uniti. La cella era ormai stata trasformata da una prigione in un monumento al sacrificio compiuto da così tante persone per una trasformazione pacifica del Sudafrica. Mentre mi trovavo in quella cella, ho provato a tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui il presidente Mandela era ancora il prigioniero 466/64, quando la vittoria nella sua battaglia era tutt’altro che una certezza. Ho cercato di immaginare Mandela - quella figura leggendaria che aveva cambiato la storia - come l’uomo Mandela, che aveva sacrificato così tanto per il cambiamento. Io, Nelson Mandela offre uno straordinario contributo al mondo, restituendoci proprio l’immagine dell’uomo Mandela. [...] Mandela aveva intitolato la sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà. Ora, questo volume ci aiuta a ripercorrere i passi - e le deviazioni - che ha compiuto durante quel viaggio.
Fornendoci questo ritratto a tutto tondo, Nelson Mandela ci ricorda di non essere stato un uomo perfetto. Anche lui, come tutti noi, ha i suoi difetti. Ma sono proprio queste imperfezioni che dovrebbero essere d’ispirazione per ciascuno di noi. Perché, se siamo onesti con noi stessi, sappiamo che affrontiamo battaglie piccole e grandi, personali e politiche, per superare la paura e il dubbio, per continuare a impegnarci anche quando l’esito della lotta è incerto, per perdonare gli altri e sfidare noi stessi. La storia raccontata da questo libro - e la storia della vita di Mandela - non è quella di esseri umani infallibili e di un inevitabile trionfo. È la storia di un uomo disposto a rischiare la vita per ciò in cui credeva e ha lavorato incessantemente per condurre quel genere di esistenza che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Alla fine, è questo il messaggio di Mandela a ognuno di noi. Per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri. Perfino Mandela ha vissuto giorni come questi. Ma anche quando soltanto un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, riusciva a vedere un futuro migliore, degno del suo sacrificio. Anche quando ha dovuto fare i conti con la tentazione di cercare vendetta, ha visto la necessità di una riconciliazione e il trionfo dei principi sul mero potere. Anche quando ha raggiunto il meritato riposo, ha continuato a cercare - e continua tuttora - di ispirare i suoi compagni e le sue compagne a mettersi al servizio dell’umanità.
Prima di diventare presidente degli Stati Uniti ho avuto il grande privilegio di incontrare Mandela e dopo la mia elezione ho parlato in varie occasioni con lui al telefono. In genere sono conversazioni brevi: lui è ormai giunto al crepuscolo della sua vita e io devo affrontare il fitto programma di impegni che la mia carica mi impone. Ma sempre, durante queste conversazioni, ci sono momenti in cui traspaiono la gentilezza, la generosità la saggezza dell’uomo. Quei momenti mi ricordano che dietro la storia che è stata scritta c’è un essere umano che ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti, oltre le prigioni del passato. E mi rammentano che, per quanto sia diventato una leggenda, conoscere l’uomo - Nelson Mandela - significa rispettarlo ancora di più. © 2010 by Barack Obama/ Agenzia Santachiara
Ma non volevo essere un santo
di Nelson Mandela (la Repubblica, 10.10.2010)
Gli uomini e le donne di tutto il mondo, nel corso dei secoli, vanno e vengono. Alcuni non si lasciano nulla alle spalle, nemmeno il proprio nome. Sembra che non siano nemmeno mai esistiti. Altri si lasciano dietro qualcosa: il ricordo ossessivo degli atti malvagi commessi contro gli altri, gravi violazioni dei diritti umani, che non si limitano all’oppressione e allo sfruttamento di minoranze etniche ma si spingono fino al genocidio per conservare intatte le proprie orrende politiche. Il decadimento morale di certe comunità in varie parti del mondo si rivela fra le altre cose nell’uso del nome di Dio per giustificare azioni condannate dal mondo intero come crimini contro l’umanità. Nella moltitudine di coloro che nel corso della storia si sono dedicati alla lotta per la giustizia in ogni sua forma, ci sono alcuni che hanno comandato invincibili eserciti liberatori.
Eserciti che hanno intrapreso operazioni entusiasmanti e hanno compiuto enormi sacrifici per liberare il loro popolo dal giogo dell’oppressione, per migliorare le condizioni di vita creando posti di lavoro, costruendo case, scuole, ospedali, introducendo l’elettricità e portando acqua pulita e potabile alle persone, soprattutto nelle zone rurali. Il loro scopo era eliminare il divario tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, sani e malati, affetti da malattie che si potevano tranquillamente prevenire. In effetti, quando un regime reazionario veniva rovesciato, i liberatori cercavano di fare del proprio meglio, nei limiti delle risorse a loro disposizione, per portare a compimento questi nobili obiettivi e per introdurre un governo pulito, libero da ogni forma di corruzione. Quasi tutti i membri del gruppo oppresso traboccavano di speranza che i sogni tanto agognati potessero finalmente realizzarsi, che sarebbero riusciti a riacquistare una dignità umana ormai negata da decenni o addirittura secoli.
Ma la storia non smette mai di giocare brutti scherzi, anche a quei paladini della libertà famosi in tutto il mondo. Spesso i rivoluzionari del passato hanno ceduto facilmente all’avidità, e anche ultimamente la tendenza a dirottare le risorse pubbliche per l’arricchimento personale li ha sopraffatti. Accumulando grandi ricchezze e tradendo i nobili obiettivi che li avevano resi famosi, hanno virtualmente disertato le masse dei popoli e si sono alleati con gli ex oppressori, derubando senza pietà i più poveri solo per arricchirsi.
Vige un rispetto universale e perfino una sorta di ammirazione per chi è umile e semplice per natura e per chi mostra assoluta fiducia in tutti gli esseri umani, indipendentemente dallo status sociale. Questi sono uomini e donne, celebri e sconosciuti, che hanno dichiarato guerra a ogni forma di grave violazione dei diritti umani in tutti i luoghi in cui tali eccessi si manifestano. Sono in genere ottimisti, convinti che in ogni comunità al mondo ci siano donne e uomini buoni che credono nella pace quale arma più potente nella ricerca di soluzioni durature.
La situazione attuale giustifica forse l’uso della violenza, che perfino quelle donne e quegli uomini buoni potrebbero avere difficoltà a evitare. Ma, anche in questi casi, l’uso della forza sarebbe una misura eccezionale, il cui scopo principale è creare le basi necessarie per soluzioni pacifiche. Sono proprio queste donne e questi uomini buoni la speranza del mondo. I loro sforzi e risultati sono riconosciuti al di là della morte, anche ben oltre i confini del loro Paese, rendendoli così immortali. La mia impressione generale, dopo avere letto diverse autobiografie, è che un’autobiografia non sia solo una raccolta di eventi e di esperienze in cui una persona è stata coinvolta, ma anche un modello su cui altri potrebbero basare la propria vita. Questo libro non ha tali pretese e non ha l’ambizione di lasciare tracce.
Da giovane [...] ho vissuto le debolezze, gli errori e l’impulsività di un ragazzo di campagna, e il mio immaginario e le mie esperienze sono stati influenzati per lo più dagli avvenimenti del luogo in cui sono cresciuto e dei college in cui mi hanno mandato. Mi sono affidato all’arroganza per nascondere la debolezza. Da adulto, i miei compagni hanno tolto me e altri prigionieri, con alcune significative eccezioni, dall’oscurità del male o del mistero, anche se la leggenda secondo cui sono stato uno dei prigionieri militanti più longevo al mondo non è mai del tutto scomparsa.
Una questione che mi preoccupava molto in prigione era la falsa immagine che proiettavo involontariamente sul mondo esterno; di essere considerato un santo. Non lo sono mai stato, nemmeno sulla base della definizione terrena di santo come peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone
e Cristina Volpi
Conversations by Myself © 2010 by Nelson R. Mandela and The Foundation/
Agenzia Santachiara © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara
‘O SOLE ...
RIATTIVARE LA MEMORIA DELLA VITA
(e la navigazione di "me" e "te"
nel gran mare
dell’essere e della verità)
A FRANZ KAFKA, ALLA SUA MEMORIA, CHE VIVA IN ETERNO IN TUTTE LE GENERAZIONI PRESENTI E FUTURE DEL PIANETA TERRA... E DI TUTTE LE TERRE DELL’UNIVERSO.
(E al piccolo ELIAN e a ogni persona, disabile nel corpo e nell’anima)
di Federico LA Sala *
Mi sono ricordato di tanti, tanti, tanti esseri umani,
compagni e compagne, che, nel buio dei deserti,
delle miniere, delle ‘scuole’ di morte, e delle ‘tombe’
della vita, interno ed esterno, hanno scavato, scavato,
scavato con i trapani e le trivelle delle loro carni,
delle loro unghie, e dei loro denti.
*
Mi sono ricordato di Primo Levi
e ho considerato se questo è un uomo:
“Gregorio SaMSa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”.
La metamorfosi ... di noi stessi - un io senza memoria e senza istoria, una Legge senza vita, e un legame senza cuore - in miseri, poveri, neri, scarafaggi...
E, allora, infine, ho ritrovato il filo che mena, porta, e il porto, a Napoli, a casa mia.
*
Mi sono ricordato di mia mamma:
“ogni scarafone è bello per la mamma sua”.
E, allora, ho capito.
A Nea-Polis, nella nuova Città, nella nuova Terra, tutti gli scarafoni sono belli
per il solo, Uno, Sole, Amore di tutti e due ,
di mamma e papà - al di là del mare di sangue e della terra insanguinata.
Mi sono ricordato di Te, di Me, e
di tutti e di tutte, compagni e compagne delle strade della vita
e del nostro mondo...
Ho incontrato "te" e ho ripreso a cantare:
‘O Sole ...
Federico La Sala (30.03.2000 d. C.)
CINEMA
Clint, Mandela e l’epica del rugby
Invictus, nessuno sbaglia un colpo
Roberto Saviano ha visto per noi l’ultima opera di Eastwood sulla partita di rugby che
battezzò il Sudafrica libero. Il film è il racconto di un popolo che sorprese il mondo -costruendo una nazione sui diritti e non sulla vendetta
di ROBERTO SAVIANO *
"CLINT ha solo due espressioni: col cappello e senza cappello". Così descriveva il suo cowboy preferito Sergio Leone. Ma ora "l’attore da due espressioni" non sbaglia un film. Ogni sua pellicola è necessaria. Sembra, il suo, un percorso che cerca nelle storie un modo per ordinare il mondo, per chiarirsi le idee.
Un catalogo di vicende che come in Gran Torino, Million dollar Baby o Lettere da Iwo Jima non stanno a raccontare come dovrebbe andare il mondo, ma come lo fanno andare le persone, gli individui, attraverso ogni loro scelta. Che sia giusta, falsa, marcia o vera. E’ l’individuo che Eastwood racconta.
Volevo vedere il prima possibile Invictus. Per me è difficile andare al cinema. Quasi impossibile. Ma Warner Bros mi concede una sala a prima mattina. Tutte sedie vuote. Chiedono alla scorta di consegnare i telefonini perché temono possano riprendere e piratare il film. Invictus parte e in più di due ore ritrovi esattamente l’Eastwood che ti aspettavi. Questa volta ancora più smaliziato. Non ha paura di commuovere e di usare l’arte della retorica.
Racconta di Nelson Mandela e di una squadra di rugby. E’ il 1995 e Mandela, appena eletto presidente del Sudafrica, ha come prima necessità quella di evitare rivolte, scontri, vendette. E’ un impresa quasi impossibile. La maggioranza nera ha subìto troppo e per troppo tempo il potere indiscriminato degli Afrikaaner, dei bianchi. Tutti si aspettano vendette. I bianchi tremano e si preparano al colpo di stato e alla resistenza. I neri si armano per vendicare morti e prigionia. Il capolavoro politico del detenuto 46664 - questo il codice di matricola nei trent’anni di prigionia di Mandela - fu quello di "sorprendere". Sorprende il mondo come lui stesso dice: "Sorprenderli con la generosità. Comprensione. Io so cosa i bianchi ci hanno tolto ma questo è il momento di costruire una nazione".
Morgan Freeman è Mandela e ne ha studiato ogni movenza lenta e ieratica, ma anche i sorrisi e i modi di salutare. Non ne è un’imitazione né una riproduzione. E’ esattamente un’interpretazione. Fa vivere sullo schermo il leader che sogna un Sudafrica nero diverso dal Sudafrica dei bianchi. Il rugby nel paese dell’apartheid è odiato dai neri che giocano a pallone. Dicono nei sobborghi di Johannesburg: "Il calcio è uno sport da signorine giocato da duri, il rugby è uno sport da duri giocato da signorine".
Ma Mandela, che non è mai stato particolarmente appassionato di rugby, capisce che lo sport dei bianchi deve piacere ai neri. I mondiali di rugby potranno essere la prova politica più delicata da superare. Mandela parte da questa idea, insieme mediatica e popolare, per unire un Sudafrica spaccato, sull’orlo di una guerra civile. Il rugby parlerà più d’ogni altro linguaggio o parola al suo popolo. Se non riesci con i discorsi politici a unirlo allora lo unirai facendo tifare per la stessa squadra. I sudafricani neri quando in campo c’era la squadra verde-oro degli Afrikaner tifavano Inghilterra, o Australia o persino Francia insomma qualsiasi squadra che potesse battere i bianchi sudafricani.
Mandela sa che le antilopi, ovvero gli Springboks, la nazionale di rugby, sentono di non rappresentare più il loro paese bianco. Il suo compito sarà di farli sentire rappresentanti di un nuovo paese, responsabili di un nuovo possibile corso politico. Mandela parte dalla sua scorta. Affianca agli uomini provenienti dalle file dell’Anc, bianchi delle squadre speciali. La scorta sudafricana non vuole condividere la squadra con gli afrikaaner che solo un anno prima li avrebbero arrestati. Ma Mandela è categorico. "La nazione arcobaleno nasce da qui. Intorno a me voglio le due anime del Sudafrica".
E poi incontra il capitano François Pienaar, interpretato da Matt Damon - bravissimo nel riuscire a raccontare anche solo col viso l’incontro di un bianco terrorizzato dai neri con il primo presidente nero del Sudafrica. Damon è un giocatore di grande talento ma ormai colpito da una sorta di depressione sociale, come i suoi compagni. Perdono partite su partite, sentono che la loro nazione bianca è finita. Ma è qui che interviene Mandela. "Abbiamo bisogno di ispirazione".
Nasce tra il capitano e il presidente del Sudafrica un rapporto diretto. Mandela gli chiede di far vincere i mondiali di rugby al Sudafrica. Impresa che tutti gli esperti dichiarano impossibile. Ma c’è da costruire una nazione. Mandela segue direttamente i loro allenamenti. Porta la squadra che ha un solo rugbista nero nei ghetti di Soweto nelle baraccopoli dove nessun bianco era mai stato. Li insegnano il rugby, lo sport bianco per eccellenza, ai ragazzini neri. E poi visitano la prigione dove è stato rinchiuso Mandela. I giocatori vengono allenati nell’anima. E nel film è chiaro che la disciplina che stanno vivendo i rugbisti non è nient’altro che il percorso che un’intera nazione sta facendo per capirsi e ritrovarsi.
Il finale te lo aspetti, ma non vedi l’ora che accada. Ed anzi hai paura che qualcosa possa andare storto, che la palla ovale possa far perdere il grande sogno della nuova nazione: il mondiale alla squadra del Sudafrica. La vittoria finale contro i rugbisti maori della Nuova Zelanda non è una vittoria sportiva ma uno dei risultati politici internazionali più importanti del novecento. Un popolo che si unisce in una squadra.
Esco dalla sala contento che il vecchio Clint non sbagli un colpo come speravo. Il Sudafrica oggi è quanto di più lontano esista dal paradiso arcobaleno in cui molti avevano sognato ma questo non toglie nulla alla lezione eastwoodiana di come la politica sappia essere cosa diversissima di quella che abbiamo tutti giorni sotto gli occhi. Di come possa essere, in tutti i sensi, il sogno di un uomo e di un popolo ancora desideroso di conquistare diritti e felicità. Che Nelson Mandela ha descritto con queste parole del poeta Henley: "Sotto i colpi d’ascia della sorte, il mio capo sanguina, ma non si china.... Non importa quanto sia stretta la porta... quanto piena di castighi la vita/ Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima".
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
© la Repubblica, 26 febbraio 2010
Incontro con l’attore che veste i panni di Nelson Mandela in "Invictus" di Eastwood
Lui e Damon hanno ricevuto la nomination, ma il film no: "Che delusione"
Freeman: "Lo sport può cambiare la vita
ma io fuori dal set preferisco il golf..."
La pellicola riscostruisce la vittoria del Sudafrica alla Coppa del Mondo di rugby del ’95
E sul grande leader dice: "Ha una calma zen, e fa più soggezione del Papa"
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
ROMA - Scherza utilizzando le poche parole italiane che conosce, sorride spesso, è chiaramente soddisfatto della sua nuova nomination all’Oscar: la quarta della sua carriera, costellata da tante grandi interpretazioni. Sbarcato in Italia per presentare Invictus di Clint Eastwood, in cui veste i panni di Nelson Mandela, Morgan Freeman non delude i suoi interlocutori. E nella mezz’oretta di chiacchierata, in una stanza al primo piano dell’Hotel Exclesior, si mostra pronto ad affrontare tutti i temi legati al film: dal rapporto col grande leader sudafricano ("ciò che colpisce di più di lui è la sua immensa calma"), all’importanza dello sport che "può cambiare la vita di una nazione".
Come dimostra, appunto, la pellicola, che racconta un momento cruciale nella vita di Mandela. Siamo nel 1995, è da poco stato eletto presidente di un Paese in cui non si sono ancora rimarginate le ferite dell’apartheid. E così lui, con la complicità del capitano della squadra nazionale di rugby, gli Springbocks (interpretato di Matt Damon, pure candidato all’Oscar), decide di far diventare la Coppa del mondo di questa disciplina un’occasione di riconciliazione. Riuscendo in un doppio miracolo: sportivo, ma anche di intergrazione tra bianchi e neri.
Signor Freeman, Mandela sostiene che lo sport ha il potere di cambiare il mondo e unire il popolo: lei condivide?
"Sì, anch’io credo che lo sport abbia questo potere di redenzione: basta pensare a quanto i paesi sono disposti a mutare, pur di ospitare le Olimpiadi. Io comunque non sono appassionato di rugby: preferisco il golf".
Molti osservatori hanno espresso preoccupazione dopo l’attentato in Coppa d’Africa, pensando al Sudafrica come paese ospitante dei Mondiali. Cosa ne pensa?
"Sono gli stessi sudafricani, adesso, a essere preoccupati che ciò che è accaduto in Angola venga considerata una mancanza di sicurezza durante i prossimi campionati. Diciamo che io condivido questa preoccupazione, anche se sono ottimista su quello che accadrà".
Passando al film, c’è da dire che a qualsiasi spettatori la scelta di far interpretare a lei Mandela appare ovvia, inevitabile.
"Quando Madiba (il modo in cui i sudafricani neri chiamano Mandela, ndr) pubblicò la sua autobiografia, a chi gli chiese quale attore avrebbe voluto per una eventuale trasposizione cinematografica lui rispose ’Morgan Freeman’. Quindi non ero io che morivo dalla voglia di interpretarlo: ero semplicemente la prima scelta".
Come ha fatto a interpretare un personaggio di così grande carisma?
"Come attore, uso il seguente stratagemma: stringendo la mano della persona reale che devo interpretare, cerco di sentirne l’energia. E, nel caso di Madiba, ho percepito soprattutto la sua grande tranquillità, di tipo zen. Una volta lui mi ha detto: ’ventisette anni in carcere ti danno tanto tempo per pensare’. Per capire la differenza tra le cose che pui cambiare e per cui ti devi battere e quelle che non puoi cambiare e allora è meglio dimenticarle. In generale poi è una persona straordinaria, generosa e compassionevole, capace come pochi altri di mettermi in soggezione. Non ho mai incontrato il Papa, ma credo non riuscirebbe a intimorirmi come Madiba".
E Mandela come ha reagito, a film finito?
"Durante la proiezione sorrideva e annuiva, annuiva e sorrideva. Dopo non ha detto assolutamente nulla, né in bene né in male".
Ci parli invece di Clint Eastwood, che l’aveva già diretto in Gli spietati e Million Dollar Baby.
"Come regista è molto veloce, ha grande controllo su tutto. Per il resto, che dire? Ci siamo simpatici, non so perché. Crede molto nel potere dell’attore, con una sorta di sua dolcezza".
Lei e Damon siete candidati agli Oscar, la pellicola e il suo regista no.
"Siamo molto delusi, direi confusi, per questa esclusione".
Dal cinema alla politica: vede un’analogia tra l’apartheid sudafricano e la segregazione che c’era nel suo paese fino agli anni Sessanta?
"L’apartheid è qualcosa di puù draconiano, più malvagio: si voleva proprio eliminare la popolazione di colore, renderla invisibile ai bianchi. Negli Usa in alcuni stati ci sono stati programmi analoghi, ma non hanno mai rappresentato una tendenza nazionale".
E Obama e Mandela hanno, o meno, caratteristiche comuni?
"No, a parte il fatto che sono entrambi neri. Obama ha la metà degli anni di Madiba e non ha fatto la prigione. Il suo problema è che ha contro di sé una forte opposizione, pronta a mettergli i bastoni tra le ruote. Esempio: noi abbiamo in corso una guerra contro la droga che costa tantissimo ma nessuno ne parla, mentre per la riforma sanitaria dicono che non ce la possiamo permettere. E’ assurdo".
© la Repubblica, 04 febbraio 2010
Il vuoto della politica
di Enzo Mazzi (il manifesto, 15 gennaio 2010)
Vale anche per i fatti di Rosarno l’affermazione di Luigi Pintor richiamata domenica da Valentino Parlato: la sinistra «non deve vincere domani, ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Non bastano le denunce e i fiumi di lacrime versate da politici, media, chiese e associazioni. Bisogna «reinventare la vita».
I fatti di Rosarno sono il sintomo di un malessere profondo che soffoca la società ormai a livello mondiale, sono quasi l’ecografia del cancro che divora la vita di tutti noi nell’intimo.
La moderna schiavitù senza regole, lo sfruttamento bestiale degli immigrati e le condizioni inumane di vita che sono loro riservate, il dominio sempre più invadente delle mafie, il nuovo squadrismo in salsa leghista, la politica dominate che fomenta le paure e le xenofobie degli autoctoni, sono realtà da denunciare e contrastare con tutte le poche forze che ci restano in questo sfascio della sinistra di rappresentanza. Ma non basta. Il tema che deve emergere con forza è la reinvenzione della vita, della politica, della economia, della cultura e perché no della religione.
Dall’inferno di Rosarno alla palingenesi? È un sogno impossibile che ci distoglie dalle cose possibili? E quali sono le cose possibili? Non avvertite tutta l’impotenza di denunce, manifestazioni e lacrime? E il vuoto della politica? Non c’è che ripartire dal quotidiano, dall’operare ogni giorno, dall’invasione di campo.
Ormai siamo tutti stranieri a noi stessi. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha privato della nostra vita e della stessa terra.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città. Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore. Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente, facendo cose concrete.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica. Ha ragione ancora una volta il nostro Pintor: l’utopia della palingenesi è l’unica realtà possibile e la stella polare di un cammino che abbia senso e che dia senso ad ogni più piccolo passo.
la pellicola di eastwood, con freeman protagonista, e la canzone scritta dal figlio
«’O sole mio» sta in fronte a Mandela
Il tema della soundtrack del film «Invictus» sul leader sudafricano molto simile al celebre brano
di Antonio Fiore *
’O sole mio sta in fronte a te, ma pure in fronte a Mandela: accade nel film di Clint Eastwood «Invictus» (dedicato al genio politico del leader sudafricano che seppe fare dell’odiata squadra simbolo dell’apartheid il germe della nazione arcobaleno), dove la colonna sonora è dominata dall’«Invictus Theme», le cui note iniziali suonano parecchio familiari all’orecchio dei napoletani.
EASTWOOD JUNIOR - Secondo i credits della pellicola, quell’insinuante e poi sempre più trascinante motivo l’avrebbe scritto Kyle Eastwood, figlio di Clint: ma che non sia tutta farina del suo sacco è del tutto evidente non solo agli eredi di Capurro, di Di Capua e di Mazzucchi, gli autori dell’immortale componimento musicale che lo firmarono nel 1898. Immortale e dunque intonato, cantato, stonato, arrangiato, riarrangiato, storpiato e rimodernato migliaia di volte in ogni angolo del mondo: da Enrico Caruso a Josephine Baker a Claudio Villa a Dalida a Mina a Carreras a Pavarotti a Elton John non c’è cantante degno di questo nome che non l’abbia cantata, e non si contano i capi di Stato esteri che, in visita in Italia, non ne abbiano farfugliato qualche verso nel corso di brindisi ufficiali, convinti che fosse ’O sole mio e non Fratelli d’Italia il nostro vero inno nazionale.
IL SOLE...DEL MAR NERO - Del resto, che ’O sole mio avesse un’ispirazione fortemente locale ma un respiro e una vocazione decisamente cosmopoliti sta scritto nel suo dna: i versi furono vergati a Napoli dal giornalista Capurro, ma musicati da Di Capua che si ispirò non ammirando il tramonto sul Golfo di Napoli, bensì l’alba sul Mar Nero, visto che in quel momento si trovava a Odessa per accompagnare il padre, violinista in tournée. Canzone amata in Italia, amatissima all’estero: già nel 1957 Bill Haley con i suoi Comets ne incise una versione rock intitolata appunto Come rock with me, ma il botto lo fece tre anni dopo Elvis Presley, che in poco tempo riuscì a vendere dieci milioni di copie del 45 giri It’s now or never, in cui The Pelvis dava fremiti da drive in una generazione yankee che ancora stentava a trovare Napoli sulla carta geografica.
MAJOR - Certo, in oltre un secolo di vita ’O sole mio è diventato davvero un patrimonio mondiale musicale dell’umanità, però il problema si pone quando dalla traduzione e dalla cover si passa direttamente a quello che appare a prima vista (e soprattutto a primo orecchio) un clamoroso plagio. Clamoroso proprio perché eventualmente operato ai danni di una canzone che persino i più stonati fra noi riconoscono dal primo vibrar di mandolino: possibile che i responsabili di una major statunitense, pronti a consultare uffici legali a schiere per evitare di compiere anche il più piccolo passo falso nella giungla piena di trappole del diritto d’autore, abbiano sottovalutato i rischi di una colonna sonora che pantografa lo spartito di una delle canzoni più famose al mondo?
ALBANO E MICHAEL JACKSON - Insomma: persino Michael Jackson fu condannato a pagare quattro milioni per aver saccheggiato un pugno di note da una canzone di Al Bano, e nemmeno delle più famose (infatti se ne accorse solo Yuri, il figlio di Al Bano che per fortuna di Al Bano ascoltava più Michael Jackson che Al Bano); ma ’O sole mio non è, con tutto il rispetto per Al Bano, I cigni di Balaka: come sarebbe stato possibile, per Eastwood junior, passarla liscia nell’era di Internet, di YouTube e della comunicazione globale? Allora, si avanzano due sole ipotesi: una è quella del plagio «involontario», per così dire inconscio, dettato proprio dalla estrema popolarità del brano napoletano. Insomma, proprio per la loro notorietà e orecchiabilità, quelle note non sarebbero state volontariamente «rubate» dal neo-autore perché, in qualche modo, erano da sempre dentro di lui, note innate, immanenti, preesistenti, platoniche. L’altra ipotesi è meno psicoanalitica e più colta, ma forse ancora più improbabile: «Sol Invictus» era infatti culto solare orientale radicatosi poi anche nell’antica Roma. Il Sole mio «rivisitato» nella colonna sonora scritta per Eastwood diventerebbe qui un voluto omaggio all’«Invictus» Mandela che è il titolo, il centro gravitazionale, dunque il «Sole», del film.
Antonio Fiore
Corriere del Mezzogiorno, 01 marzo 2010
CINEMA
Gli 80 anni di Clint Eastwood
"Gli eroi non invecchiano"
Il grande attore e regista compie gli anni il 31 maggio. L’amore per il grande schermo, la scelta dei ruoli, il legame coi sette figli e una richiesta alla moglie: "Per favore, niente festeggiamenti"
di ROALD RYNNING *
NEW YORK - Il 31 maggio la leggenda del cinema americano compirà 80 anni. A un’età in cui i suoi coetanei in genere se ne sono andati in pensione da un pezzo, Clint Eastwood - con dieci nomination agli Oscar come attore, regista e produttore - non ha alcuna intenzione di seguire le loro orme. Il regista che si è già portato a casa due ambite statuette (un Oscar come regista di "Gli spietati" e l’altro per "Million dollar baby") dirige ancora un film all’anno. Nell’autunno scorso è uscito nelle sale "Invictus", mentre "Hereafter" un supernatural thriller ancora con Matt Damon uscirà a Natale, ed è già nella fase di pre-produzione di "Hoover", biografia del controverso direttore dell’Fbi. Solo negli ultimi dieci anni Eastwood ha diretto nove film tra i quali "Mystic river", "Million dollar baby", "Flags of our fathers" e "Gran Torino."
Festeggerà il compleanno il 31 maggio?
"Già quando si arriva ai 70 succedono un sacco di cose e una di queste è che non si festeggiano più i compleanni. L’ho proibito a mia moglie. Le ho detto espressamente: "Per favore, non voglio festeggiamenti". Non voglio dover aprire un pacchetto e fingere che era proprio quello che desideravo. Non desidero nulla. Al massimo un bicchiere di vino".
La sua carriera copre 55 anni come attore, e come regista ha iniziato "appena" a 60 anni. Qual è il segreto?
"Talvolta i registi non provano neppure a cimentarsi con quello che potrebbe farli crescere ancora. Se fossi tornato dall’Italia negli anni Sessanta per dedicarmi unicamente ai western, mi sarei ritrovato presto fuori dal giro. Il segreto della longevità è uno solo: cambiare, cambiare di continuo e cercare sempre cose nuove con le quali cimentarsi. Finché sarò lucido offrirò al pubblico quello che mi è possibile, che è molto più di quanto io abbia offerto come regista a 40, 50, 60 o 70 anni. Ora mi sento a mio agio in questo ruolo".
Ha paura della morte?
"Non credo. Ho imparato da mia madre che quando una cosa non ti diverte più è giunto il momento di passare ad altro e lasciar perdere".
Perché ha voluto dirigere Hereafter?
"La sceneggiatura era molto bella. Si tratta di un supernatural thriller scritto da Peter Morgan, che ha scritto anche "The Queen" e "Frost/Nixon". La trama è tutto. Poi servono buoni attori: io do sempre molta importanza al casting. Se hai una buona sceneggiature e un buon cast per rovinare il film devi mettercela davvero tutta".
Il suo prossimo film è una biografia su J. Edgar Hoover.
"Sono in quella fase della vita nella quale non si ha voglia di ripetersi. Forse se fossi giovane mi accontenterei. Inoltre non sono attaccato a un genere in particolare, come lo ero forse una quarantina di anni fa...".
Lavora molto velocemente...
"Detesto fare molte prove e varie riprese. Mi piace dirigere come sono stato diretto io, il che significa che mi faccio avanti e faccio vedere come vorrei che fosse interpretata una scena. Se invece non piace come la intendo io, lascio che a parlare siano gli altri e ci si mette d’accordo. In ogni caso non dico mai: "Stai lì, ripeti le battute, anzi facciamolo per 25 volte!". Potrei ammuffire...".
Ha sempre diretto in questo modo?
"No, in realtà così ho iniziato con "Gli spietati". Chiesi a Gene Hackman di ripetere una scena mentre sistemavo la cinepresa. Lui iniziò ed era così meraviglioso che gli dissi: "Fermati! Accendiamo e giriamo subito". Non volevo che andasse sprecata tutta quella freschezza, quella naturalezza".
Che atmosfera si respira sui suoi set?
"Mi piace che regni sempre la tranquillità. Gli assistenti alla regia lavorano in cuffia e auricolare, così che gli attori non si innervosiscono. Non dico nemmeno la parola magica "Azione!". Dico soltanto: "Appena siete pronti, iniziate pure"".
Ha mai rimpianto di aver rifiutato il ruolo di James Bond quando Sean Connery smise di interpretarlo?
"No. Pensavo che 007 dovesse essere inglese. Sono di discendenza britannica, ma non è la stessa cosa. Oltretutto non era proprio un ruolo per il quale avessi un debole".
Come è cambiata secondo lei l’industria del cinema?
"Tutti badano a una cosa sola: gli incassi della prima settimana nelle sale. Sono ossessionati dall’idea di essere quelli che incassano di più. Ma chi se ne frega!".
Non la preoccupano gli incassi?
"Per niente. Voglio girare solo le storie che mi piacciono. Se poi avranno un buon pubblico bene. Ma di sicuro non mi preoccupo: ognuno è libero di apprezzare quello che vuole".
Crede di essere diventato più pacato col tempo?
"Sono più paziente. Penso che dipenda dal fatto che ho avuto tanti figli, ma anche la vecchiaia rende più pacati. Le piccole cose non sono più così importanti come una volta, e non ci si preoccupa più per le bazzecole".
Lei ha sette figli (da cinque donne diverse) e tra il primo e l’ultimo che oggi ha 13 anni corrono 33 anni di differenza. Come ci si sente a essere un padre anziano?
"Essere padri alla mia età è una sensazione magnifica. Pur avendo sempre lavorato molto non ho mai trascurato i miei figli. Vado a ogni partita di calcio di mio figlio, e so di essere per lo meno ridicolo, perché tutti gli altri padri sono molto più giovani di me. Ma è divertente... Alla mia età si apprezzano le cose molto di più".
Di che cosa si occupa quando non lavora?
"Mi piace fare le cose con calma. Gioco a golf quasi tutti giorni e mi piace bere birra Budweiser. La cosa più bella, però, è che mi piaccia ancora lavorare. Credo che sia questo a tenermi giovane: tenere sempre il cervello bene in funzione".
Dopo "Gran Torino" lei ha detto che non tornerà a recitare. La pensa ancora così?
"Beh, non ci sono molte sceneggiature che prevedano attori ottantenni! Oltretutto sono sempre molto impegnato a dirigere per riuscire a interpretare qualche parte ancora. Il mio posto adesso è dietro la telecamera. Senza contare che mi piacerebbe lasciare quando sono al top. Non vorrei essere come uno di quei pugili che continuano a stare sul ring anche quando non combattono al meglio".
Come le piacerebbe essere ricordato?
"La maggior parte delle persone, se mai mi ricorderà, penserà a me come un "action hero". E mi sta bene. Non c’è nulla di male in questo. Ma ci sarà sicuramente anche qualcuno che mi ricorderà per gli altri film, quelli nei quali ho voluto cogliere qualche sfida. O per lo meno mi piace pensarlo".
© IFA-la Repubblica - Traduzione di Anna Bissanti
* la Repubblica, 10 maggio 2010