Documenti, foto e interviste nel volume edito da Contrasto dedicato al simbolo della lotta contro l’apartheid.
Mandela, il ritratto attraverso le foto
"Un combattente sul ring della storia"
Dal 30 novembre le immagini saranno in mostra a Firenze
di ALESSIA MANFREDI *
ROMA - "Nel giudicare i nostri progressi individuali ci concentriamo su fattori esterni, come la posizione sociale, la popolarità, l’autorità, la ricchezza, il livello culturale. Ma i fattori interni possono essere più decisivi: onestà, sincerità, semplicità, purezza, generosità, disponibilità ad aiutare gli altri. Qualità interne alla ricchezza di un’anima".
Così scriveva Nelson Mandela alla moglie Winnie, in una delle tante lettere dal carcere durante i 27 anni di prigionia. Conversazioni sulla vita ed i valori essenziali, quelli che hanno plasmato la personalità del "combattente per la libertà" più famoso della storia. Ma anche messaggi di incoraggiamento alla compagna lontana, inviti a "combattere con tutte le forze", e dichiarazioni d’amore: "Cosa potranno farci la vecchiaia e la pressione bassa? Niente! Tu sei una strega, getti incantesimi sul tuo uomo".
Documenti privati, che, insieme alle numerosissime fotografie e testimonianze dirette - da Clinton a Thabo Mbeki, da Blair a Bono - ricostruiscono, in "Mandela - Il ritratto di un uomo", il libro-biografia edito nelle scorse settimane da Contrasto, la vita del leader sudafricano diventato un simbolo universale della giustizia.
Un percorso lungo e accidentato, partito dal villaggio di Qunu nel Trasnkei e approdato alla platea internazionale, inseguendo un sogno chiamato democrazia. E documentato, nelle sue tappe più significative, dalle immagini di Contrasto, che dal 30 novembre saranno in mostra a Firenze in occasione del Nelson Mandela Forum.
Quelli raccolti nella biografia sono stralci di un’esistenza intima e pubblica al tempo stesso, che raccontano un uomo che ha riscritto la storia. Un percorso epico, quello di "Madiba", così chiamato affettuosamente dal suo popolo. Prima giovane avvocato ambizioso, poi militante nell’African National Congress, e in seguito guida della lotta contro l’apartheid. Dopo, la clandestinità, l’arresto nel 1963, il processo e la condanna all’ergastolo. Gli anni durissimi della prigionia a Robben Island e la liberazione nel 1990, in seguito alle pressioni internazionali.
"Uscì dal carcere in maniera splendida, era elegante e dignitoso", ricorda l’amico Bill Clinton, ex presidente degli Stati Uniti, in una delle molte testimonianze raccolte nel volume. "E’ stato uno spettacolo straordinario per tutto il mondo, un momento che mi cambiò la vita".
Dopo arrivano finalmente i riconoscimenti: il premio Nobel per la pace nel 1993 vinto da Mandela insieme a De Klerk, e, l’anno seguente, la presidenza della repubblica del Sudafrica, nelle prime elezioni libere.
Ora Robben Island, l’isola prigione al largo di Città del capo, è diventata un museo contro l’apartheid. Mandela, tre mogli (l’ultima è Graça Machel, conosciuta già in vecchiaia), tre figlie e moltissimi nipoti e bisnipoti, ha festeggiato a luglio i suoi 88 anni ed è ufficialmente "in pensione". Ma non ha smesso di lottare. Sempre per la sua gente, questa volta contro un’altra piaga silenziosa e mortale: l’Aids, che gli ha tolto un figlio, Makgatho, avvocato di 54 anni.
"Un combattente eccezionale sul ring della storia", ha detto di lui Mohammed Ali. "Uno dei più straordinari esseri umani che abbiano mai messo piede sulla terra", gli fa eco Desmond Tutu. Che, evidentemente, non ha ancora considerato vinta la sua partita.
* la Repubblica(17 novembre 2006)
Per Ulteriori approfondimenti e riflessioni sulla lezione di MANDELA, nel sito e in rete, vedere, anche e ancora:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
IL NUOVO SUDAFRICA: UN ARCOBALENO DI LINGUE, IN MOVIMENTO.
CONCERTO PER MANDELA, AMY REGINA DELLO SHOW (la Repubblica)
Je Suis Venu Récupérer Mon Bien: gli antenati da rispettare, l’antropologia da rifondare!
Per una nuova “scienza nova” (di Emilio G. Berrocal).
FLS
Nelson Mandela
Non volevo essere presidente
Gli appunti che compongono l’ultima parte dell’autobiografia, adesso in uscita in Italia, svelano il lato inedito del leader sudafricano E il suo scetticismo alla vigilia dell’elezione che gli avrebbe cambiato la vita
di Nelson Mandela (la Repubblica, 20.02.2018)
La carica di primo presidente democraticamente eletto nella storia della Repubblica del Sudafrica mi fu praticamente imposta contro la mia volontà.
Quando la data delle elezioni generali era ormai vicina, tre leader dell’Anc mi comunicarono di aver condotto ampie consultazioni all’interno dell’organizzazione e che la decisione unanime era stata che, nel caso in cui avessimo vinto le elezioni, io sarei dovuto essere presidente.
Questo, mi dissero, era ciò che avrebbero proposto al primo incontro del nostro comitato direttivo parlamentare.
Io mi dissi contrario a quella decisione, per il fatto che quell’anno avrei compiuto settantasei anni e che sarebbe stato ben più saggio trovare un candidato più giovane, uomo o donna che fosse, che avesse vissuto fuori di prigione, incontrato capi di Stato e di governo, preso parte a incontri di organizzazioni locali e mondiali, qualcuno addentro agli ultimi eventi nazionali e internazionali e che fosse in grado, per quanto possibile, di prevedere il corso futuro di tali eventi.
Dissi che avevo sempre ammirato quegli uomini e quelle donne che avevano posto le proprie doti al servizio della comunità, e che si erano guadagnati rispetto e ammirazione in virtù dei loro sforzi e sacrifici, anche se non svolgevano alcuna funzione all’interno del governo o della società.
La combinazione di talento e umiltà, la capacità di essere a proprio agio con i poveri cosi come con i ricchi, con i deboli e i potenti, con la gente comune e i reali, con i giovani e i vecchi - gli uomini e le donne dotati di una sintonia con la gente, a prescindere dalla loro razza e provenienza, sono oggetto di ammirazione da tutto il genere umano in ogni parte del mondo.
L’Anc è sempre stato pieno di uomini e donne di talento, che hanno preferito rimanere nelle retrovie destinando giovani promettenti a posizioni di prestigio e di responsabilità, al fine di metterli di fronte ai principi basilari e ai problemi della leadership sin dagli inizi della loro carriera politica, e anche al modo in cui gestire tali problemi.
Il leader ha sempre suscitato un’impressione formidabile su molti di noi. Il compagno Walter Sisulu è un uomo del genere; e questo spiega perché egli ci abbia sempre sovrastati, indipendentemente dalle funzioni che ricoprivamo nel movimento o nel governo.
Insistetti con quei tre leader che avrei preferito dare il mio contributo senza assumere alcun ruolo nel movimento o nel governo. Ma uno di essi mi mise al tappeto. Mi ricordo che avevo sempre perorato la crucialità della leadership collettiva, e che finché avessimo tenuto fede scrupolosamente a un simile principio non avremmo mai sbagliato.
Senza mezzi termini, mi chiese se non stessi ripudiando ciò che predicavo da anni. Sebbene tale principio non fosse mai stato inteso a escludere la strenua difesa di ciò in cui si crede, decisi di accettare la loro proposta. In ogni caso, misi in chiaro che avrei svolto un solo mandato.
La mia dichiarazione sembrò coglierli di sorpresa - risposero che avrei dovuto lasciarlo decidere all’organizzazione -, ma io non volevo che vi fossero ambiguità in merito.
Poco dopo la nomina a presidente, annunciai pubblicamente che avrei svolto un unico mandato e che non avrei cercato di essere rieletto.
Agli incontri dell’Anc rimarcavo spesso che non volevo compagni deboli, burattini che accettavano supinamente tutto quello che dicevo solo perché ero il presidente dell’organizzazione. Auspicavo un rapporto sano in cui potessimo discutere delle questioni non come servo e padrone, ma da pari a pari, in cui ogni compagno potesse esprimere le proprie opinioni liberamente e in modo franco, senza timore di essere angariato ed emarginato.
Per esempio, una delle mie proposte che aveva suscitato molta rabbia e clamore era stata l’abbassamento dell’età per votare a quattordici anni, una misura che era già stata adottata da vari paesi nel resto del mondo. Questo perché, in quei paesi, i giovani all’incirca di quell’età erano impegnati in prima linea nelle lotte rivoluzionarie. Era stato proprio il loro contributo a indurre i governi vittoriosi a premiarli concedendo loro il diritto di voto.
La mia proposta incontrò un’opposizione talmente violenta e schiacciante da parte del Comitato esecutivo nazionale, che fui costretto a battere in ritirata.
Il quotidiano The Sowetan caricaturò la vicenda pubblicando una vignetta con un neonato con il pannolino intento a votare. Fu uno dei modi più vividi con cui venne messa in ridicolo la mia idea. Non ebbi più il coraggio di insistere ulteriormente. Ci sono stati, tuttavia, dei casi in cui non mi sono sentito vincolato dal principio della leadership collettiva.
Per esempio, quando respinsi senza esitazione la decisione di una conferenza programmatica in base alla quale il governo avrebbe dovuto essere nominato dalla conferenza stessa. Inoltre, rifiutai la prima rosa di negoziatori con il regime dell’apartheid fornita dall’Anc, che ci fu consegnata dalla leadership a Lusaka.
Degli undici nomi presenti, otto appartenevano a un unico gruppo etnico composto di neri e non c’era una sola donna.
Ricapitolando, il principio della leadership collettiva, di lavoro di squadra, non è uno strumento rigido e dogmatico da applicare meccanicamente senza tenere conto delle circostanze. Deve essere sempre esaminato alla luce delle condizioni predominanti.
In qualità di presidente dell’Anc e del paese, esortavo i membri dell’organizzazione, del governo e i parlamentari a parlare senza remore agli incontri dell’Anc e del governo. Ma immancabilmente li avvisavo che essere schietti non significava affatto essere disfattisti o negativi. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che lo scopo principale di un dibattito, interno ed esterno all’organizzazione, negli incontri politici, in Parlamento e negli altri organi governativi e quello di uscirne - per quanto forti possano essere le nostre divergenze - più coesi e uniti e più fiduciosi di prima.
Eliminare le differenze e i sospetti reciproci all’interno dell’organizzazione dovrebbe essere sempre il nostro principio guida. Tutto questo risulta relativamente semplice quando cerchiamo, nei limiti delle nostre capacita, di non mettere mai in dubbio l’integrità di un compagno o di un membro di un’altra organizzazione politica che esprime un punto di vista diverso dal nostro.
Nel corso della mia carriera politica mi sono reso conto che in ogni comunità - africana, meticcia, indiana e dei bianchi - e in tutte le organizzazioni politiche senza alcuna eccezione, ci sono uomini e donne perbene che desiderano ardentemente vivere la propria vita, che anelano alla pace e alla stabilità, che vogliono un reddito dignitoso, abitazioni decenti e vogliono mandare i propri figli nelle scuole migliori, persone che rispettano il tessuto sociale e che vogliono preservarlo.
I leader capaci sanno perfettamente che eliminare le tensioni sociali, di qualunque natura esse siano, pone in primo piano i pensatori più creativi generando un ambiente ideale affinché uomini e donne lungimiranti possano influenzare la società. Al contrario, gli estremisti prosperano in un clima di tensioni e di diffidenza reciproca. Il pensiero lucido e la buona pianificazione non sono mai stati la loro arma.
- © 2017 by Nelson R. Mandela and the Nelson Mandela Foundation © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Published by Arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara
Sulla lunga strada per la libertà
Una trilogia per Mandela
di Carla Moreni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22 maggio 2016)
È difficile raccontare la vita di un uomo in un libro, in un film. Figuriamoci in un’opera o addirittura in un musical. La sfida sembra impossibile. Eppure Mandela Trilogy coglie nel segno: nella forma ibridata del musical, che però suona anche come opera; con molti richiami al Novecento di Britten, molti inserti di jazz, ma anche molti sguardi al repertorio sudafricano. Il ritratto che ne esce è insieme storia e teatro. Con tanti pugni chiusi. Teso sulla velocità di cambi continui di scena e situazione, contagioso per l’esuberanza fisica del canto e della recitazione.
Si parte con un Prologo, come nella più classica tradizione. Vista dall’alto, siamo nella cella di un prigioniero, con branda, cuscino, orinatoio: archetipo di claustrofobica reclusione. Il prigioniero in questo momento è fuori dalla cella. Siamo nel 1976 e Nelson Mandela ha già scontato 14 anni di prigione. Su di lui pesa una condanna all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento, per le battaglie contro la segregazione razziale e l’incitazione alla lotta armata. Lo vediamo mentre ha di fronte un bianco in divisa, che gli offre con poche parole scandite la libertà. Ma a condizione che accetti di trasferirsi nel Transkei, uno dei ghetti creati dal governo sudafricano per i neri.
Mandela rifiuta. Sorridendo, cantando pacatamente. Non potrebbe essere altrimenti la sua lotta per la libertà, quel cammino sulla lunga strada per la libertà al quale è intitolato Ravenna Festival. Coraggiosamente, in una città fortemente caratterizzata dalla presenza di comunità di colore e in un teatro a palchetti come l’Alighieri, si rompono gli schemi.
Si racconta una storia passata, che tuttavia nella forma immediata dell’impianto di Mandela Trilogy non potrà che riflettersi sul presente. Colorata, giocata tutta sui corpi, semplice ma possente nei gesti di gruppo, l’opera viene da Cape Town. È una produzione nata il 18 giugno 2012, giorno del novantaquattresimo compleanno del più famoso presidente del Sudafrica, dal 1994 al 1999: primo presidente eletto dopo l’apartheid e premio Nobel per la pace nel 1993. Alle spalle quei 27 anni di prigione, interrotti nel 1990 per una pressione contro la sua condanna a vita che aveva preso ormai dimensioni mondiali.
Un coro etnico, parlato, sulle sonorità e gli accenti caratteristici della lingua xhosa, la lingua madre di Mandela, fa da sfondo al suo rifiuto ad accettare una libertà individuale e condizionata. Che avrebbe solo il sapore di una resa. Madiba non accetta. Non viene liberato. Non può sottostare alla regola del bantustan, del ghetto, del territorio forzato.
Il racconto della sua storia, scritto su libretto di Michael Williams, anche regista, e con la collaborazione di due compositori, Péter Louis van Dijk, per il primo e terzo atto, e Mike Campbell, per il secondo, diventa una Trilogy. Scandita in tre atti, in ciascuno presenta un Mandela diverso: prima quello giovane, il ragazzo cresciuto tra i riti iniziatici e i combattimenti della madre Africa, nel paese natale di Mvezo, un piccolo villaggio incontaminato; poi quello disinvolto e seduttivo dei cinema e dei jazz club di Sophiatown, la Harlem sudafricana, dove Mandela svetta, tra echi di jazz e canzoni di Miriam Makeba, nello storico Jig Club, prima delle incursioni della polizia; e infine il Mandela della prigione, delle tre diverse carceri di Robben Island, Pollsmoor, Victor Verster.
Le celle sono linde, forse troppo per una ricostruzione realistica. Le divise ben stirate. La piccola biblioteca ha i libri in ordine: Mandela legge tenacemente, tra compagni mansueti, interrogativi, pacati. Non vuole scaldare gli animi, quest’opera-musical, né rilanciare sguardi retrospettivi che scatenino ribellioni sul vissuto. E questo si spiega pensando alla matrice originaria, di Mandela Trilogy: uno spettacolo di canzoni, al debutto a Cape Town il 17 luglio 2010, intitolato African Songbook.
Anche qui, pur nello stile diverso dei due compositori, van Dijk e Campbell, uno più vicino a Gershwin e alla canzone americana, al pianoforte, l’altro più sperimentale, corale e con citazioni evidenti, ad affiorare in primo piano rimane soprattutto un elemento: la difesa di una cultura identitaria, di tradizione. Attraverso la musica canta e ritma la volontà di libertà. Non di omologazione. La dice la richiesta di attenzione rispettosa, magnetica e sensuale nelle danze arcaiche delle donne di Mvezo, dagli enormi copricapi colorati. Viene echeggiata nei Songs di Dolly Rathebe, la fantastica giovane e procace star del Jig Club, dove Mandela balla e canta in elegantissimo gessato.
Con un triplice protagonista, la Trilogia offre anche una triplice scansione cronologica. Nel primo atto siamo tra il 1934 e il 1941 (dai 16 ai 23 anni del protagonista) il maggiormente caratterizzato sotto il profilo etnico, con abbondante uso della lingua xhosa; nel secondo si passa al 1955, con un eclatante salto dal folklore della campagna africana alla libertà felice della città, tra cinema e jazz-club. È fulmineo il rapido annientamento di queste isole felici, cancellate dalla violenza delle leggi sull’apartheid. Nel terzo atto si copre invece la lunga arcata che va dal 1960, coi primi processi e le prigione, al 1994 dell’elezione alla presidenza del Sudafrica.
Regia e libretto, efficacissimi, si sposano con due ore di musica continuamente variata, polistilistica, che comprende un grande uso di percussioni, ma anche un moderno declamato, per il grande discorso di insediamento di Madiba, presidente eletto il 10 maggio 1994. La produzione originale dell’Opera di Cape Town, già festeggiata in Inghilterra e Germania, è al debutto in Italia. Solisti e coro sono sudafricani, ma in buca batte il cuore dell’Orchestra Cherubini.
La lezione di speranza di Madiba
di Leonardo Boff *
Nelson Mandela, con la sua morte, si è immerso nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più: si è trasformato in un archetipo universale, quello della vittima di ingiustizia che non serba rancore, che sa perdonare, riconciliare poli antagonisti e trasmetterci l’incrollabile speranza che esiste ancora una via di salvezza per l’essere umano. Dopo 27 anni di reclusione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, ha realizzato la grande sfida di trasformare una società strutturata in base alla suprema ingiustizia dell’apartheid - che disumanizzava le grandi maggioranze nere del Paese negando loro i diritti della persona - in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera.
Ed è riuscito nel compito scegliendo il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione. Perdonare non significa dimenticare. Le ferite sono lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e determinino il corso della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, è cambiare pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, quelle di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale solo quando c’è l’ammissione completa dei crimini da parte dei responsabili e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale di fronte a tutta la società.
Una soluzione, sicuramente originalissima, viene da un concetto estraneo alla nostra cultura individualista: l’ubuntu, che vuole dire “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Senza un legame permanente di tutti con tutti, la società è, come lo è la nostra, a rischio di lacerazioni e di conflitti interminabili.
Dovrebbe comparire nei manuali scolastici di tutto il mondo la seguente umanissima affermazione di Mandela: «Ho lottato contro il dominio dei bianchi e ho lottato contro il dominio dei neri. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutte le persone possano vivere unite e in armonia e abbiano pari opportunità. Questo è il mio ideale e vorrei vivere per realizzarlo. Ed è un ideale per il quale, se fosse necessario, sono disposto a morire».
Perché la vita e la saga di Mandela costituiscono una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché ci stiamo avvicinando al nucleo centrale di una congiunzione di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Ci troviamo nel pieno della sesta grande estinzione di massa. Cosmologi come Brian Swimme e biologi come Edward Wilson ci avvertono che, se lasciamo le cose come stanno, intorno al 2030 arriveremo al culmine di questo processo devastante. Vuol dire che la convinzione persistente, nell’intero mondo come in Brasile, che la crescita economica materiale ci porterà sviluppo sociale, culturale e spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.
Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, ex consulente del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, il quale scrive, al termine del suo Lo scontro delle civiltà (1997): «La legge e l’ordine sono il primo requisito della civiltà; in buona parte del mondo sembra stiano evaporando; su scala mondiale, sembra che per molti versi la civiltà stia cedendo alla barbarie, creando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, un’Età delle Tenebre mondiale che si abbatte sull’umanità».
Aggiungo l’opinione del noto filosofo e politologo Norberto Bobbio che, come Mandela, credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per ridurre il problema della violenza fra gli Stati e per garantire una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista dichiarò: «Non saprei dire come sarà il Terzo millennio. Le mie certezze vengono meno ed è solo un enorme punto interrogativo ad agitarsi nella mia testa: sarà il millennio della guerra di sterminio o quello della concordia tra gli esseri umani? Non sono nelle condizioni di rispondere».
Di fronte a questi scenari bui, Mandela di sicuro risponderebbe, basandosi sulla sua esperienza politica, che, sì, è possibile che l’essere umano si riconcili con se stesso, che sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri un nuovo modo di stare insieme nella stessa Casa.
Vale la pena riportare le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu che coordinò il processo di Verità e Riconciliazione: «Abbiamo affrontato la bestia del passato a viso aperto, abbiamo chiesto e ricevuto perdono; ora voltiamo pagina: non per dimenticare questo passato, ma per non lasciare che ci imprigioni per sempre. Cerchiamo di avanzare verso il futuro glorioso di una nuova società nella quale le persone valgano non in ragione di dettagli biologici o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio».
Questa è la lezione di speranza che ci lascia Mandela: potremo vivere se, senza fare alcuna discriminazione, realizzeremo l’ubuntu.
* Adista Documenti n. 45 del 21/12/2013
Sudafrica, l’ultimo addio a «Madiba»
I funerali nel villaggio natale di Qunu
La sepoltura del leader della lotta contro l’apartheid nel cimitero di famiglia
Ai funerali hanno assistito 4.500 persone. In prima fila la vedova Graca Macel *
Nelson Mandela è stato sepolto nel cimitero di famiglia, nel villaggio natale di Qunu. L’inumazione è stata salutata da un volo della pattuglia acrobatica sudafricana. Prima della sepoltura la cerimonia solenne. La bara, avvolta nella bandiera sudafricana, è stata accolta nel luogo della celebrazione dal canto di un coro accompagnato da un’orchestra. Il coro ha intonato un inno religioso in lingua xhosa, l’etnia a cui Mandela apparteneva. Ai funerali, che si sono svolti su una terra di proprietà dei Mandela, hanno assistito 4.500 persone. In prima fila la vedova Graca Macel (vestita di nero e col tradizionale turbante), i familiari, l’attuale presidente Jacob Zuma e dignitari sudafricani e stranieri.
All’ultimo minuto, Desmond Tutu ha cambiato idea e ha partecipato alla cerimonia per Nelson Mandela, il suo amico e compagno di lotta. Il presidente sudafricano Jacob Zuma, invece, è stato nuovamente fischiato oggi quando ha raggiunto il leggio per il suo intervento. Zuma era stato fischiato anche alla commemorazione di Madiba nel Soccer City Stadium di Johannesburg. Egli ha comunque poi intonato l’inno con i presenti e ha infine cominciato a parlare accolto ancora per qualche secondo da un misto di applausi e contestazioni.
«Non lo consideravo un amico. Per me era un fratello maggiore». Così Ahmed Kathrada, 84 anni, uno dei vecchi compagni di Nelson Mandela nella lotta contro l’apartheid e nella detenzione a Robben Island, ha ricordato commosso Madiba alla cerimonia funebre in corso nel villaggio di Qunu. Kathrada è stato uno dei tanti ospiti che si è alternato sul palco, sotto la gigantografia di Mandela, dinanzi alla quale brillavano 95 candele, una per ogni anno d’età. «Quando Walter Sisulu (un pilastro della lotta anti-apartheid, scomparso nel 2003, ndr) è morto, ho perso un padre. Ora ho perso un fratello. La mia vita sta affrontando un vuoto e non so più a chi rivolgermi», ha proseguito Kathrada nel suo intervento davanti a 4.500 invitati alla cerimonia.
Con voce spesso rotta dall’emozione, Kathrada ha raccontato anche di come si è commosso durante una delle ultime visite in ospedale a Madiba. «Ho visto un uomo impotente e ridotto all’ombra di se stesso e l’inevitabile è accaduto», ha soggiunto con voce commossa. Durante questa visita, «sono stato sopraffatto dall’emozione e dalla tristezza, e ho pianto. Ha tenuto la mia mano, è stato straziante, non ho retto all’emozione».
«Automaticamente, la mia mente è tornata all’immagine dell’uomo grande e forte che ho conosciuto 67 anni fa, il pugile, il prigioniero che ha gestito con facilità la pala e il piccone, quando noi altri detenuti noi non eravamo in grado di farlo». ««Addio mio caro fratello, mio mentore, mio leader», ha concluso Kathrada, a lungo applaudito. A ricordare Madiba è stato anche Kenneth Kaunda, l’ex presidente dello Zambia, che ha voluto sottolineare la grande eredità lasciata da Mandela.
* La Stampa, 15/12/2013
La meditazione
di Marianne Williamson *
La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: " Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? "
In realtà chi sei tu per Non esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Edizioni Ripostes, Roma-salerno 2001, p. 6.
*
dal libro "Ritorno all’amore" di Marianne Williamson,
PensieriParole
La straordinaria avventura di Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace
Dal villaggio nel Traskei alla militanza nell’Anc, giovane avvocato e poi militante della lotta armata. Gli amori, le mogli, la tragedia dei figli strappati dall’Aids. La lunga prigionia che lo rafforza al punto da diventare la leva che scardina l’apartheid. Gli anni della gloria, dal Nobel alla presidenza. Il nuovo impegno nella lotta al virus e la scelta di ritirarsi dalla scena pubblica, che fino all’ultimo non ha appannato la sua popolarità universale. 95 anni vissuti dalla parte della libertà
di DANIELE MASTROGIACOMO (la Repubblica, 05 dicembre 2013)
PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all’ergastolo, rinchiuso per 27 anni in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro l’apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c’è stato un altro uomo o un’altra donna che hanno speso gran parte della vita per sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore l’intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di carcere durissimo nell’isola-prigione di Robben Island.
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell’importanza della scuola e dell’educazione.
E’ convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all’epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell’apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all’African national congress (Anc). E’ molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell’Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell’Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell’Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E’ diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l’inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l’assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell’Anc con l’accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell’apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L’Aids, che all’epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E’ un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all’ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell’Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l’esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d’uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E’ il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L’Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E’ accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all’ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l’invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E’ trasferito nell’isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l’apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall’atteggiamento di quest’uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell’embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell’inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all’11 febbraio del 1990. E’ una data storica, una domenica: l’ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un’immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l’ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l’uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l’uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all’ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell’Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E’ il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all’apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l’unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell’India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell’Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un’icona immortale. E’ un uomo. Conserva la saggezza, l’equilibrio, la disciplina, la tenacia, l’ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E’ molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l’energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un’ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia.
Sudafrica, Zuma: Mandela peggiora.
"Adesso è in condizioni critiche"
L’annuncio è stato fatto da Mac Maharaj, portavoce del presidente sudafricano. Il leader della lotta all’apartheid dallo scorso 8 giugno è in un ospedale di Pretoria per un’infezione polmonare *
JOHANNESBURG - L’ultimo annuncio ottimista da parte della presidenza sudafricana risale a ieri. Nelson Mandela resta "grave ma stabile", aveva precisato una nota ufficiale. Ma oggi la situazione è precipitata e le sue condizioni sono state definite "critiche" . Lo ha reso noto Mac Maharaj, portavoce del presidente Jacob Zuma. Mandela è ormai ricoverato in un ospedale di Pretoria da 16 giorni per la recrudescenza di una grave infezione polmonare che ha la sua origine nei 27 duri anni di prigione. In una nota diffusa in serata, si legge che i medici "stanno facendo tutto il possibile" per far sì che le sue condizioni "migliorino".
L’ufficio del presidente fa sapere che Zuma ha fatto visita a Madiba in ospedale e che è peggiorato nelle ultime 24 ore. Al suo capezzale ci sono la moglie, Graca Machel, e il vicepresidente dell’Anc (il partito che fu di Mandela, al governo), Cyril Ramaphosa.
Ieri la presidenza aveva anche confermato le notizie di stampa secondo la quali l’ambulanza militare che l’aveva trasportato in ospedale aveva subito un guasto. Il veicolo era stato subito sostituito con un altro, si leggeva nella nota in cui veniva ribadito l’appello al rispetto della privacy di Mandela e alla collaborazione dei media.
Negli ultimi anni la salute del premio Nobel è diventata sempre più fragile. È la quarta volta che Nelson Mandela viene ricoverato negli ultimi sei mesi. Rimase in ospedale per quasi tutto dicembre, poi a gennaio per controlli, poi in aprile per una rinnovata crisi polmonare, poi l’8 giugno i medici avevano riscontrato una ripresa dell’infezione ai polmoni. Tra questi due ultimi ricoveri c’era stata, in maggio, la diffusione di un video che lo ritraeva in casa, immobile, taciturno, corrucciato, visibilmente impedito e sofferente (nella foto).
Lo scopo dell’operazione era di mostrare ai sudafricani increduli e angosciati che il vecchio padre della patria era ancora vivo, ma l’effetto fu opposto, perché nelle immagini si vedeva soltanto un uomo ridotto all’ombra di se stesso. Le sue condizioni sono "gravi, ma stabili", diceva il primo comunicato letto sabato dal portavoce presidenziale Mac Maharaj, un altro ex detenuto di Robben Island. Da allora i medici non hanno aggiunto nulla. Nessuna novità era trapelata dall’ospedale di Pretoria. Fino a questa sera.
* la Repubblica, 23 giugno 2013
Il presidente Usa rende omaggio all’uomo che liberò i neri dalla segregazione
Il mio maestro Mandela
Mentre il futuro presidente del Sudafrica era in prigione un giovane studente americano incominciava a fare politica Il passaggio di testimone nella nuova biografia del leader anti-apartheid
Uno era il prigioniero più famoso del mondo, leader della lotta all’apartheid, futuro presidente del Sudafrica L’altro uno studente universitario che scopriva la politica, futuro presidente degli Stati Uniti. Ora l’ex allievo rende omaggio al maestro nella nuova biografia dell’uomo che liberò i neri dalla segregazione. Ne anticipiamo un brano
di Barack Obama (la Repubblica, 10.10.2010)
Come tanti altri al mondo, ho conosciuto Nelson Mandela da lontano, quando era imprigionato a Robben Island. Per molti di noi lui era più di un uomo: era un simbolo della lotta per la giustizia, l’uguaglianza e la dignità in Sudafrica e in tutto il pianeta. Il suo sacrificio era così grande da incitare ovunque le persone a fare tutto ciò che era in loro potere per il progresso dell’umanità. Nel più modesto dei modi, sono stato uno di coloro che hanno cercato di rispondere al suo appello. Ho cominciato a interessarmi di politica negli anni del college, unendomi alla campagna di disinvestimento e per la fine dell’apartheid in Sudafrica. Nessuno degli ostacoli personali che mi trovavo ad affrontare come giovane uomo era paragonabile a quello che le vittime dell’apartheid vivevano ogni giorno.
E potevo solo immaginare il coraggio che aveva portato Mandela a rimanere in quella cella per così tanti anni. Ma il suo esempio contribuiva ad aumentare la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto. Con le sue scelte, Mandela dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com’è, che possiamo fare la nostra parte perché diventi come dovrebbe essere.
Nel corso degli anni ho continuato a guardare a Nelson Mandela con ammirazione e umiltà, ispirato dal senso di possibilità che la sua vita dimostrava e sgomento di fronte ai sacrifici necessari per coronare il suo sogno di giustizia e uguaglianza. Di fatto, la sua vita racconta una storia che si erge in netta opposizione al cinismo e alla rassegnazione che così spesso affliggono il nostro mondo. Un prigioniero è diventato un uomo libero; un simbolo di emancipazione è diventato una voce appassionata a favore della riconciliazione; un leader di partito è diventato un presidente che ha promosso la democrazia e lo sviluppo. Anche dopo avere lasciato gli incarichi ufficiali, Mandela continua a lavorare per l’uguaglianza, l’ampliamento delle opportunità e la dignità umana. Ha fatto così tanto per cambiare il proprio Paese, e il mondo, che è difficile riuscire a immaginare la storia degli ultimi decenni senza di lui.
Poco più di vent’anni dopo aver fatto il mio ingresso nella vita politica e nel movimento per il disinvestimento come studente di college in California, sono entrato in quella che era stata la cella di Mandela a Robben Island. Ero appena stato eletto senatore degli Stati Uniti. La cella era ormai stata trasformata da una prigione in un monumento al sacrificio compiuto da così tante persone per una trasformazione pacifica del Sudafrica. Mentre mi trovavo in quella cella, ho provato a tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui il presidente Mandela era ancora il prigioniero 466/64, quando la vittoria nella sua battaglia era tutt’altro che una certezza. Ho cercato di immaginare Mandela - quella figura leggendaria che aveva cambiato la storia - come l’uomo Mandela, che aveva sacrificato così tanto per il cambiamento. Io, Nelson Mandela offre uno straordinario contributo al mondo, restituendoci proprio l’immagine dell’uomo Mandela. [...] Mandela aveva intitolato la sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà. Ora, questo volume ci aiuta a ripercorrere i passi - e le deviazioni - che ha compiuto durante quel viaggio.
Fornendoci questo ritratto a tutto tondo, Nelson Mandela ci ricorda di non essere stato un uomo perfetto. Anche lui, come tutti noi, ha i suoi difetti. Ma sono proprio queste imperfezioni che dovrebbero essere d’ispirazione per ciascuno di noi. Perché, se siamo onesti con noi stessi, sappiamo che affrontiamo battaglie piccole e grandi, personali e politiche, per superare la paura e il dubbio, per continuare a impegnarci anche quando l’esito della lotta è incerto, per perdonare gli altri e sfidare noi stessi. La storia raccontata da questo libro - e la storia della vita di Mandela - non è quella di esseri umani infallibili e di un inevitabile trionfo. È la storia di un uomo disposto a rischiare la vita per ciò in cui credeva e ha lavorato incessantemente per condurre quel genere di esistenza che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Alla fine, è questo il messaggio di Mandela a ognuno di noi. Per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri. Perfino Mandela ha vissuto giorni come questi. Ma anche quando soltanto un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, riusciva a vedere un futuro migliore, degno del suo sacrificio. Anche quando ha dovuto fare i conti con la tentazione di cercare vendetta, ha visto la necessità di una riconciliazione e il trionfo dei principi sul mero potere. Anche quando ha raggiunto il meritato riposo, ha continuato a cercare - e continua tuttora - di ispirare i suoi compagni e le sue compagne a mettersi al servizio dell’umanità.
Prima di diventare presidente degli Stati Uniti ho avuto il grande privilegio di incontrare Mandela e dopo la mia elezione ho parlato in varie occasioni con lui al telefono. In genere sono conversazioni brevi: lui è ormai giunto al crepuscolo della sua vita e io devo affrontare il fitto programma di impegni che la mia carica mi impone. Ma sempre, durante queste conversazioni, ci sono momenti in cui traspaiono la gentilezza, la generosità la saggezza dell’uomo. Quei momenti mi ricordano che dietro la storia che è stata scritta c’è un essere umano che ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti, oltre le prigioni del passato. E mi rammentano che, per quanto sia diventato una leggenda, conoscere l’uomo - Nelson Mandela - significa rispettarlo ancora di più. © 2010 by Barack Obama/ Agenzia Santachiara
Ma non volevo essere un santo
di Nelson Mandela (la Repubblica, 10.10.2010)
Gli uomini e le donne di tutto il mondo, nel corso dei secoli, vanno e vengono. Alcuni non si lasciano nulla alle spalle, nemmeno il proprio nome. Sembra che non siano nemmeno mai esistiti. Altri si lasciano dietro qualcosa: il ricordo ossessivo degli atti malvagi commessi contro gli altri, gravi violazioni dei diritti umani, che non si limitano all’oppressione e allo sfruttamento di minoranze etniche ma si spingono fino al genocidio per conservare intatte le proprie orrende politiche. Il decadimento morale di certe comunità in varie parti del mondo si rivela fra le altre cose nell’uso del nome di Dio per giustificare azioni condannate dal mondo intero come crimini contro l’umanità. Nella moltitudine di coloro che nel corso della storia si sono dedicati alla lotta per la giustizia in ogni sua forma, ci sono alcuni che hanno comandato invincibili eserciti liberatori.
Eserciti che hanno intrapreso operazioni entusiasmanti e hanno compiuto enormi sacrifici per liberare il loro popolo dal giogo dell’oppressione, per migliorare le condizioni di vita creando posti di lavoro, costruendo case, scuole, ospedali, introducendo l’elettricità e portando acqua pulita e potabile alle persone, soprattutto nelle zone rurali. Il loro scopo era eliminare il divario tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, sani e malati, affetti da malattie che si potevano tranquillamente prevenire. In effetti, quando un regime reazionario veniva rovesciato, i liberatori cercavano di fare del proprio meglio, nei limiti delle risorse a loro disposizione, per portare a compimento questi nobili obiettivi e per introdurre un governo pulito, libero da ogni forma di corruzione. Quasi tutti i membri del gruppo oppresso traboccavano di speranza che i sogni tanto agognati potessero finalmente realizzarsi, che sarebbero riusciti a riacquistare una dignità umana ormai negata da decenni o addirittura secoli.
Ma la storia non smette mai di giocare brutti scherzi, anche a quei paladini della libertà famosi in tutto il mondo. Spesso i rivoluzionari del passato hanno ceduto facilmente all’avidità, e anche ultimamente la tendenza a dirottare le risorse pubbliche per l’arricchimento personale li ha sopraffatti. Accumulando grandi ricchezze e tradendo i nobili obiettivi che li avevano resi famosi, hanno virtualmente disertato le masse dei popoli e si sono alleati con gli ex oppressori, derubando senza pietà i più poveri solo per arricchirsi.
Vige un rispetto universale e perfino una sorta di ammirazione per chi è umile e semplice per natura e per chi mostra assoluta fiducia in tutti gli esseri umani, indipendentemente dallo status sociale. Questi sono uomini e donne, celebri e sconosciuti, che hanno dichiarato guerra a ogni forma di grave violazione dei diritti umani in tutti i luoghi in cui tali eccessi si manifestano. Sono in genere ottimisti, convinti che in ogni comunità al mondo ci siano donne e uomini buoni che credono nella pace quale arma più potente nella ricerca di soluzioni durature.
La situazione attuale giustifica forse l’uso della violenza, che perfino quelle donne e quegli uomini buoni potrebbero avere difficoltà a evitare. Ma, anche in questi casi, l’uso della forza sarebbe una misura eccezionale, il cui scopo principale è creare le basi necessarie per soluzioni pacifiche. Sono proprio queste donne e questi uomini buoni la speranza del mondo. I loro sforzi e risultati sono riconosciuti al di là della morte, anche ben oltre i confini del loro Paese, rendendoli così immortali. La mia impressione generale, dopo avere letto diverse autobiografie, è che un’autobiografia non sia solo una raccolta di eventi e di esperienze in cui una persona è stata coinvolta, ma anche un modello su cui altri potrebbero basare la propria vita. Questo libro non ha tali pretese e non ha l’ambizione di lasciare tracce.
Da giovane [...] ho vissuto le debolezze, gli errori e l’impulsività di un ragazzo di campagna, e il mio immaginario e le mie esperienze sono stati influenzati per lo più dagli avvenimenti del luogo in cui sono cresciuto e dei college in cui mi hanno mandato. Mi sono affidato all’arroganza per nascondere la debolezza. Da adulto, i miei compagni hanno tolto me e altri prigionieri, con alcune significative eccezioni, dall’oscurità del male o del mistero, anche se la leggenda secondo cui sono stato uno dei prigionieri militanti più longevo al mondo non è mai del tutto scomparsa.
Una questione che mi preoccupava molto in prigione era la falsa immagine che proiettavo involontariamente sul mondo esterno; di essere considerato un santo. Non lo sono mai stato, nemmeno sulla base della definizione terrena di santo come peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone
e Cristina Volpi
Conversations by Myself © 2010 by Nelson R. Mandela and The Foundation/
Agenzia Santachiara © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara
cantano anche la franklin, steve wonder e la gaynor. zucchero, l’unico musicista italiano
Anche la Bruni sul palco del Mandela Day
A New York canta davanti a Sarkozy che l’applaude. Video-messaggio di Barack Obama *
NEW YORK (USA) - Un maxi-concerto per festeggiare, «l’uomo più amato al mondo», colui che «ci ha insegnato che anche l’impossibile può avverarsi». Sul palco del Radio City Music Hall, a rendere omaggio a Nelson Mandela in occasione del suo novantunesimo compleanno, sfilano star di Hollywood e della musica, da Morgan Freeman a Gloria Gaynor, da Aretha Franklin a Steve Wonder. Rompe per un buona causa, quella per la lotta all’Aids, la promessa di non esibirsi più in pubblico fino a quando il marito sarà presidente della Francia: Carla Bruni, la first lady francese, canta, accompagnata da Dave Stewart, «Blownin in the wind» di Bob Dylan.
IL VIDEO-MESSAGGIO DI OBAMA - A interrompere le oltre tre ore di musica in onore di Mandela è il presidente americano Barack Obama che, con un videomessaggio, gli fa gli auguri e lo ringrazia per tutto quello che ha fatto. Grande assente alla festa è proprio il festeggiato, l’ex presidente del Sud Africa, che comunque non fa mancare il proprio sostegno e, introdotto da Freeman, illustra con un video-messaggio lo scopo del Mandela Day, che da quest’anno verrà festeggiato ogni 18 luglio: «Non è un giorno di vacanza ma una giornata per dedicarsi agli altri». O almeno dedicare loro - questo il motto - 67 minuti per vedere «quello che possiamo fare, per lasciare un’impronta». Sessantasette sono infatti gli anni di lotta sostenuti da Mandela contro l’apartheid. Unico italiano a esibirsi è Zucchero, che canta «You are so beautiful»: Zucchero è l’unico degli artisti della serata ad aver partecipato a tutti i concerti dell’organizzazione 46664 (che è il numero di matricola di Mandela durante la sua detenzione) da quando hanno preso il via in Sud Africa agli inizi del 2000.
LA FESTA - Ad aprire la festa per Mandela è stata Whoopy Goldberg che, dopo una breve introduzione, lascia spazio al Coro di Soweto che si esibisce in »Gimme hope Joanna», brano di diversi decenni fa bandito in Sud Africa ma in testa alle classifiche inglesi per alcune settimane. La prima cantante a salire sul palco è stata invece Gloria Gaynor che, avvolta in un lungo abito fucsia, si esibisce prima in «I will survive» e poi in «Happy days». «È un onore essere una piccola parte di questo grande evento per una persona straordinaria: Mandela, l’unico a poter ispirare il mondo», spiega Gaynor alla platea. Spetta all’attore Forest Whitaker presentare «una star europea che ha venduto oltre 2 milioni di dischi» e ora conosciuta «anche come First Lady di Francia», vale a dire Carla Bruni. L’ex modella, con in braccio la chitarra, sfoggia un sobrio completo pantalone nero e canta prima in francese («Quelqùun m’a dit») e poi in inglese («Blownin in the wind»): una performance la sua al termine della quale il presidente francese Nicolas Sarkozy, presente fra il pubblico, si alza orgoglioso ad applaudire. Josh Groban, Queen Latifah e Baaba Maal (che canta «With my own hands» di Ben Harper) si alternano fra gli applausi del pubblico.
MESSAGGIO DI MANDELA - Un’ovazione arriva con l’ingresso in scena di Morgan Freeman, che introduce il videomessaggio di Mandela. «Non può viaggiare ma ci teneva a inviarci un messaggio per spiegare lo scopo del Mandela Day - spiega l’attore -. Nei film ho interpretato personaggi come il presidente degli Stati Uniti e perfino Dio. Ma quella di Mandela è una storia vera, quella di un uomo che ha trascorso 27 anni in prigione e ve ne è uscito senza rancore». Chiudono lo spettacolo la «regina del Soul» Aretha Franklin e Steve Wonder che, prima di cantare, ricorda la famiglia del suo amico Michael Jackson, scomparso lo scorso 25 giugno.
* Corriere della Sera, 19 luglio 2009
INCHIESTA
Dal Sudafrica al Perù, sono ormai oltre 30 gli istituti che hanno regolato i conti con la storia superando la giustizia dei tribunali.
Un avvocato fa la mappa
Commissioni Verità, la voce delle vittime
da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 07.06.2009)
« In molti Paesi, i tribunali penali stanno evolvendo e ciò è dovuto anche all’influenza delle commissioni Verità e riconciliazione, molto più attente alle vittime rispetto alle istituzioni della giustizia tradizionale». Ad esserne convinto è l’avvocato e militante dei diritti umani Etienne Jaudel, di cui fa molto discutere in Francia l’ultimo saggio Justice sans châtiment («Giustizia senza castigo», edizioni Odile Jacob). Già segretario generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo, Jaudel analizza il ruolo vieppiù cruciale delle commissioni durante il crollo di regimi coperti d’obbrobrio, come in Sudafrica, e in generale dopo l’abominio di crimini di massa. «Anche se la riconciliazione è un obiettivo che solo il tempo può aiutare a raggiungere, le commissioni facilitano spesso almeno la coesistenza».
Professor Jaudel, cosa distingue le commissioni rispetto alle altre istituzioni di giustizia?
«Non si tratta di organismi giudiziari. Rappresentano in teoria un complemento ai tribunali, anche se di fatto sono state spesso create in Paesi dove la giustizia non funzionava. In effetti, i giudici non entrano in gioco e non si può neppure dire che i membri delle commissioni siano disinteressati. Del resto, non viene chiesto loro di essere obiettivi. Basta ricordare, in proposito, le celebri scene di Desmond Tutu che bacia i testimoni: scene inconcepibili in un tribunale. Lo scopo primario delle commissioni non è di condannare i colpevoli, ma di ascoltare le vittime».
La creazione delle commissioni serve a colmare certi limiti dei tribunali penali?
«Direi di sì, soprattutto se si pensa alla promozione delle vittime, i cui interventi restano spesso secondari nella giustizia tradizionale, così attenta invece alla parola dei colpevoli. C’è poi un altro aspetto. Di fronte ai crimini di massa, sanzionare i responsabili risulta sempre estremamente difficile. Le prove sono difficili da ottenere, i mezzi della giustizia si rivelano spesso insufficienti, i responsabili sono innumerevoli. Le commissioni si distinguono inoltre per la loro flessibilità di funzionamento, che le rende particolarmente adattabili ai diversi contesti».
Nel lavoro delle commissioni, che tipo di riparazione è in gioco?
«La compensazione appartiene soprattutto al registro dell’emozione. Le vittime spesso non reclamano vendetta, ma vogliono innanzitutto conoscere la verità. Credo si tratti dell’aspetto essenziale di questa nuova forma di giustizia. Rispetto a questa ricerca collettiva della verità, passa in secondo piano persino la condanna dei responsabili».
Organismi quasi sempre non neutrali, le commissioni debbono nondimeno conservare una forma d’indipendenza?
«Il problema dell’indipendenza resta, ma è di natura particolare. È assolutamente indispensabile che gli esperti e i membri delle Commissioni siano totalmente indipendenti dall’autorità pubblica. In altri termini, non sono accettabili compromissioni col potere, che fra l’altro le commissioni si preparano a sanzionare simbolicamente. Non viene richiesta, al contrario, alcuna neutralità nei confronti delle vittime. Anzi, un rapporto ravvicinato con le vittime può spesso giovare. In Marocco, del resto, la commissione era presieduta da un ex prigioniero politico».
Data la gravità dei singoli contesti, la ricerca di un presidente ideale per queste commissioni pare un’impresa ardua...
«In effetti, è una scelta molto difficile e lo stesso vale per tutti i membri. In Togo, dove una commissione è in corso di formazione, si è trattato a lungo di uno dei problemi cruciali. Solo nei giorni scorsi si è designato un presidente nella persona di Nicodème Barrigah, vescovo di Atakpamé. In alcuni Paesi, i commissari sono stati designati non a caso dalle Nazioni Unite. In altri, da istanze religiose o tradizionali. Non c’è uno schema fisso».
È già possibile tracciare un primo bilancio generale?
«Non si può certamente parlare di un successo generalizzato. In Sierra Leone, ad esempio, la commissione non ha ben funzionato, anche perché abbinata in modo probabilmente improprio con un tribunale internazionale. Nondimeno, ogni volta che si giunge a transizioni politiche particolarmente gravi, o quando emergono crimini di massa, viene posto il problema della costituzione di una commissione verità. Esiste dunque un reale bisogno e la tipologia istituzionale gode di un crescente successo. In questo momento, se ne discute anche in Madagascar, dov’è in corso una difficile transizione. O ancora in Libano e in Algeria. Un altro innegabile successo riguarda il dovere di memoria, data la straordinaria documentazione a disposizione degli storici prodotta dalle commissioni».
La popolarità attuale delle commissioni risente anche dell’esperienza ormai celebre del Sudafrica?
«Il successo mediatico della commissione sudafricana, fondato anche sul carisma personale di Desmond Tutu, ha contribuito largamente alla diffusione della formula. L’esperienza sudafricana ha dimostrato più di altre che il fatto di non ricercare in primo luogo dei responsabili consente delle testimonianze molto più complete e molto meno contestabili. Ma è al contempo vero che la commissione sudafricana, ancor oggi non poco criticata nello stesso Sudafrica, resta per molti aspetti unica. In particolare, per via della sua facoltà di concedere l’amnistia. Una scelta rischiosa molto raramente applicata altrove».
IL GRANDE SCRITTORE FRANCESE RACCONTA IL DOPO-APARTHEID
Lapierre Il nuovo Sudafrica di Mandela e Tutu
Verità in cambio di riconciliazione. Una transizione pacifica portò al Paese democrazia e libertà: una forte lezione d’umanità per il pianeta
di Dominique Lapierre (Avvenire, 19.10.2008) *
Amandla Ngawethu! «Il potere al popolo!». La celebre espressione non era più un appello alla speranza. Era una realtà. Con il 62,65% dei voti l’Anc, il partito di Nelson Mandela, aveva ottenuto 252 seggi sui 400 della prima assemblea democratica della nazione arcobaleno. Con il 24,4%, Frederik de Klerk e il suo partito della dominazione bianca se ne erano aggiudicati solo 82. Il 2 maggio 1994, 4 giorni dopo la proclamazione dei risultati, l’ultimo presidente dell’era dell’apartheid si presentò davanti ai microfoni della radio e alle telecamere per riconoscere la sconfitta e congratularsi con il suo successore. Con voce ferma e vibrante, ma anche emozionata, De Klerk espresse la soddisfazione di collaborare con Mandela nel primo governo di unità nazionale del nuovo Sudafrica. Ma voleva anche mettere in guardia il leader nero.
«Dopo il lungo cammino che ha percorso, oggi si trova in cima a una montagna - dichiarò -. Non potrà fermarsi per contemplare il paesaggio perché, al di là di quella montagna, ce n’è un’altra, e dietro, un’altra ancora. Il suo viaggio non sarà mai finito». Con lo sguardo magnetico che fin dal primo incontro aveva sedotto Mandela, il leader bianco fissò le telecamere puntate su di lui. Sapeva che 5 milioni di compatrioti e un numero incalcolabile di neri seguivano con il fiato sospeso e la gola stretta quel prodigioso appuntamento con la storia. «Le parole di Frederik de Klerk erano talmente belle che mi sono dovuto dare dei pizzicotti per poterci credere» confiderà l’arcivescovo Desmond Tutu.
Cinque giorni dopo, il 10 maggio, Nelson Mandela ricevette la consacrazione suprema. La cerimonia si svolse nel magnifico anfiteatro degli Union Building di Pretoria, che per 5 anni aveva ospitato le grandi cerimonie della supremazia bianca. Lo accompagnava Zenani, la figlia maggiore. Il suo discorso fece aleggiare sulla platea una straordinaria ondata di emozione. «Oggi, con la nostra presenza, tutti noi... tributiamo onore e speranza alla libertà appena nata - dichiarò l’ex ergastolano di Robben Island -. Dall’esperienza di straordinarie sofferenze umane, che troppo a lungo si sono protratte, deve nascere una società di cui tutta l’umanità sarà fiera... Mai, mai e poi mai dovrà accadere che questa splendida terra conosca di nuovo l’oppressione dell’uomo sull’uomo!... Che la libertà possa regnare in eterno! Dio benedica l’Africa!». Dio benedica l’Africa! Nessuna invocazione poteva risuonare più opportunamente in quel luminoso autunno australe.
Dopo essere stato «sommerso dal senso della Storia» durante la sua investitura, il primo presidente nero fu costretto a tornare sulla terra per scoprire le realtà che si dissimulavano sotto quelle montagne evocate da Frederik De Klerk. La prima, e sicuramente la più allarmante, era la terrificante criminalità che minacciava la sicurezza di tutti i cittadini, sia bianchi sia neri. Nel primo anno di democrazia, omicidi, aggressioni a mano armata, stupri e furti con scasso erano quasi raddoppiati.
Dalle frontiere dello Zimbabwe alle rive del Capo si commetteva un omicidio ogni mezz’ora, uno stupro ogni tre minuti, un furto con scasso ogni due minuti. Sotto la seconda montagna si nascondeva il devastante tasso di disoccupazione che riguardava il 40% della popolazione attiva nera. A buon diritto Mandela aveva invitato i suoi a «essere pazienti».
Mancavano tre milioni di alloggi, ventimila scuole, tremila ospedali, 300 mila chilometri di linee elettriche e quasi altrettanti di condutture dell’acqua potabile. La sfida più difficile non era tuttavia di ordine economico, bensì di ordine morale. «Dobbiamo essere uniti ai fini di una riconciliazione nazionale» aveva affermato Mandela la sera del voto. Lui stesso ne dava l’esempio con una grandezza d’animo che suscitava l’ammirazione dei suoi concittadini e dell’opinione pubblica mondiale.
Alla cerimonia della sua investitura aveva invitato i due rappresentanti della giustizia dell’apartheid che l’avevano condannato a vivere in prigione per il resto dei suoi giorni. Ma per quanto nobili e generosi, quei gesti non potevano distogliere dalla volontà di vendetta tante vittime dell’oppressione razziale. Si rivolse a uno dei più emblematici sopravvissuti al terrore bianco.
Invece di un tribunale che avrebbe giudicato i colpevoli, come era accaduto per i criminali nazisti al processo di Norimberga, l’arcivescovo Desmond Tutu propose di istituire una commissione che avrebbe offerto il perdono della nazione a tutti coloro che avessero accettato di rivelare i crimini commessi in nome dell’apartheid. Una sfida rivoluzionaria che Nelson Mandela accettò con entusiasmo. «Verità e Riconciliazione»: sarà questo il suo nome. Verità in cambio di riconciliazione. Così il Sudafrica compì il miracolo di uscire dall’apartheid senza il bagno di sangue annunciato da tutti i profeti di sventura. Una transizione pacifica ed esemplare portò il Paese della repressione e dell’ingiustizia alla democrazia, alla libertà e all’uguaglianza. Fu un’impresa senza precedenti nella storia dei conflitti fra gli uomini. E un’eccezionale lezione di umanità offerta all’intero pianeta. L’ex prigioniero della cella 466/64 del penitenziario di Robben Island era ormai al timone per realizzare un secondo miracolo e mantenere così la promessa di edificare una nazione arcobaleno, capace di «far nascere un mondo nuovo».
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IL LIBRO
Verso la libertà
Dopo la Parigi della guerra, dopo la nascita di Israele, dopo l’indipendenza dell’India, continua il viaggio di Dominique Lapierre tra le grandi epopee di liberazione dei popoli del mondo. Questa volta tocca al Sudafrica; e Un arcobaleno nella notte (Il Saggiatore, pp. 346, euro 17,50), da cui traiamo stralci dell’epilogo, riesce a rintracciare persino nelle tenebre più oscure del regime segregazionista quelle «luci del mondo» che per lo scrittore francese sono costituite dagli uomini e dalle donne che lavorano per gli altri.
Nelson Mandela, 90 anni spesi per i neri e la pace
di Gabriel Bertinetto *
Festeggerà il novantesimo compleanno in famiglia, Nelson Mandela, l’uomo che passerà alla storia per avere guidato il Sudafrica fuori dall’ignominia dell’apartheid. Autorità e giornalisti non avranno accesso oggi alla casa in cui, dopo il ritiro dalla vita politica, «Tata» (papà, il soprannome affettuosamente affibbiatogli dai connazionali) trascorre gran parte del tempo. Nel villaggio natale di Qunu ci saranno solo gli intimi, a cominciare dalla consorte Graca Machel, vedova dell’ex-presidente mozambicano Samora. Nelson l’ha sposata il 18 luglio 1998, e i novant’anni di vita coincidono dunque con il primo decennale delle nozze. L’arcivescovo Desmond Tutu, che è grande amico di entrambi e fa parte della ristretta cerchia degli invitati, li descrive come «una coppia profondamente innamorata, reduci da una perenne luna di miele».
Per Mandela, Graca è la terza moglie. Dopo Evelyn Ntoko Mase che fu al suo fianco fra il 1944 ed il 1955. E dopo Winnie Madikizela, che fu compagna di lotta e di ideali, prima che le loro strade si dividessero anche politicamente, fino alla separazione nel 1992 ed al divorzio nel 1996, dopo ben trentasei anni di matrimonio. Che Nelson aveva peraltro trascorso per buona parte lontano da lei, nel carcere sull’isola di Robben Island, dove era registrato con il numero di matricola «46664». I compagni di prigionia raccontano che bastava guardarlo camminare in cortile durante l’ora d’aria, dritto e pieno di dignità, per sentirsi rincuorati e guardare con fiducia al futuro.
Un leader carismatico, allora come oggi. In lui i concittadini vedono incarnato il Sudafrica che avevano sognato quando finì il regime della discriminazione etnica. Lo amano e rispettano, tanto quanto li deprime il distacco fra le speranze di allora e la realtà di quest’oggi. Un Paese devastato dalla criminalità in aumento, dall’Aids dilagante, da conflitti sociali in cui riaffiora la piaga del razzismo, questa volta non più legato al colore della pelle: neri contro neri, gente del posto contro immigrati in fuga dalla violenza e dalla miseria dello Zimbabwe e di altri Paesi vicini.
«C’è ancora troppa discordia, odio, divisione, conflitto e violenza nel nostro mondo all’inizio del ventunesimo secolo», ha detto Mandela, intervenendo sabato scorso ad un convegno a Johannesburg. Probabilmente aveva in mente anche la situazione in cui versa oggi la sua patria. Quel giorno fu avvicinato dagli abitanti di una baraccopoli, Kliptown, che sorge a due passi dal lussuoso hotel Soweto. A lui consegnarono una lettera piena di riflessioni amare su quelle promesse di un avvenire più roseo per tutti, che un giorno avevano ascoltato dalle sue labbra e che ancora attendono tradursi nei fatti.
Atto d’accusa rivolto non a Mandela, ma a chi, venuto dopo di lui, non si è dimostrato all’altezza del compito. In particolare il bersaglio delle critiche è l’attuale capo di Stato, Thabo Mbeki, che era braccio destro di Mandela nel quinquennio della sua presidenza, dal 1994 al 1999. «Mandela unì la nazione -afferma Barney Mthombothi, direttore del Financial Mail-. Mbeki l’ha divisa. Subentrò a Mandela e pareva un principe, ma s’è tramutato in ranocchio».
L’African National Congress (Anc), la creatura politica di Mandela, il movimento che s’oppose in una prima fase anche con le armi al potere bianco, oggi è spaccato. L’ala guidata da Zuma accusa Mbeki di perseguire una politica economica troppo sbilanciata a favore della borghesia imprenditoriale e di fare poco per alleviare le sofferenze dei lavoratori, mentre l’inflazione galoppa e la disoccupazione registrata dalle statistiche arriva al 23%, ma secondo alcune stime è assai più alta. Purtroppo nemmeno l’immagine di Zuma rifulge di immacolato splendore, viste le pressioni che i suoi fidi stanno esercitando per frenare la magistratura che lo ha incriminato per episodi di corruzione. Entrambi, Zuma e Mbeki, saranno comunque ospiti di Mandela domani nella seconda giornata di festeggiamenti, quando la residenza di Qunu si aprirà alla visita delle autorità e degli antichi compagni di battaglia.
«Un leader che ha l’umiltà e la grazia di un vero aristocratico», definisce Mandela negli auguri di compleanno il suo ex-rivale Frederik de Klerk, ultimo presidente bianco del Sudafrica. Assieme negoziarono la fine dell’apartheid e il passaggio alla democrazia. Assieme furono premiati con il Nobel per la pace nel 1993. Fu proprio con l’abbandono delle armi e la decisione di puntare tutto sul dialogo, che Mandela divenne famoso e conquistò consensi e ammirazione nel mondo intero. Una decisione assolutamente non facile, che riuscì ad imporre a compagni di lotta recalcitranti. Cyril Ramiphosa, che nel 1985, anno della svolta, dirigeva il sindacato dei minatori, racconta che «eravamo in molti nell’Anc a pensare che ci stesse svendendo. Andai a trovarlo e gli chiesi cosa mai stesse combinando. Era davvero un’iniziativa incredibile. Un azzardo». Ma secondo Richard Stengel, che aiutò Mandela a scrivere la sua autobiografia, «negoziare oppure no, per lui era solo una questione di scelta tattica, non di principi. Quello che non mutò mai fu l’obiettivo di rovesciare l’apartheid e instaurare il sistema democratico: un uomo, un voto». In questo senso, aggiunge Stengel, si può definirlo «il più pragmatico degli idealisti».
Quelle coraggiose trattative ebbero un passaggio chiave nella sua scarcerazione, l’11 febbraio del 1990. Quattro anni dopo Nelson stravinse le prime elezioni presidenziali in cui i neri ebbero diritto di voto e annunciò la volontà «di costruire una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». E fu davvero il presidente di tutti i sudafricani quello che il 1995 comparve in pubblico indossando la divisa verde-oro della squadra nazionale di rugby, che era composta quasi esclusivamente di bianchi, per celebrare la vittoria in Coppa del mondo.
* l’Unità, Pubblicato il: 18.07.08, Modificato il: 18.07.08 alle ore 12.56
MANDELA: 90 ANNI, AMY WINEHOUSE REGINA DELLO SHOW
LONDRA - Una grande festa con decine di star del pop e del rock con quasi 50.000 persone, un tributo politico-musicale a un uomo che simboleggia la lotta contro tutte le oppressioni, una notte di mobilitazione contro l’aids: il concerto per i 90 anni di Nelson Mandela e’ stato tutto questo, anche se dal punto di vista strettamente musicale forse non e’ stato indimenticabile, come fu il Live Aid o il concerto londinese del 1988 che chiedeva la liberta’ proprio di Mandela. Ma quando il grande leader sudafricano, simbolo della lotta per i diritti umani, e’ apparso sul palco di Hyde Park, intensissimo nonostante la fragilita’ dei suoi quasi 90 anni, il concerto 46664 (era il numero del carcerato Mandela nei suoi 27 anni in cella) di Londra si e’ trasformato in un evento emozionante, memorabile.
Da Zucchero ai Queen, da Jamelia a Joan Baez, da Johnny Clegg all’attesissima Amy Winehouse (decisamente la regina della serata, in buona forma, nonostante l’enfisema che l’ha fatta finire in clinica fino a qualche giorno fa), ai molti artisti sudafricani, tutti hanno augurato un calorosissimo buon compleanno a Mandela. Nuvole nere e vento hanno accolto i 46664 spettatori paganti. Come sempre, nei concerti in Inghilterra, l’attenzione e la partecipazione del pubblico sono modeste, persino a un evento che si vuole ’storico’ come questo: la gente chiacchiera durante la musica, ma soprattutto fa avanti e indietro per procacciarsi la birra. Uno slancio emotivo (negativo) lo ha provocato il video di ’tanti auguri’ di Victoria Beckham sul maxischermo (insieme a quelli di Richard Branson, dello chef Gordon Ramsey e di altri vip piu’ o meno conosciuti), accolto da un boato di fischi. Qualche applauso convinto lo strappano Leona Lewis, bellissima regina delle chart Usa e Gb, e anche la straordinaria Jamelia. Per il resto, quasi una scampagnata del weekend al palco, per i piu’. Le cose sono cambiate pero’ quando e’ arrivato lo statista, che avanzava a fatica, sorridente solo a momenti, e ha preso la parola dopo che dal pubblico e’ esploso un calorosissimo ’happy birthday’.
Sul palco, quasi tutti gli artisti della serata. ’’Vent’anni fa - ha detto Mandela con voce sicura e lenta, mentre nel grande parco londinese calava un silenzio assoluto - Londra ospito’ questo concerto che chiedeva la nostra liberta’, che ci ispiro’ nelle nostre prigioni. Stasera siamo qui liberi, e siamo onorati. Ma anche se siamo qui a festeggiare, il nostro lavoro non e’ finito. Perche’c’e’ poverta’, oppressione, aids. Il nostro lavoro vuole portare la liberta’ a tutti... stasera diciamo, a quasi 90 anni, e’ tempo di avere nuove mani per sollevare questo fardello’’. ’’E’ nelle vostre mani’’, ha detto l’anziano leader, ripetendo lo slogan della campagna anti Aids 46664. Poi si e’ allontanato tra le ovazioni della folla. Per tutto il concerto, Mandela e’ stato nella tribuna d’onore con accanto il premier Gordon Brown, mentre una sfilza di celebrita’ passavano ad omaggiarlo.
A Hyde Park c’era anche Zucchero, che ha augurato il suo Buon Compleanno a Mandela interpretando al piano sul palco di Hyde Park a Londra ’Everybody’s got to learn sometime’, insieme a Jivan Gasparyan, grande compositore autore tra l’altro della colonna sonora de ’Il gladiatore’. Senza intoppi, ma anche senza grandi brividi, il concerto si e’ concluso, mentre sui grandi schermi scorrevano le migliaia di messaggi di buon compleanno inviati da tutto il mondo al sito del concerto, e sul palco scorrevano Annie Lennox, Simple Minds (sempre travolgenti Don’t you forget about me e Mandela day), Eddie Grant, Queen (gli unici a fare un mini concerto), e nel gran finale, ancora Amy Winehouse superstar a guidare tutti gli altri, per una Free Nelson Mandela, inno della lotta all’apartheid. Lo show verra’ ritrasmesso da Mtv Italia domenica alle 20, per chi l’avesse perso.
27 Giu 46664 - Concerto per i 90 di Nelson Mandela
Di Enrico Nanni, in Programmi musicali.
Un evento sensazionale per celebrare una persona sensazionale. Sarebbe bello essere lì a sentire la musica dal vivo, il suono altissimo che fende l’aria, il calore della massa di persone intorno.
Ma non tutti hanno questa possibilità, anzi, in una cornice mondiale, solo una minima parte di tutti noi musicofili potrà partecipare all’evento.
Il nome del concerto è 46664. Si tratta del numero che caratterizzava lo stesso Mandela durante la sua lunga carcerazione a Robben Island in Sudafrica.
Adesso 46664 è più un simbolo che un “semplice” numero: è infatti il nome della sua campagna anti-Aids, cui andranno dritti dritti i proventi del concerto, in una tendenza al fare del bene al mondo nel quale Mandela è ormai consacrato.
I nomi degli ospiti si sprecano, tra quelli provenienti dal mondo della muscia che si esibiranno live e attori di fama universale. Del resto per un evento del genere non potevano che scomodarsi gli “dei” dello spettacolo e della musica.
Tra coloro che provengono dall’Eden della musica troviamo i Queen, Leona Lewis, Razorlight, il nostro Zucchero internazionale, Amy Winehouse, anche se per quest’ultima ci sono dei dubbi, viste le notizie contrastanti provenienti dalla clinica in cui è stata ricoverata. - PER LA FONTE, CLICCARE SUL ROSSO
NADINE GORDIMER: COSA SIGNIFICA MANDELA PER NOI *
E’ il momento di celebrare uomini famosi. Nelson Mandela e’ oggi l’uomo famoso per eccellenza. Uno dei pochi che ha segnato il XX secolo come un’epoca di progresso per l’umanita’, al contrario di chi lo ha reso turpe con il fascismo, il razzismo e la guerra. Il suo nome dunque vivra’ nella storia, il contesto in cui egli appartiene al mondo.
Naturalmente noi sudafricani facciamo parte di quel contesto e condividiamo il modo in cui egli e’ vissuto. Tuttavia egli appartiene a noi, e, soprattutto, noi apparteniamo a lui su un altro piano, diverso, di esperienza.
C’e’ chi lo ha conosciuto da bambino a casa sua, nel Transkei, e vede, sotto il suo viso anziano, segnato dalle straordinarie esperienze della clandestinita’ e della reclusione, i contorni delicati di un giovane allegro, ignaro delle qualita’ presenti dentro di se’, accanto alla normale voglia di vivere. C’e’ chi lo ha conosciuto come un collega con cui dividere i pasti quando, essendo nero, non poteva essere servito in un ristorante; come un giovane avvocato la cui presenza stessa in tribunale era contestata dai magistrati bianchi. Ci sono combattenti per la liberta’ che hanno sacrificato la propria vita e adesso non sono qui con noi per accostare all’immagine del leader della lotta comune quella dello statista che l’ha portata a compimento. C’e’ chi vede, sovrapposto al suo viso com’e’ oggi nelle apparizioni pubbliche, sui giornali e in televisione, il ricordo del viso, della figura e del portamento di quando parlo’ dal banco degli imputati dopo essere stato condannato all’ergastolo per aver lottato contro l’apartheid e proclamo’ un impegno cui ha sempre tenuto fede, in molteplici occasioni, correndo numerosi pericoli: "Nutro l’ideale di una societa’ democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e possano avere delle opportunita’. E’ un ideale per cui spero di vivere e che spero di conseguire. Ma, se necessario, e’ un ideale per cui sono pronto a morire".
E’ una tentazione raccontare aneddoti su Mandela. Per noi che abbiamo avuto anche solo una breve occasione di contatto con lui, e’ una tentazione parlare del piacere di essere ricordati oltre che di ricordare. Giacche’ quest’uomo che porta sulle sue spalle erette il carico del nostro futuro, un peso degno di Atlante, possiede una sorta di capacita’ di leggere il pensiero e cogliere l’identita’ degli altri, una specie di schedario mnemonico (sviluppatosi forse nei lunghi anni di contemplazione passati in carcere) grazie al quale riesce a riconoscere persone che magari non vede da anni o che ha incontrato di sfuggita nelle settimane appena trascorse, fitte di incontri e strette di mano. Ma non si tratta di un’abile astuzia da politico. Per quanto sembri insignificante, e’ segno di qualcosa di profondo: una presa di distanza dall’egocentrismo; quella capacita’ di vivere per gli altri che e’ il fulcro del suo carattere.
Ora Mandela viaggia per il paese ed e’ una presenza in carne e ossa per milioni di persone. E’ rimasto in carcere ventisette anni; in mezzo a noi - Robben Island e’ visibile dalla Table Mountain, a Citta’ del Capo; il carcere di Pollsmoor e l’edificio trasformato negli ultimi tempi in una prigione a lui riservata fanno parte della citta’ - e tuttavia, in termini sociali, sepolto. Ridotto al silenzio. Persino la sua immagine era stata rimossa; era proibito riprodurre la sua fotografia sui giornali o attraverso altri mezzi di comunicazione.
Sarebbe potuto facilmente diventare leggendario, le sue peculiarita’ sarebbero state riunite a formare l’icona di speranze irrealizzabili e di una liberta’ che continuava ad allontanarsi ogni volta che una nuova ondata di resistenza all’interno del nostro paese veniva schiacciata e sembrava sconfitta, mentre il mondo esterno rimaneva indifferente. Ma i neri sentivano che Mandela stava sopportando qualcosa che conoscevano: le dure umiliazioni del carcere erano esperienze quotidiane per loro ai tempi delle leggi dell’apartheid sui lasciapassare e di innumerevoli altre restrizioni civili che per generazioni in Sudafrica hanno creato una vasta popolazione di prigionieri non criminali. Mentre lui e i suoi colleghi venivano mandati a spaccare pietre ed estrarre alghe dall’Oceano Atlantico, le autorita’ carcerarie reclutavano persone comuni tra la popolazione nera per farle lavorare come schiave nei campi. Il suo popolo ha conservato viva la sua presenza nelle parole di canti e inni, nelle forme di resistenza da lui apprese, nonche’ nelle richieste di scarcerazione che facevano parte della piattaforma della lotta di liberazione, sostenuta sia dalla leadership in esilio sia dai cittadini in patria. Grazie alle notizie che trapelavano dalla prigione, sapevamo che si sentiva ancora parte di tutto questo, lo stava vivendo insieme al suo popolo; egli avvertiva la presenza della sua gente attraverso i muri del carcere, e la sua gente continuava a tenerlo con se’.
Questa doppia sensazione era intrinseca all’essenza stessa della resistenza. La possibilita’ nient’affatto remota che egli morisse in carcere non fu mai presa in esame. Il movimento di liberazione non subi’ mai la sconfitta psicologica di trasformarlo in una figura mitica, un Che Guevara, che un giorno sarebbe potuto riapparire solo in una mistica risurrezione, in groppa a un cavallo bianco. Quando una personalita’ diventa mito, scompare per sempre come leader in grado di assumersi nella propria carne vulnerabile la responsabilita’ del presente.
Certo e’ difficile scrivere di un fenomeno come Mandela in termini che non siano agiografici. Egli pero’ non e’ una figura divina, nonostante l’enorme popolarita’, e tale popolarita’, in un’epoca di proficue trattative fra bianchi e neri, si estende in ogni direzione e va oltre la fiducia e il rispetto riservatogli dai neri e da quei bianchi che hanno partecipato attivamente alla lotta di liberazione dall’apartheid. Mentre scrivevo queste pagine ho sentito al notiziario che, secondo un sondaggio, il 68% degli uomini d’affari sudafricani, desidera che Nelson Mandela diventi il futuro presidente del Sudafrica... Lungi dall’assumere una condizione celestiale, la natura di Mandela e’ anzi totalmente e assolutamente umana, l’essenza di un essere umano nel pieno significato che questa espressione dovrebbe, potrebbe avere, ma di rado ha. Egli appartiene fino in fondo a una vita reale vissuta in un luogo e un tempo specifici e nel rapporto di questo luogo e questo tempo con il mondo. E’ all’epicentro della nostra epoca; della nostra in Sudafrica e della vostra, ovunque voi siate.
Esistono infatti due generi di leader. Ci sono persone che creano il proprio io - la propria vita - mosse dall’ambizione personale, e ci sono persone che creano un proprio io con l’intento di rispondere ai bisogni della gente. Nel primo caso, la spinta viene dall’interno e non ha largo respiro; nel secondo e’ una carica di energia che deriva dai bisogni degli altri e dalle loro richieste. Il dinamismo della leadership di Mandela sta nel fatto che egli possiede dentro di se’ la qualita’ altruistica di saper accogliere questa carica di energia e agire di conseguenza.
E’ stato un leader rivoluzionario di enorme coraggio, e’ un negoziatore politico di talento e saggezza straordinari, uno statista che si adopera per un cambiamento pacifico. Ha sofferto in prigione per oltre un terzo della propria vita ed e’ sopravvissuto, uscendone senza pronunciare una sola parola di vendetta. Ha subito numerose disgrazie familiari dovute alla sua reclusione. Ha sopportato tutto questo, e’ evidente, non solo perche’ la causa della liberta’ per il suo popolo in Sudafrica e’ stata lo spirito che ha animato la sua vita, ma perche’ egli e’ uno di quei rari esseri umani che vedono nella famiglia umana la propria famiglia. Quando parla del Sudafrica come la patria di tutti i sudafricani, bianchi e neri, crede in quello che dice.
Proprio come quando, in tribunale, dichiaro’ solennemente di essere pronto a morire per questo ideale. All’appuntamento con la vittoria c’e’ posto per tutti. Attraverso le sue azioni e le sue parole, Mandela dimostra di sapere che senza questa condizione non c’e’ vittoria, per nessuno.
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 172 del 26 aprile 2008
[Dal sito www.feltrinellieditore.it riprendiamo il seguente saggio, dal titolo "Cosa significa Mandela per noi", apparso nel libro di Nadine Gordimer, Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo, Feltrinelli, Milano 1999 (libro chela casa editrice cosi’ presenta: "Vivere nella speranza e nella storia e’ una raccolta di saggi in cui Nadine Gordimer trova il modo di approfondire i temi che hanno alimentato la sua attivita’ creativa e la ricca biografia intellettuale. E’ un modo insolito e pensieroso per tornare a riflettere con lei sul senso della letteratura, sul ruolo dello scrittore o della donna, sul tormentato percorso sociale e politico del Sudafrica negli ultimi quarant’anni, sui grandi momenti di passaggio che hanno scandito la storia dell’ultimo millennio. Ma oltre ai pensieri e agli eventi, c’e’ anche il sapore degli incontri negli indimenticabili ritratti di alcuni autori contemporanei (Joseph Roth, Nagib Mahfuz, Guenter Grass, Leopold Senghor) e nel carteggio con Kenzaburo Oe. In ogni frammento, in ogni saggio o colloquio c’e’ una forte commozione e un senso di futuro e di speranza, come se l’autrice avesse avvertito in queste sue stesse pagine, scritte in tempi diversi e a volte anche lontani, l’intensita’ di un testamento spirituale per i contemporanei. E’ una raccolta di saggi suddivisa in tre parti. La prima comprende nove saggi composti tra il 1990 e il 1998 sulla scrittura, sulla letteratura contemporanea e sul ruolo dello scrittore oggi, dove l’autrice ribadisce il proprio duplice impegno, come donna e come scrittrice, e la sua "missione" nel mondo: dire cio’ che non si dice, parlare di cio’ di cui non si parla, porre domande difficili.
Appaiono inoltre quattro ritratti di autori contemporanei: su Joseph Roth, un testo su Nagib Mahfuz, un cammeo su Guenter Grass, e un ricordo di Leopold Senghor. Particolarmente interessante il carteggio (del 1998) tra Gordimer e Kenzaburo Oe dove lo scambio epistolare diventa un pretesto per discutere su un argomento che sta molto a cuore a entrambi i premi Nobel: la delinquenza giovanile nei rispettivi paesi, che Oe imputa al neonazionalismo dilagante in Giappone e Gordimer al pesante retaggio dell’apartheid. La seconda parte, la piu’ corposa, comprende tredici saggi di carattere storico-politico, un percorso della storia sudafricana degli ultimi quarant’anni (1959-1997), che si leggono con una certa commozione a cosi’ pochi anni dalla fine dell’apartheid. Una analisi della vita quotidiana del regime segregazionista e le sue implicazioni sia per il semplice cittadino nero sia per lo scrittore nero, perseguitato come uomo e messo all’indice come artista, dove la privazione della liberta’ non e’ solo individuale ma anche una crudele limitazione delle proprie corde artistiche. E ricorda con affetto chi e’ andato in esilio e non e’ piu’ tornato e chi e’ morto nelle carceri del regime: Can Themba, Nat Nakasa, Bram Fisher e altri. La terza parte riunisce quattro saggi scritti tra il 1986 e il 1996, una sorta di testamento spirituale dove ricorda le tappe storiche che hanno scandito il millennio, e con puntigliosa lucidita’ descrive la realta’ che conosce meglio, quella del suo paese")]