ARTICOLATO
“Norme di Democrazia Paritaria per le Assemblee elettive”
Art. 1 - Finalità
In attuazione dell’art.51 della Costituzione Italiana, la presente legge detta norme di democrazia paritaria per l’accesso di cittadini e cittadine alle Assemblee elettive in condizioni di uguaglianza.
Art. 2 - Ambito di applicazione
Le presenti norme si applicano alle competizioni elettorali relative alle Assemblee elettive di: Circoscrizioni nei Comuni, Comuni, Città Metropolitane, Province, Regioni a Statuto ordinario, nonché alle elezioni di Camera dei Deputati, Senato della Repubblica e dei componenti del Parlamento Europeo spettanti all’Italia.
Art. 3 - Candidature in liste o gruppi
In ogni lista o gruppo di candidati, le candidature sono costituite da un numero uguale di donne e uomini, sono disposte in ordine alternato per sesso e, in caso di disparità numerica, lo scarto è di una unità. Liste o gruppi di candidati che non rispettano le predette norme sono irricevibili.
Art. 4: Candidature in collegi uninominali
In ogni circoscrizione dove le candidature sono proposte in collegi uninominali, le candidature complessive contraddistinte dal medesimo contrassegno sono costituite da un numero uguale di donne e uomini e, in caso di disparità numerica, lo scarto è di una unità. Partiti, movimenti o coalizioni di partiti recanti il medesimo contrassegno nella circoscrizione che non rispettano le predette norme non sono ammessi alla competizione elettorale in quella circoscrizione.
Art. 5: Norma abrogativa di chiusura
Ogni disposizione in contrasto con le norme di democrazia paritaria contenute nella presente legge è abrogata.
NOTE DI SINTESI ALL’ARTICOLATO
Noi dobbiamo tracciare anche le vie dell’avvenire, ponendo le mete che oggi vogliamo siano raggiunte domani (Assemblea Costituente 4 marzo 1947)
L’articolo 51 della Costituzione Italiana inizia con questa frase:
Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
E’ l’unico articolo, tra quelli riguardanti i rapporti politici, che dopo la locuzione tutti i cittadini aggiunge dell’uno e dell’altro sesso.
Una precisa scelta di natura storico-giuridica operata dai Costituenti e che, quanto all’origine, accomuna l’art. 51 e l’art. 48.
Sia che fosse guardata come una concessione, sia che fosse propugnata come una conquista, quella natura ci dice, all’origine, che la Costituzione afferma il diritto all’elettorato attivo e a quello passivo sia in capo a soggetti di diritto di sesso maschile sia a soggetti di diritto di sesso femminile. Intanto, ci dice questo.
Non era cosa da poco affermare quei diritti nel 1946-48 nella Costituzione di un Popolo reduce dallo Statuto Albertino, quanto a Carte, e piegato dal Fascismo, quanto a Storia.
Dell’uno e dell’altro sesso. La scelta di questa locuzione e della congiunzione “e”, arriva al termine di un iter travagliato, dopo averne scartate molte altre, dai Lavori Preparatori in poi. In un anno e mezzo dal giugno del 1946 alla fine del 1947, dopo molte sedute, nelle Sottocommissioni, nella Commissione dei 75 e poi nell’Assemblea Plenaria, i Costituenti si sono resi protagonisti di una scelta che va oltre le vicissitudini dei Gruppi, le diatribe filologiche, le distanze tra le appartenenze.
Col tempo, i significati e i significanti giuridici che accomunavano l’art. 48 e l’art 51 si sono differenziati sempre di più tra loro.
Col Tempo, ancora, supremo regolatore della Storia come del Diritto come di molto altro, quella locuzione scelta per l’art. 51 ha acquistato un senso più pieno, non un senso paritario, si badi, visto che quell’art. 51 parlava già nel 1948 di uguaglianza, bensì, un senso democratico.
Quel senso, oggi nel 2007, informa la Proposta di legge di iniziativa popolare dell’Udi, con una scelta precisa e consapevole anche di quelle vie dell’avvenire di cui parlava un liberale, nel 1947.
Nella Proposta dichiariamo le norme in attuazione dell’art. 51 della Costituzione del 1948, dove il termine attuazione ha un significato storico oltre che di forma giuridica. Nel Diritto, diceva Piero Calamandrei, la forma è sostanza.
La nostra Proposta, sul piano politico, prescinde anche dalle sorti - incluse quelle di revisione con aggiunta di una seconda frase al primo comma - che ha avuto l’art. 51 negli ultimi tempi, anche se le tiene doverosamente presenti, sul piano giuridico.
I Costituenti ci danno conto, con l’evoluzione delle loro stesse parole, di quanto avvenuto nell’arco di poco più di un anno. La Storia , in questi sessanta anni, ha detto ancora altro, in Italia e nel Mondo.
Le donne non sono una minoranza da non discriminare, sono presenti in tutte le minoranze, in tutte le maggioranze, in tutti gli strati sociali, in tutte le razze. Le donne sono l’altra parte del genere umano necessaria affinché l’umanità possa essere se stessa.
Inoltre, sono ormai consolidate nell’arco degli ultimi venti anni le acquisizioni contenute in documenti di istituzioni democratiche europee ai quali ha contribuito anche la rappresentanza italiana, dove si afferma la presenza paritaria di uomini e donne nei contesti decisionali come una esigenza della democrazia.
L’Udi è stata protagonista in Italia di tutte le lotte per l’emancipazione della donna, nei diritti, nella società, nel lavoro, nella famiglia. Si è trattato, sempre, di lotte che hanno prodotto un avanzamento dell’intera società italiana, nel suo complesso.
Le donne organizzate hanno posto problemi, anche di natura giuridica, sul tavolo della Politica. Le donne non sono mai state “il problema”, neanche quando hanno “chiesto” alla Politica diritti “per le donne”. Questa semplice verità può essere contrastata solo da chi pensa la Politica come luogo di carriere istituzionalizzate, o peggio come acquisizione di potere ad oltranza che ha tra le sue priorità non le esigenze del proprio Paese, ma quelle della propria conservazione.
L’Udi ha deciso di promuovere questa iniziativa di Democrazia Paritaria, perché i Partiti in Italia non hanno avuto la capacità gestire autonomamente il riequilibrio della rappresentanza.
Vi sono stati tentativi contraddittori di introdurre le “quote”. Anche quelli recenti, venuti dopo la revisione della Costituzione, si sono rivelati in alcuni casi poco più che palliativi, in altri casi sono miseramente naufragati. Alla riforma dell’art. 51 della Costituzione si è giunti nell’illusione che ciò avrebbe “promosso” le pari opportunità. Col senno di poi, l’8 marzo 2003 - giorno di entrata in vigore della revisione - si è consumata una beffa della Democrazia, prima ancora che un torto alle Pari opportunità. A quella revisione ha parzialmente risposto solo la legislazione riguardante i componenti del Parlamento Europeo spettanti all’Italia, nel 2004, introducendo le quote di un terzo e sanzioni rivelatesi poco più che un graffio nel bilancio delle formazioni politiche.
La ragione di fondo di tutto ciò risiede nel fatto che a quella revisione, in quelle forme, a differenza ad esempio di quanto avvenuto in Francia, si è giunti come si può arrivare ad una regalia, senza una presa di coscienza diffusa, senza un dibattito reale e profondo nel Paese sulle motivazioni, di cui, per la sua parte, anche l’Udi assume la propria responsabilità.
Ciò ha comportato un irrigidimento delle posizioni nei vertici dei partiti, da un lato, e il rafforzarsi dell’idea che le donne, quale minoranza discriminata, andavano aiutate con misure ad hoc, ma in un processo graduale, che non disturbasse più di tanto gli apparati al potere.
Queste contraddizioni si sono andate sempre più cristallizzando, con la protervia di chi intende difendere le posizioni acquisite in apparati e lobby, mostrandosi refrattario ad ogni sia pur minima messa in discussione, dal proprio interno, dei meccanismi di selezione delle candidature.
La legge statale che nel 2004 ha prescritto norme generali per la legislazione regionale delle regioni ordinarie non solo non ha rispettato la lieve revisione del 2003, ma ha violato il dettato introdotto ad hoc con la riforma dell’art. 117 Cost. nel 2001.
Nella recente riforma elettorale per Camera e Senato, al di là di come il suo stesso estensore l’ha qualificata, l’assoluto mancato rispetto dell’art. 51 è solo uno dei molti aspetti di incostituzionalità denunciati.
La proposta dell’Udi giunge in un momento di crisi della politica a più livelli e di dibattito per una riforma elettorale tutta ancora avvolta nelle nebbie di proposte che i massimi dirigenti di alcune formazioni rilanciano quotidianamente sui giornali e in televisione, senza comunicare all’elettorato la volontà reale di aprire un dibattito generale.
La consapevolezza che l’approvazione di una norma dipende, in fondo, da accordi a monte operati da quegli stessi soggetti non può e non deve scoraggiare la volontà di aprire un dibattito di cui si sente impellente l’urgenza democratica.
La presenza paritaria nelle Assemblee elettive è un’esigenza della democrazia in attuazione della Costituzione (art. 1) e in quanto tale deve potersi imporre, se necessario, anche per legge, con norme che prevedano sanzioni adeguate all’importanza di quelle norme.
Si può essere candidati e candidate in una lista, in un gruppo oppure, laddove si reintroducessero, in collegi uninominali di circoscrizione. Per questo motivo, la presente proposta formula due ipotesi generali distinte, con una ratio che resta la stessa per tutte le candidature: un numero uguale di uomini e donne in ogni ambito che si riconduca ad un medesimo contrassegno di lista o di formazione, con lo scarto di una sola unità in caso di totale dispari (artt. 3 e 4).
Ciò consente di applicare il principio di democrazia paritaria nelle candidature per tutte le assemblee elettive, da quelle circoscrizionali a quelle per il Parlamento Europeo. Trattandosi di norma prescrittiva generale a garanzia della democraticità di base delle candidature, non è possibile usare due pesi e due misure, a seconda che si parli di Consigli Circoscrizionali o, ad esempio, del Senato della Repubblica. (art. 2) Abbiamo incluso nella previsione generale anche le città Metropolitane, in quanto questi organismi sono, dal 2001, inseriti nella Costituzione e sono ancora in attesa di norme che regolino le modalità dell’elezione dei propri rappresentanti. (art. 2)
Al carattere fondamentale e all’importanza della norma consegue la valenza della sanzione per il suo mancato rispetto. La sanzione non può essere né pecuniaria, né sottoposta a condizioni, bensì, nel primo caso, quello di liste o gruppi (art. 3) sarà data dalla irricevibilità ad opera degli organi di controllo preposti, nell’altro (art. 4) consisterà nella mancata ammissione dello schieramento o formazione che con un determinato contrassegno ha presentato nella circoscrizione con collegi uninominali un numero complessivo di candidature che non rispetta la parità numerica.
L’Udi con questa Proposta intende aprire un dibattito dentro e fuori le Istituzioni perché la Democrazia paritaria venga riconosciuta come un aspetto fondamentale del vivere civile e politico nel nostro Paese.
Auspichiamo che questa Proposta sia accolta favorevolmente da uomini e donne di buona volontà, presenti in tutti gli schieramenti politici.
Questa Proposta si inserisce in una campagna complessiva che l’Udi ha promosso fin dagli inizi del 2006, denominata 50E50 ovunque si decide, affinché la Democrazia nel nostro Paese sia compiuta in ogni ambito decisionale, non solo quelli determinati da una elezione.
Vogliamo che ovunque si decide sia affermata e realizzata la presenza paritaria dell’uno e dell’altro sesso, in condizioni di uguaglianza. Come recita l’art. 51 della Costituzione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
L’onda
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 1 luglio 2014)
Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.
Era soltanto la scorsa estate, quando a Cernobbio l’ex premier Enrico Letta sobbalzava davanti ad una platea di grisaglie grigie. «In questa sala siamo tutti uomini, è insopportabile...». Dov’è l’altra metà? La risposta è arrivata pochi mesi dopo. Mentre la legge Mosca-Golfo imponeva tra mille malumori sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi tra pubblico e privato) il nuovo premier Renzi ha preso abilmente il potere e il pallottoliere insieme, lanciando appunto la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Con ministeri anche “pesanti”: agli Esteri Federica Mogherini, alla Difesa Roberta Pinotti. E proprio Pinotti tra due giorni in un convegno organizzato da “Valore D”, racconterà la sua storia umana e politica, ma anche il lavoro prezioso e spesso nascosto delle donne dell’esercito, dalle comandanti alle soldatesse.
Adesso è dunque il tempo di riflettere, come spiega l’economista Daniela De Boca. Per capire se davvero qualcosa muterà nel sistema del potere, aprendo un vero cammino di parità, o se il gioco resterà congelato ai vertici della piramide. «Il cambiamento c’è, ed è il frutto di una pressione fortissima da parte del mondo femminile, quote comprese. Che là dove sono state applicate bene, in Norvegia ad esempio, hanno scardinato la misoginia dei vertici. Ma in Italia quello che vedo invece è il rischio di una polarizzazione: nella fascia alta le donne conquistano ruoli forti, un tempo maschili. Nella fascia media, nella vita di tutti i giorni le donne invece stanno peggio. Diritti che sembravano acquisiti, i congedi per maternità, la parità salariale sono oggi fortemente intaccati».
Dunque cautela. Però le nomine ci sono state, non poche e tutte insieme. Ad aprile scorso un gruppo di qualificatissime manager, scienziate e imprenditrici conquistano i Cda delle più grandi aziende di Stato: Emma Marcegaglia all’Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Eni, ma anche Catia Bastioli a Terna, Rossella Orlandi a capo dell’Agenzia delle Entrate.
E Maria Angela Zappia, ambasciatrice italiana alla Nato a Bruxelles. I titoli parlano naturalmente di “valanga rosa”. Lo spoil system di Renzi impone ancora nomi femminili. Il messaggio è chiaro: l’argine è caduto. Ma Luisa Todini, a capo del consiglio di amministrazione di Poste, una figlia adolescente, da anni alla testa dell’azienda di costruzioni di famiglia, invita a guardare le cose dal lato giusto. «In queste nomine hanno contato i curriculum e le esperienze, non le quote. Vengo da una famiglia modesta, che si è fatta da sé, dove mia madre lavorava ed era naturale che anche le donne lavorassero. Mi sono mossa in ambiti fortemente maschili, ma oggi invece sono entrata in una azienda, le Poste, dove la pink revolution è in atto già da tempo».
Certo, aggiunge Todini, «le quote servono, seppure modo transitorio, noi abbiamo vent’anni di ritardo sul fronte dell’occupazione femminile, dunque una spinta è ancora necessaria, perché tutto questo abbia una vera ricaduta sul processo di parità». Un processo favorito oggi «anche da una nuova generazione di mariti, padri e compagni non più nemici della carriera delle loro partner...». I numeri però raccontano un’Italia ancora profondamente “asimmetrica”: l’occupazione femminile è al 49,9% contro il 70% di quella maschile, gli stipendi restano più bassi del 15%.
Alessia Mosca, parlamentare Pd, insieme a Lella Golfo (oggi presidente della Fondazione Bellisario) ha scritto la legge 120 del 2011, le famose quote rosa nei Cda. Una legge che scadrà tra sette anni. «Perché a quel punto ci renderemo conto se è stata un’operazione di maquillage o se ha davvero ha inciso nella vita reale delle donne. Il cambiamento per ora è soltanto nella parte “apicale” della piramide, e non basta un gruppo di top manager donne per contaminare in modo positivo una situazione ancora arretrata. Ma è un inizio, la rottura di un meccanismo inerziale sempre uguale a se stesso».
E duro a morire se si ascolta la testimonianza di una giovane manager, Valentina Saffiotti, 36 anni, direttore della Comunicazione di AstraZeneca, che racconta di essere dovuta fuggire a Bruxelles, per essere valutata soltanto per i suoi meriti, senza più il pregiudizio dell’essere femmina. «A 30 anni le aziende ti guardano con sospetto, perché potresti decidere di diventare madre. E nelle piccole e medie realtà è ancora peggio. E infatti dico sempre: non sono a favore delle quote rosa, ma contro le quote azzurre...».
Catia Bastioli, neo presidente di “Terna” (infrastrutture elettriche) scienziata manager, ex Montedison, in prima linea sulla bioeconomia, punta tutto sul merito. «Attenzione, le quote possono essere una trappola, e così gli slogan. Oggi il nostro paese ha unicamente bisogno di merito, al di là dei generi e l’Italia è spesso più avanti di come viene raccontata. Le donne - dice Bastioli - hanno già un posto forte nelle aziende, con quella visione più ampia delle cose che le rende preziose ovunque. Ma perché possano fare carriera è fondamentale la conciliazione. Proprio io che ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca vedo quanta concentrazione ci vuole: e senza supporti da parte dello Stato, asili, welfare, come si possono portare avanti una famiglia e una carriera?». Ed è infatti l’amaro bivio davanti al quale si trovano brillantissime e determinate studentesse, e che spesso si traduce in un rinvio sine die della maternità.
Ma Barbara Saba, vicepresidente di “Valore D”, direttore generale della Fondazione Johnson and Johnson, è invece ottimista. «Più donne ci sono nella politica, nel business, nella ricerca, più donne ancora saliranno sull’ascensore sociale. Il cambiamento è epocale anche se non ancora visibile. Ma per ognuna di noi che ce l’ha fatta è fondamentale la restituzione: aiutare cioè le più giovani a sviluppare i loro talenti. Solo così possiamo sperare che l’ascensore non si fermi».
Il cartello dei sessisti
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 11.03.2014)
NON è passata l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali. La curiosa neutralità del governo e del decisionista Renzi su questo punto e il voto segreto hanno lasciato libero il campo al “cartello” che da sempre e trasversalmente difende strenuamente la quota azzurra. Anche parte del Pd, in contrasto con lo statuto e le dichiarazioni ufficiali, si è schierata a difesa del mantenimento dello status quo.
Una situazione che lascia alla discrezione delle segreterie dei partiti se e quante donne mettere in condizione di essere elette di fatto proteggendo lo status quo in cui gli uomini sono maggioranza. Perché solo di questo si tratta. È un errore, infatti, parlare di quote rosa ogni volta che si cerca di scalfire il monopolio maschile, di ridurre le “quote azzurre”, che molti uomini (ed anche qualche donna) continuano a ritenere un naturale diritto divino in tutti i luoghi di potere politico ed economico.
Sarebbe molto più corretto parlare di norme antimonopolistiche, che impediscano la formazione di un “cartello” basato sul sesso. Sarebbe più chiaro qual è la posta in gioco e chi sta difendendo che cosa. E forse molte donne smetterebbero di sentirsi in colpa, o “panda” ,ogni volta che si chiede una correzione. Perché la categoria (auto-) protetta, molto strenuamente, è quella degli uomini, che sono riusciti a far passare come ovvia e meritevole la loro presenza, mentre quella delle donne è sempre frutto o di usurpazione indebita, o di graziosa concessione, non di meccanismi che consentano di correre alla pari.
Renzi ha dichiarato che la “vera parità” c’è quando le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini sono pagate come loro. Ma questa è solo una parte del problema. La questione è che le donne, nel lavoro come in politica partecipano a corse con handicap. Non mi riferisco solo al peso del doppio lavoro, ma proprio al fatto che sono corse truccate da chi detiene le chiavi di ingresso e dagli arbitri.
Che di “cartello” si tratti è evidente ovunque, che si tratti di consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, di Corte costituzionale, di presidenze e membership nelle Authority, di presidenze dei vari enti pubblici e parapubblici, in generale di nomine nei posti che contano, chiunque sia chi ha il potere di nomina. È ancora più evidente nel caso delle liste bloccate. Perché, esattamente come era nel Porcellum, nulla è lasciato al caso e tanto meno alla scelta degli elettori (con in più la beffa delle candidature multiple).
L’elezione o meno di un numero congruo di donne non dipende né dalla disponibilità degli elettori a votarle, né dalla disponibilità di un numero adeguato di donne con le competenze e riconoscibilità necessarie. Dipende esclusivamente dalla posizione in cui saranno in lista. Solo perché il Pd alle ultime elezioni ha messo molte donne in posizione alta nelle proprie liste, la percentuale di donne oggi presente in Parlamento è la più alta di sempre. Bene che ne siano diventate consapevoli anche molte parlamentari di altri partiti.
Meno, apparentemente, le neo-ministre, stranamente silenti sul punto, come se la cosa non le toccasse e non ne sentissero alcuna responsabilità e con loro gran parte dellevecchie e nuove “renziane”. Sosterranno che pur di far passare l’Italicum si possono anche sacrificare le “quote rosa”, senza rendersi conto di difendere così quella azzurra e in ogni caso di aver contribuito ad ulteriormente indebolire la credibilità del loro partito, sempre più inaffidabile nella difesa dei propri principi, quanto disposto a tutti i compromessi sulle richieste altrui (si veda anche l’accettazione delle candidature multiple). Chi si è opposto all’alternanza uomo-donna in lista non ha fatto altro che difendere la quota maschile, che, nel caso di alcuni partiti (ad esempio la Lega), può arrivare al cento per cento.
Certo, ci sono molte altre cose discutibili in questa nuova legge elettorale dal punto di vista della democrazia e della rappresentanza. La democrazia non si risolve con una presenza equilibrata di uomini e donne nelle liste elettorali. Le donne come tali, inoltre, non sono necessariamente meglio degli uomini come tali.
Allargare il pool degli eleggibili, tuttavia, potrebbe, chissà, persino far riflettere un po’ meglio sulle caratteristiche necessarie, mettere in moto dinamiche differenti, dentro e fuori i partiti e nella definizione delle priorità nelle cose da fare. Diverse ricerche hanno mostrato che una presenza consistente di donne nei consigli di amministrazione migliora la performance delle aziende. Perché non dare questa chance anche alla gestione del Paese?
Il presidente della Repubblica alla conferenza internazionale sulla violenza contro le donne
"In Italia si verificano anche fatti raccapriccianti che ci allontanano dalla Costituzione"
Diritti, il monito di Napolitano
"Lotta contro tutte le discriminazioni"
Migranti, Barroso richiama il premier italiano e maltese al rispetto delle norme internazionali
ROMA - Lottare contro l’omofobia e la xenofobia. Fare di tutto per mettere un freno alla violenza sulle donne. Tutelare i diritti senza allontanarsi dai principi della Costituzione. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano apre così la Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne che si tiene a Roma. Con un severo monito contro le discriminazioni che ci stanno allontanando dallo spirito delle Costituzione.
"La lotta contro ogni sopruso ai danni delle donne, contro la xenofobia, contro l’omofobia fa tutt’uno con la causa del rifiuto dell’intolleranza e della violenza, in larga misura oggi alimentata dall’ignoranza, dalla perdita dei valori ideali e morali, da un allontanamento spesso inconsapevole dei principi su cui la nostra Costituzione ha fondato la convivenza della nazione democratica" ammonisce il presidente.
Parla della violenza contro le donne, il presidente. "Fatti raccapriccianti" li definisce. Che si verificano anche in paesi "evoluti e ricchi come l’Italia, dotati di Costituzione e di sistemi giuridici altamente sensibili ai diritti fondamentali delle donne, continuano a verificarsi fatti raccapriccianti, in particolare, negli ultimi tempi, di violenza di gruppo contro donne di ogni etnia, giovanissime e meno giovani". E se è vero che il Parlamento ’’già da decenni si sia impegnato in una severa legislazione sulla violenza’’, è anche vero che ’qualunque paese rappresentiamo in questa sala dobbiamo sentirci egualmente responsabili dell’incompiutezza di progressi realizzati’’.
Diritti ed Europa. A partire dalla Carta della Ue che "vincola alla non discriminazione". Parole che suonano quanto mai di attualità. "In Italia stiamo sperimentando la complessità della presenza crescente nel nostro Paese di comunità immigrate e del conseguente processo di integrazione da portare avanti - dice Napolitano - Integrazione i cui cardini sono nel rispetto della diversità di culture, religioni e tradizioni e nel rispetto dell’individuo e della sua dignità, da garantire insieme ai principi e alle leggi nazionali che regolano l’appartenenza alle società d’accoglienza".
Diritti da tutelare, quindi. Il cui riconoscimento è la "condizione di convivenza civile, libera e democratica". "In qualsiasi contesto il pieno riconoscimento la concreta affermazione dei diritti umani - conclude il capo dello Stato - costituisce una innegabile pietra di paragone della condizione effettiva delle popolazioni e delle persone del grado di avanzamento materiale e spirituale di un Paese". E su questa strada, è il senso delle parole di Napolitano, c’è ancora molto da fare.
Immigrati, il richiamo di Barroso. Il presidente della Commissione europea, Barroso, ha "esortato i primi ministri italiano e maltese a rispettare tutte le norme internazionali" nella vicenda dei respingimenti dei migranti clandestini nel mediterraneo. Lo ha riferito lo stesso Barroso agli eurodeputati del gruppo dei Socialisti e democratici durante la sua audizione in corso oggi a Bruxelles. "Il mio commissario competente (Jacques Barrot, ndr) ha mandato subito una lettera formale ai due governi chiedendo spiegazioni. E’ necessario - ha concluso Barroso - sostenere i diritti umani e i diritti fondamentali in Europa e nel mondo".
* la Repubblica, 9 settembre 2009
«Le lotte femminili hanno migliorato questo Paese»
di Marisa Rodano *
Il dibattito aperto sull’Unità sul «silenzio delle donne» è una bellissima iniziativa, che ho molto apprezzato. Mi ha però lasciata interdetta una frase del pur interessante intervento di Lidia Ravera. «Ve la ricordate la rivolta da camera delle nostre madri?»- ha scritto Ravera - «Erano donne che avevano vissuto la loro giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore a un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento».
Mi sono chiesta: come è possibile che una scrittrice, colta, brillante e intelligente come Lidia Ravera non sappia che quelle madri, le donne della generazione della resistenza, negli anni ’50 e ’60 erano rimaste in campo, avevano condotto straordinarie lotte per ottenere il diritto al lavoro e allo studio, la parità di salario, la tutela delle lavoratrici madri, il divieto di licenziamento per matrimonio, i servizi sociali?
Nel 1963 - proprio negli anni sessanta di cui parla Lidia Ravera - Nilde Jotti, allora responsabile femminile del Pci, sottolineava con soddisfazione che, «grazie alle lotte e alla combattività delle lavoratrici, le disparità salariali si erano fortemente accorciate« (dal 19% di scarto al 7,2% nell’industria e nel commercio e dal 30% alla parità contrattuale nell’agricoltura.)(...).
Altro che lamento! Quelle donne erano fiere delle lotte condotte, delle conquiste realizzate. Le faceva soffrire piuttosto il fatto che il loro lavoro fosse cancellato, rimosso; che quelle loro figlie, impegnate nel movimento femminista, le contestassero, avversassero l’Udi e rifiutassero la linea di emancipazione (...). La vita delle donne italiane nel corso degli anni è profondamente cambiata: il diritto al lavoro, alla parità di retribuzione, l’accesso alle carriere, compresa la magistratura, la polizia, l’esercito, un nuovo diritto di famiglia basato sulla eguaglianza, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore, la tutela dei figli nati fuori del matrimonio, l’autodeterminazione nella maternità e nell’aborto sembrano oggi norme ovvie e pacifiche, ma sono costate lunghe lotte. (...). Attualmente il contrattacco si è dispiegato in modo feroce: precarietà del lavoro, riduzione dei servizi, impossibilità di usufruire dei diritti (maternità, previdenza, lavoro) sanciti nelle leggi; una crescente violenza maschile contro le donne. Soprattutto, come denuncia Ravera, sta passando un modello culturale, un’immagine di donna, «tette grandi, cervello piccolo», che per affermarsi comunque - fare la velina o essere eletta in parlamento sembrano obiettivi equivalenti! -deve vendere il proprio corpo.
Uscire dal silenzio, tornare a dire «noi» anziché «io», ricostruire una rete tra i tanti gruppi e movimenti femminili che tuttora esistono, riprendersi la piazza, organizzare la lotta è oggi urgente e necessario. Ma per far questo sarebbe utile che la stampa, quella poca che, come l’Unità, non è asservita, desse visibilità alle donne che non tacciono; che, ad esempio, facesse sapere ai suoi lettori e alle sue lettrici che l’Udi esiste ancora. (...)
* l’Unità, 01 settembre 2009
1. PROPOSTE. MARIA GRAZIA CAMPARI: PER UN PIANO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE *
Premessa
In questa fase, la globalizzazione economica esercita un influsso prepotente sulle vite di tutte e tutti, donne e uomini.
Le donne, in particolare, subiscono l’esito infausto del nesso fra egemonia del mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) al quale fa seguito la diffusione di valori morali e giuridici di stampo fondamentalista, implicanti una negazione di liberta’ in primo luogo per le donne, poi per tutti per la indivisibilita’ di questo valore.
Questo ordine determina la negazione di qualsiasi relazione fra soggetti dotati di pari valore, svalorizza l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, nega loro fondamentali diritti della personalita’. Attraverso il richiamo a valori religiosi dichiarati indisponibili, nega l’autogoverno laico delle vite e avvolge tutte in una rete intessuta di nodi autoritari.
Questo ordine comporta, inoltre, precise ricadute sull’integrita’ e sulla vita stessa delle donne: dai gesti quotidiani di disvalore, alla inesistenza di autonomia decisionale sul proprio corpo (sancita da leggi e regolamenti), alla persecuzione con violenza, fino all’uccisione di chi ha scelto di reggere il filo della propria vita con le proprie mani, senza affidarsi ai ruoli imposti dalla tradizione e dalla cultura maschile.
La violenza, anche quando abbia luogo fra le mura domestiche, non e’ un fatto privato sulla cui origine i poteri pubblici possano stendere un velo di silenzio e disinteresse, oppure tentare di porvi rimedio attraverso la scorciatoia del solo diritto criminale, inasprendo la previsione di pene.
Come in altri Paesi europei (Spagna, ad esempio), le istituzioni sono chiamate ad intervenire nella consapevolezza che e’ lo svantaggio sociale femminile il dato di base all’origine della violenza e che esso va rimosso con sistemi adeguati.
Occorre pensare ad un piano nazionale di acculturamento e sensibilizzazione rivolto a tutti; occorre una costante vigilanza sulla sua osservanza e applicazione; occorre un piano legislativo che contenga un forte ed esplicito messaggio culturale e politico per un cambiamento delle relazioni fra donne e uomini. Una legge onnicomprensiva che evidenzi l’origine sessista della violenza insita nella discriminazione contro le donne, che evidenzi l’importanza della visibilita’ e della prevenzione per un problema da considerarsi grave problema sociale e da risolversi in tempi ragionevolmente rapidi da parte dei poteri pubblici. Seguono alcune proposte che, volutamente, prescindono dall’intervento penale, considerato quale rimedio solo successivo e non risolutivo del problema, riservato eventualmente agli esperti di settore.
Proposte di intervento integrato multidisciplinare La Presidenza del Consiglio dei Ministri con l’intervento dei Ministeri competenti (Sanita’, Giustizia, Istruzione, Interni, Pari Opportunita’), dovra’ avviare un piano nazionale di sensibilizzazione e prevenzione della violenza di genere che comprenda almeno i seguenti aspetti.
Introduzione e pubblicizzazione di una nuova scala di valori fondati sul rispetto dei diritti e delle liberta’ fondamentali, uguaglianza fra uomini e donne, esercizio della solidarieta’ e dell’accoglienza, in un quadro di civile convivenza. Tale scala di valori sara’ rivolta a uomini e donne attraverso un lavoro multiculturale posto a carico di tutti i pubblici poteri coinvolti. Dovra’ prevedere un programma di istruzione complementare e di formazione ad hoc per tutti i professionisti in qualsiasi modo destinati ad intervenire in situazioni caratterizzate dall’esercizio di violenza contro le donne.
Il programma di educazione/formazione sara’ controllato da una Commissione di esperti di nomina parlamentare, che dovra’ essere rappresentativa di tutti gli orientamenti politico-culturali e dovra’ vedere la presenza di professionisti di riconosciuta esperienza, rappresentanti istituzionali e singoli esponenti di ong e associazioni dotati di comprovata pluriennale capacita’ di intervento nel campo. Promozione e cura da parte dei pubblici poteri centrali e locali di campagne di informazione e sensibilizzazione tendenti allo scopo di prevenire la violenza di genere.
Principi per il sistema educativo
Il sistema educativo comprendera’ fra i suoi obiettivi la formazione al rispetto dei diritti e liberta’ fondamentali, di uguaglianza, disponibilita’
all’accoglienza e soluzione pacifica dei conflitti.
Allo scopo di garantire l’uguaglianza effettiva fra uomini e donne sara’
precisa responsabilita’ e onere del ministero e degli organi scolastici competenti che nei materiali educativi di ogni ordine e grado siano rimossi stereotipi sessisti e che venga promosso il pari valore di uomini e donne.
Anche per i docenti dovranno essere previsti piani di formazione che includano l’educazione specifica in materia di uguaglianza, al fine di assicurare loro specifiche competenze e conoscenze tecniche indispensabili
a:
1. incoraggiare capacita’ che portino all’esercizio di diritti e obblighi uguali per maschi e femmine nell’ambito sia pubblico che privato.
2. individuare precocemente situazioni di disagio o violenza nella sfera famigliare e intervenire in forma istituzionalmente corretta ed efficace.
3. educare alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Principi per il settore della comunicazione e della pubblicita’
E’ da considerare illecita la pubblicita’ che utilizza l’immagine femminile in modo vessatorio e discriminatorio. Le amministrazioni e le autorita’ pubbliche a livello statale e locale dovranno vigilare affinche’ mezzi di stampa e audiovisivi adempiano l’impegno di garantire un modo di trattare la figura femminile che sia conforme ai principi e valori costituzionali.
In ambito statale, regionale e comunale dovranno essere individuati organismi preposti alla vigilanza autorizzati ad esercitare azioni giudiziarie urgenti aventi lo scopo di ottenere dall’autorita’ giudiziaria ordinaria l’interruzione e/o la soppressione della pubblicita’ e delle immagini illecite perche’ contrastanti con le indicazioni sopra estese.
I mezzi di comunicazione dovranno rimuovere tutti gli aspetti che favoriscano la situazione di disuguaglianza della donna e promuovere, d’intesa con i pubblici poteri, campagne di sensibilizzazione verso l’uguaglianza fra i sessi e per la repressione della violenza di genere.
Principi per il settore sanitario
Le amministrazioni centrali e locali avranno il compito di sostenere e favorire le azioni degli operatori sanitari volte alla rilevazione precoce della violenza di genere e di proporre le misure necessarie ad ottimizzare il contributo del settore sanitario nella lotta contro questo tipo di violenza.
Dovranno sviluppare programmi di sensibilizzazione e formazione continua del personale sanitario allo scopo di promuovere la diagnosi precoce e l’assistenza e il sostegno delle donne vittime di violenza. Dovranno quindi provvedere, anche tramite gli istituti preposti, all’introduzione nei corsi di studio e formazione professionale di insegnamenti orientati al fine sopra enunciato.
I diritti delle donne vittime di violenza di genere I principali diritti per le donne vittime di violenza sono quelli all’informazione, assistenza sociale e legale; essi costituiscono la condizione minima necessaria al reale godimento delle garanzie costituzionali di liberta’, inviolabilita’ e sicurezza; essi saranno pertanto assicurati, senza condizioni ne’ preclusioni, a qualunque donna residente nel territorio italiano.
Le amministrazioni pubbliche (centrali e locali) dovranno predisporre servizi in grado di corrispondere alle vittime di violenza informazione completa, assistenza medica e psicologica, sostegno sociale, supporto legale e, in generale, assistenza adeguata alle loro condizioni personali e sociali.
Si tratta di un’opera di soccorso e accoglienza multidisciplinare che comprende: informazione alle donne interessate, attenzione e sostegno sociale, supporto giudiziario, appoggio in materia di formazione e inserimento professionale. Tali prestazioni richiederanno una collaborazione integrata di vari settori pubblici: servizi sanitari, di polizia, legali e giudiziari, scolastici e formativi. Tutta l’assistenza sara’ gratuita.
Per le donne vittime di violenza e per i loro figli dovra’ essere inoltre previsto un aiuto economico adeguato ai loro bisogni esistenziali e dovra’ essere messa a disposizione un’abitazione protetta.
Compiti istituzionali
I Ministeri interessati (Sanita’, Giustizia, Interni, Istruzione, Pari Opportunita’) dovranno curare la costituzione nell’ambito degli addetti alla giustizia, polizia e del personale sanitario di unita’ specializzate nella prevenzione della violenza di genere, nella protezione delle donne esposte a tale rischio, nella repressione rapida di comportamenti violenti e/o intimidatori, nella cooperazione alla effettiva applicazione delle misure cautelari e repressive adottate dagli organi giudiziari. Dovranno essere predisposti anche protocolli che assicurino una azione globale e integrata, uniforme in tutto il territorio nazionale, fra le diverse amministrazioni centrali e locali e i vari servizi ad hoc che ne dipendono.
2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: OSTACOLO ALLA CULTURA DEL DOMINIO **
Quando in un Paese, che si proclama laico e democratico, politici e mezzi di informazione invocano, quasi unanimemente, che venga data "liberta’ di parola" a un’istituzione che dichiaratamente si pone sulla sponda opposta - in quanto depositaria di una verita’ assoluta, di "valori fondamentali" che, come ha scritto Navarro-Valls ("La Repubblica" del 15 gennaio 2008), "precedono la politica", perche’ "non dipendono da noi" -, i casi sono due: o si e’ convinti che le proprie istituzioni siano abbastanza forti e temprate storicamente da reggere all’urto della potenza che ne minaccia l’autonomia, oppure si e’ gia’ fatta propria inconsapevolmente la posizione dell’altro.
Come spiegare altrimenti la sorprendente inversione di rotta che hanno preso le accuse di intolleranza, fine della laicita’, chiusura culturale, violenza ideologica, nel momento in cui, a seguito del dissenso espresso da un gruppo di docenti e studenti, il papa ha deciso di non presenziare all’inaugurazione dell’anno accademico dell’universita’ La Sapienza?
In modo del tutto speculare, il fronte laico si e’ trovato a trasferire su di se’ le stesse critiche, le stesse accuse, che fino al giorno prima aveva rivolto al pontificato di Benedetto XVI, o, in alcuni casi, a recitare simultaneamente la parte della vittima e dell’aggressore.
Dopo aver deplorato la data infausta, che avrebbe messo fine a un Paese "democratico" e affossato la speranza di vivere in una "Repubblica serenamente laica", Ezio Mauro ("La Repubblica" del 16 gennaio 2008) prosegue dicendo che la Chiesa e’ tornata a "essere un primo attore in tutte le vicende pubbliche", "pretende di determinare i comportamenti parlamentari delle personalita’ politiche cattoliche", si pone "come una riserva superiore di verita’ esterna al libero gioco democratico, una sorta di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato".
Benche’ si dica convinto che una universita’ di Stato non possa fare del pensiero religioso "la fonte costitutiva del suo sistema culturale ed educativo", all’autorita’ massima che ne e’ portatrice Ezio Mauro avrebbe voluto che si aprissero le porte nel giorno simbolicamente piu’ significativo del suo percorso interno, quale e’ l’inaugurazione dell’anno accademico, in modo che i docenti "potessero interloquire, fissare e ribadire l’autonomia dell’insegnamento e della liberta’ di ricerca".
E’ come dire che, per essere "tolleranti", si deve lasciar spazio all’intolleranza, per essere "liberi" lasciarsi espropriare dei luoghi dove la liberta’, di pensiero e di parola, e’ garantita dal dettato costituzionale, oltre che dai regolamenti interni di una istituzione, per essere "laici" cedere la lectio magistralis a un sapere confessionale, cioe’ a una verita’ di fede. In altre parole, non e’ previsto che si possa dissentire, ribellarsi, chiedere che venga messo un limite la’ dove la liberta’ di una parte interferisce con quella dell’altra, potendo contare su una innegabile disparita’ di potere. Nel momento stesso in cui si riconosce che l’interlocutore laico ha subito una "riduzione di dignita’", inspiegabilmente gli si chiede di accettare il dialogo, il confronto.
Guardare il mondo alla rovescia, pensare che la parola del papa, trasmessa settimanalmente a tutto il mondo e quasi ogni giorno sui teleschermi di casa nostra, abbia bisogno di essere protetta dalla "censura", dal rischio di passare sotto silenzio, puo’ essere lo scarto di prospettiva che, paradossalmente, restituisce alle cose la giusta proporzione. Diventa preoccupante quando si fa senso comune, visione condivisa, irragionevolezza diffusa. A questo punto le domande che dobbiamo porci sono altre. Di che pasta e’ fatto il consenso a una rappresentazione cosi’ distante dalla realta’? Perche’ il papa appare intoccabile, al di sopra di ogni legge, di ogni civile regola di convivenza, di ogni conquista di liberta’?
Perche’ un sistema medioevale, che subordina la scienza, il diritto, e quindi la politica, al superiore dettato della filosofia e della teologia - la "coppia gemellare" di saperi a cui San Tommaso d’Aquino aveva affidato "la ricerca sull’essere umano nella sua totalita’", il compito di "tener desta la sensibilita’ per la verita’", che ha il suo culmine nella fede cristiana -, puo’ essere scambiato oggi per l’espressione piu’ alta della ragione?
Nel discorso di Ratzinger, che deve essere risuonato ancora piu’ solenne letto in sua assenza, e’ detto con chiarezza quali siano la radice e l’albero, la forza propulsiva creatrice e le diramazioni dell’umano: "Se pero’ la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana... inaridisce come un albero le cui radici non raggiungano piu’ le acque che gli danno vita... Applicato alla nostra cultura europea cio’ significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e... preoccupata della sua laicita’, si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa piu’ ragionevole e piu’ pura, ma si scompone e si frantuma".
Dopo il lungo, combattuto percorso, che ha portato alla separazione tra Chiesa e Stato, fede e conoscenza, come e’ possibile che la fede torni ad essere "forza purificatrice" che aiuta la ragione ad "essere piu’ se stessa"?
Una risposta, o una chiave interpretativa, la offre Giuliano Ferrara, il paladino piu’ acceso di quello che definisce il "Papa della ragione", nel suo editoriale ("Il Foglio" del 17 gennaio 2008). Il merito, che fa di Benedetto XVI un "Papa a disposizione del suo tempo", e’ di aver rafforzato "l’identita’ cristiana e cattolica nel mondo", di aver dato "un aiuto insperato a un’epoca di svuotamento tendenziale del vivere e del convivere.
Specie in relazione al risveglio del temperamento piu’ fanatico di un certo islamismo radicale". Che cosa si debba intendere per "vivere e convivere", e’ detto piu’ estesamente da Ritanna Armeni su "Liberazione" (16 gennaio 2008): "Il papa interviene sulle manifestazioni della vita e della societa’ che toccano aspetti fondanti dei valori religiosi cattolici: la vita, la morte, la pace, la guerra, la scienza, la politica".
E’ su questa "battaglia di valori", "iniziata dalla Chiesa, e non solo da essa, sulla Legge 40 e proseguita sui vari terreni, dall’eutanasia alla famiglia e alle unioni civili e ora all’aborto", che il fronte laico dovrebbe "accettare il confronto". La "lezione" del papa alla Sapienza, stando alle dichiarazioni del rettore, avrebbe dovuto essere "il polo di irradiazione in altri atenei... per la proclamazione e la difesa di alcuni valori... un momento importante di riflessione per credenti e non credenti su problemi etici e civili, quale l’impegno per la moratoria della pena di morte", e, prevedibilmente, per la moratoria sull’aborto.
Se la violazione piu’ plateale della liberta’ di ricerca, che ha nell’universita’ il suo luogo piu’ autorevole, non ha registrato se non qualche raro grido di allarme, e’ perche’ evidentemente la separazione tra fede e conoscenza e’ un traguardo ancora lontano dall’Occidente laico e democratico, molto piu’ di quanto lo sia quella tra Chiesa e Stato.
La "confusione" appare oggi piu’ profonda - sedimento di pregiudizi e paure antiche -, nel momento in cui affiorano alla sfera pubblica esperienze essenziali dell’umano, come la nascita, la morte, la sessualita’, la procreazione.
E’ su questo terreno che la "sensibilita’ etica" va ad appiattirsi dentro quella "sensibilita’ alla verita’", di cui la Chiesa fa depositario il messaggio cristiano, l’unica "istanza" che, secondo Benedetto XVI, sfugge al le logiche dell’"interesse" e dell’"utile", dentro cui si muovono i partiti e in generale le istituzioni laiche.
Di fronte agli sviluppi imprevedibili di un sapere tecnico-scientifico, che sembra non conoscere limiti, sottoposto alla pressione di potenti interessi economici e politici, non e’ difficile, per una autorita’ apparentemente neutrale e dedita alle cose dello spirito, far balenare il pericolo di una incombente "disumanita’", e convincere le scienze storiche e umanistiche ad accogliere, "criticamente e insieme docilmente", la sapienza delle grandi tradizioni religiose. In primis, del cattolicesimo.
Si comprende meglio, a questo punto, che cosa abbia aperto, sul fronte laico, un vuoto cosi’ grande di "ragioni" proprie: il discredito caduto sulle istituzioni politiche, la resistenza della sinistra a trovare nessi tra vita e politica, la tentazione di un potere in crisi di appoggiarsi alla sua stampella secolare, il "sacro", e a chi se ne fa depositario unico, cioe’ la religione. Ma, al centro, come ha visto lucidamente Enzo Mazzi ("Il manifesto" del 16 gennaio 2008) c’e’ la competizione tra culture maschili, "la fede impallidita" e la fiorente ragione scientifica, alleate "per togliersi di mezzo la donna, radicale ostacolo alla cultura del dominio".
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* Fonte:
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE.
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 155 del 31 gennaio 2008
* 1. [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo dal titolo completo "Per un piano nazionale di educazione e sensibilizzazione contro la violenza di genere" del 21 gennaio 2008.
** 2. [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 25 gennaio 2008 col titolo "La ragione subordinata alla fede, il mondo alla rovescia dei laici". ....]
Donne in politica, l’Italia pari merito con il Nepal *
Non parliamo del 50 e 50, della parità. Basterebbe almeno sfiorare quel 30% che «rappresenta il minimo indispensabile per una democrazia che possa dirsi veramente paritaria», dicono da Arcidonna. Ma è ancora un sogno: l’Italia - con il 17,4 di elette alla Camera e il 13,6 al Senato - si ferma al 63° posto nella classifica mondiale della rappresentanza femminile nei parlamenti nazionali. Pari merito con il Nepal.
E dobbiamo anche consolarci: qualche anno fa eravamo pure messi peggio. Le ultime rilevazioni, successive alle regionali del 2005, dicono che «si è passati nei consigli dall’8,8% all’11,1, nelle giunte dal 12,8 al 17,5, mentre la media delle donne elette nelle giunte e nei consigli è adesso il 12,2% contro il 9,9% precedente». Magra consolazione. Il fatidico trenta per cento, è solo sfiorato dalla giunta della Regione Lazio, quella con la migliore prestazione che si ferma al 29,4% (cinque donne e dodici uomini). Maglia nera a Basilicata, Calabria e Valle d’Aosta che, in giunta, non hanno nemmeno una donna. Vince invece la Toscana se, oltre alla giunta, si considera anche il Consiglio regionale, seguita da Umbria e Trentino Alto Adige.
Ma certo, non è colpa delle regioni. Al Governo la media delle donne è dl 24%, ovvero sei ministri donna su 25: ma cinque di loro, quasi tutte quindi, sono senza portafoglio. Quindi ministeri con pure funzioni di supporto, senza possibilità di spendere nulla di propria iniziativa.
Non brilliamo nemmeno in Europa: sono donne il 17,9% delle europarlamentari italiane, contro una media del 30,4%: vanno peggio di noi solo la Polonia, Cipro e Malta. Cresce, invece, la presenza femminile nei Comuni, probabilmente, punzecchia Arcidonna, «a causa della minore “appetibilità” delle cariche comunali rispetto a quelle di organismi di maggiori dimensioni».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.07, Modificato il: 02.11.07 alle ore 17.03
A CHE PUNTO E’ LA CAMPAGNA "50 E 50 OVUNQUE SI DECIDE" *
Oltre 50 i centri di raccolta - di cui 26 dell’Udi - hanno avviato con entusiasmo la raccolta delle firme, che e’ nel pieno dell’attivita’. Sempre a proposito di numeri, piace far sapere che sono stati spediti 15.490 moduli in tutta Italia - dall’estremo nord all’estremo sud, isole comprese - insieme a 2.980 locandine, 2.720 spille, 60 bandiere, 30.000 volantoni e 68 blocchetti di autofinanziamento "perche’ chiediamo una sottoscrizione per le spese di stampa e spedizione".
I commenti dalla "centrale operativa" sono all’insegna dell’ottimismo: "il grande obiettivo che ci poniamo e’ possibile grazie alla disponibilita’ e alla passione politica". Nella sede nazionale dell’Udi a Roma alcune donne fanno i turni per rispondere tempestivamente alle richieste, le piu’ diverse.
"I Centri di raccolta sono la novita’ politica di questa campagna perche’ sono diffusi sul territorio per iniziativa di donne motivate, perche’ si organizzano da soli, grazie anche al sito www.50e50.it, che aggiorna sui vari appuntamenti". Sono davvero tante le donne che si sono attivate, "ciascuna ha messo a frutto la proprie relazioni e competenze perche’ sente come ormai non piu’ rimandabile il progetto, come fondamentale per il futuro e per la democrazia - osserva Pina Nuzzo -. Donne dell’Udi, delle organizzazioni piu’ differenti che non avremmo conosciuto se non avessimo avviato questa campagna, delle organizzazioni sindacali, delle commissioni pari opportunita’, le consigliere di parita’, singole donne con storie e appartenenze politiche diverse hanno investito in tempo ed energia oltre ogni aspettativa".
Il prossimo impegno sara’ per una grande manifestazione a Roma, il 13 ottobre 2007, promossa dai Centri di raccolta e dai Consigli delle donne "50e50 ovunque si decide". Notizie piu’ dettagliate saranno diffuse a settembre. D’obbligo tenere d’occhio il sito.
Per informazioni: tel. 066865884, e-mail 50Ee50udinazionale@gmail.com, sito:
www.50e50.it
*
[Dal sito www.noidonne.org riprendiamo il seguente articolo dal titolo "50e50: a che punto siamo" e il sommario "In vista della manifestazione nazionale del 13 ottobre ecco i risultati raggiunti dalla campagna, che si chiudera’ il 30 novembre 2007"]
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 127 del 20 settembre 2007
Marziani, state a casa
di Maria G. Di Rienzo *
Tanti anni fa (io ero una bimba, per cui sono proprio tanti), fu inviata nello spazio una sonda, chiamata Pioneer 13 se non ricordo male, destinata a perdersi oltre i confini della nostra galassia. Recentemente ho letto che il suo viaggio procede senza intoppi, in cieli distanti, fra stelle sconosciute. Questa sonda reca un messaggio inciso su una lastra di metallo, le figure di un uomo e di una donna ed alcuni simboli: il suo scopo è indicare alle eventuali forme di vita che lo ricevessero che l’umanità è pacifica e pronta ad accoglierle. Io non posso lanciare questo articolo dietro alla Pioneer per avvisare che si tratta di un’enorme menzogna, ma so che devo scriverlo e sperare nel miracolo: alieni, chiunque voi siate, non credeteci e restate sui vostri pianeti. Pacifici? Una cinquantina di guerre insanguina la culla dell’umanità, giorno dopo giorno, anno dopo anno, milioni di morti, milioni di mutilati. Accoglienti? Abbiamo confini sempre più militarizzati che “difendono” aree sempre più piccole, di territorio o di idee. Non accogliamo neppure i nostri fratelli e sorelle di specie quando fuggono da povertà, conflitti armati e disastri ambientali, chi vogliamo prendere in giro? Amici di altre galassie, portate pazienza e ascoltatemi. Ho scelto un paese a caso, sul Pianeta Azzurro, per spiegarvi a cosa andreste incontro venendo qui. Non è interessato da guerre, al momento, per lo meno sul territorio nazionale, ma questo non lo rende meno pericoloso. Ecco perché non è bene metterci piede:
1. Le bambine, di qualunque gruppo sociale, religione o provenienza geografica, in questo paese della Terra non sono al sicuro. Figuriamoci se lo sarebbero bambine verdi con le antenne, originarie di Proxima Centauri.
Bambine di undici anni vengono violentate dal vicino di casa-affettuoso baby sitter (21 aprile 2007) Gli abusi, secondo la ricostruzione degli investigatori, andavano avanti da oltre due anni e sono continuati fino a quando un’amichetta delle due undicenni, che si trovava in casa con il vicino insieme a loro, si è accorta dei comportamenti strani dell’uomo. Così la piccola ha convinto le due amiche a raccontare tutto ai genitori e lei stessa ha riferito quello che aveva visto a sua madre. Le mamme hanno poi accompagnato le figlie all’ospedale dove nel corso di una visita sono state riscontrate le violenze subite.
Se appena ne compi dodici, di anni, ci pensano i tuoi parenti a prostituirti (sempre 21 aprile). Dopo un paio d’anni si scopre che è tua madre a venderti: il costo delle prestazioni variava dai quindici ai trenta euro e i video degli incontri venivano conservati dai “clienti” sui cellulari, per fare pressione sulla ragazzina. Se quest’ultima opponeva resistenza, veniva ricattata con i filmati che mostravano i precedenti incontri sessuali, “Ti sei andata a coricare” si sente in una delle intercettazioni telefoniche, “e mi hai chiuso il telefono. Guarda che ti ricatto, ho le cose per ricattarti.” In un’altra telefonata, uno degli uomini chiede alla ragazza se le si erano rimarginate le ferite provocate da un loro rapporto sessuale.
Oppure trovi qualche brav’uomo, sposato con tutti i crismi e padre di due bambini, che dopo essersi portato a letto una dodicenne testimonia giulivo davanti al giudice: “Scherzavamo. C’è stato solo qualche scambio di affettuosità.” (24 luglio 2007) E se soffri il peso di una disabilità (in questo caso specifico motoria, e grave), non pensare che il violentatore di turno si farà scrupoli, anzi, l’età si abbassa pure. Otto anni ha la bambina disabile costretta a prestazioni sessuali per un parente stretto, che le ha pure riprese con il videocellulare e passate agli amici. (2 giugno 2007)
2. Le donne, sempre con la stessa puntigliosa trasversalità, sono trattate come pezzi di carne sul bancone di un macellaio.
Durante una lite, un uomo di 35 anni inizia a picchiare la sua compagna, 30enne, incinta di quattro mesi, con calci e pugni. Fino a procurarle un aborto. Poi ha prelevato il feto, e lo ha seppellito nella campagna vicina. La donna ha chiamato un’ambulanza per chiedere soccorso e, in un primo momento, ha raccontato ai medici solo dell’aggressione, senza menzionare l’aborto che tuttavia è stato diagnosticato dai sanitari. Solo allora la donna ha riferito tutti i particolari dell’accaduto. Rintracciato l’aggressore, che si era nascosto in un casolare isolato, si è potuto recuperare il corpicino da una fossa. (8 luglio 2007)
Ma non importa che tu riesca a metterli al mondo, i tuoi e suoi bambini. Ne puoi partorire persino quattro, e se lui pensa che tu lo tradisca ti sgozzerà davanti a loro. La donna di cui parlo è morta in questo modo orribile, a 48 anni, per: “Un storia inesistente”, dicono gli investigatori, “forse resa reale per l’uxoricida dal suo stato depressivo.” L’uomo ha poi tentato il suicidio ferendosi all’addome con lo stesso coltello, una lesione giudicata dall’ospedale guaribile in pochi giorni. Il maggiore dei figli, che ha dato l’allarme ed è fuggito da casa con gli altri fratelli, ha 16 anni. (26 luglio 2007)
E sappiate anche che il denunciare le violenze da parte delle donne è inaccettabile ed è immediatamente punito con violenze ulteriori. Un pensionato viene arrestato per reiterate violenze sessuali ai danni di un quattordicenne. Dopo un periodo di detenzione, ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute. Cerca di far ritrattare le proprie dichiarazioni ad una testimone dell’accusa, ma costei si rifiuta: l’uomo la picchia e la stupra. (6 luglio 2007) Non va meglio se la protesta contro la violenza è collettiva, pubblica e organizzata, ne’ importa che il motivo per cui si protesta sia l’omicidio insensato di una giovane (questioni di “onore”): la ritorsione è solo differita, per motivi di opportunità. Si aspetta che una delle organizzatrici si trovi da sola, e la si insulta e minaccia di morte. Le prime parole che gli aggressori dicono rivelano tutto: “Devi smettere di parlare...” (29 giugno 2007)
3. In questa specifica nazione del pianeta Terra si sta allevando una generazione di giovanissimi spacciando loro per valori la sopraffazione, l’arroganza e la “legge della giungla”.
Due studenti quindicenni portano di forza un loro coetaneo nei bagni della scuola: qui il ragazzino viene violentato da uno dei compagni mentre l’altro riprende la scena con il telefonino. La vittima, che ha un piccolo deficit di apprendimento ed è seguito da un insegnante di sostegno, ha poi raccontato tutto, settimane dopo, alla madre, quando un familiare aveva avuto la notizia dell’esistenza di quelle immagini. (26 maggio 2007)
Molti episodi, che siano meno cruenti o analoghi, non raggiungono la stampa, ma la loro crescita è ampiamente testimoniata. Il bullismo comincia ad uccidere anche in questo paese (almeno una vittima si è data la morte per sfuggirvi, quest’anno), e in più abbiamo spacciatori dodicenni di droghe leggere provenienti da rinomate e benestanti famiglie, e bambine di dieci anni che “tirano” coca perché fa dimagrire. Per non parlare dei filmati “shock” che vengono allegramente messi in internet e dove si può ammirare la cricca dei bulli minorenni che tormenta la vittima di turno.
4. La sanità mentale, in questo paese, è uno stato ampiamente minoritario. Soprattutto fra chi ha potere decisionale o autorità di qualche tipo.
Prendete i sindaci. Uno si sveglia la mattina e decide che i bambini “nazionali” hanno più diritti dei bambini immigrati. Nelle graduatorie per gli asili nido comunali, passeranno avanti grazie alla cittadinanza di mamma e papà. E badate bene: “Qualora gli istituti non volessero accogliere la richiesta, il sindaco è pronto a intervenire con un’ordinanza.” Chi viene da “fuori” è un problema, tuona il primo cittadino, e perciò ha in progetto di realizzare un sistema di monitoraggio tramite telecamere piazzate su tutto il territorio comunale: scuole, parchi, piazze, periferie, frazioni... Il Grande Fratello in perpetuo, ventiquattrore su ventiquattro, è semplicemente geniale, no? (27 luglio 2007)
Un altro sindaco si trova con un caso di stupro sul proprio territorio, otto minorenni che violentano una coetanea e cosa fa? Tira fuori dal bilancio comunale le spese legali per gli accusati, forse ignorando che la difesa legale è garantita d’ufficio anche agli indigenti (ma i fanciulli non sarebbero indigenti, pare che abbiano parenti in giunta, invece). Di fronte alle reazioni provenienti da membri autorevoli del suo partito, gli dà dei “talebani.”, ricorda che sono loro ad aver bisogno di lui e non viceversa, e si organizza una micro manifestazione di sostenitrici per far vedere a tutto il mondo che le donne non sono schifate e offese dal suo comportamento, anzi. (18 luglio 2007) Cos’abbiamo, ancora? Parlamentari tristi e stanchi, consumati dalla lotta alla droga, dalla tolleranza zero e dal “family day” che sono costretti, causa lontananza dall’amata moglie, a festini a base di cocaina e prostitute. Sacerdoti con una fedina penale notevolmente sporca che, nei guai con la legge per l’ennesima volta, denunciano “complotti” giudaico-massonici. (Questa dichiarazione mi ricorda qualcuno, qualcuno con baffetti e divisa, ma no, non è Chaplin). Ministri della Repubblica che prontamente assicurano loro “vigilanza” sui complotti...
Miei cari ET, cosa devo dirvi di più? Di qualsiasi costellazione siate originari, restateci. O almeno non mettete piede in Italia, fino a che non diventiamo un paese civile.
Maria G. Di Rienzo
P.S. Gli episodi di cronaca succintamente narrati sono avvenuti nelle province o nella città di: Roma, Palermo, Manfredonia, Foggia, Catania, Civitavecchia, Milano, Ferrara, Lucca, Viterbo. Gli autori degli atti di violenza erano cittadini italiani e cittadini immigrati; le vittime pure.
La dignità (limitata) delle donne
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 4/8/2007)
La Corte di Cassazione ha definitivamente mandato assolti i genitori e il fratello - di fede islamica - di una giovane che li aveva denunciati per sequestro di persona e maltrattamenti. La Corte non contesta che effettivamente la giovane sia stata prima sequestrata e poi picchiata. Ma giudica che genitori e fratello abbiano agito per il suo bene: prima per evitare che frequentasse persone a loro non gradite, poi per evitare che, per sfuggire a tanto amorevole controllo, la giovane si suicidasse.
Di più, nel motivare la propria sentenza la Corte ha dichiarato che non c’era prova che le botte fossero abituali. Si è trattato solo della reazione (evidentemente ritenuta legittima) a comportamenti giudicati scorretti dai familiari stessi sulla base «della loro cultura». Le donne, le figlie, specie di famiglia musulmana (ma in linea teorica tutte) sono avvisate: essere picchiate e sequestrate perché il proprio comportamento non piace ai genitori e ai fratelli (ma forse anche ai mariti, ai suoceri, ai cognati) non è reato, neppure un reato minuscolo come l’abuso dei mezzi di correzione come è invece avvenuto altre volte, nel caso di genitori italiani che impedivano ai figli di uscire chiudendoli a chiave in camera. Esse sono ostaggio dei propri familiari, gli unici che possano valutare quale sia il loro bene e che cosa possano o non possano fare.
E questo, sempre a parere della Corte, non costituisce atteggiamento di sopraffazione e disprezzo, bensì attenzione amorevole, ancorché severa. I diritti individuali vengono meno di fronte al diritto e potere della comunità, dei gelosi custodi della tradizione. Genitori, fratelli, mariti, cognati, zii disturbati dal comportamento delle «loro» donne sono avvisati: basta che motivino la loro violenza con l’intenzione di fare del bene e proteggere da se stesse le loro vittime e saranno autorizzati a continuare a malmenarle. Basta che non le ammazzino o non le mandino all’ospedale.
C’è un misto di sessismo e razzismo mascherato da politically correct in questa sentenza che mette paura. Evidentemente è solo quando si arriva all’omicidio, come nel caso di Hina, la ragazza pachistana uccisa da padre e cognati nel silenzio della madre, che la violenza è considerata intollerabile e illegittima. Ma fino a un momento prima no. Quindi non c’è rifugio possibile per le vittime. E’ ancora peggio di quando, sempre in nome delle «tradizioni culturali locali» si concedevano generose attenuanti per delitto d’onore. Qui proprio non c’è reato. In entrambi i casi, vale la pena di sottolineare che il potere della tradizione (che si tratti dell’onore della famiglia o della purezza della comunità di appartenenza) come superiore ai diritti individuali, viene più facilmente evocato e riconosciuto quando si tratta di violenza dei genitori verso le figlie, dei mariti verso le mogli, dei fratelli verso le sorelle. A conferma della maggiore difficoltà con cui, anche nelle nostre società cosiddette evolute, si riconosce una piena dignità civile alle donne. Non succede solo in Italia, per altro. Mesi fa una sentenza analoga in Germania provocò sconcerto nella opinione pubblica e reazioni negative da parte degli organi della magistratura tedesca.
Quando il ministro Amato dichiarò che picchiare le donne è una tradizione siculo-islamica sbagliò due volte: perché picchiare le donne è fenomeno diffuso a tutte le latitudini e condizioni sociali, come testimoniano i dati non solo italiani, ma delle organizzazioni internazionali. E perché questa sentenza (che conferma una precedente sentenza d’appello) dimostra che in Italia una parte dei giudici lo considera un fatto normale, specie se avviene in famiglia ed è motivato da tradizioni culturali.
Dopo questa sentenza, rimane da chiedersi con che legittimità il governo e il ministro potranno chiedere alle associazioni islamiche e agli aspiranti cittadini - di qualsiasi provenienza culturale e religiosa - del nostro Paese di sottoscrivere, tra l’altro, una dichiarazione di rispetto per la libertà e la dignità femminili.
La Suprema Corte ha dato ragione al Tribunale del Riesame di Lecce
I giudici avevano vietato all’uomo di risiedere nello stesso comune della donna
Ha costretto la moglie a chiudersi in casa
Per la Cassazione è violenza privata
L’uomo era arrivato a installare una telecamera per sorvegliare la consorte *
ROMA - Costringere la moglie a vivere chiusa in casa, per giunta controllata da una telecamera, è violenza privata. Lo attesta una sentenza della quinta sezione penale della Cassazione (n.31158), con la quale è stata confermata la misura cautelare del divieto di dimora nello stesso comune di residenza della moglie, Soleto, emessa dal tribunale del Riesame di Lecce nei confronti di un uomo che rischia una condanna fino a quattro anni per violazione dell’articolo 610 del codice penale.
La moglie, si legge infatti nella sentenza, Maria Addolorata N., era stata obbligata a "modificare le proprie abitudini di vita, rinunciando ad uscire a piedi e, comunque, a limitare le proprie uscite, a vivere chiusa in casa, controllando continuamente le immagini provenienti da una telecamera esterna appositamente installata, a richiedere la compagnia della madre nelle notti in cui il marito era impegnato in turni di lavoro notturni".
Il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta del pm di applicazione della misura di arresti domiciliari nel confronti dell’indagato, Roberto V., 50 anni, non ritenendo "ravvisabili" nella fattispecie gli estremi del reato di violenza privata. La richiesta di misura cautelare, anche se limitata al divieto di dimora, era invece stata accolta dal Riesame.
La Suprema Corte, quindi, ha rigettato il ricorso avanzato dal difensore dell’indagato, nel quale si spiegava, tra l’altro, che "le asserite limitazioni del libero comportamento della persona offesa non erano riferibili ad alcuna minaccia, ma solo ad attenzioni amorose, ed erano ascrivibili ad autonome scelte di vita della stessa".
Per gli ’ermellini’, invece, "con motivazione idonea, immune da vizi od incongruenze di sorta, il giudice del riesame ha diffusamente argomentato in proposito, giungendo alla corretta conclusione degli elementi costitutivi dell’ipotizzata fattispecie delittuosa".
Per i giudici di piazza Cavour, dunque, "la fattispecie in oggetto" non aveva nulla a che fare con "le attenzioni amorose", ma era diventato "un sistema di reiterate molestie e minacce tali non solo da costringere la persona offesa ad un radicale cambiamento del suo regime di vita, ma a tollerare anche pesanti intrusioni nella sua vita privata e nella sfera della sua riservatezza".
* la Repubblica, 1 agosto 2007
Che ne dite di un po’ di buone notizie? E allora sì va!
di Maria G. Di Rienzo
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per questo intervento. *
La femminista turca Pinar Ilkkaracan ha ricevuto il “Premio Internazionale per i Diritti delle Donne”, assieme a due organizzazioni da lei fondate, “Donne per i diritti umani delle donne” e “Coalizione per i diritti sessuali e corporei nelle società musulmane”. E’ impossibile raccontare in breve tutto quel che Pinar ha fatto per le donne durante la sua vita, e quanto il suo lavoro per le riforme nelle leggi penali e nel diritto di famiglia conti in Turchia: se qualcuna meritava un riconoscimento internazionale, è proprio lei.
Il Presidente delle Maldive ha nominato nel luglio 2007 le prime due donne giudici del paese. Aisha Shujoon ha prestato giuramento per la corte civile, e Huzaifa Mohamed per quella famigliare. Le nomine seguono alle calcagna il rapporto dello speciale rappresentante NU per i diritti umani Leandro Despouy, in cui si consigliava di mettere rimedio alla discriminazione di genere nel sistema giudiziario. Le Maldive hanno un bel po’ da fare per raddrizzare i torti relativi agli arresti indiscriminati di attivisti per i diritti civili e agli abusi sui detenuti, ma nel marzo 2006 il governo ha adottato una “roadmap” per le riforme che prevede di migliorare la protezione dei diritti umani e i gruppi femministi glielo ricordano ad oltranza. Buon lavoro, amici ed amiche.
Forse conoscete già la sorte di molte donne colpite da complicazioni post parto nel mondo. Le fistole, che affliggono soprattutto madri molto giovani, non permettono alle donne di controllare vescica ed intestini. Ci vuole un intervento chirurgico, o più d’uno, per rimediare e molte donne non riescono ad ottenere cure sanitarie. Si sono ormai formati interi villaggi di “reiette” di questo tipo, in Africa, abbandonate dai mariti e cacciate dalle famiglie. Ma finché ci sono uomini come Omar Abdullah Al Bakar c’è speranza. Sua moglie Mecca Mohammed Ibrahim, a seguito di un aborto spontaneo, si è trovata nelle condizioni sopra descritte e nonostante le tremende pressioni ricevute dalla propria famiglia e da quella della moglie, affinché divorziasse da lei, Omar (che è cieco) ha sfidato usanze e tradizioni e rischi. Ha preso con sé i figli, ha trasportato la moglie sul suo carretto trainato da un asino ed è riuscito ad arrivare all’ospedale dopo tre giorni e dopo aver perso la maggior parte dei suoi averi durante il viaggio, grazie ad un’aggressione di banditi. La famigliola, che vive nel Darfur, ha dovuto aspettare quattro mesi prima che la donna fosse visitata, e altri otto prima che fosse sottoposta all’intervento. Ora sono pronti a tornare a casa. “Questa è mia moglie, e io ho avuto una buona vita con lei, ed ho bisogno di lei per crescere insieme i nostri due bambini.”, ha detto Omar, “Ne’ la mia famiglia ne’ la sua ci hanno aiutato, durante questo anno, ma penso che era destino andasse così. Non ho rancore per nessuno.”
Cosa si può fare per arginare la diffusione di Hiv/Aids in India? La Ministra per lo Sviluppo di Donne e Bambini, Renuka Chowdhury, ha dato una scossettina al suo paese il 16 luglio u.s., rispondendo che come prima misura le donne devono proteggersi dai loro mariti. “Comprateli voi, i preservativi, non siate imbarazzate. Lasciate pure che i vostri uomini sospettino. E’ il comportamento sessuale degli uomini indiani, dei vostri mariti, che sta contribuendo al diffondersi dell’epidemia. Mi scuso con gli uomini presenti, ma non potete fidarvi di loro.”, ha detto Renuka al Forum nazionale delle donne sieropositive e che vivono con l’Aids, “Se credete che gli uomini staranno attenti, scordatevelo.” L’India ha 2 milioni e mezzo di persone sieropositive o ammalate di Aids: il 40% sono donne e la stragrande maggioranza di esse ha contratto il virus dai propri mariti o compagni. “Siamo degli ipocriti.”, ha aggiunto la Ministra rispondendo alle domande dei giornalisti, “Come popolazione siamo un miliardo e non vogliamo parlare di sesso. E i governi regionali si rifiutano di finanziare l’educazione sessuale perché essa sarebbe contraria alla cultura indiana. Questo devo cambiare.” Averne in Italia, di Ministre così.
In Sierra Leone il Parlamento ha licenziato tre leggi che segnano un deciso avanzamento per i diritti delle donne: ora potranno ereditare le proprietà, la violenza domestica sarà perseguita e le giovani verranno protette dai matrimoni forzati. Inoltre, la partecipazione politica femminile verrà incoraggiata tramite un apposito programma. “Queste leggi daranno fiducia alle donne.”, dice convinta la coordinatrice Christiana Wilson, “Se non hai fiducia in te stessa non esci a prendere posizioni politiche.” Sapete come si chiama il programma coordinato da Christiana? 50 e 50! (Ehi, donne dell’Udi, non è una soddisfazione?)
Gli ulema indonesiani (leader religiosi musulmani) stanno per ricevere dallo stato un libretto d’istruzioni sulla pianificazione familiare. Servirà loro a fornire informazioni sulla salute sessuale e riproduttiva ai/alle fedeli. L’impegno degli ulema è il risultato di un lungo processo di incontri con il governo e con le ong del paese, comprese quelle delle donne.
Alle donne del Kurdistan iracheno non piacciono i loro nuovi passaporti. A differenza di quelli del passato, ora per la loro validità è necessaria la firma di un “tutore” maschio della donna, marito o padre eccetera. Rezan Muhammad Ali se ne è accorta quando qualche mese fa ha programmato un viaggio in Gran Bretagna per andare a trovare una parente: “A momenti urlavo. Io non sono una bambina, e non ho bisogno del permesso di un guardiano.” A Nazaneen Rasul, 45enne, un’esperienza analoga si è presentata in giugno: “Dovevo andare in visita dai parenti di mio marito. Non capisco: io sono la tutrice legale dei miei bambini, ed ora ho bisogno di un tutore legale che mi permetta di avere un passaporto, alla mia età?” Sroosht Wahbi, avvocata, di anni ne ha 36. Per lavoro doveva recarsi in Turchia e Arabia Saudita, ma non ha un padre, non ha un marito, non ha un fratello e non è in buoni rapporti con suo zio. Le è stato impedito di partire: “Non vi è alcuna giustificazione, legale o sociale, per questo.”
Ne sono tutte talmente convinte che si sono unite ai gruppi di femministe che stanno contestando la legge: durante la sola prima settimana di campagna hanno raccolto oltre 1.000 firme. “La legge contraddice la Costituzione, che garantisce ad ogni cittadino o cittadina di muoversi liberamente dentro e fuori il paese. Non permetteremo mai che si degradino le donne, e continueremo a criticare la legge fino a che non la cambieranno.” Parola dell’attivista Nasreen Muhammad.
Maria G. Di Rienzo
Fonti: Reuters, Christian Science Monitor, India News, Jakarta Post, Institute for War & Peace Reporting
* IL DIALOGO, Mercoledì, 25 luglio 2007
Il Rapporto dell’Istat sulla violenza e i maltrattamenti contro la donna
Commissionato dal ministero delle Pari opportunità, è il primo di questo genere
Tre donne su 10 hanno subito violenza
Il 33 per cento sceglie di non denunciare
La ricerca è stata fatta nel 2006 su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni
Dallo stupro ai capelli tirati, dallo stalking alle intimidazioni. Il più violento è sempre il partner
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - In Italia il 31, 9 per cento delle donne tra i sedici e i settanta anni hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Per la precisione, cinque milioni di donne hanno subìto violenza sessuale, che s’intende stupro, tentato stupro ma anche rapporti sessuali "non desiderati e subìti per paura delle conseguenze" e "attività sessuali degradanti e umilianti". Il 18, 8 per cento è stato più "fortunato" e ha sopportato "solo" violenze fisiche, dalla minaccia più lieve a quella con le armi, dagli schiaffi al tentativo di strangolamento.
I numeri possono essere mostruosi perché riescono a semplificare e a ridurre in segni le situazioni più drammatiche. Riescono a far diventare statistica il dolore, l’umiliazione, la disperazione. Se si riescono ad attraversare le 43 pagine del rapporto su "La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia" andando dietro i numeri e cercando di immaginare i volti e le storie delle migliaia di donne intervistate, avremo uno spaccato dell’Italia che nessuno conosce perché è difficile immaginarlo, perché è più comodo non vederlo.
La ricerca presentata ieri a San Rossore, la ex tenuta presidenziale sul litorale pisano, dall’istituto spagnolo Santa Sofia racconta che nel mondo muore una donna ogni otto minuti e che l’Italia è al 34esimo posto (su 40) di questa speciale classifica. C’è in Europa, chi sta molto peggio di noi, il Belgio, ad esempio. La ricerca realizzata dall’Istat su input del ministero delle Pari Opportunità, la prima di questo genere, specifica sui maltrattamenti - senza spingersi all’omicidio - ci mette sotto gli occhi una situazione drammatica anche perché silenziosa e taciuta. Qualcosa contro cui, ad esempio, non risultano iniziative di tipo legislativo o altro. E’ una fotografia circoscritta da numeri. Su ogni cifra, per trovare le parole necessarie, occorre fermarsi e riflettere.
Tre tipi di violenza. L’indagine (il campione comprende 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni intervistate su tutto il territorio nazionale dal gennaio all’ottobre 2006) misura tre diversi tipi di violenza: quella fisica, quella sessuale e quella psicologica che comprende le denigrazioni, il controllo dei comportamenti, le strategie di isolamento, le intimidazioni e tutto ciò che può "armare" l’ossessione di un partner, di un ex amante o anche solo di una persona conosciuta e creduta amica.
La violenza del partner. Il 21 per cento delle vittime ha subìto violenza sia in famiglia che fuori, il 22,6% solo dal partner, il 54,6% da altri uomini non partner. I mariti, o conviventi, o fidanzati sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica (67,1%) e di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro o i rapporti sessuali non desiderati ma subìti per paura di conseguenze. Il 69, 7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 17,4% di un conoscente. Solo il 6,2% è opera di estranei. Violenza genera violenza e in genere è violento chi ha visto o subìto violenza. Tra i partner violenti, il 30 per cento ha vissuto e visto la violenza nella propria famiglia di origine; il 34,8% ha avuto un padre violento e il 42,4% la mamma.
Il silenzio. Quelle delle donne che subiscono violenza sono grida silenziose, mute, spaventate. La parte sommersa del fenomeno è elevatissima: restano non denunciate il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle dal partner. La ricerca dell’Istat dice che il 91,6% degli stupri non viene denunciato. E che il 33% delle donne non parla con nessuno, nasconde per sempre quello di cui è stata vittima.
Più forme di violenza. Un terzo delle vittime subisce violenza sia fisica che sessuale. Tra le violenze fisiche le più frequenti (56, 7%) sono "spinte, strattonamenti, un braccio storto o i capelli tirati". Il 52% dei casi riguarda "la minaccia di essere colpita" e il 36,1% "schiaffi, calci, pugni o morsi". Se c’è di mezzo una pistola o un coltello la percentuale, per fortuna, crolla all’8,1%; il tentativo di strangolamento o soffocamento e ustione arriva al 5,3% dei casi. Tra tutte le forme di violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche come "l’essere toccata sessualmente contro la propria volontà" (79,5%), rapporti sessuali non voluti (19%), il tentato stupro (14%), lo stupro (9,6%) e i rapporti sessuali degradanti e umilianti (6%).
La violenza in casa? Non è un reato. C’è un dato nella ricerca - che geograficamente coinvolge in minima parte il sud del paese dove tutte le percentuali rilevate sono minime - che lascia perplessi e la dice lunga sulla scarsa educazione femminile al rispetto di sé. Solo il 18,2% delle donne considera reato la violenza subìta in casa e in famiglia. Per il 44% quello che è successo è stato "qualcosa di sbagliato", per il 36% "solo qualcosa che è accaduto". Anche lo stupro e il tentato stupro è diventato reato solo nel 26,5% dei casi.
La persecuzione dello stalking. Due milioni e 77 mila donne (18 %), hanno subìto comportamenti persecutori (stalking) da parte del partner al momento della separazione o dopo che si erano lasciati. La persecuzione più diffusa (68, 5%)è quando lui vuole a tutti i costi parlare con lei che invece non ne vuole sapere. Il 61, 6% ha chiesto ripetutamente appuntamenti per incontrarla; il 57% l’ha aspettata fuori casa, davanti a scuola o fuori dal lavoro; il 55,4% le ha inviato messaggi, telefonate, e mail, lettere o regali indesiderati; il 40,8% l’ha seguita o spiata. Un inferno, non c’è che dire.
Quando la violenza è psicologica. Le vittime, in questo caso, si contano in 7 milioni e 134 mila donne. A casa e al lavoro. Il 46,7% vengono isolate, su altre scatta il controllo (40%), la violenza economica (30,7%) e la svalorizzazione (23,8%) da cui derivano la perdita di autostima e gli esaurimenti nervosi. Metodi subdoli, con confini effimeri, facili da smentire e da non rilevare. Solo il 7,8% è vittima di vere e proprie intimidazioni.
Prima dei 16 anni. In Italia un milione e 400 mila donne hanno subìto violenza sessuale prima dei 16 anni e da parte di persone per lo più conosciute. Si tratta per lo più di conoscenti e parenti (25%), un amico di famiglia (9,7%) o un amico della ragazza (5,3%). La violenza avviene in casa e il 53% delle vittime decide di vivere col proprio segreto.
* la Repubblica, 21 luglio 2007
I risultati di una ricerca sulla violenza sulle donne diffusi al Meeting di San Rossore
In Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 vittima una donna
"Nel mondo viene uccisa
una donna ogni 8 minuti" *
SAN ROSSORE (PISA) - Nel mondo, ogni 8 minuti, viene uccisa una donna. Il dato è emerso da un’indagine relativa all’anno al 2003 presentata da Josè Sanmartin, direttore del centro spagnolo per lo studio della violenza Santa Sofia, oggi a San Rossore il cui tradizionale meeting quest’anno è dedicato a "I bambini, le donne".
"Nel 2000 - ha dichiarato Sanmartin - gli omicidi di donne erano uno ogni dieci minuti". dallo studio è nata una vera e propria classifica. Su 40 paesi esaminati quello che vanta il poco invidiabile primato è il Guatemala, con un’incidenza di 122,80 donne assassinate per ogni milione di donne abitanti. Al secondo posto della classifica la Colombia, con 70,20 omicidi per ogni milione. Al terzo El Salvador con 66,38.
Il primato in Europa tocca al Belgio all’ottavo posto nella graduatoria mondiale con un’incidenza di 29,30 donne uccise ogni milione. L’Italia è al 34esimo posto su 40, con 6,57 assassini per milione. I paesi dove più si contano assassini di donne sono latino americani (i primi dieci posti), con una media di 41,02 vittime ogni milione, contro 12,29 dell’Europa.
In Europa i delitti nei confronti delle donne all’interno della famiglia riguardano 5,84 donne su un milione; in Italia - riferisce la ricerca spagnola - si scende a 4,24. Il numero più alto si registra in Ungheria (16,15), seguita da Lussemburgo (13,16). Le donne uccise dal partner sono in Europa 5,78 per milione; il numero più elevato si riscontra nei paesi del Nord, soprattutto a causa dell’abuso di alcol durante i fine settimana.
La Regione Toscana, a sua volta, ha diffuso alcuni dati che si basano su parametri diversi ma che raccontano comunque di un fenomeno, quella della violenza in famiglia e nello specifico sulle donne, "drammaticamente in crescita". Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna.
A livello mondiale, la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Uccide più il marito o il fidanzato o l’amante, a volte anche i figli, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
* la Repubblica, 20 luglio 2007
LA LETTERA
Una lettrice risponde all’articolo del Financial Times che critica il trionfo di veline e donne nude in Italia
"Se il mio fondoschiena
vale più di due lauree"
di MILA SPICOLA *
CARO DIRETTORE, ad Adrian Michaels che sul Financial Times critica il trionfo di veline e donne nude in Italia vorrei dire che il problema non è femminile. Non è tanto il femminismo ad aver fatto passi da gigante però all’indietro, semmai è il maschilismo italo-pakistano (per parafrasare una recente affermazione di Giuliano Amato) che ormai troneggia da tutte le parti.
Per come la vedo io, la signorina Canalis ha raggiunto benissimo il suo obiettivo e cioè successo e soldi e alzi la mano chi tra le donne non rinuncerebbe al proprio stipendiuccio e ad un po’ di amor proprio femminile se gli mettessero sul piatto un milione di euro per mostrarsi sorridente... ma anche un uomo direi, no? Della serie: chi è più scemo signor Michaels, la Canalis o chi gli va dietro?
Per quel che mi riguarda sono problemi che vivo ogni giorno, ma davvero ogni giorno. Ho 39 anni, sono single, due lauree, (una in architettura e una in conservazione dei beni architettonici), due master, uno in economia e uno in studi storici, una specializzazione in consolidamento, un dottorato di ricerca e ... un gran bel fondoschiena.
Ebbene sì, signori miei, il mio primo impatto con la classe "maschio italico" è sempre il suo sguardo insistente su quella "qualità" (a meno che non mi metto un bel burka) della quale io non ho nessun merito; nonostante il mio quoziente intellettivo, la mia cultura, la mia ironia, eccetera... ho un bel affannarmi a parlar di politica, a ricostruire le tappe del disfacimento etico della nostra attuale società, a discutere dei massimi sistemi, di pensioni, di Mozart, di cuneo fiscale, di travi in precompresso... La replica , nel migliore dei casi, è sempre "pure intelligente..." e sorrisino, nel peggiore uno sbadiglio.
E io penso: ma davvero sono così poveri di spirito? Poveri di argomenti con l’altro sesso? Assolutamente incapaci di confrontarsi su altri terreni che non siano quelli delle schermaglie sessuali? o anche amorose? In ogni caso la mia idea è, tranne qualche valida eccezione, "penso di te che sei solo uno scemo" e dio solo sa quanto vorrei essere smentita, visti i problemi che vivo. So anche che chi legge questa mail, se è un uomo, ha già alzato il ciglio. Potrei metterci la mano sul fuoco, così come lui poserebbe felice la mano su un mio gluteo. Scusatemi se sono sfrontata.
Allora io mi chiedo, cosa dovremmo fare noi mamme italiane con questi ragazzini maschi? perché il problema sono fondamentalmente loro; annegarli da piccoli? buttarli giù dalla rupe tarpea della selezione intellettuale? fargli sistemare la cameretta già a 8 anni così da capire che la parola "maschio" andrebbe sostituita con quella di "persona"?
Delle donne italiane caro signore, mi preoccuperei di meno. Le statistiche le danno sempre più brave nei risultati a scuola, sempre più agguerrite, più flessibili, più forti, forse sempre meno fornite di scrupoli... ma lei mi insegna: in una giungla di uomini davvero poco evoluti almeno tentano di ottenere qualcosa sfruttando le armi che rimangono loro. Quasi tutte le signorine svestite sono ben più consapevoli di quello che fanno , sicuramente il doppio anche del preparato professore che fa zapping in tv e si sofferma ad ammirarle. "Che male c’è?", direbbe la ragazza, ma anche il professore.
Ovviamente ho esagerato, ovviamente sono d’accordo con lei nel giudicare davvero orrendo, mortificante dell’intelligenza umana, un tale costume, un tale andazzo... ma toglierei da parte sua l’accento solo sulle donne e lo sposterei su ragioni e cause ben più complesse e variegate.
Lo sposterei sulla totale deriva di tutti i media italiani. Lasciamo perdere la tv, sulla quale si aprirebbe il baratro da lei già prospettato, ma, se lei si connette con la home page di un qualunque quotidiano sul web, a partire anche da Repubblica, troverà sempre una bella ragazza, possibilmente svestita, ben in vista. Immagino anche chi le sceglie tali foto: si tratterà di un solerte giornalista... di sesso maschile, al quale la redazione avrà detto "una bella fighetta ci sta benissimo, attira l’attenzione"; ancora troppo sfrontata? Del resto in Italia i giornali non fanno giornalismo, fanno mercato, e la domanda di tette e fondoschiena in vista è altissima.
Qua, caro signor Michaels, si tratta di vendere. Mica roba da poco. E gli uomini sono davvero come i bimbi mi sa, sembra un luogo comune e mi vergogno quasi a scriverlo. Del resto in Francia ha destato scalpore il servizio realizzato su una rivista di moda su una brava donna politica. Siamo alle solite: è più facile il compartimento stagno della bella/elegante/scema e brutta/malvestita/autorevole ergo intelligente. Bambini, indubbiamente. La complessità, signori miei è sempre più bandita, è sempre più difficile da accettare, da comunicare, da vendere.
Se io vado in cantiere con i tacchi a spillo attiro l’attenzione... non perché vado contro il decreto sulla 494, ma perché ho pur sempre una bella caviglia... e mi sogno di poter essere presa sul serio nel dare indicazioni sull’impianto elettrico. Se dico queste cose ad un uomo, o affronto un discorso del genere il meno che mi replica, è già successo del resto, è "cavolo quanto sei acida". Ma io non sono acida, sono peggio: furiosa. E a quel punto sapete come diventerei? petulante e nevrotica.. o meglio... magari oggi ho il ciclo. E festa finita.
* la Repubblica, 17 luglio 2007
Sul doppio cognome Pera sbaglia
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 4/6/2007)
Non basta evidentemente essere stati la seconda carica dello Stato per non confondere i propri desideri di uomo impaurito dalla pur parziale emancipazione femminile con le norme che regolano i rapporti tra i coniugi e la famiglia. Qualcuno dovrebbe informare Marcello Pera che, contrariamente a quanto da lui sostenuto su questo giornale, in Italia le donne sposandosi non perdono il proprio cognome, ma aggiungono al proprio quello del marito. E sia professionalmente che da un punto di vista amministrativo è il loro cognome da nubili quello che conta. Perciò in famiglia ci sono già due cognomi, anche se «il cognome di famiglia» è solo quello del marito. Pera dovrebbe anche venire informato che in Italia, come in tutti i Paesi occidentali, dal punto di vista legale non esiste un privilegio della linea maschile su quella femminile. E a livello sociale e culturale si trovano sia situazioni in cui prevalgono i rapporti con «quelli di lei» sia altre in cui invece prevalgono i rapporti con «quelli di lui», a prescindere dal cognome.
Lo stesso uso del cognome e la sua trasmissione da una generazione all’altra si è stabilizzato in età moderna per motivi prevalentemente amministrativi e ha conosciuto vicende diverse nei vari Paesi. In alcuni, ad esempio in Spagna, la trasmissione del doppio cognome - materno e paterno - è antichissima e rimane tuttora. Nel passato era un uso rinvenibile anche in alcune zone della Sardegna. In entrambi i casi, certamente non per qualche intervento diabolico dei laicisti, che ormai sembrano aver sostituito i comunisti nel ruolo di mangiabambini nell’immaginario teodem e teocon. E senza che ciò provocasse particolari indebolimenti all’istituto familiare e alle singole famiglie. Gli unici che sperimentano dei problemi, là dove è in uso il doppio cognome, sono gli studiosi, in particolare gli storici, perché è più difficile rintracciare le persone appartenenti a una stessa discendenza da una generazione all’altra. Ma è un problema che si pone sempre anche nel caso del cognome unico, nella misura in cui si perde il filo della continuità con la discendenza per via materna.
La cosa buffa è che Pera, per sostenere l’impossibilità etica (addirittura!) di attribuzione di un doppio cognome, abusa di riferimenti alla natura e di metafore naturalistiche. Ma se dovessimo tenerci alla natura, allora non ci sarebbe partita: solo la continuità con la madre è autoevidente («mater semper certa est, pater incertus») e il ruolo della madre nella riproduzione è di gran lunga maggiore di quello del padre. È così vero che gli storici hanno osservato che il matrimonio è stata l’istituzione per eccellenza della paternità, nel senso che tramite esso l’uomo si appropria (si appropriava) dei figli che la donna mette al mondo, dato che non ha (non aveva) altro modo per avere accesso alla generazione, in senso sociale e non solo biologico. Ma anche questo è cambiato, anche nel nostro Paese, prima che per lo sviluppo tecnologico (esame del Dna) per le modifiche di legge, che hanno consentito anche a chi è sposato di riconoscere un figlio avuto con un’altra persona. Inoltre, il fenomeno del divorzio e dei nuovi matrimoni cui apre ha dato luogo già ora a famiglie in cui i diversi componenti hanno cognomi diversi. Anzi, se i figli avessero anche il cognome della madre avrebbero qualche problema di identificazione di sé e di collocazione nello spazio sociale in meno, perché avrebbero sempre anche il cognome del genitore con cui vivono, padre o madre che sia.
La trasmissione del solo cognome paterno è un residuo simbolico di quell’atto di appropriazione unilaterale che cancella la dualità - non solo biologica, ma sociale - della generazione e delle lunghe catene generazionali. Trasmettere anche il cognome materno è anch’esso un atto simbolico, di segno opposto: mantiene aperta e rende esplicita la dualità come garanzia della continuità nel tempo e come radice che si rinnova ogni generazione. Si può non essere d’accordo, o non ritenerla una priorità; ma, per favore, evitiamo di evocare i soliti foschi scenari di attacco alla famiglia.
OGGI A ROMA *
L’Udi - Unione Donne in Italia, storica associazione di donne deposita venerdi 18 maggio alle ore 10 presso la Corte di Cassazione il titolo di una una legge di iniziativa popolare contenente norme per la democrazia paritaria per le assemblee elettive, e per raccogliere le 50.000 firme necessarie lancia una campagna dal titolo "50 e 50 ovunque si decide".
Secondo il documento che accompagna il testo di legge l’iniziativa, che sta raccogliendo adesioni dal mondo politico, sindacale e associativo e soprattutto tra le donne, intende dare applicazione all’articolo 51 della Costituzione superando la diatriba sulle cosiddette "quote rosa" e sulle misure antidiscriminatorie per "consentire a donne e uomini, alla pari, di rinnovare la politica e la democrazia".
Per l’occasione, davanti al palazzo di piazza Cavour si terra’ un sit-in alle ore 10.
Per informazioni e contatti: tel. 066865884, sito: www.50e50.it
Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 93 del 18 maggio 2007
CINQUANTA E CINQUANTA. UNA FILASTROCCA
di MARIA G. DI RIENZO *
Cinquanta e cinquanta lo dico perche’ Su questa bilancia sto meglio con te
Non sto troppo in alto, non sto troppo giu’ Ti guardo negli occhi e mi piaci di piu’
Non devi aiutarmi, ho quello che hai Cinquanta e cinquanta e’ giusto, lo sai
Non sono "risorsa" inutilizzata, Non sono prescelta, non sono cooptata
Proprio come tu sei, io sono preziosa Cinquanta e cinquanta non son "quote rosa"
Laddove si decide c’e’ spazio vedrai Io ti ascoltero’, tu mi ascolterai
Entrambi soggetti legittimi e valenti: Cinquanta e cinquanta in tutti i Parlamenti.
* NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE. Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino" Numero 99 del 26 aprile 2007
"USCIAMO DAL SILENZIO": DEMOCRAZIA PARITARIA. L’ASSEMBLEA DEI PERCHE’ *
Un’assemblea a Milano
Il 4 aprile in Camera del Lavoro [a Milano], con una nuova assemblea di "Usciamo dal silenzio" su democrazia paritaria, 50 e 50, equa rappresentanza la’ dove si decide e dunque in Parlamento e non solo, ci siamo confrontate sulle ragioni, sui "perche’" della nostra adesione a questa campagna lanciata dall’Udi con una proposta di legge di iniziativa popolare.
Cosa significa per ciascuna di noi e per un movimento come "Usciamo dal silenzio" impegnarsi su questo tema, perche’ riteniamo che questa idea abbia un nesso forte con i temi che hanno motivato finora il nostro agire politico, il corpo, la violenza sulle donne, la nostra liberta’?
L’assemblea ha discusso di uguaglianza e rappresentanza dopo alcuni incontri in sede di laboratorio che hanno espresso un livello alto di dibattito e di confronto, mentre altre organizzazioni di donne stanno frequentando lo stesso sentiero e mentre la politica va pensando ad una nuova legge elettorale che non "vede" letteralmente il tema, o lo sposa, ancora una volta, in una logica residuale: e poi ci sono anche le donne.
*
Continuare a confrontarci
Come speravamo, l’assemblea di mercoledi’ e’ stata il luogo di un dibattito ancora piu’ aperto e piu’ condiviso, e contiamo di continuare a confrontarci anche attraverso questo blog sulla rappresentanza [www.usciamodalsilenzio.org], attraverso il quale chiediamo a tutte di contribuire a quello che abbiamo chiamato il "manifesto dei perche’".
Come sempre sul sito troverete i prossimi appuntamenti. Per il momento abbiamo discusso in assemblea e ci stiamo preparando alla campagna di raccolta di firme sulla legge "50e50" e a momenti di confronto tra le realta’ che fanno riferimento alla rete di "Usciamo dal silenzio". Ma non mancheranno altri momenti di dibattito sui temi che sono stati finora centrali nella nostra iniziativa.
* Riportiamo di seguito l’intervento di Anna Maria Spina che ha aperto l’assemblea e un riassunto dell’insieme degli interventi.
* Anna Maria Spina, intervento di apertura dell’assemblea Siamo arrivate a questa assemblea nella quale proponiamo il tema emergente e forte della democrazia paritaria 50 e 50, la meta’ esatta del tutto, dopo una serie nutrita di serrati incontri in sede di laboratorio sulla rappresentanza, nei quali ognuna ha indicato liberamente motivi di consenso e dubbio. 50 e 50, pari rappresentanza la’ dove si decide e dunque in Parlamento e non solo: cariche elettive, nomine fatte dalla politica, pubbliche funzioni, mondo del lavoro. Si e’ cercato di definire i nessi fra questa idea e i temi che hanno finora motivato il nostro agire politico: il corpo, la violenza sulle donne, l’attacco tremendo del funerale dei feti in regione, la questione dei Dico, la nostra liberta’ di decidere per esistere.
Cosa significa per ciascuna di noi e per un movimento come "Usciamo dal silenzio" impegnarsi sulla democrazia paritaria, sull’uguaglianza di rappresentanza, adesso che altre organizzazioni di donne si mettono in gioco?
L’Udi [Unione donne in Italia] presenta una proposta di legge popolare sul 50e50 dovunque si decida.
Adesso che la politica sta pensando a una nuova legge elettorale e vede solo le pagliuzze negli occhi altrui ma non la trave nei propri, tutte noi vediamo una trave gigantesca: la clamorosa assenza delle donne, ben oltre la sproporzione!
Semplicemente non solo non ci siamo ma non possiamo neanche sperare che potremo esserci’ la’ fisicamente, paritarie e democraticamente visibili, presenti.
L’"assemblea dei perche’" di "Usciamo dal silenzio", questo titolo, nasce dall’esigenza condivisa di esprimere e confrontare il pensiero e le motivazioni di ognuna e tutte insieme.
E’ la ratificazione del desiderio-bisogno di affrontare come persone, il piu’ possibile fuori da condizionamenti di ogni tipo piu’ o meno interiorizzati, la questione della politica delle donne e donne e politica, con determinazione e chiarezza.
Siamo tutte coinvolte qui adesso in questa assemblea. Ho provato a scrivere delle cose, dei perche’, in vari modi diciamo cosi’ tradizionali o tecnici e mi sono percepita a giustificarmi proprio io che sono la responsabile di questa cosa dei perche’.
Questo non va bene e mi fa pensare che se un’idea come quella del "50e50 ovunque si decida" abbisogna di giustificazioni, c’e’ qualcosa che non va.
Forse e’ solo che un diritto sancito, scritto e descritto nella nostra Costituzione, mai applicato nella sua interezza, mai neanche preso in seria considerazione dalla "politica", un principio di ovvia democratica uguaglianza merita dichiarazioni e impegno perche’ venga realizzato.
O forse invece perche’ percepisco l’urgente necessita’ di un linguaggio non omologato a modelli che avverto costrittivi, quindi ci provo, a togliermi le briglie di dosso.
I miei perche’ o meglio per chi:
per me stessa, e’ mio dovere e diritto, e’ il mio senso di me, uguaglianza, giustizia, onore, corpo riconosciuto, vera cittadinanza delle donne;
per mia nonna, che m’ha voluta libera lei che libera non e’ stata mai;
per mia madre, che mi ha insegnato il diritto al pensare, al parlare, a sapere, a lavorare, a decidere, a esistere, e anche per mio padre a dire il vero;
perche’ considero schiavistici i doveri di donna, i ruoli, il sacrificio ideologico o metafisico, i destini di accudimento perenne e generalizzato, la colpa, l’espiazione, il dolore connesso, facente parte dell’essere donna, come dire di default. Non ci credo non ci ho mai creduto e’ una menzogna storica, nel senso letterale del termine;
per mia figlia, che ogni giorno stupisce e indaga e cerca varchi di liberta’ e ogni giorno, non trovandoli, decide di riprovarci perche’ deve valere la pena, gliel’ha detto la mamma!
per le mie care amiche, pezzi di vita, intelligenze scatenate e potenti, donne con senso e anche per quelle che non mi vogliono poi molto bene;
per noi. Per poter finalmente discutere anche con le donne che ci sembrano diverse, ma diverse siamo tutte le une dalle altre, e confrontarci e dissentire se occorre, e per riconoscere a quegli uomini che hanno deciso di non unirsi al coro dei despoti un qualche merito;
per rimescolare le carte, per cambiare le regole di un gioco giunto al limite da troppo tempo, noioso, frusto e pateticamente monosessuale;
perche’ segreti, meraviglie e sapere sono delle donne. Perche’ le donne "sanno", bisogna solo che decidano di esistere e regalare a se stesse e al mondo un po’ del proprio sapere e un po’ del proprio tenace volere. Non per accudire, non per sostenere, non per rimediare agli errori dei governi o delle opposizioni, ma solo e semplicemente per gustare il piacere di esistere appieno, perche’ siamo l’altra meta’ di questo mondo, e perche’
questa meta’ non deve piu’ chiamarsi l’altra;
perche’ Il corpo delle donne non deve essere pensato violabile ne’ essere violato, bisogna arrivare a poterlo sancire nei seggi, dalle televisioni, nelle scuole, il rispetto va insegnato visto che non viene spontaneo;
perche’ il pudore del dolore di un aborto non venga svillaneggiato e oltraggiato da pratiche e procedure talmente orribili che il cuore s’allontana dall’evidenza insostenibile, ma i fatti procedono e chiudere gli occhi puo’ essere peggio. Tutto si fa per farci smettere di pretendere di essere persone donne libere di decidere di se’;
perche’ se occorre prendere voce e volto, e lavorare nei luoghi delle decisioni, e porre condizioni, bisogna continuare indefessamente a ragionare insieme.
Vanno bene tutti i distinguo e tutte le differenze e perfino le titubanze, e figurarsi!
Vanno bene i seminari e i contesti di approfondimento, ma vanno bene anche i parlamenti e ovunque si decide. A decidere sono sempre i soliti, con la i finale, e fra tutti, in ordine sparsissimo, uno sparuto drappello di liberte, nel senso latino del termine, ne’ libere ne’ schiave.
Va bene tutto purche’ impariamo a ragionare insieme, a rimanere insieme e insieme con forza ci muoviamo. Tempi lunghi, procedere faticoso, nessuna garanzia, ma proprio per questo occorre forza ancor di piu’.
Risolvere un punto di domanda in un punto esclamativo e’ segno di forza e da’ forza. Guardiamoli con gli occhi della mente, occupano tutti i posti, e noi dove siamo? A casa a guardarli alla tv o per strada o sul tram andando a lavorare se abbiamo un lavoro se riusciamo a mantenerlo se ce lo pagano, o in macchina a prendere e portare bambini o disperatamente sole da qualche parte, ma sicuramente non la’ insieme dove si decide dei nostri destini.
Adesso.
Auguriamo a tutte noi il piu’ ampio e caldo dibattito, in questa assemblea del 4 aprile.
* Dopo l’intervento di Anna Maria Spina, la discussione si e’ sviluppata in assemblea. Molte voci si sono espresse. Proviamo a riportare degli appunti che provano a dar conto di affermazioni, dubbi, anche contraddizioni, ripercorrendo la sequenza. * Appunti dagli interventi
Stasera il senso dell’assemblea e’ dire quello che ci convince, ma anche i dubbi.
La proposta 50e50 ha un valore di continuita’ in una campagna che sembra una svolta (rispetto alla mia storia personale di femminismo); la presenza delle donne non e’ mai stata riconosciuta nella polis, ne’ la presenza politica, ne’ l’umanita’. Viene vista solo la procreazione e il corpo biologico.
Nel femminismo si e’ inteso dare politicita’ ad una pratica politica, ed anche la sinistra non ha raccolto quel patrimonio di cultura politica.
La proposta 50e50 non ha, non puo’ avere il senso del soccorso delle donne a sostegno di istituzioni decrepite. Perche’ questo ragionamento va collocato nel contesto di crisi della politica dei partiti e delle istituzioni.
Le donne hanno agito nel privato, a volte anche a loro danno.
Che le donne siano viste nella vita pubblica come insignificanti e’ dimostrato anche dalla "violabilita’" dei loro corpi.
Lavorato molto sull’autonomia del pensiero, le donne pensano che devono prepararsi molto prima di poter incrinare la sfera pubblica, ma oggi siamo invase dalla sfera pubblica. C’e’ un rischio, da correre, quello dell’omologazione.
Tra le presenti nelle assemblee c’e’ un vuoto di generazione, quello delle quarantenni, e’ giusto notarlo.
La prima cosa da pensare e’ se siamo preparate alla democrazia paritaria. Tra le colleghe sul lavoro si registra una reazione del tipo: "come ci chiedete anche questo?". L’impatto non e’ semplice, ci vuole coraggio di assumere responsabilita’ ed anche di sbagliare. Che immaginario ha lasciato la Prestigiacomo in lacrime?
La tendenza a delegare e’ forte e presente (compreso non abbiamo tempo), bisogna dare un messaggio forte anche perche’ sara’ una battaglia cruenta.
Il primo perche’: devo avere coraggio di esserci!
Si e’ cercato di evitare la politica, ma difficile perche’ sceglie per te.
Il tema e’ il futuro.
Il paese e’ vecchio, siamo anestetizzate da questa condizione, dai partiti che ci considerano categoria.
Il perche’ e’ il cambiamento, il coraggio di farlo la costanza di esserci.
Colpisce la forma dell’iniziativa di legge popolare, l’altra volta ci sono voluti 17 anni.
Positivo che Udi si consideri paritaria alla "politica".
Dare valore a chi c’e’.
Quale e’ il desiderio delle donne sul cimentarsi?, l’esperienza e’ dal fuori al dentro (interloquire con la politica istituzionale) che e’ molto chiamata ad interloquire.
Forte rispetto alle istituzioni, interloquire anche per poter confliggere.
50 e 50 sembra poco, perche’ darsi un limite?
La forza e’ essere sempre un pochino fuori dalle regole, questo il simbolico.
Il tema e’ come si candidano le donne se le donne non ci sono?
Invitare ad iscriversi ai partiti, e’ finita l’epoca delle donne fuori dai partiti.
Avere una regola formale per eliminare una discriminazione sui base sessuale.
Sappiamo che le donne stanno in relazione di potere esattamente come ci stanno gli uomini.
La politica e’ una scelta di vita, le donne fanno altre scelte di vita.
Tutto l’indicibile della maternita’, va messo a tema questo non detto, anche la parte in ombra.
Non c’e’ mai stato un momento senza la politica? La politica c’e’ anche quando non si pratica, c’e’ anche fuori dai partiti.
Se c’e’ una spinta non ci sono limiti invalicabili, e la spinta c’e’ perche’
ora la politica e’ indecorosa.
50e50 e’ una questione di giustizia e non di quote, giustizia che parla anche di qualita’ della politica.
C’e’ modo e modo di stare sul lavoro, per questo si puo’ essere nella politica, arrivarci con i nostri valori e i nostri modi di essere.
Donne non rappresentano necessariamente altre donne, ma il perche’ e’ che comunque facciamo una politica diversa.
La nostra e’ una politica di ascolto e non di imposizione.
Discutiamo del fatto che le donne non ci sono, ma ci devono essere.
50 e50 ha un limite: e’ una dichiarazione di principio, dettata dalla democrazia e dalla Costituzione.
E’ necessario riflettere, la proposta non puo’ andare oltre la candidatura nelle liste, il 50 e 50 come base per garantire funzionamento di tutto.
Il merito per emergere, e’ una regola maschile.
Emergere e’ riduzione della propria storia privata.
50 e 50 e’ una regola e nelle regole credo, regola che deve dilagare in tutti i posti istituzionali e pubblici.
Si dice le donne non si mischiano, dove, a che cosa? Sono sempre ricacciate in ambiti e scelte piu’ simili alla vita privata. A furia di dire che le donne non si mischiano ci riportano indietro di un secolo, il Family day sara’ pieno di chi ha devastato la politica.
Si possono avere bisogni fuori dalle regole anche dentro la politica, non e’
necessario essere fuori.
Le donne vengono se c’e’ la scelta, la volonta’, se ci si e’, se c’e’ la regola.
Se non ci siamo... continua il pietismo orrendo.
Fare un’analisi di quello che sta succedendo, il fallimento della legge sui congedi parentali.
Il minimo comun denominatore pensare a come vedono le nostre figlie, i nostri figli.
Il tema e’ la passione per la politica.
"Usciamo dal silenzio" ha costruito uno spazio pubblico, non c’era, lo abbiamo costruito.
Ci vuole trasparenza e risposta ai messaggi, la nostra richiesta e la risposta l’abbiamo vista nell’assemblea sui "funerali dei feti" coi consiglieri regionali.
L’aria della polis rende liberi, in casa vivono segreti e bugie, le regole segrete, non visibili, non contrattabili.
Il luogo di "Usciamo dal silenzio" che non ha un’ortodossia di pensiero.
Determina l’esigenza di interrogarsi sempre un po’ di piu’.
Riconoscere all’Udi, non limitarsi alle liste, un’ovunque che deve essere declinato, c’e’ il tema delle decisioni.
Se il gioco non funziona piu’, si devono cambiare le regole del gioco.
Proposta utile alla politica, ci sono in provincia 5.690 donne che fanno politica, molte le donne che hanno iniziato e poi escono.
Disaffezione per un modello che non risponde alle esigenze.
Servono norme antidiscriminatorie, paritarie per cambiare la politica, serve anche a chi sta nelle istituzioni.
I meccanismi della politica sono quelli che penalizzano le donne e gli uomini di qualita’, servono norme antidiscriminatorie, paritarie.
Non so se le donne fanno politica meglio, ma so che lo fanno in modo diverso, anche chi decide di abitare la politica, come i movimenti condizionano la politica.
La politica trova sempre piu’ i momenti di negoziazione fuori dallo spazio pubblico, mentre la politica puo’ cambiare le priorita’, condividere e conciliare.
Valorizzare le donne che nella politica ci stanno, i partiti hanno la responsabilita’ di valorizzare e quindi la colpa.
Proposta importante, proposta Udi fatta bene.
Non e’ panacea per la politica, ma in fase di discussione della legge elettorale che non si parli di questo e’ segno della politica del nostro paese.
Servono norme cogenti che possano aiutare.
Scarsa rappresentanza incide, crea ingiustizia in un sistema democratico e parla della qualita’ della politica.
L’esperienza del consiglio di zona dice che tutte le richieste vengono dalle donne.
Le donne non sono chiuse in casa, hanno responsabilita’, siamo noi che non accettiamo dimensione della politica ufficiale. 50e50 puo’ essere uno strumento.
I perche’. La passione delle donne per la politica, perche’ e’ la nostra storia dal 14 gennaio la liberta’ delle donne misura della democrazia, volevamo rompere la cappa che ci opprimeva, quella cappa ha cambiato modi, ma c’e’ e non vogliamo arretrare, allora rompere il monopolio della rappresentanza maschile questo il tema.
La nostra storia di "Usciamo dal silenzio" e’ fatta di richiesta di parola pubblica anche alla politica ufficiale, abbiamo chiesto alle eleggibili di sfidare regole e modalita’, non e’ successo, non c’e’ rete, non c’e’ risposta, si veda l’esperienza sulla violenza contro le donne.
Allora che fare la scelta e’ esserci, importante e’ ovunque si decida, non solo le liste, le elezioni, ma le nomine istituzionali, il pubblico, ovunque.
*
Il percorso del prossimo periodo
Laboratorio per programmare la campagna:
esserci e prendere parola ovunque si discute;
ricollegarci a tutte le assemblee di "Usciamo dal silenzio" in tutta Italia, proporre un’assemblea nazionale delle assemblee;
formare una rete con altre associazioni, organizzazioni, ecc. che vogliano partecipare e condividere, costruire un luogo pubblico di incontro;
riconoscere la proposta dell’Udi, partecipare del consiglio nazionale che propongono;
utilizzare la proposta di legge, non solo per le firme, ma come strumento perche’ cresca e ci sia la campagna politica, che parli adesso a chi discute della legge elettorale;
un "Manifesto dei perche’", come testo e strumento da rendere disponibile e partecipato;
continuare la nostra elaborazione sui temi, Laboratorio su famiglia e unioni civili.
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Prossimi incontri
Laboratorio famiglia Dico, 18 aprile, ore 20,30 alla Camera del lavoro di Milano.
Laboratorio per la campagna, 23 aprile, ore 20,30 alla Camera del lavoro di Milano.
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[Dal sito www.usciamodalsilenzio.org riprendiamo il seguente resoconto dell’"assemblea dei perche’" promossa da "Usciamo dal silenzio" e svoltasi il 4 aprile 2007 a Milano. Per altre informazioni sulla campagna e sulla proposta di legge "50 e 50 ovunque si decide" cfr. anche il sito www.50e50.it]
Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 57 del 12 aprile 2007
MADDALENA GASPARINI: TRE PERCHE’*
"Usciamo dal silenzio" mi ha permesso di guardare con occhi diversi alla politica istituzionale, che ho sempre considerato estranea, quando non apertamente ostile. Ai miei occhi e’ stato per caso; dopo il 14 gennaio c’erano due turni elettorali: quale migliore occasione per dare pubblica evidenza al nostro fare e pensare?
In questo tempo ci siamo impegnate perche’ fosse riconosciuta la responsabilita’ collettiva di fatti che hanno una dimensione personale, intima, come la violenza, e perche’ fosse garantita concretamente la liberta’ di disporre della propria vita, e non solo riproduttiva. E abbiamo provato a farlo con donne, e uomini, della politica. Benche’ in piu’ di un’occasione "Usciamo dal silenzio" sia stata riconosciuta e interpellata dalla politica, la distanza fra la radicalita’ (qui nel senso di andare alla radice delle cose) del nostro fare e pensare e la sciatteria dell’iniziativa politica, spesso limitata a disegni di legge che dovrebbero rifletterla o la mancanza di adeguamento delle leggi esistenti (vedi la Ru486, la mediazione linguistica, la vicenda della rianimazione dei feti), mostra la necessita’ di un cambiamento visibile della politica: che la presenza di donne non porti il segno della minoranza tutelata o cooptata e ancor meno quella della lobby.
Non siamo una categoria o una parte, siamo piu’ della meta’; non ci interessa il salvataggio della politica (in crisi) ma l’affondamento di quel ceto politico che l’ha ridotta in questo stato. E questo e’ il mio primo perche’: la pari rappresentanza estromette piu’ della meta’ dell’attuale ceto politico.
Il rimprovero piu’ pesante che faccio a questa politica e’ quello di guardare alla Vita come a un valore astratto, senza prendersi cura delle condizioni materiali e morali in cui e’ vissuta. E’ questa la premessa che legittima il controllo dei corpi, la progressiva erosione dei diritti acquisiti e líincapacit‡ di riconoscere nuove libert‡, legate ai cambiamenti sociali e introdotte dalla tecnoscienza. Libert‡ da maneggiare con cura piuttosto che spingere o lasciare nella clandestinita’. Dice Paola Redaelli che l’appello ai principi favorisce la conservazione. Perche’ trascendono il corpo? Ci liberano del suo ingombro? Nel confronto fra Vita e Liberta’, sembra aver vinto la prima. Piu’ si fa vicina al corpo e piu’ la liberta’ si fa evanescente: accerchiata da leggi punitive (come la legge 40), subordinata al potere medico, negata e ricattata (come per Welby), non riconosciuta, come per le coppie omosessuali, non sembra piu’ un valore fondante, ma un peso da portare in solitudine.
La pari rappresentanza puo’ far si’ che i corpi si facciano soggetti. Un corpo politico che rappresenta l’uguale presenza dei sessi nel mondo fara’ piu’ fatica a espellere i corpi dalla politica o a ridurli a pura materia biologica, oggetto di regole e leggi che impediscono di disporne. E questo e’ il mio secondo perche’: il corpo diventi soggetto della politica.
Se i corpi pensanti tornano al centro della politica possiamo (ri)aprire pubblicamente e dar contenuto a quel discorso sui limiti, che, nato nel movimento delle donne negli anni ’80 (dopo Cernobyl), e’ rimasto un’affermazione di principio. Cosicche’ le critiche, per esempio alle biotecnologie o ad alcune forme della scienza, hanno poca voce (e poco ascolto), ma anche difficolta’ da chi di noi cerca di tenere insieme pensiero critico e liberta’ di disporre di se’. E questo e’ il mio terzo perche’: liberta’ di conflitto sui contenuti e censura del conflitto delle appartenenze (inclusa quella di genere).
Finche’ la rappresentanza femminile e’ minoritaria c’e’ poco spazio per le donne che si sottraggono agli stereotipi della femminilita’: materna, salottiera, emancipata, omologata. Le nostre vite, di donne e di femministe, faticosamente costruiscono una femminilita’ che si riscatta dalla tradizione. Vorrei che questo diventasse un fatto politico.
*
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 60 del 15 aprile 2007
[Dal sito www.usciamodalsilenzio.org riprendiamo il seguente contributo al "manifesto dei perche’"" a sostegno della campagna e della proposta di legge "50e50 ovunque si decide" (su cui cfr. anche il sito www.50e50.it). Maddalena Gasparini, laureata in medicina e chirurgia e specializzata in neurologia, ha svolto attivita’ clinica e curato l’organizzazione di congressi e corsi di aggiornamento e formazione in collaborazione e per conto di strutture ospedaliere del Consiglio nazionale delle ricerche, della Regione Lombardia e della Provincia di Milano; grazie all’incontro con la Libera universita’ delle donne, da anni segue gli sviluppi delle tecnologie riproduttive approdando agli interrogativi etici che l’evoluzione delle biotecnologie pone alla collettivita’; dal 2003 e’ vicecoordinatrice del gruppo di studio di "Bioetica e cure palliative in neurologia" della Societa’ Italiana di Neurologia]
politica o quasi
Donne e potere, le parole per dirlo
di Ida Dominijanni (il manifesto, 10.04.2007)
Ho segnalato qualche settimana fa («politica o quasi» del 13 marzo) l’ultimo numero della rivista Via Dogana, in cui Lia Cigarini e Luisa Muraro pongono alcune domande ruvide sul rapporto fra donne e potere a partire dalla scena milanese, dove sono diventati femminili svariati vertici amministrativi, sindacali, associativi, imprenditoriali, senza che, a giudizio delle autrici, la qualità della vita e dell’amministrazione della città ne sia stata significativamente segnata, senza che si siano sviluppate significative relazioni fra le protagoniste di questo mutamento e fra loro e la cittadinanza femminile, senza che emerga una significativa differenza femminile nella gestione del potere o significative ipotesi sulla relazione femminile col potere. Quel numero di Via Dogana ha fatto nel frattempo un certo rumore sulla stampa milanese e anche su quella nazionale, ed è stato oggetto di una affollata discussione pubblica alla Libreria delle donne di Milano (un’altra seguirà alla Casa internazionale delle donne di Roma).
Oggi segnalo che non casualmente l’ultimo numero di Leggendaria, altra storica testata culturale e politica femminista, uscito pressoché in contemporanea a cura di Silvia Neonato e Bia Sarasini (la rivista, diretta da Anna Maria Crispino, aveva già dedicato due precedenti numeri a Roma e Torino), mette a fuoco problemi e domande assai simili a partire da un’altra scena, quella genovese.
A Genova, dove fra poco si terranno le elezioni amministrative, sono donne le candidate dell’Ulivo a sindaco (Marta Vincenzi) e del centrodestra a presidente della provincia (Renata Oliveri); donne il 40 per cento dei dirigenti del comune e sei su nove superdirigenti; donne la soprintendente ai beni artistici e le responsabili di quasi tutti i musei cittadini, donne le presidi di Architettura e di Economia e commercio, le presidenti del festival delle scienze e della prestigiosa associazione culturale Buonavoglia; e ci sono 30.800 donne, molte delle quali con cariche gestionali, iscritte al registro provinciale delle imprese.
«Eppure - scrivono nell’editoriale Neonato e Sarasini - tutte queste donne di potere, grande o piccolo, non si vedono tra loro, è come se fossero trasparenti le une alle altre, si cercano a parole ma nei fatti non fanno ’gruppo di pressione’. E dichiarano di sentirsi sole». Perciò, alla fine di una ampia e accurata indagine sul campo - che sia diventato femminile anche il giornalismo d’inchiesta? - Neonato e Sarasini concludono: «Non abbiamo le parole per dirlo. Non il sesso, come raccontava Marie Cardinal nel suo memorabile libro (Le parole per dirlo, Tascabili Bompiani, 2002, prima edizione 1976), ma il potere, quando a gestirlo, o a volerci mettere le mani, sono le donne. Dopo averne incontrate, ascoltate, interrogate tante, ci siamo rese conto che queste ’capitane coraggiose’ necessitano di un codice e che anche noi, per descriverle, manchiamo di un alfabeto».
Tre cose sono chiare secondo le curatrici: che l’emancipazione non basta, che le quote rosa «sono utili ma come ulteriore laboratorio per crescere insieme», che bisogna trovare le parole «per legarci tra noi in un nuovo patto». Ed effettivamente, leggendo le molteplici interviste che popolano l’inchiesta, è vero che le parole mancano, oscillano, rivelano un’incertezza di fondo nell’affrontare il come, il perché, il per chi, del potere, delle sue potenzialità e delle sue fallacie, delle sue opacità e delle sue illusioni, della sua facilità omologante e della difficoltà di segnarlo di una differenza.
Il protagonismo femminile visibile oggi in situazioni come quella milanese e genovese viaggia su un sentiero stretto e trincerato su tre lati.
Primo lato, la misoginia di base della cultura politica italiana (a Spezia, uno dei comuni guarda caso più rossi d’Italia, al contrario che a Genova di donne non ce n’è in nessun ruolo di responsabilità).
Secondo lato, la forzatura delle quote, di cui nessuna si dichiara entusiasta ma che nessuna (con la meritoria eccezione di Teresa Sardanelli, dirigente comunale nel settore cultura) ha il coraggio e la coerenza di rifiutare.
Terzo lato, una corrente di femminilizzazione del lavoro e della politica, che fa ambiguamente leva sulle caratteristiche femminili di relazione e di cura contro quelle maschili di competizione e distruttività: nell’inchiesta genovese se ne fa sostenitrice la diessina Maria Paola Profumo, convinta che «oggi la componente femminile, collegata biologicamente e storicamente alla cultura della relazione-crescita-cura, è quella che porta più innovazione e qualità nel lavoro e nella vita quotidiana, ed è la chiave della politica, una qualità che deve modificarla». Ma non sempre, a quanto pare, ci riesce, e qualche volta, a quanto pare, rischia di trasformarsi in una risorsa terapeutica, più che trasformatrice, del potere e della rappresentanza.
Sembrano sagge alla fine le parole di Marta Vincenzi, sindaca in pectore di Genova: «Siamo merci in concorrenza da secoli, la solidarietà non si inventa in qualche decennio di emancipazione. Bisogna forse smettere di uccidere le madri, e le nostre riflessioni devono essere messe alla prova. Io per esempio non so se esiste un modo femminile di gestire il potere, credo di sì, ma vorrei essere testata durante il mio lavoro per scoprirlo insieme alle altre donne».
Parità uomo-donna, il Ruanda in testa
di Luigina D’Emilio *
In Ruanda, uno dei paesi più poveri al mondo, le pari opportunità tra uomini e donne sono maggiormente garantite che negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi industrializzati.
È quanto emerge dall’Indice di parità di genere (Gei nell’acronimo inglese) del Social Watch, network internazionale di oltre 400 organizzazioni impegnate per una giustizia sociale, economica e di genere, lanciato durante la cinquantunesima sessione della Commissione sulla condizione femminile delle Nazioni Unite, a New York.
Nel mondo i gap di genere sono presenti ovunque e l’andamento generale è quello di un progresso molto lento o totalmente assente in tutte quelle condizioni dove l’uguaglianza tra uomini e donne dovrebbe essere garantita, come nello studio.
L’indice di parità di genere è stato sviluppato sulla base di indicatori sociali che avessero valore a livello internazionale e prendendo in considerazione una scala di riferimento che evidenzia i più bassi valori di equità. Tre sono i punti di riferimento: attività economica, sviluppo e educazione.
Secondo il rapporto, che stila una classifica di 154 Paesi in nessuno stato le donne hanno le stesse opportunità degli uomini e, anche se la tendenza generale è in lieve miglioramento, in molti Paesi la condizione femminile è peggiorata.
Nella classifica per il 2007 del Gei, il Ruanda occupa la terza posizione, dopo Svezia e Finlandia, mentre per trovare l’Italia occorre scorrere fino al settantaduesimo posto. «Questo dimostra», ha spiegato Karina Batthyany, coordinatrice dei ricercatori del Social Watch, «come non sia necessario raggiungere alti livelli di crescita economica o di industrializzazione per realizzare politiche efficaci per una maggiore equità». E come, ha rilanciato Roberto Bissio, coordinatore di Social Watch, «non ci sia bisogno di essere ricchi per essere giusti».
A parlare sono i numeri, che sorprendono. Tra le dieci nazioni che hanno fatto più progressi dall’ultimo rapporto del 2004, infatti, ci sono altri Paesi oltre il Ruanda che si trovano in condizione di forte arretratezza, è il caso dell’Equador, seguito a ruota da Capo Verde e Guatemala. Tra i Paesi definiti ricchi, la Spagna al quinto posto. Il Bel Paese invece non ha fatto nessun progresso e dopo tre anni la situazione è rimasta invariata. I risultati più critici sono quelli legati alle differenze di reddito e all’esigua presenza di donne nelle posizioni dirigenziali, ministeriali e parlamentari.
Ma tra i primi classificati anche altri Paesi europei , la Svezia, la Finlandia e la Norvegia occupano i primi posti registrando la più bassa disuguaglianza tra uomini e donne. Questa performance è il risultato di buone politiche legislative e uguaglianza anche sul lavoro. Pecora Nera anche gli Stati Uniti con un punteggio pari a 74 in una scala di valori (negativi) compresa tra 0 e 100. Gli Usa, infatti, hanno registrato una regressione del 7% in relazione al 2004 ed è una delle 10 città che hanno sperimentato una forte perdita negli anni recenti.
Agli ultimi dieci posti della lista ci sono Arabia Saudita, Pakistan, Marocco, Benin, Repubblica Centrafricana, Togo, Ciad, Sierra Leone, Costa d’Avorio e Yemen, ma la tendenza generale è che tre regioni come l’America Latina, i Caraibi ha non registrato una buona cresicta mettendo l’Europa al secondo posto e il nord Africa al terzo. In tutti e tre i casi, infatti il progresso supera il 6%.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.05.07, Modificato il: 03.05.07 alle ore 14.30
IN LUNGHE CATENE DIFFICILI DA SPEZZARE
di AUGUSTO CAVADI *
Per diventare misogino, essere cattolico non e’ necessario. Ma aiuta. Non e’ necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarieta’ di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano puo’ considerarsi "imago Dei" solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si da’) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunita’ celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passo’ per un episodio preciso. Un prete piu’ anziano di me - peraltro tra i piu’ preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovo’ spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: "Ma hai proprio un cervello da femmina!". Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne meta’ femminile e meta’ maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere "completo".
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da Rene’ Girard il piu’ grande teologo dopo san Paolo): c’e’ stato un solo cristiano ed e’ morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa e’ stata la "buona notizia" annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, piu’ in generale, cristiana) che si e’ sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesu’, la maschilita’ esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di se’ e, proprio per questo, non aver paura del femminile fuori di se’. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura e’ stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si e’ fatto senso comune e ha improntato di se’ l’occidente cristiano.
Se ci chiediamo se questa mentalita’ della disparita’ ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensi’ un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversita’. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosita’ e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguita’ e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversita’ (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici...), il sapore della familiarita’ rispetto al sentimento di estraneita’. Ovviamente, familiarita’ non equivale ad omologazione. Avvertire cio’ che, in radice, accomuna non implica cecita’ riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze.
Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’e’ chi accetta la sfida della diversita’ (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversita’) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’e’ chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non e’ un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo... E’ di per se’ evidente che questa mentalita’ sia - gia’ a livello ideologico - violenta. Ma, poiche’ in genere il diverso e’ piu’ debole (fisicamente, economicamente, militarmente...), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione... Quando un soggetto allergico alla diversita’ si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosita’, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni alterita’, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da se’ la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre piu’ profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con cio’, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sara’ proprio perche’ amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Cio’ non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 80 del 5 maggio 2007 - articolo apparso su "Mezzocielo", anno XV, n. 1, 2007, dal titolo originale "Un uomo davanti al pianeta donna"
Intervista ad Alice Walker
di Lauren Wilcox (trad. M.G. Di Rienzo) *
Alice Walker è scrittrice, poeta e saggista. Le sue opere, tra cui la più famosa è sicuramente “Il colore viola”, sono state tradotte in più di venti lingue.
Lauren Wilcox: Nei tuoi lavori, romanzi o no, hai scritto moltissimo delle donne: le loro vite, i loro ruoli, le loro lotte. Sarei curiosa di conoscere la tua opinione rispetto al ruolo delle donne in comunità che funzionano, il ruolo di donne forti in relazione con gli uomini.
Alice Walker: E’ il punto cruciale dell’intera faccenda. Se le donne non hanno controllo sulle proprie scelte, sul proprio ambiente di vita, se sono continuamente espropriate da parte degli uomini nelle loro società, significa che non hanno l’autonomia necessaria a far sì che le loro esistenze e quelle delle loro figlie si realizzino pienamente. E’ così assolutamente essenziale che siamo in molti a studiare i modi per sostenere queste donne. Ed è una cosa non facile, se ci rifletti, perché persino nella nostra cultura ci sono troppe donne abbattute dal potere patriarcale che neppure pensano di doversi mettere insieme a organizzare dei cambiamenti. Naturalmente non possiamo farlo noi per loro. Ma possiamo dir loro di basarsi sulle proprie esperienze per pianificare le azioni che elevino il livello di salute e benessere per tutti, nelle loro comunità, ma in special modo per loro stesse e le loro figlie. Quando le donne ottengono dei miglioramenti, come sappiamo, le vite di tutti migliorano.
Lauren Wilcox: Hai scritto storie di donne ambientate in diversi periodi storici e nel presente. Credi che in generale la situazione delle donne sia cambiata in meglio, attraverso gli anni?
Alice Walker: Quello che mi viene in mente è l’ultima volta che sono stata in Africa, a Bolgatanga, nella parte nord del Ghana. La mia amica Pratibha Parmar, la regista cinematografica, ed io eravamo là come conseguenza del lavoro che avevamo fatto per eliminare le mutilazioni genitali. Era un’enorme assemblea, di uomini e donne, i più decisi “abolizionisti” della pratica che io avessi mai conosciuto. E’ stato commovente. Ciò che ho capito tramite l’incontro con queste persone è che nei posti più remoti che si possa immaginare vi sono connessioni con il resto del mondo, e vi è una buona comprensione del fatto che le cose stanno cambiando, e che devono cambiare per la salvezza del continente intero. Non si tratta del tuo villaggio, e neppure del tuo paese: la questione concerne la salute del continente e la salute del pianeta Terra.
Lauren Wilcox: Tutto il tuo scrivere ha elementi di attivismo, di consapevolezza delle durezze e delle lotte che le persone affrontano durante le loro vite. E’ uno scopo, nella tua scrittura, un attivismo intenzionale?
Alice Walker: La mia scrittura è olistica. Immaginami come un albero di pino. Da me non verrà nulla che non sia pino. Ho le mie pigne, i miei aghi di pino, il mio profumo specifico. Io vedo la scrittura come la mia ragione d’essere. Non è una parte preziosa della mia esistenza. Come per il pino è lasciar cadere e ricrescere... è un tutt’uno.
Lauren Wilcox: Perciò scrivere è il modo in cui realizzi pienamente ciò che sei?
Alice Walker: Sì. E’ il modo in cui dai acqua e fertilizzanti al pino. Continui a crescere, continui a condividere, continui a dare e ad avere e continui a lasciar andare. In questo circolo c’è il fattore di sostenibilità, che sostiene te stessa. Ma non ti sostieni trattenendo le cose. Ti sostieni lasciandole andare.
Lauren Wilcox: Dandole via, donandole?
Alice Walker: Sì. Nella nostra cultura, tutti sentono di dover conservare, tenere, trattenere, e non passare in giro nulla. Quando fai questo, che può accadere al resto del pianeta, se non morire di fame?
Lauren Wilcox: Qual è la cosa migliore che possiamo insegnare ai nostri figli, secondo te, per prepararli al futuro?
Alice Walker: Dobbiamo disabituarli alla nozione della scarsezza. Penso che si tratti del pensiero globale più pernicioso e definitivamente distruttivo, la nozione che viviamo in un mondo di scarsità. In effetti, viviamo invece in un mondo d’abbondanza. Ed è solo perché alcune persone si sono prese la maggior parte delle risorse per sé e sprecano le altre in guerra che altre persone non hanno nulla. Non c’è scusa possibile, per il fatto che le persone sulla Terra non hanno cibo sufficiente, abiti, istruzione e accesso all’assistenza sanitaria. Nessuna scusa, nessuna.
Lauren Wilcox: Come hai cominciato ad interessarti delle istanze relative alla fame ed alla povertà?
Alice Walker: Perché sono cresciuta nella povertà. Noi bambini non la percepivamo come tale solo perché i nostri genitori erano dei geni nel trarre molto dal poco. Ad un certo punto mio padre chiese alla proprietaria bianca della terra che lavoravamo un aumento di stipendio, chiese di avere dodici dollari al mese, perché aveva otto figli e tutti lavoravano nella piantagione. La donna divenne una furia e glielo negò. Non avevamo assistenza sanitaria, un dentista non l’abbiamo mai visto, dovevamo spostarci ogni anno su pezzi di terra diversi e lavoravamo duramente per tutto il giorno. E questa è la situazione per milioni e milioni di persone sulla Terra. Li capisco benissimo, e sono totalmente solidale con loro.
Lauren Wilcox: So che hai scritto un nuovo libro.
Alice Walker: Si chiama “Noi siamo coloro che stavamo aspettando”. E’ una raccolta di saggi, e di meditazioni, perché penso che questo sia un periodo in cui le cose sono davvero orribili per troppe persone. C’è così tanta paura, e così tanta tristezza, e rabbia... Non abbiamo bisogno solo di analisi politiche e di consapevolezza, ma abbiamo bisogno di meditazioni, di sederci assieme alle cose che ci stanno accadendo e di trovare modi per essere interi. Dobbiamo ricordare a noi stessi che abbiamo i nostri spiriti, e che possiamo usarli: usare la nostra luce interiore, per dissipare il buio che si addensa.
* IL DIALOGO, Giovedì, 17 maggio 2007