Il silenzio di Obama e Hillary
Appello delle star: "Intervenite"
dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI
NEW YORK - Saranno troppo filo-israeliani, torneranno alle loro radici pro-palestinesi o saranno capaci di diventare dei veri mediatori? Hillary Clinton e Barack Obama per due anni hanno parlato sempre e soltanto delle guerre in Iraq e Afghanistan, della debolezza e pericolosità del Pakistan e della minaccia iraniana. Oggi sono in silenzio, fedeli al motto che "ci sono solo un segretario di Stato e un presidente alla volta", ma le prime frasi che saranno costretti a pronunciare, tra meno di venti giorni, dovranno necessariamente contenere le parole "Gaza", "Israele" e "Palestina".
Sul loro silenzio, Obama ha appena terminato le vacanze alle Hawaii e Hillary insieme al marito Bill ha scandito il conto alla rovescia del capodanno a Times Square a New York, si esercitano da giorni analisti, giornalisti e politici di tutto il mondo per cercare di prevedere l’atteggiamento della nuova Amministrazione democratica davanti alla crisi mediorientale.
Se di Obama ci si limita a ricordare la frase pronunciata a Sderot la scorsa estate, quando disse che trovava lecito reagire contro chi lancia missili su case civili, la figura e l’eredità di Hillary Clinton sono molto più complesse e l’ex first lady dopo essere stata considerata troppo filo-araba oggi dovrà convincere gli interlocutori mediorientali di non essere invece troppo schiacciata sulle posizioni israeliane.
Quando nove anni fa decise di correre per diventare la senatrice di New York, Hillary dovette lavorare a fondo per convincere l’elettorato ebraico a sostenerla e a votare per lei, doveva cancellare la memoria di due "incidenti". Il primo a dire la verità dimostra che stava dalla parte giusta della storia: nel 1998, parlando a un gruppo di giovani arabi ed ebrei come first lady, disse che per arrivare alla pace era necessario creare uno Stato palestinese. La Casa Bianca fu costretta a prendere le distanze dall’idea dei due Stati che allora non andava per la maggiore ma poi sarebbe diventata centrale nella politica americana.
L’anno dopo, mentre visitava Ramallah insieme a Suha Arafat, ascoltò senza reagire un discorso della moglie dello scomparso leader palestinese in cui si accusava Israele di usare gas tossici e di causare il cancro a donne e bambini. Numerosi gruppi ebraici e i giornali newyorchesi si scatenarono contro il suo silenzio - lei si giustificò dicendo che la traduzione era stata incompleta - e la sua corsa al Senato si fece difficoltosa.
In questi ultimi otto anni Hillary si è invece trasformata in una delle migliori amiche di Israele, tanto che dopo aver perso le primarie, parlando alla riunione annuale della più nota organizzazione ebraica americana, ha sottolineato che "il prossimo presidente dovrà evitare negoziati diretti con Hamas perché si tratta di un gruppo terroristico, armato dall’Iran e deciso a distruggere Israele".
Ora, come ha sottolineato al New York Times l’analista di politica internazionale Aaron Miller, "dovrà invece dimostrare la sua indipendenza da Israele" e la strada che molti prevedono sarà la ricostruzione di un forte rapporto e di un dialogo continuo con l’Egitto per poter indirettamente mediare con Hamas.
La sua carta migliore però resta il suo cognome da sposata: Bill Clinton è ancora considerato nel mondo arabo come il presidente che più ha lavorato per un accordo di pace e oggi i collaboratori e i mediatori di allora sono pronti al lavorare con lei.
Ma il silenzio di questi giorni di Hillary e del futuro presidente, considerato normale negli Stati Uniti, comincia ad essere vissuto come insostenibile in Europa: ieri a Londra un gruppo di star politicamente impegnate tra cui la cantante Annie Lennox e Bianca Jagger hanno lanciato un appello a Barack Obama perché parli subito e chieda a Israele l’immediata fine dei bombardamenti su Gaza.
* la Repubblica, 3 gennaio 2009
La Stampa, 3/1/2009
MEDIO ORIENTE IN FIAMME
Gaza, ucciso alto dirigente di Hamas Conto alla rovescia per attacco di terra
Non si fermano i raid aerei di Israele, colpito il leader Abu Zakaria al Jamal. Il gruppo islamico: non ci arrendiamo
GAZA Prosegue l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Anche questa notte l’aviazione dello stato ebraico ha bombardato alcune postazioni strategiche di Hamas, dando il via all’ottavo giorno di operazioni militari. In una delle incursioni, riferisce il quotidiano Yediot Ahronot, è rimasto ucciso un alto dirigente di Hamas, identificato come Abu Zakaria al Jamal. Il leader del movimento radicale palestinese non è sopravvissuto alle gravi ferite riportate a seguito di un bombardamento aereo di Tsahal.
Il ramo armato del movimento islamista palestinese Hamas ha affermato di aver respinto nella notte un’incursione di membri delle forze speciali israeliane che tentavano di superare la frontiera con la Striscia di Gaza. Un portavoce delle Brigate Ezzedine al-Qassam ha riferito all’Afp che i suoi combattenti hanno individuato un numero non precisato di membri delle forze speciali israeliane mentre tentavano di penetrare attraverso la frontiera a Shijaiyah nella zona orientale della Striscia all’una di notte locale (mezzanotte in Italia). Un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato di non essere «a conoscenza dell’incidente» aggiungendo che nessun soldato è penetrato nella Striscia dall’inizio dei raid aerei israeliani il 27 dicembre.
Nell’ottavo giorno di operazioni militari israeliane nella Striscia non si vede nessun segnale in direzione di una tregua e la sensazione di una crisi umanitaria sempre più grave. L’attacco di terra pare ormai inevitabile, per alcune fonti sarebbe imminente. Secondo gli ultimi dati in possesso dell’Onu, almeno 100 civili palestinesi sono rimasti uccisi dall’inizio dell’offensiva di Tsahal: si tratta di un quarto delle vittime complessive, che sarebbero almeno 420. Intanto ieri migliaia di palestinesi sono scesi in piazza in Cisgiordania per protestare contro Israele nella "giornata della rabbia", mentre Hamas ha lanciato almeno 20 razzi contro lo Stato ebraico e l’aviazione israeliana ha continuato a bombardare il sud della Striscia di Gaza. Tre fratelli palestinesi, di età compresa tra i sette e i dieci anni, sono stati uccisi e rappresentano le ultime vittime di cui si è a conoscenza.
Il capo di Hamas in esilio a Damasco, Khaled Meshaal, ha detto che il suo movimento «non si arrenderà mai» di fronte alle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza. A preoccupare la comunità internazionale è anche la crisi umanitaria in territorio palestinese, che Israele continua a considerare meno grave di quanto appare. Il Programma alimentare mondiale (PAM) ha denunciato una situazione alimentare «spaventosa». Il capo della diplomazia ceca, Karel Schwarzenberg, guiderà una missione dell’Unione europea in Medio Oriente, che partirà domenica da Praga e resterà nella regione fino a martedì prossimo. E il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, intende recarsi quanto prima negli Stati Uniti per discutere con la prossima amministrazione Usa la crisi nella Striscia di Gaza.
Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, esprimendosi per la prima volta sulla crisi nella Striscia di Gaza, ha accusato Hamas di terrorismo e ha respinto l’ipotesi di una nuova tregua "unilaterale" che permetterebbe agli estremisti palestinesi di continuare i loro attacchi contro Israele. «Un altro cessate-il-fuoco unilaterale che condurrebbe a attacchi con i razzi contro Israele non è accettabile» ha dichiarato il presidente statunitense nel suo discorso radiofonico settimanale del sabato, di cui la Casa Bianca ha diffuso il testo ieri sera. «Le promesse di Hamas non basteranno. Devono esserci meccanismi di sorveglianza per assicurare che cessi l’approvvigionamento dei gruppi terroristi di Gaza di armi di contrabbando» ha aggiunto Bush.
Barak: contro Hamas una guerra all’ultimo sangue
29/12/08 19:06
Poco prima di visitare una base dell’aereonatica militare israeliana, il ministro della difesa Ehud Barak lo ha detto senza mezzi termini davanti alla Knesset: quella contro Hamas è una guerra all’ultimo sangue.
A Gaza - gli fanno eco i vertici dello stato maggiore - non rimarrà in piedi nemmeno un edificio utilizzato dai militanti del partito islamico radicale. Parole dure, come dure sono state le proteste dei deputati arabi nel parlamento israeliano, quando Barak ha parlato di 300 terroristi uccisi, senza precisare che tra le vittime ci sono anche donne e bambini.
A dispetto dei morti, tuttavia, l’offensiva contro Hamas non ha ancora raggiunto il suo obiettivo minimo: fermare il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. Decine di Qassam continuano a colpire le città israeliane. In uno di questi attacchi è stato ucciso un lavoratore edile a Ashkelon, mentre una decina di persone sono rimaste ferite. Sale così a due il bilancio delle vittime israeliane dall’inizio dell’operazione Piombo fuso.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FORZA ISRAELE" ... E ISRAELE.
ISRAELE E PALESTINA... LA TERRA PROMESSA. Un’indicazione (1930) di Sigmund Freud
La politica dello struzzo stavolta non funzionerà
di Antonio Badini (l’Unità, 18.11.2012)
ORA CHE LA TENSIONE A GAZA RISCHIA DI TRADURSI IN UN NUOVO CONFLITTO CON ISRAELE, le Cancellerie vanno in allerta e tutti fanno appello ad un cessate-il-fuoco; ma stavolta la tregua, se ci sarà, non potrà più essere ottenuta con vaghe promesse, come ai tempi in cui il compianto Soleiman, sotto ferree istruzioni di Mubarak, incantava tutti con il gioco delle tre carte. Quei tempi sono tramontati per sempre. Non solo é mutato radicalmente il contesto regionale ma la posta in gioco questa volta é assai più alta per tutte le parti coinvolte. E l’epilogo é tutt’altro che scontato.
Nessuno può perdere senza rischiare di uscire di scena. Non può cedere Netanyahu che ha puntato, senza apparenti rivali, sulle elezioni anticipate, appena il 22 gennaio, per rafforzare il suo potere al Governo; non può passare la mano Hamas, ormai diplomaticamente al foto-finish con Abu Abbas per la guida del movimento palestinese, e tanto meno può sfilarsi quest’ultimo che si gioca le sue residue riserve di credibilità con la battaglia alle Nazioni Unite per elevare lo status dell’Autorità Palestinese.
Insomma il dado é tratto; con i razzi delle milizie palestinesi, tecnologicamente perfezionati, che arrivano ormai a sfiorare Gerusalemme, con l’autorevole avallo al Governo di Hamas da parte del Qatar, il cui Emiro ha recentemente recato in persona il suo appoggio, anche economico a Haniyeh, capo del governo, così come ha fatto, quando la ritorsione israeliana era già cominciata, il Primo Ministro Qandil, che sembra abbia promesso che l’Egitto potrebbe essere pronto a rompere l’embargo a Gaza.
Difficile intuire quale possa essere la via di uscita: quella militare, se Netanyahu la tentasse, come sembra, gli potrebbe costare il suo futuro politico, con l’Egitto che rimetterebbe in discussione gli accordi di Camp David; quella diplomatica, se non ben condotta dall’Occidente rischierebbe di consegnare a Hamas il destino del popolo palestinese con conseguenze non facilmente calcolabili. E dire che più di un avventato osservatore era arrivato a diagnosticare la marginalizzazione della causa palestinese dopo i più recenti sviluppi della «Primavera Araba», leggi la «guerra civile in Siria».
E tuttavia la recente uccisione per mano verosimilmente siriana di Wissam al Hassan, capo dei servizi di informazione della polizia libanese, avrebbe dovuto aprire gli occhi soprattutto agli americani, che debbono ormai decidersi ad affrontare seriamente il nodo palestinese. Non basta più ammettere il diritto di risposta di Israele, per giunta spesso sproporzionata in spregio alle norme del diritto internazionale, come ha nuovamente fatto Obama.
Ci sono colpe assai gravi di Israele che ha in pratica congelato il processo di pace continuando a permettere gli insediamenti ai coloni in Cisgiordania. Il cumulo della rabbia e dell’umiliazione subita negli ultimi quattro anni porta oggi non solo i palestinesi ma larga parte del mondo arabo a chiedersi se vi sia veramente una soluzione negoziata per dare sostanza e prospettiva politico-istituzionale alla visione dei «due Stati» preconizzata da George W. Bush ad Annapolis nel 2007.
Né va dimenticato che Hamas é una creaura dei «Fratelli Musulmani» la cui espressione politica, il Partito della libertà e della giustizia, é oggi al potere per effetto di una libera scelta del popolo egiziano. Si può immaginare che l’Egitto di oggi può accontentarsi degli espedienti tattici cui ricorreva colpevolmente il vecchio regime per salvare capra e cavoli? Si può immaginare che Teheran resti impassibile ed immobile ad attendere che arrivi per Netanyhau il momento propizio per bombardare gli impianti nucleari in Iran?
Si può immaginare che Damasco accetti l’agonia di una difesa strenua ma contata nei mesi se non nei giorni, senza tentare di trasferire l’epicentro delle tensioni in altri teatri di guerra? Si sono già dimenticati i moti di protesta della popolazione sciita nel Bahrain che per sedarli hanno richiesto l’invio di carri armati da parte dei Paersi del Golfo? E ci si é dimenticati delle minacce di Nasrallah che a più riprese ha dichiarato che Hezbollah non avrebbe lasciato Hamas solo nell’eventuale conflitto con Israele? La tattica dello struzzo cui sinora é ricorsa la Ue e gli stessi Stati Uniti non tiene più. È ora di prendere il toro per le corna e mettere attorno ad un tavolo israeliani e palestinesi (inclusi quelli di Al Fatah) per riannodare le fila di un negoziato che é la sola credibile azione che i veri amici di Israele possono consigliare a Netanyhau, per permettere ai cittadini di Israele di vivere senza l’incubo dei razzi e alla stessa Israele il diritto non solo di esistere pacificamente ma di prosperare accanto al mondo arabo. *ex ambasciatore italiano in Egitto, presidente della Fondazione Italia-Egitto
Ghazi Hamad
Vice-ministro degli Esteri di Hamas, è nella lista delle «eliminazioni mirate»
«È finito il tempo in cui ci potevano colpire impunemente»
«Il Medio Oriente è cambiato. Se soffre Gaza, soffrirà Tel Aviv»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 18.11.2012)
«L’equazione cambia, perché il Medio Oriente è cambiato. Sono finiti per sempre i tempi in cui Israele poteva colpire impunemente Gaza. Se non c’è più pace a Gaza non ci sarà nemmeno a Tel Aviv». A sostenerlo è una delle figure di primissimo piano di Hamas: Ghazi Hamad, 48 anni, vice ministro degli Esteri nel governo di Ismail Haniyeh, più volte incarcerato da Israele. Assieme ad Haniyeh e Mahmud al Zahar, Hamad è nella lista delle «eliminazioni mirate» di Tsahal. «Quello messo in atto dagli israeliani dice Hamad a l’Unità è terrorismo di Stato. Possono eliminare molti di noi, ma altri sono già pronti a prendere il nostro posto. Hamas è parte vitale della resistenza palestinese; una resistenza popolare, ed è per questo che i sionisti non l’avranno mai vinta. Perché non possono cancellare un popolo intero».
Hamad, considerato il capofila dell’ala pragmatica di Hamas, rivela un particolare che inquadra in una luce nuova l’eliminazione da parte israeliana di Ahmed Jabaari, il comandante delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas: «Jaabari dice era stato coinvolto dall’Egitto nella trattativa per giungere ad una tregua con gli israeliani». Ed è forse per questo che andava eliminato. «Netanyahu aggiunge vuole vincere le elezioni col sangue dei palestinesi».
Per Israele le operazioni militari a Gaza sono un atto di difesa per i ripetuti lanci di razzi contro le sue città.
«Quella d’Israele è un’aggressione, è terrorismo di Stato. Oggi i riflettori internazionali si riaccendono su Gaza, ma nessuno ha denunciato che Gaza, la sua gente, un milione e mezzo di persone in maggioranza sotto i 18 anni, vive assedia da anni. Questa si chiama occupazione contro la quale rivendichiamo il diritto di resistenza. I governanti israeliani si sono macchiati di crimini contro l’umanità ma nessuno ne ha chiesto il processo davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. Chi è stato complice di una aggressione permanente non può dare lezione di democrazia e di moderazione».
Ma come potete ritenere di poter battere uno dei più agguerriti eserciti al mondo? Il vostro non è un azzardo il cui prezzo viene pagato dalla popolazione palestinese?
«Cosa ci si aspetta da noi? Che alziamo bandiera bianca in segno di resa? Questo non accadrà mai, mai. In questa guerra c’è un carnefice e una vittima, solo che la vittima non si consegna al carnefice. Chi si illude è Israele: Hamas non è un corpo estraneo alla società palestinese, ma ne è parte fondamentale. Si possono assassinare dirigenti e militanti, ma non si può annientare un popolo. Chi è fuori dalla storia oggi non siamo noi ma è Israele».
Fuori dalla storia?
«Il Medio Oriente è cambiato, ma Israele si comporta come se nulla fosse accaduto. A Gaza c’è stata la visita del primo ministro egiziano, del ministro degli Esteri tunisino, qualche settimana fa dell’emiro del Qatar. Abbiamo avuto il sostegno di tutti i Paesi arabi e musulmani, tra cui la Turchia. Le chiedo: chi è oggi isolato?».
«È il momento dell’unità con Hamas»: ad affermarlo è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Qual è la risposta di Hamas?
«L’unità non è un regalo ad Hamas, ma è ciò che si aspetta il popolo palestinese di fronte all’aggressione israeliana. Nessun negoziato è possibile con chi vuole annientarti. L’unità si costruisce nella resistenza».
La parola “dialogo” è bandita dal vocabolario di Hamas?
«No, se dialogo non è sinonimo di resa. In passato ci siamo dichiarati disponibili a una “hudna” (tregua, ndr) prolungata, a condizione che Israele ponesse fine all’assedio di Gaza e liberasse i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri. La risposta è sotto gli occhi di tutti».
Gli Usa sono tornati a chiedere ad Hamas di riconoscere lo Stato d’Israele.
«Possiamo negoziare una tregua, ma non riconoscere uno Stato che nega ai palestinesi il diritto di esistere come Nazione, che porta avanti la pulizia etnica ad Al Quds (Gerusalemme, ndr), che espropria le nostre terre, affama la nostra gente, colonizza la Cisgiordania e si prepara di nuovo ad invadere Gaza. All’origine di tutto c’è l’occupazione della Palestina. Obama ponga fine a tutto questo, e poi ne riparleremo. Finora, al di là delle belle parole, Obama non ha fatto nulla per impedire a Israele di portare avanti la sua politica colonizzatrice. Al presidente Usa il popolo palestinese chiedeva un segnale di discontinuità con le precedenti amministrazioni. Quel segnale non c’è stato».
Lei ha avuto l’incarico dal primo ministro Haniyeh di formare una leva di “ambasciatori” di Hamas. Qual è il segno di questa iniziativa?
«A muoverci è la consapevolezza che le “primavere arabe” hanno modificato profondamente il corso degli eventi nel mondo arabo. Abbiamo stabilito relazioni con diversi Paesi e dobbiamo ora formare diplomatici in grado di avviare e seguire progetti con quei Paesi Hamas intende essere parte di questo cambiamento lanciando un’offensiva diplomatica che riporti la causa palestinese al centro dell’attenzione internazionale. Sappiamo, vogliamo fare politica. La resistenza armata è uno strumento non il fine di Hamas».
La tregua non basta, bisogna che riparta la trattativa
«Si è formata sul campo una sciagurata alleanza tra Hamas e il Likud»
di Giorgio Gomel
Esponente di «Jcall», movimento pacifista ebraico europeo
l’Unità 18.11.12
I nemici peggiori possono diventare i migliori alleati. La storia travagliata del conflitto israelo-palestinese lo dimostra una volta di più. Una sciagurata alleanza si è formata sul campo, incurante delle vittime provocate fra la gente inerme, fra Hamas, il movimento integralista palestinese e il Likud, il partito principale di governo in Israele condizionato dalle correnti nazional-religiose e dal movimento dei coloni che lo spingono verso le posizioni più oltranziste. Due nemici irriducibili, ma uniti nel rigettare gli accordi di Oslo del 1993 e nel sabotare poi, anno dopo anno, ogni tentativo di trattativa volta a giungere a un compromesso che comporti la spartizione di quella terra contesa in due Stati sovrani di pari dignità.
Così la formula di «due Stati per due popoli», l’unica che possa fornire una soluzione dignitosa al conflitto appare sempre più messa in forse, come una irraggiungibile utopia. Eppure la sostiene l’Anp di Abu Mazen anche in un’intervista rilasciata di recente ad una TV israeliana con il tentativo di ottenere dalle Nazioni Unite il riconoscimento per il futuro stato di Palestina dello status di osservatore. La sostiene l’opposizione in Israele non solo il movimento che si batte per la pace e i diritti nazionali dei palestinesi, ma buona parte del centro pragmatico del paese.
I sondaggi mostrano in modo persistente che circa 2/3 degli israeliani e dei palestinesi intervistati la desiderano come soluzione, pur ritenendola difficile da conseguire. La sostiene da anni la comunità internazionale, nella forma concreta dei «parametri di Clinton» del 2000 e dei reiterati tentativi del Quartetto di promuovere una seria trattativa fra le due parti assistite da mediatori internazionali.
La sosteniamo noi di Jcall (www.jcall.eu), un movimento d’opinione di ebrei europei costituitosi nel 2010 sulla base di un «Appello alla ragione», sottoscritto da oltre 8000 persone, e formatosi di recente anche in Italia (jcall.italia@gmail.com).
Dibatteremo di questi temi martedì 20 novembre alla Casa della cultura di Milano (dalle ore 21) con Shaul Ariely israeliano, esperto di questioni di sicurezza e tra i negoziatori degli accordi di Ginevra del 2003 -, Gad Lerner e Stefano Levi della Torre.
Siamo solidali con il popolo d’Israele, di cui affermiamo il diritto a un’esistenza in condizioni di pace e sicurezza e soprattutto con gli abitanti del sud e del centro del paese costretti nei rifugi, privati di una vita normale, e siamo vicini ai civili palestinesi di Gaza che subiscono il costo di una guerra inutile scatenata da Hamas che esercita un potere tirannico nella Striscia e mira a provocare una deflagrazione nella regione, già scossa dalla guerra in Siria e dalle minaccia nucleare dell’Iran, fino all’incrudirsi dei rapporti fra Egitto e Israele, al sovvertimento della monarchia giordana e forse a un intervento armato di Hezbollah contro il fronte nord di Israele.
Israele ha diritto all’autodifesa, ma è illusorio perseguire una soluzione puramente militare del conflitto. Lo ha dimostrato l’offensiva contro Gaza del 2008 e l’embargo imposto all’economia della Striscia prima e dopo quell’episodio. La gente di Gaza non si è piegata, malgrado la durezza del vivere quotidiano, della guerra intermittente e della penuria di beni, e non è insorta contro il regime di Hamas.
Ma come mostrare a quella gente che un accordo di pace può produrre benefici tangibili rispetto al perdurare della violenza? Sharon decise nel 2005 un ritiro unilaterale dalla Striscia, non negoziò un accordo di mutua sicurezza con la leadership palestinese di allora. Ne scaturì un embrione di Stato che poteva essere un inizio di progresso economico e civile, pur con i limiti territoriali di Gaza separata dalla Cisgiordania, ma finì soffocato dall’estremismo di Hamas da una parte e dal blocco imposto da Israele dall’altra. Oggi è compito urgente anche dell’Unione europea, non solo di concorrere con gli Stati Uniti, l’Egitto, la Turchia, il Qatar a negoziare una tregua sul campo ed impedire l’allargarsi del conflitto, ma anche di premere sulle parti perché riprenda una seria trattativa fra Israele e l’Anp paralizzata ormai dal 2008.
Gaza. Guerra delle menzogne, calcoli sbagliati e la ’follia morale’ di Ehud Barak
Distrutta ma non sconfitta, cosi’ Hamas riuscira’ a vincere
di URI AVNERY (il manifesto, 13 gennaio 2009)
Quasi settant’anni fa, nel corso della seconda guerra mondiale, nella citta’ di Leningrado fu commesso un crimine efferato. Per piu’ di 70 giorni, una banda di estremisti chiamata "Armata rossa" tenne in ostaggio milioni di abitanti di quella citta’ e, cosi’ facendo, provoco’ la rappresaglia della Wehrmacht tedesca dall’interno. I tedeschi non ebbero altra alternativa, se non bombardare la popolazione e imporre un blocco totale causando la morte di centinaia di migliaia di persone. Un po’ di tempo prima, un crimine simile era stato commesso in Inghilterra. La banda di Churchill si era nascosta tra la popolazione londinese, sfruttando milioni di cittadini come scudi umani. I tedeschi furono costretti a inviare la Luftwaffe e, sebbene con riluttanza, a ridurre la citta’ in rovine. Lo chiamarono il Blitz.
Questa e’ la descrizione che apparirebbe oggi nei libri di storia - se i tedeschi avessero vinto la guerra. Assurdo? Non piu’ delle quotidiane descrizioni nei nostri media, che si ripetono fino alla nausea: i terroristi di Hamas usano gli abitanti di Gaza come "ostaggi" e sfruttano le donne e i bambini come "scudi umani". Non ci lasciano altra alternativa se non i bombardamenti massicci nei quali, con nostro profondo dolore, migliaia di donne, bambini e uomini disarmati vengono uccisi o feriti.
In questa guerra, come in qualunque guerra moderna, la propaganda gioca un ruolo fondamentale. La disparita’ tra le forze, tra l’esercito israeliano - con i suoi caccia, elicotteri da combattimento, aerei teleguidati, navi da guerra, artiglieria e tank - e le poche migliaia di combattenti di Hamas dotati di armi leggere, e’ di uno su mille, forse uno su un milione.
Nell’arena politica il gap tra loro e’ ancora piu’ ampio. Ma nella guerra di propaganda, il gap e’ quasi infinito.
Quasi tutti i media occidentali inizialmente ripetevano la versione ufficiale della propaganda israeliana. Essi ignoravano quasi del tutto le ragioni dei palestinesi, per non parlare delle dimostrazioni quotidiane del campo della pace israeliano. La logica del governo israeliano ("Lo stato deve difendere i suoi cittadini contro i razzi Qassam") e’ stata accettata come se quella fosse tutta la verita’. L’altro punto di vista, per cui i Qassam sono una rappresaglia per l’assedio che affama il milione e mezzo di abitanti della Striscia di Gaza, non e’ stato riportato affatto. Solo quando le scene orribili provenienti da Gaza hanno cominciato ad apparire sui teleschermi occidentali, l’opinione pubblica mondiale ha gradualmente iniziato a cambiare.
E’ vero, i canali televisivi occidentali e israeliani hanno mostrato solo una piccolissima frazione dei terribili eventi che appaiono 24 ore su 24 sul canale arabo al Jazeera, ma una sola immagine di un bimbo morto nelle braccia del padre terrorizzato e’ piu’ potente di mille frasi elegantemente costruite dal portavoce dell’esercito israeliano. E alla fine e’ decisiva.
La guerra - ogni guerra - e’ il regno delle menzogne. Che si chiami propaganda o guerra psicologica, tutti accettano l’idea che sia giusto mentire per un paese. Chiunque dica la verita’ rischia di essere bollato come traditore. Il problema e’ che la propaganda e’ convincente per lo stesso propagandista. E dopo che ci si e’ convinti che una bugia e’ verita’, e la falsificazione realta’, non si riesce piu’ a prendere decisioni razionali.
Un esempio di questo fenomeno riguarda quella che finora e’ stata l’atrocita’ piu’ scioccante di questa guerra: il bombardamento della scuola dell’Onu Fakhura, nel campo profughi di Jabaliya. Immediatamente dopo che esso era stato conosciuto in tutto il mondo, l’esercito ha "rivelato" che i combattenti di Hamas avevano sparato con i mortai da un punto vicino all’ingresso della scuola. Poco tempo dopo, il militare che aveva mentito ha dovuto ammettere che la foto aveva piu’ di un anno. In breve: una falsificazione. In seguito l’ufficiale bugiardo ha affermato che avevano "sparato ai nostri soldati da dentro la scuola". Dopo appena un giorno, l’esercito ha dovuto ammettere dinanzi al personale Onu che anche quella era una menzogna. Nessuno aveva sparato da dentro la scuola; nella scuola non c’erano combattenti di Hamas: era piena di profughi terrorizzati. Ma l’ammissione ormai non faceva quasi piu’ differenza. A quel punto, il pubblico israeliano era totalmente convinto che avessero "sparato da dentro la scuola", e gli annunciatori tv lo hanno affermato come un semplice fatto.
Lo stesso e’ accaduto con le altre atrocita’. Nell’atto della morte, ogni bambino si trasformava in un terrorista di Hamas. Ogni moschea bombardata diventava istantaneamente una base di Hamas, ogni palazzina un deposito di armi, ogni scuola una postazione terroristica, ogni edificio dell’amministrazione pubblica un "simbolo del potere di Hamas". Cosi’ l’esercito israeliano manteneva la sua purezza di "esercito piu’ morale del mondo". La verita’ e’ che le atrocita’ sono un risultato diretto del piano di guerra. Questo riflette la personalita’ di Ehud Barak - un uomo il cui modo di pensare e le cui azioni sono una chiara esemplificazione di quella che viene chiamata "follia morale", un disturbo sociopatico.
Il vero scopo (a parte quello di farsi eleggere alle prossime elezioni) e’ porre fine al governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Nell’immaginazione di chi ha pianificato la guerra, Hamas e’ un invasore che ha ottenuto il controllo di un paese straniero. Naturalmente la realta’ e’ completamente diversa. Il movimento di Hamas ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni democratiche che si sono svolte in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Ha vinto perche’ i palestinesi erano giunti alla conclusione che l’atteggiamento pacifico di Fatah non avesse ottenuto nulla da Israele - ne’ un congelamento degli insediamenti, ne’ il rilascio dei prigionieri, ne’ un qualunque passo significativo verso la fine dell’occupazione e la creazione dello stato palestinese. Hamas e’ profondamente radicato nella popolazione - non solo come movimento di resistenza che combatte l’occupante, come l’Irgun e il Gruppo Stern in passato - ma anche come organismo politico e religioso che fornisce servizi sociali, scuola e sanita’. Dal punto di vista della popolazione, i combattenti di Hamas non sono un organismo straniero, ma figli di ogni famiglia della Striscia e delle altre regioni palestinesi. Essi non si "nascondono dietro la popolazione": la popolazione li vede come i suoi unici difensori.
Percio’, l’intera operazione si basa su presupposti errati. Trasformare la vita in un inferno sulla terra non fa insorgere la popolazione contro Hamas ma, al contrario, essa si stringe dietro Hamas e rafforza la propria determinazione a non arrendersi. La popolazione di Leningrado non si sollevo’ contro Stalin, piu’ di quanto i londinesi non si sollevarono contro Churchill.
Chi da’ l’ordine di una simile guerra, con tali metodi, in un’area densamente popolata, sa che causera’ il massacro di civili. A quanto pare, cio’ non lo ha toccato. O forse credeva che loro avrebbero "cambiato modo" e la guerra avrebbe "marchiato a fuoco la loro coscienza", per cui in futuro non oseranno resistere a Israele.
Una delle principali priorita’ per chi ha pianificato la guerra era l’esigenza di ridurre al minimo le vittime tra i soldati, sapendo che lo stato d’animo di una larga parte dell’opinione pubblica, favorevole ad essa, sarebbe cambiato se fossero giunte notizie di questo genere. E’ quanto e’ avvenuto nella prima e nella seconda guerra del Libano. Questa considerazione ha giocato un ruolo particolarmente importante perche’ l’intera guerra e’ parte della campagna elettorale.
Ehud Barak, che nei primi giorni di guerra e’ salito nei sondaggi, sapeva che il suo gradimento sarebbe crollato se gli schermi televisivi si fossero riempiti di immagini di soldati morti. Percio’, si e’ fatto ricorso a una nuova dottrina: evitare perdite tra i nostri soldati mediante la distruzione totale di tutto cio’ che incontrano sulla loro strada. Per salvare un soldato israeliano si era disposti a uccidere non solo 80 palestinesi, ma anche 800. Evitare perdite dalla nostra parte e’ il comandamento principale, che sta causando un numero record di vittime civili dall’altra. Questo significa la scelta consapevole di un tipo di guerra particolarmente crudele - e questo e’ il suo tallone di Achille.
Una persona senza immaginazione, come Barak (il suo slogan elettorale: "Non un bravo ragazzo, ma un leader") non riesce a immaginare come le persone per bene, in tutto il mondo, possano reagire ad azioni come l’uccisione di intere famiglie, la distruzione di case sulla testa dei loro abitanti, le file di bambini e bambine in sudari bianchi pronti per la sepoltura, le notizie di persone lasciate a morire dissanguate per giorni perche’ non si consentiva alle ambulanze di raggiungerle, l’uccisione di dottori e medici impegnati a salvare vite umane, l’uccisione di autisti dell’Onu che trasportavano cibo. Le immagini degli ospedali, con i morti, le persone in fin di vita, i feriti stesi tutti insieme sul pavimento per mancanza di spazio, hanno scioccato il mondo.
I pianificatori pensavano di poter impedire al mondo di vedere queste immagini vietando con la forza la presenza dei media. I giornalisti israeliani - fatto riprovevole - si sono accontentati dei rapporti e delle foto forniti dal portavoce dell’esercito, come se fossero notizie autentiche, mentre loro stessi se ne restavano a miglia di distanza dai fatti. Anche ai giornalisti stranieri non e’ stato permesso di entrare, finche’ non hanno protestato e sono stati portati a fare rapidi tour in gruppi selezionati e controllati. Ma in una guerra moderna, uno sguardo cosi’ sterile e preconfezionato non puo’ escludere completamente tutti gli altri - le videocamere sono dentro la Striscia, in mezzo all’inferno, e non possono essere controllate. Al jazeera trasmette le immagini a tutte le ore, e arriva in tutte le case.
La battaglia per il teleschermo e’ una delle battaglie decisive della guerra. Centinaia di milioni di arabi dalla Mauritania all’Iraq, piu’ di un miliardo di musulmani dalla Nigeria all’Indonesia vedono le immagini e sono orripilati. Questo ha un impatto forte sulla guerra. Molti spettatori vedono i governanti dell’Egitto, della Giordania, dell’Autorita’ palestinese come collaboratori di Israele nell’attuazione di queste atrocita’ ai danni dei loro fratelli palestinesi. I servizi di sicurezza dei regimi arabi stanno registrando un fermento pericoloso tra le popolazioni. Hosny Mubarak, il leader arabo piu’ esposto per aver chiuso il valico di Rafah in faccia ai profughi terrorizzati, ha cominciato a premere sui decisori di Washington, che fino ad allora avevano bloccato tutti gli inviti a cessare il fuoco.
Questi hanno cominciato a capire che i vitali interessi americani nel mondo arabo erano minacciati e improvvisamente hanno cambiato atteggiamento - nella costernazione dei compiacenti diplomatici israeliani.
Le persone affette da follia morale non riescono a capire le motivazioni delle persone normali, e devono indovinare le loro reazioni. "Quante divisioni ha il papa?" se la rideva Stalin. "Quante divisioni hanno le persone con una coscienza?" potrebbe chiedersi oggi Ehud Barak. Ma, come stiamo vedendo, ne hanno qualcuna. Non tante. Non molto veloci a reagire.
Non molto forti e organizzate. Ma a un certo momento, quando le atrocita’ dilagano e masse di persone si uniscono per protestare, questo puo’ decidere di una guerra.
L’incapacita’ di cogliere la natura di Hamas ha causato l’incapacita’ di capire i prevedibili risultati. Non solo Israele non e’ in grado di vincere la guerra: Hamas non puo’ perderla. Anche se l’esercito israeliano dovesse riuscire a uccidere ogni combattente di Hamas fino all’ultimo uomo, anche allora Hamas vincerebbe. I combattenti di Hamas sarebbero visti come i modelli della nazione araba, gli eroi del popolo palestinese, i modelli da emulare per ogni giovane del mondo arabo. La Cisgiordania cadrebbe nelle mani di Hamas come un frutto maturo, Fatah affogherebbe in un mare di disprezzo, i regimi arabi rischierebbero di crollare.
Se la guerra dovesse finire con Hamas ancora in piedi, sanguinante ma non sconfitto, a fronte della possente macchina militare israeliana, cio’ apparirebbe come una vittoria fantastica, una vittoria della mente sulla materia.
Nella coscienza del mondo, restera’ impressa a fuoco l’immagine di Israele come un mostro lordo di sangue, pronto in qualunque momento a commettere crimini di guerra e non intenzionato a rispettare alcun freno morale. Questo avra’ gravi conseguenze a lungo termine per il nostro futuro, per la nostra posizione nel mondo, per la nostra chance di raggiungere la pace e la tranquillita’.
In fondo, questa guerra e’ anche un crimine contro noi stessi, un crimine contro lo stato di Israele.
Ansa» 2009-01-15 12:13
GAZA: INTENSI SCONTRI, COLPITI OSPEDALE E SEDE ONU
GAZA - L’artiglieria israeliana ha colpito oggi la sede dell’Unrwa - l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite - a Gaza City, tre dipendenti dell’agenzia sono rimasti feriti. Un portavoce dell’Unrwa ha annunciato la sospensione delle attività.
"L’artiglieria israeliana ha colpito la sede dell’Unrwa a Gaza, tre impiegati dell’agenzia sono rimasti feriti", ha affermato il portavoce dell’agenzia dell’Onu a Gaza, Adnane Abou Hasna. E’ la seconda volta, dall’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza, che viene colpita una sede delle Nazioni Unite: nel terzo giorno dell’offensiva di terra, il 6 gennaio scorso circa 40 persone, per lo più donne e bambini, erano rimaste uccise e varie decine ferite in un bombardamento dell’artiglieria israeliana su una scuola gestita dall’Unrwa a Jabaliya, nelle vicinanze di Gaza City.
Ordigni delle forze israeliane sono caduti anche su un ospedale a Gaza City, negli scontri di stamattina, secondo quanto riferiscono testimoni dal posto.
Due cameraman palestinesi, poi, sono rimasti feriti in un attacco contro un edificio a Gaza che ospita gli uffici di diversi media arabi e internazionali.
Nelle prime ore del mattino almeno 14 razzi sono stati lanciati su Israele. Gli ordigni hanno colpito diverse località del territorio israeliano, non si hanno tuttavia al momento notizie di danni o vittime.
Nella notte nuovi raid israeliani hanno causato la morte di almeno 16 palestinesi. I bombardamenti dell’aviazione di Israele si sono concentrati sulle città di Gaza, Khan Yunis e Rafah. Come riferiscono fonti mediche, tra i morti c’é un giovane di 13 anni, mentre cinque persone sono rimaste ferite in un raid portato contro una moschea di Rafah. Dal lancio dell’offensiva israeliana contro la Striscia, il 27 dicembre scorso, il bilancio delle vittime in territorio palestinese è di 1.054 morti e oltre 4.850 feriti.
VENEZUELA ROMPE RELAZIONI CON ISRAELE
Il Venezuela ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele in segno di protesta per l’offensiva contro la Striscia di Gaza. Lo hanno reso noto in nottata fonti ufficiali a Caracas.
L’annuncio è stato dato dal ministero degli esteri venezuelano in un comunicato letto alla televisione di Stato. Nei giorni scorsi il presidente Hugo Chavez aveva espulso l’ambasciatore israeliano.
Riflessione
IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI
di Paolo Barnard
Riprendiamo questo articolo dal sito http://www.paolobarnard.info/ . Lo riprendiamo perchè siamo profondamente convinti che sia necessario un franco dibattito su ciò che sta accadendo in Medio Oriente se vogliamo che da una situazione di guerra si passi ad una situazione di pace. E come nostro costume non censuriamo nessuna opinione che si muova verso la pace. *
Marco Travaglio ha appena scritto un commento su Gaza, diramato dalla sua casa editrice Chiarelettere, che inizia così: “Israele non sta attaccando i civili palestinesi. Israele sta combattendo un’organizzazione terroristica come Hamas che, essa sì, attacca civili israeliani”. Bene.
Il compianto Edward Said, palestinese e docente di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York, scrisse anni fa un saggio intitolato “The Treason of the Intellectuals” (il tradimento degli intellettuali). Si riferiva alla vergognosa ritirata delle migliori menti progressiste d’America di fronte al tabù Israele. Ovvero come costoro si tramutassero nelle proverbiali tre scimmiette - che non vedono, non sentono, non parlano - al cospetto dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra che il Sionismo e Israele Stato avevano commesso e ancora commettono in Palestina, contro un popolo fra i più straziati dell’era contemporanea.
E di tradimento si tratta, senza ombra di dubbio, e cioè tradimento della propria coscienza, delle proprie facoltà intellettive, e del proprio mestiere. Gli intellettuali infatti hanno a disposizione, al contrario delle persone comuni, ogni mezzo per sapere, per approfondire. Ma nel caso dei 60 anni di conflitto israelo-palestinese, con la mole schiacciate e autorevole di documenti, di prove e di testimonianze che inchiodano lo Stato ebraico, non sapere e non pronunciarsi può essere solo disonestà e vigliaccheria. Poiché in quella tragedia la sproporzione fra i rispettivi torti è così colossale che non riconoscere nel Sionismo e in Israele un “torto marcio”, una colpa grottescamente e atrocemente superiore a qualsiasi cosa la parte araba abbia mai fatto o stia oggi facendo, è ignobile. E’ un tradimento della più elementare pietas, del cuore stesso dei Diritti dell’Uomo e della legalità moderna. E’ complicità, sì, com-pli-ci-tà nei crimini ebraici in Palestina. Leggete più sotto.
I traditori nostrani abbondano, particolarmente nelle fila dell’ala ‘progressista’. Marco Travaglio guida oggi il drappello, che vede Furio Colombo, Gad Lerner, Umberto Eco, Adriano Sofri, Gustavo Zagrebelsky, Walter Veltroni, Davide Bidussa et al., affiancati dell’instancabile lavoro di falsificazione della cronaca di tutti i corrispondenti a Tel Aviv delle maggiori testate italiane. E ci si chiede: perché lo fanno? Personalmente non mi interessa la risposta, e non voglio neppure addentrarmi in ipotesi contorte del tipo ‘il potere della lobby ebraica’, la carriera, o simili.
Ciò che conta è il danno che costoro causano, che è, si badi bene, superiore a quello delle armi, delle torture, delle pulizie etniche, del terrorismo. Molto superiore.
Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità.
L’evidenza della Storia di cui parlo è in primo luogo: che il progetto sionista di una ‘casa nazionale’ ebraica in Palestina nacque alla fine del XIX secolo con la precisa intenzione di cancellare dalla ‘Grande Israele’ biblica la presenza araba, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo, dall’inganno alla strage, dalla spoliazione violenta alla guerra diretta, fino al terrorismo senza freni. I palestinesi erano condannati a priori nel progetto sionista, e lo furono 40 anni prima dell’Olocausto. Quel progetto è oggi il medesimo, i metodi sono ancor più sadici e rivoltanti, e Israele tenterà di non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno nella sua opera di Pulizia Etnica della Palestina. Questo accadde, sta accadendo e accadrà. Questo va detto, illustrato con la sua mole schiacciante di prove autorevoli, va gridato con urgenza, affinché il pubblico apra finalmente gli occhi e possa agire per fermare la barbarie.
In secondo luogo: che la violenza araba-palestinese, per quanto assassina e ingiustificabile (ma non incomprensibile), è una reazione, REAZIONE, disperata e convulsa, a oltre un secolo di progetto sionista come sopra descritto, in particolare a 60 anni di orrori inflitti dallo Stato d’Israele ai civili palestinesi, atrocità talmente scioccanti dall’aver costretto la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani a chiamare per ben tre volte le condotte di Israele “un insulto all’Umanità” (1977, 1985, 2000). La differenza è cruciale: REAGIRE con violenza a violenze immensamente superiori e durate decenni, non è AGIRE violenza. E’ immorale oltre ogni immaginazione invertire i ruoli di vittima e carnefice nel conflitto israelo-palestinese, ed è quello che sempre accade. E’ immorale condannare il “terrorismo alla spicciolata” di Hamas e ignorare del tutto il Grande terrorismo israeliano.
Le prove. Non posso ricopiare qui migliaia di documenti, citazioni, libri, atti ufficiali e governativi, rapporti di intelligence americana e inglese, dell’ONU, delle maggiori organizzazioni per i Diritti Umani del mondo, di intellettuali e politici e testimoni ebrei, e tanto altro, che dimostrano oltre ogni dubbio quanto da me scritto. Quelle prove sono però facilmente consultabili poiché raccolte per voi e rigorosamente referenziate in libri
come “La Pulizia Etnica della Palestina”, di Ilan Pappe, Fazi ed.,
o “Pity The Nation”, di Robert Fisk, Oxford University Press,
e “Perché ci Odiano”, Paolo Barnard, Rizzoli BUR, fra i tantissimi.
O consultabili nei siti
http://www.btselem.org/index.asp,
http://www.jewishvoiceforpeace.org,
http://zope.gush-shalom.org/index_en.html,
http://www.kibush.co.il,
http://rhr.israel.net,
http://otherisrael.home.igc.org.
O ancora leggendo gli archivi di Amnesty International o Human Rights Watch, o ne “La Questione Palestinese” della libreria delle Nazioni Unite a New York.
E torno al “tradimento degli intellettuali” nostrani. Vi sono aspetti di quel fenomeno che sono fin disperanti. Il primo è l’ignoranza in materia di conflitto israelo-palestinese di alcuni di quei personaggi, Marco Travaglio per primo; un’ignoranza non scusabile, per le ragioni dette sopra, ma anche ‘sospetta’ in diversi casi.
Un secondo aspetto è l’ipocrisia: l’evidenza di cui sopra è soverchiante nel descrivere Israele come uno Stato innanzi tutto razzista, poi criminale di guerra, poi terrorista, poi Canaglia, poi persino neonazista nelle sue condotte come potere occupante.
Ricordo il 17 novembre 1948, quando Aharon Cizling, allora ministro dell’agricoltura della neonata Israele, sorta sui massacri dei palestinesi innocenti, disse: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti, e tutta la mia anima ne è scossa”. Ricordo Albert Einstein, che sul New York Times del dicembre 1948 definì l’emergere delle forze di Menachem Begin (futuro premier d’Israele) in Palestina come “un partito fascista per il quale il terrorismo e la menzogna sono gli strumenti”.
Ricordo Ephrahim Katzir, futuro presidente di Israele, che nel 1948 mise a punto un veleno chimico per accecare i palestinesi, e ne raccomandò l’uso nel giugno di quell’anno. Ricordo Ariel Sharon, che sarà premier, e che nel 1953 fu condannato per terrorismo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 101, dopo che ebbe rinchiuso intere famiglie palestinesi nelle loro abitazioni facendole esplodere.
Ricordo l’ambasciatore israeliano all’ONU, Abba Eban, che nel 1981 disse a Menachem Begin: “Il quadro che emerge è di un Israele che selvaggiamente infligge ogni possibile orrore di morte e di angoscia alle popolazioni civili, in una atmosfera che ci ricorda regimi che né io né il signor Begin oseremmo citare per nome”. Ricordo la risoluzione ONU A/RES/37/123, che nel dicembre del 1982 definì il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila sotto la “personale responsabilità di Ariel Sharon” un “atto di genocidio”.
Ricordo le parole dello Special Rapporteur dell’ONU per i Diritti Umani, il sudafricano John Dugard, che nel febbraio del 2007 scrisse che l’occupazione israeliana era Apartheid razzista sui palestinesi, e che Israele doveva essere processata dalla Corte di Giustizia dell’Aja.
Ricordo le parole dell’intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein, i cui genitori furono vittime dell’Olocausto: “Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.”
Ricordo che esistono prove soverchianti che Israele usa bambini come scudi umani; che lascia morire gli ammalati ai posti di blocco; che manda i soldati a distruggere i macchinari medici nei derelitti ospedali palestinesi; che viola dal 1967 tutte le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga; che ammazza i sospettati senza processo e con loro centinai di innocenti; che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili esattamente come Saddam Hussein fece con le sue minoranze shiite; che massacra 19.000 o 1.000 civili a piacimento in Libano (1982, 2006) e poi reclama lo status di vittima del ‘terrorismo’.
Ricordo che il Piano di Spartizione della Palestina del 1947 fu rigettato da Ben Gurion prima ancora che l’ONU lo adottasse, e che esso privava i palestinesi di ogni risorsa importante (dai Diari di Ben Gurion).
Ricordo che la guerra arabo-israeliana del 1948 fu una farsa dove mai l’esercito ebraico fu in pericolo di sconfitta, tanto è vero che Ben Gurion diresse in quei mesi i suoi soldati migliori alla pulizia etnica dei palestinesi (sempre dai Diari di Ben Gurion); che la guerra dei Sei Giorni nel 1967 fu un’altra menzogna, dove ancora Israele sapeva in aticipo di vincere facilmente “in 7 giorni”, come disse il capo del Mossad Meir Amit a McNamara a Washington prima delle ostilità, e mentre l’egiziano Nasser tentava disperatamente di mediare una pace (dagli archivi desecretati della Johnson Library, USA); che gli incontri di Camp David nel 2000 furono un inganno per distruggere Arafat, come ho dimostrato in “Perché ci Odiano” intervistando i mediatori di Clinton; che i governi di Israele hanno redatto 4 piani in sei anni per la distruzione dell’Autorità Palestinese sancita dagli accordi di Oslo mentre fingevano di volere la pace (nomi: Fields of Thorns, Dagan, The Destruction of the PA, ed Eitam); che la tregua con Hamas che ha preceduto l’aggressione a Gaza fu rotta da Israele per prima il 4 novembre del 2008 (The Guardian, 5/11/08 - Ha’aretz, 30/12/08), con l’assassino di 6 palestinesi. E queste sono solo briciole della mole di menzogne che ci hanno raccontato da sempre sulla ’epopea’ sionista.
Ricordo infine Ben Gurion, il padre di Israele, che lasciò scritto: “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba”. E ancora: “C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti”. Quell’uomo pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’OLP, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele.
Ricordo ai nostri ‘intellettuali’ di andarle a leggere queste cose, che sono in libreria accessibili a tutti, prima di emettere sentenze.
E l’ipocrisia sta nel fatto che questi negazionisti di tali orrori storici possono scrivere le enormità che scrivono sulla tragedia di Gaza, sulla Pulizia Etnica dei palestinesi, e possono dichiararsi filo-israeliani “appassionati” (Travaglio) senza essere ricoperti di vergogna dal mondo della cultura, dai giornalisti e dai politici come lo sarebbe chiunque negasse in pubblico l’orrore patito per decenni dalle vittime dell’Apartheid sudafricana, o i massacri di pulizia etnica di Srebrenica e in tutta la ex Jugoslavia.
Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari ’intellettuali’.
Paolo Barnard
Gennaio 2009
Socializzazione su: fondamentalismi e violenza
di Comunità dell’Isolotto di Firenze
Comunicato stampa su Gaza *
La guerra "piombo fuso" è iniziata in giorno di sabato, nella festa delle luci di Hanukkah. Il governo e le forze armate israeliane hanno chiesto e ottenuto dai rabbini l’autorizzazione a violare il "sabato". Non riguarda solo gli ebrei ma ogni coscienza, religiosa e laica, il fatto che nella catena delle cause di un eccidio ci sia una decisione dei rabbini.
Lo Stato di Israele ha tutto il diritto di essere rispettato, anche da posizioni differenti o critiche, nel proclamarsi Stato ebraico. Ma ciò pone alcune questioni su cui bisogna interrogarsi allo scopo di alimentare con razionalità critica il nostro impegno concreto per la fine del massacro e per la pacificazione. Per mantenere il suo carattere ebraico, così come oggi viene concepito, lo Stato di Israele non può ammettere una maggioranza non ebraica nei propri confini. Appare così inevitabile il dominio del fondamentalismo religioso e il mito di uno Stato che sopravvive solo grazie alla ragione della forza e alla propria capacità militare. Il dominio del fondamentalismo si accompagna sempre al dominio della violenza.
La situazione di Hamas è speculare. La società palestinese, che era una delle realtà più laiche nel panorama del mondo islamico, rischia di cadere sotto il dominio del fondamentalismo di cui Hamas è espressione. I due fondamentalismi, quello ebraico e quello islamico si alimentano reciprocamente, così come il mito della violenza sovrana. In Occidente non siamo estranei a una simile tendenza. Sappiamo quanto le nostre società siano influenzate se non dominate da correnti fondamentaliste, sia nel campo religioso sia in quello politico, le quali aprono scenari di scontro di civiltà. Lo afferma anche la Sinistra Cristiana in un documento.
La nostra speranza è che tanto l’ebraismo quanto l’islamismo, nella cui storia è parte così significativa la componente profetica, diano spazio e voce oggi a tale componente. Saranno così in grado di offrire l’esempio di una fede laica, in dialogo con tutte le religioni e le culture, capace di favorire la rottura della spirale della violenza e il raggiungimento della pace. Il superamento dei fondamentalismi religiosi e delle idolatrie politiche è un problema che mette in questione tutti. Insieme sarà più facile uscirne.
Firenze 8 gennaio 2008
LA QUESTIONE MORALE DEL NOSTRO TEMPO
di ALI RASHID e MONI OVADIA (il manifesto, 8 gennaio 2009)
Le immagini che giungono da Gaza ci parlano di una tragedia di dimensioni immani e le parole non bastano per esprimere la nostra indignazione. Col passare dei giorni cresce la barbarie che insieme alla vita, alle abitazioni, agli affetti, ai luoghi della cultura e della memoria, distrugge in tutti noi l’umanita’ e con essa il sogno e la speranza. E deforma in noi il buon senso, mortifica la cultura del diritto, forgiata dalle tragedie del secolo passato per prevenirne la ripetizione.
Cosi’ diventano carta straccia le convenzioni internazionali e le norme basilari del diritto internazionale nonche’ le sue istituzioni, paralizzate dai veti e svuotate di autorevolezza oltre che di strumenti per l’agire.
Cosi’ crescono l’odio e il rancore, si radicalizzano le posizioni e le distanze diventano incomunicabilita’. Le stesse responsabilita’ si confondono, tanto che la vita in una prigione a cielo aperto diviene la normalita’, l’invasione di uno degli eserciti piu’ potenti del mondo e’ alla stessa stregua di un atto pur esecrabile di terrorismo.
Ma cosi’ non si aiuta la pace, che e’ fatta in primo luogo di ascolto, dialogo e compromesso. Certo, anche di diritto, ma abbiamo visto che per questa sola via sessant’anni non sono bastati e dopo ogni crisi ci si e’ ritrovati con un po’ di rancore in piu’ e di certezza del diritto in meno.
Noi sappiamo che l’occupazione genera resistenza, la guerra rafforza il terrorismo, la violenza cambia le persone e i fondamentalismi si alimentano reciprocamente. Ma abbiamo anche imparato in tutti questi anni che gli obiettivi di pace, sicurezza e prosperita’ non passano attraverso l’uso della forza delle armi, ma attraverso l’adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa e l’avvio di un processo di riconoscimento reciproco, del dolore dell’altro in primo luogo, che e’ il primo passo verso la riconciliazione.
Al contrario, ogni volta che ci si e’ avvicinati ad un compromesso accettabile, il ricorso scellerato alla violenza, all’assassinio premeditato, all’annichilimento dell’altro, e’ servito a demolire cio’ che si era pazientemente costruito, quel po’ di fiducia reciproca in primo luogo. Il tutto viene poi complicato dal peso della storia che in questo contesto, nel rapporto fra Europa, "Terrasanta" e Medio Oriente, agisce come un macigno non elaborato, generando falsa coscienza, ipocrisia, irresponsabilita’.
L’esito e’ stato l’incancrenirsi di una questione, quella palestinese, che ha avuto ed ha effetti destabilizzanti in tutta la regione ed anche oltre, diventando - come ebbe a definirla Nelson Mandela - "la questione morale del nostro tempo".
Di questo vulnus si sono nutriti in questi anni il terrorismo e il fondamentalismo, regimi autoritari e cultori dello scontro di civilta’. A pagare sono state le popolazioni della regione, sono i bambini e i ragazzi cresciuti in un contesto di odio, di violenza e di paura, ma anche la democrazia e la cultura laica che pure traevano vigore dalle tradizioni ebraiche e arabo-palestinesi.
Cosi’ anche da questa guerra, assassina e stupida come ogni guerra, a trarne vantaggio saranno solo i fondamentalismi e chi pensa che la soluzione possa venire dall’annichilimento dell’avversario.
Come hanno scritto nei giorni scorsi Vaclav Havel, Desmond Tutu ed altri uomini di cultura, "quello che e’ in gioco a Gaza e’ l’etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l’arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignita’ umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l’entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud, divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina".
Per questo facciamo appello alle persone che amano la pace e che vedono nella tragedia di queste ore la loro stessa tragedia, di fare tutto cio’ che e’ nelle loro possibilita’ affinche’ vi sia
l’immediato, totale, cessate il fuoco - non la beffa delle "tre ore";
la fine dell’assedio sulla Striscia di Gaza e il rispetto delle istituzioni palestinesi democraticamente elette;
l’intervento di una forza di pace internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza lungo i confini del ’67;
l’avvio di un negoziato per arrivare ad una soluzione politica basata sul rispetto dei diritti dei popoli, delle minoranze e della persona, nell’ambito di un processo che possa garantire nell’immediato confini sicuri per lo Stato di Israele e per lo Stato di Palestina;
la creazione di un comitato per la pace in Palestina, che superi i limiti e le strumentalizzazioni che hanno caratterizzato le iniziative degli ultimi anni;
l’adesione delle persone e delle associazioni che hanno a cuore la pace in Medio Oriente per impedire che il conflitto si trasformi in guerre di religione e tra civilta’, con la promozione di iniziative su tutto il territorio italiano e la convocazione di una manifestazione nazionale al piu’ presto.
Nondimeno, in un contesto dove l’interdipendenza e’ il tratto del nostro tempo e come persone che hanno comuni radici mediterranee, non smettiamo di pensarci come cittadini di una comune regione post-nazionale euromediterranea, parte di una cultura che - attraverso la storia di conflitti tra citta’ e campagna, o nella concorrenza tra fede e sapere, o nella lotta tra i detentori del dominio politico e le classi antagoniste - si e’ lacerata piu’ di tutte le altre culture e non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le differenze possano comunicare.
In questo spirito ci impegniamo a ricostruire quel che la guerra sta abbattendo, i ponti fra le persone, le culture, i luoghi della pace in e fra entrambe le societa’, per creare nuovi terreni di relazione e collaborazione fra l’Italia e la Palestina, intensificando altresi’ gli atti di solidarieta’ verso tutte le vittime, in modo particolare la popolazione della Striscia di Gaza.
Per le adesioni a questo appello: paceinpalestina@gmail.com
«Pronto un mio piano per risolvere la situazione a lungo termine»
«Appena insediato agirò senza indugi»
Obama e la questione mediorientale: il silenzio non è indifferenza, ma rispetto per la Costituzione
MILANO - Il sostanziale silenzio del presidente eletto Barack Obama sulla questione mediorientale non è indifferenza, bensì rispetto della costituzione americana e del ruolo di George W. Bush che fino al prossimo 20 gennaio sarà alla guida della Casa Bianca e del governo americano. E’ stato lo stesso Obama a sottolinearlo nel corso di una conferenza stampa a Washington. - Obama ha ribadito il principio secondo il quale non possono coesistere «due diplomazie» nello stesso momento, anche in presenza di una crisi come quella di Gaza: «Il mio silenzio - ha puntualizzato - non significa indifferenza».
«PROFONDAMENTE PREOCCUPATO» - Il presidente eletto Barack Obama inoltre ha ribadito di essere «profondamente preoccupato» per la situazione a Gaza. Obama ha aggiunto di «non poter fare altri commenti» finchè non sarà insediato alla Casa Bianca perchè gli Stati Uniti «possono avere solo un presidente alla volta». «Non appena sarò presidente agirò immediatamente per affrontare la situazione in Medio Oriente non solo sul problema a breve termine ma anche su quelli a lungo termine», ha aggiunto Obama.
* Corriere della Sera, 07 gennaio 2009
Ansa» 2009-01-06 19:50
GAZA: STRAGE RIFUGIATI IN SCUOLA, 40 UCCISI
GAZA - Sono almeno 40 i palestinesi uccisi dall’attacco israeliano alla scuola gestita dall’Onu a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza. Lo riferiscono fonti concordanti mediche e testimoni.
ISRAELE NELLA ROCCAFORTE DI HAMAS
Al terzo giorno dell’ offensiva terrestre contro la Striscia di Gaza, le truppe israeliane proseguono nella loro avanzata su Gaza City e stamani i carri armati sono entrati prima dell’alba a Khan Younes, la principale citta’ nel Sud della Striscia. Dal canto suo, Hamas ha per la prima volta fatto ricorso a razzi di gittata maggiore di quelli sinora esplosi e ne ha scagliati alcuni che hanno raggiunto stamani la citta’ di Ghedera, 45 km a Nord-Est dalla Striscia e appena 40 km. da Tel Aviv. Razzi sono caduti anche ad Ashdod, Yavne e Beer Sheva. Appoggiati da elicotteri da combattimento, i carri di Israele hanno sparato contro gruppi armati di Hamas e di altri gruppi islamici che hanno risposto al fuoco.
L’odierna incursione nel quartiere di Abassa (a Est di Khan Younes), e’ la prima delle forze israeliane in una roccaforte di Hamas dall’inizio dell’offensiva di terra. Duri scontri sul campo sono divampati anche a Deir el-Balah e Bureij, nella zona centrale della Striscia. Altri scontri sono avvenuti nel campo profughi di Jabaliya, a Nord di Gaza City, dove l’esercito ha probabilmente ucciso un capo militare di Hamas, Iman Siam, che secondo i servizi segreti israeliani e’ il responsabile dei progetti di lanci di razzi.
Mentre stamani il presidente francese Nicolas Sarkozy arrivava a Damasco e chiedeva alla Siria di esercitare pressioni su Hamas perche’ cessi di usare le armi, sono proseguiti i raid aerei e i bombardamenti dal mare. A Deir el-Balah, in particolare, secondo quanto riferito da fonti mediche palestinesi, l’artiglieria navale ha fatto almeno 10 morti, ma la notizia non ha ancora avuto conferma in Israele.
Nella serata di ieri tre soldati israeliani sono morti ed altri 24 sono rimasti feriti a causa di un colpo esploso per errore contro la loro postazione da un carro armato di Israele durante i combattimenti nel Nord della Striscia, mentre un ufficiale dei paracadutisti israeliani e’ rimasto ucciso la scorsa notte sempre nella stessa zona.
Secondo la radio militare e’ possibile che anch’egli sia stato colpito da ’’fuoco amico’’. Complessivamente sinora sono caduti a Gaza cinque militari israeliani. Sul fronte palestinese, secondo l’agenzia palestinese Maan, sono almeno 19 i morti oggi a Gaza nel corso dei combattimenti fra miliziani e l’esercito.
Tra questi vi sono tre civili morti in una scuola dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, colpita da un missile israeliano. Secondo un portavoce dell’esercito, da quando e’ iniziata l’offensiva nella Striscia di Gaza sono stati uccisi 130 combattenti di Hamas. Fonti palestinesi sono ferme alla cifra di 575 palestinesi uccisi e piu’ di 2.000 feriti, con riferimento pero’ a tutto il periodo dell’offensiva iniziata con raid aerei il 27 dicembre
CROCE ROSSA, CRISI UMANITARIA ’TOTALE’
E’ in continua crescita il numero di civili uccisi nella striscia di Gaza, zona che si trova in una crisi umanitaria ’’totale’’ mentre va avanti l’offensiva israeliana. E’ questa la denuncia fatta oggi dal Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). ’’Non ho parole per dire quanto a questo punto, al CICR, siamo preoccupati e ansiosi per la crisi a Gaza’’, ha detto ai giornalisti Pierre Kraehenbuehl, il capo delle operazioni della organizzazione umanitaria con sede a Ginevra. ’’Siamo estremamente preoccupati - ha aggiunto - per il numero crescente di civili morti e feriti, e per il numero crescente di infrastrutture civili, tra cui ospedali, colpite dalle operazioni militari israeliane’’.
Secondo Kraehenbuehl, ’’la situazione per la popolazione di Gaza e’ traumatizzante e ha raggiunto un punto estremo, dopo dieci giorni di combattimenti ininterrotti’’. Lo staff del CICR a Gaza ha descritto la notte scorsa, tra lunedi’ e martedi’, come ’’la piu’ spaventosa fino ad adesso’’. Anche se l’acceso al territorio e’ stato agevolato, il problema e’ che non si riesce a fare arrivare i soccorsi fino alle vittime a causa dell’intensita’ dei combattimenti, ha spiegato Kraehenbuehl. ’’Attualmente - ha detto - la cosa piu’ difficile e’ poter spostarsi nella striscia di Gaza’’.
Pessime ragioni
di Rossana Rossanda (il manifesto, 6 gennaio 2008)
Che cosa persegue realmente Israele con i bombardamenti e l’invasione di Gaza? Certo non quello che dichiarano Tzipi Livni e Ehud Barak. Sono troppo intelligenti per farsi trasportare dall’antica paura che i modestissimi missili di Hamas distruggano il loro paese. Quando hanno iniziato la rappresaglia i Qassam tirati da Gaza avevano ucciso tempo fa una persona, ferito alcune, fatto danni minori su Sderot, incomparabili con i cinquecento morti, migliaia di feriti e le distruzioni inflitti da Tsahal alla Striscia in tre giorni, e che continuano a piovere. Né che siano mirati a distruggere le infrastrutture di Hamas, sapendo bene l’intrico che esse hanno con gli insediamenti civili, tanto da impedire alla stampa estera di accedere a Gaza. Né sono così disinformati da creder che si possa distruggere con le armi Hamas, votata da tutto un popolo, come se ne fosse una superfetazione districabile. Sono al contrario coscienti che l’aggressione aumenterà il peso e l’influenza sulla gente di Gaza oggi e in Cisgiordania domani, contro l’indebolito Mahmoud Abbas. Né gli sarebbe possibile ammazzarli tutti, ci sono limiti che neanche il paese più potente può varcare, ammesso che abbia il cinismo di farlo, e tanto meno all’interno del mondo musulmano che circonda Israele e nel quale, dunque con il quale, intende vivere.
Gli obiettivi sono dunque altri.
Primo, battere nelle imminenti elezioni Netanyahu, che si presenta come il vero difensore a oltranza di Israele. Già le possibilità appaiono ridotte; l’assalto a Gaza sembra sotto questo aspetto una mossa disperata. Che sia anche crudelissima è un altro conto, siamo qui per ragionare.
Secondo, usare le ultime settimane di Bush alla Casa Bianca per mettere la nuova presidenza americana davanti al fatto compiuto. Il silenzio assordante di Obama è già un risultato, quali che siano le circostanze formali che gli rendono difficile parlare su questo, mentre si esprime su altri problemi di ordine interno. Non è ancora insediato che si trova nelle mani una patata bollente, causa prima e annosa di quella caduta dell’immagine americana nel mondo che ha più volte detto di voler restaurare. Queste sono le carte che Olmert, Livni e Barak deliberatamente giocano in una prospettiva a breve.
Neanche Hamas si è mossa sulla semplice onda di un giustificato risentimento. I suoi dirigenti hanno visto benissimo in quale situazione il governo israeliano si trovava quando hanno deciso di rompere l’approssimativa tregua, sapendo anche che per modesti che siano i guasti prodotti dai Qassam nessun governo può presentarsi alle elezioni con una sua zona di confine presa di mira tutti i giorni. Anch’essi puntano a far cadere Olmert, già fuori gioco, la Livni e Barak, secondo la logica propria delle minoranze accerchiate di produrre il massimo danno perché la situazione si rovesci. Gaza è stata messa, e non da ieri, agli estremi, periscano Sansone e tutti i filistei.
Si può capire, ma è una logica reciproca a quella di Israele. Non ritenevano certo che quei modesti spari di missili l’avrebbero distrutta e convertita alla pace. E anch’essi puntano a mettere la nuova amministrazione americana davanti a un incendio che non tollera rinvii. Lo sa la Lega Araba, lo sa l’Iran. Obama ha fatto molte promesse di cambiamento, e lo sfidano a mantenerle o a discreditarsi subito.
Tanto più colpevole di questo sanguinoso sviluppo, che la gente di Gaza paga atrocemente, è l’inerzia dell’Europa. Essa, che sulla questione ebraica ha responsabilità maggiori di chiunque al mondo, nulla ha fatto per impedire che si arrivasse a questa catastrofe. Ne aveva la possibilità? Certo. Poteva mettere, a condizione ineludibile dell’alleanza atlantica e della Nato, e soprattutto quando con la caduta dell’Urss ne venivano meno le conclamate ragioni, la soluzione del nodo Israele-Palestina, sul quale gli Usa erano determinanti, per adempiere alle disposizioni dell’Onu.
Più recentemente, doveva riparare a costo di svenarsi all’assedio di Gaza, dove non ignorava che la mancanza di mezzi elementari di sussistenza, cibo, acqua, elettricità, medicinali, faceva altrettanti morti di quanti stanno facendo adesso gli aerei e i blindati di Tsahal. Ma neanche questi hanno fatto muovere altro che il presidente francese, a condizione che le sue vacanze fossero finite.
Siamo un continente che fa vergogna.
Marcia dei folli. La schizofrenia di Israele tra la macerie della striscia
Prima di demonizzarlo e bombardarlo a Gaza, Hamas e’ stato appoggiato da Tel Aviv, per contrastare l’Olp. E con i raid di oggi, lo Stato ebraico non fara’ altro che rafforzare il movimento islamico"
di URI AVNERY (il manifesto, 4 gennaio 2009)
Appena dopo la mezzanotte, l’emittente araba di Al Jazeera stava trasmettendo le notizie degli eventi di Gaza. Improvvisamente la telecamera ha inquadrato in alto, verso il cielo scuro. Lo schermo era nero fondo, non si riusciva a distinguere niente. Ma c’era un suono che si poteva sentire: il rumore degli aerei da guerra, uno spaventoso, terrificante boato. Era impossibile non pensare alle decine di migliaia di bambini di Gaza che stavano sentendo, nello stesso momento, quel suono, paralizzati dalla paura, in attesa delle bombe dal cielo.
"Israele deve difendersi dai razzi che stanno terrorizzando le nostre citta’ del sud", ha spiegato il portavoce israeliano. "I palestinesi devono rispondere alle uccisioni dei loro combattenti nella Striscia di Gaza", ha dichiarato il portavoce di Hamas. Per essere esatti, nessun cessate il fuoco e’ stato interrotto, perche’ nessun cessate il fuoco era mai iniziato. Il requisito principale di ogni cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deve essere l’apertura dei passaggi. Non ci puo’ essere vita a Gaza senza un flusso costante di rifornimenti. Ma le frontiere non sono state aperte, se non poche ore ogni tanto. Bloccare un milione e mezzo di esseri umani per via di terra, mare e aria e’ un atto di guerra, esattamente come il lancio delle bombe o dei razzi. Paralizza la vita nella Striscia di Gaza: elimina gran parte delle fonti che creano occupazione, porta centinaia di migliaia di persone al limite della morte per fame, blocca il funzionamento della maggior parte degli ospedali, distrugge la distribuzione di elettricita’ e d’acqua.
Coloro che hanno deciso di chiudere i passaggi - sotto qualsivoglia pretesto - sapevano che non ci sarebbe stato nessun reale cessate il fuoco in queste condizioni. Questo e’ il fatto principale. Poi ci sono state piccole provocazioni volte deliberatamente a suscitare la reazione di Hamas.
Dopo diversi mesi durante i quali i razzi Qassam a malapena si sono visti, un’unita’ dell’esercito e’ stata inviata nella Striscia "per distruggere un tunnel che arrivava vicino alla recinzione della frontiera". Da un punto di vista puramente strategico, avrebbe avuto piu’ senso tendere un’imboscata sul nostro lato della frontiera. Ma lo scopo era quello di trovare un pretesto per metter fine al cessate il fuoco, in una maniera che consentisse di addossare la colpa ai palestinesi. E cosi’ e’ stato, dopo diverse piccole azioni del genere, nelle quali alcuni guerriglieri di Hamas sono stati uccisi, Hamas ha risposto con un massiccio lancio di missili, ed ecco, il cessate il fuoco e’ giunto alla fine. Tutti hanno incolpato Hamas.
Qual e’ lo scopo? Tzipi Livni lo ha annunciato apertamente: rovesciare il governo di Hamas a Gaza. I Qassam sono serviti solo come pretesto.
Rovesciare il governo di Hamas? Suona quasi come un capitolo estratto dalla "Marcia dei folli". Dopo tutto non e’ un segreto che fu il governo israeliano a supportare Hamas, all’inizio. Una volta interrogai su questo l’allora capo dello Shin-Bet, Yakakov Peri, che rispose enigmaticamente: "Non lo abbiamo creato noi, ma non abbiamo impedito la sua creazione".
Per anni le autorita’ d’occupazione promossero il movimento islamico nei territori occupati. Ogni altra iniziativa politica era rigorosamente soppressa, ma la loro attivita’ nelle moschee era permessa. Il calcolo era semplice, e ingenuo: al tempo l’Olp era considerato il nemico principale, Yasser Arafat il satana. Il movimento islamico predicava contro l’Olp e Arafat ed era percio’ visto come un alleato.
Con l’esplodere della prima intifada nel 1987, il movimento islamico si rinomino’ ufficialmente Hamas (l’acronimo arabo di "movimento islamico di resistenza") e si uni’ alla lotta. Anche allora lo Shin-bet non mosse un dito contro di loro per quasi un anno, mentre i membri di Fatah erano imprigionati o uccisi in gran numero. Solo dopo un anno lo sceicco Ahmed Yassin e i suoi colleghi furono arrestati. Da allora la ruota ha girato.
Hamas e’ il satana odierno, e l’Olp e’ considerato da molti in Israele quasi una branca del movimento sionista. La conclusione logica per un governo di Israele interessato alla pace sarebbe stata quella di fare ampie concessioni alla leadership di Fatah: la fine dell’occupazione, la firma di un trattato di pace, la fondazione dello stato di Palestina, il ritiro entro i confini del 1967, una soluzione ragionevole al problema dei rifugiati, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Questo avrebbe sicuramente arrestato l’ascesa di Hamas.
Ma la logica ha una scarsa influenza sulla politica. Niente del genere e’ accaduto. Al contrario, dopo l’uccisione di Arafat, Abu Mazen, che ha preso il suo posto, e’ stato definito da Ariel Sharon "un pollo spennato". Ad Abu Mazen non e’ stato concesso il minimo margine di operativita’ politica. I negoziati, sotto gli auspici americani, sono diventati una barzelletta. Il piu’ autentico leader di Fatah, Marwan Barghouti, e’ stato mandato in carcere a vita. Al posto di un massiccio rilascio di prigionieri, ci sono stati "segnali" meschini e offensivi.
Abu Mazen e’ stato umiliato sistematicamente, Fatah ha assunto l’aspetto di una conchiglia vuota, e Hamas ha ottenuto una sonante vittoria alle elezioni palestinesi - le elezioni piu’ democratiche mai tenute nel mondo arabo.
Israele ha boicottato il governo eletto. Nella successiva battaglia interna, Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. E ora, dopo tutto cio’, il governo di Israele ha deciso di "rovesciare il governo di Hamas a Gaza".
Il nome ufficiale dell’azione bellica e’ "piombo fuso", due parole tratte da una canzone infantile su un giocattolo di Hanukkah. Sarebbe stato piu’ appropriato chiamarla "guerra delle elezioni". Anche nel passato le azioni militari sono state intraprese durante campagne elettorali. Menachem Begin bombardo’ il reattore nucleare iracheno durante la campagna del 1981. Quando Shimon Peres affermo’ che si trattava di una trovata elettorale, Begin alzo’ la voce al comizio seguente: "Ebrei, davvero credete che io potrei mandare i nostri figli coraggiosi alla morte, o, peggio ancora, ad esser fatti prigionieri da degli animali, solo per vincere le elezioni?". Begin vinse.
Ma Peres non e’ Begin. Quando, durante la campagna del 1996, ordino’ l’invasione del Libano, tutti erano convinti che si trattasse di una trovata elettorale. La guerra fu un fallimento, Peres perse le elezioni e Netanyahu sali’ al potere. Barak e Tzipi Livni stanno ora ricorrendo allo stesso vecchio trucco. Secondo i sondaggi, la prevista vittoria di Barak gli ha fatto guadagnare 5 seggi della Knesset. Circa 80 morti palestinesi per ogni seggio. Ma e’ difficile camminare sui cadaveri. Il successo potrebbe evaporare in un istante, se la guerra cominciasse a essere considerata un fallimento dall’opinione pubblica israeliana. Per esempio, se i missili continuano a colpire Beersheba, o se l’attacco di terra porta a un pesante numero di vittime tra gli israeliani.
Il momento e’ stato scelto con cura anche da un altro punto di vista. L’attacco e’ cominciato due giorni dopo Natale, quando i leader americani e europei sono in vacanza. Il calcolo: anche se qualcuno volesse provare a fermare la guerra, nessuno rinuncerebbe alle vacanze. Il che ha garantito diversi giorni senza alcuna pressione esterna. Un’altra ragione che rende il momento appropriato: sono gli ultimi giorni della permanenza di Bush alla Casa bianca. Ci si aspettava che questo idiota assetato di sangue appoggiasse entusiasticamente l’attacco, come in effetti ha fatto. Barack Obama non ha ancora iniziato il suo incarico, e ha quindi un pretesto per rimanere in silenzio: "C’e’ un solo presidente". Questo silenzio non fa presagire nulla di buono per il mandato di Obama.
La linea fondamentale e’ stata: non bisogna ripetere gli errori della seconda guerra del Libano. Questo e’ stato ripetuto incessantemente in ogni notiziario e talk show. Ma cio’ non toglie che la guerra di Gaza sia una replica pressoche’ identica della seconda guerra del Libano. Il concetto strategico e’ lo stesso: terrorizzare la popolazione civile attraverso attacchi aerei costanti, seminando morte e distruzione. I piloti non corrono alcun pericolo, in quanto i palestinesi non hanno una contraerea.
Il calcolo: se tutte le infrastrutture che consentono la vita nella Striscia sono letteralmente distrutte, e si arriva quindi alla totale anarchia, la popolazione si sollevera’ e rovescera’ il regime di Hamas. Abu Mazen rientrera’ poi a Gaza al seguito dei carri armati israeliani. In Libano questo calcolo non ha funzionato. La popolazione bombardata, cristiani inclusi, si e’ raccolta attorno a Hezbollah, e Nashrallah e’ diventato l’eroe del mondo arabo. Qualcosa di simile accadra’ probabilmente anche questa volta. I generali sono esperti nell’usare le armi e nel muovere le truppe, non nella psicologia di massa.
Qualche tempo fa scrissi che il blocco di Gaza puo’ essere inteso come un esperimento scientifico, mirato a scoprire quanto si puo’ affamare una popolazione prima che scoppi. Questo esperimento e’ stato portato avanti con il generoso aiuto dell’Europa e degli Stati Uniti. Finora non e’ riuscito.
Hamas e’ diventato piu’ forte e la gittata dei Qassam piu’ lunga. La presente guerra e’ una continuazione dell’esperimento con altri mezzi.
Potrebbe essere che l’esercito "non abbia alternativa" se non riconquistare la Striscia, perche’ non c’e’ altro modo per fermare i Qassam, se non quello - contrario alla politica del governo - di arrivare a un accordo con Hamas. Quando partira’ la missione di terra, tutto dipendera’ dalla motivazione e dalla capacita’ dei combattenti di Hamas rispetto ai soldati israeliani. Nessuno puo’ prevedere quanto accadra’.
Giorno dopo giorno, notte dopo notte, Al Jazeera trasmette immagini atroci: brandelli di corpi mutilati, parenti in lacrime in cerca dei loro cari tra le dozzine di cadaveri, una donna che solleva la sua bambina da sotto le macerie, dottori senza mezzi che cercano di salvare le vite dei feriti.
In milioni stanno vedendo queste immagini terribili, giorno dopo giorno. Queste immagini saranno impresse nella loro mente per sempre. Un’intera generazione coltiva l’odio. Questo e’ un prezzo terribile, che saremo costretti a pagare ancora a lungo dopo che gli altri effetti della guerra saranno stati dimenticati in Israele.
Ma c’e’ un’altra cosa che si sta imprimendo nelle menti di questi milioni: l’immagine dei corrotti e passivi regimi arabi. Visto dagli arabi, un fatto s’impone su tutti gli altri: il muro della vergogna. Per il milione e mezzo di arabi a Gaza, che stanno soffrendo cosi’ terribilmente, l’unica apertura al mondo che non sia dominata da Israele e’ il confine con l’Egitto. Solo da li’ puo’ arrivare il cibo che consente la vita, da li’ arrivano i medicinali che salvano i feriti. Al culmine dell’orrore questo confine resta chiuso. L’esercito egiziano ha bloccato l’unica via d’accesso per cibo e medicinali, mentre i chirurghi operano senza anestetici.
Per il mondo arabo, da un capo all’altro, hanno fatto eco le parole di Hassan Nashrallah: "I leader egiziani sono complici in questo crimine, stanno collaborando con il ’nemico sionista’ che cerca di distruggere il popolo palestinese". Si puo’ assumere che non intendesse solo Mubarak, ma anche tutti gli altri leader, dal re saudita al presidente dell’Anp. Se si guarda alle manifestazioni in tutto il mondo arabo, se si ascoltano gli slogan, se ne deduce l’impressione che i loro leader sono visti da molti come patetici nel migliore dei casi, come meschini collaborazionisti nel peggiore.
Questo avra’ conseguenze storiche. Un’intera generazione di leader arabi, una generazione imbevuta dell’ideologia nazionalista secolare araba - i successori di Nasser, di Hafez al-Assad e Yasser Arafat - sara’ messa fuori scena. In campo arabo, l’unica alternativa percorribile e’ l’ideologia del fondamentalismo islamico.
Questa guerra e’ un presagio infelice: Israele sta perdendo l’occasione storica di fare la pace con il nazionalismo arabo secolare. Domani potrebbe essere davanti a un mondo arabo uniformemente fondamentalista, un Hamas mille volte piu’ grande.
MEDIO ORIENTE IN FIAMME - DIPLOMAZIE AL LAVORO
Livni e Mubarak, doppio no
alla tregua proposta dalla Ue
L’Egitto non ospiterà osservatori
sul suo territorio, Israele va avanti
di MARCO ZATTERIN CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
Tzipi Livni ha detto «no», non vuol sentire parlare di tregua perché «noi combattiamo i terroristi e non faremo accordi con loro». Come la responsabile della diplomazia israeliana, anche il presidente egiziano Hosni Mubarak ha gelato l’Europa, non intende avere osservatori sul proprio territorio alla frontiera con la Striscia. Così, in una sola giornata, la missione Ue ha incassato due brutti colpi che, oltretutto, sottolineano la confusione dell’azione comunitaria, condotta in modo parallelo dalla presidenza di turno ceca e da Nicolas Sarkozy. Il governo italiano intensifica i contatti con le altre capitali, mentre il buonsenso trionfa nelle parole del Quirinale che auspica «una sospensione delle ostilità per riaprire una prospettiva di pace».
Sul fronte palestinese si combatte, ma su quello del dialogo è sempre il giorno zero. La troika europea guidata dal ministero degli esteri della Repubblica Ceca, Karel Schwarzenberg, e dal responsabile Ue delle relazioni esterne, Javier Solana, ha fatto tappa domenica al Cairo per colloqui con gli uomini di Mubarak. Se ci fosse un accordo sul cessate il fuoco, ha proposto lo spagnolo, osservatori potrebbero monitorare alla frontiera egiziana il traffico di armi verso Gaza, nodo considerato cruciale per ottenere il consenso israeliano. L’idea, però, non ha raccolto consensi degni di nota. Ieri è stata la volta della Livni, negativa su tutto, d’altro canto non si capisce perché dovrebbe cedere subito ad una missione goffa. Nonostante questo, sostiene di avere una strategia il premier ceco, leader di turno degli europei, Mirek Topolanek. Dopo aver telefonato all’omologo turco Recep Tayyip Erdogan e alla cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto sapere di avere uno «scenario di soluzione» con «l’obiettivo minimo» di «far tacere i cannoni». Nel pomeriggio ha avuto un colloquio anche con Silvio Berlusconi. I due hanno «stabilito di mantenere uno stretto coordinamento tra la presidenza italiana del G8 e quella ceca dell’Ue». Erdogan, nel frattempo, ha accusato Israele: «E’ il principale responsabile, non vuole porre fine al conflitto», ha detto ad Al Jazeera.
Anche Sarkozy, in qualità di copresidente dell’Unione del Mediterraneo, ha visto Mubarak. Senza risultati, pare, se n’è poi partito alla volta di Gerusalemme, per un confronto la Livni, con la quale non è già riuscito ad intendersi la scorsa settimana. Prima, si è intrattenuto con il presidente palestinese Abu Mazen. «Chiedo la fine immediata e senza condizioni dell’aggressione israeliana contro il mio popolo», ha detto l’arabo. «Noi europei vogliamo un cessate il fuoco il più presto possibile - gli ha fatto eco l’uomo dell’Eliseo -: il tempo lavora contro la pace». Il Consiglio di Sicurezza, ha aggiunto, «deve assumersi le proprie responsabilità per un immediato cessate il fuoco». Gli Stati arabi hanno preparato per l’Onu un documento che auspica la tregua e il dispiegamento di osservatori internazionali. Abu Mazen ha anche tenuto a sottolineare che esclude di tornare a Gaza grazie alla sconfitta militare di Hamas per mano di Israele: «Non accetteremo che la patria venga riunita con la forza delle armi, ma solo col dialogo».
Sarkozy ha cercato a sua volta un dialogo internazionale, chiamando la Merkel, Erdogan e il primo ministro spagnolo, José Luis Rodriguez Zapatero, che è stato ieri uno dei più duri critici di Israele. Lanciando un un appello per il «cessate il fuoco immediato», ha dichiarato che «non esiste una soluzione militare per la crisi» e ha ammonito «sulla base dei legami di amicizia con il governo israeliano, che questo non è il cammino che condurrà alla pace ed alla sicurezza del suo popolo». Il governo italiano segue a distanza gli eventi. Il presidente Giorgio Napolitano parla di «situazione dura» a Gaza e auspica «l’apertura di una prospettiva di pace».
A proposito delle polemiche interne, il capo della Stato ha concesso di non vedere «grandi divergenze tra i partiti italiani: si tratta di trovare un punto di incontro tra il diritto di Israele alla sicurezza, e quello dei palestinesi al loro Stato indipendente». Il presidente dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, afferma che la posizione del Colle è «quella italiana». Il ministro degli Esteri Frattini si dice pronto ad andare nei Territori «quando la situazione sarà matura». «Noi soffriamo per le vittime civili palestinesi - ha detto - ma Israele ha diritto di difendersi dai missili che piovono sui villaggi». Domani, il titolare dalla Farnesina riferirà alla Camera sullo sviluppo della situazione.
Ansa» 2009-01-05 16:45
GAZA CITY ISOLATA, ISRAELE AVANZA. NAPOLITANO: AUSPICO TREGUA
GAZA - La citta’ di Gaza e’ stata parzialmente isolata mentre in tutta la Striscia continua l’avanzata delle truppe israeliane e proseguono anche i bombardamenti dal cielo e dal mare contro obiettivi del movimento integralista palestinese Hamas. Lo ha affermato stamani il ministro della difesa israeliano Ehud Barak secondo il quale le operazioni militari nella Striscia stanno procedendo in conformita’ con i piani e che sono stati conseguiti gli obiettivi previsti in questa fase dell’offensiva.
Secondo Barak ’’Hamas ha subito un duro colpo’’ ma Israele non ha ancora raggiunto i suoi obiettivi finali. Percio’ le operazioni militari andranno avanti in parallelo con l’attivita’ diplomatica internazionale.
Resta spavaldo l’atteggiamento di Hamas, un cui alto dirigente, Mahmoud al-Zahar, nel suo primo intervento televisivo dall’inizio dell’offensiva israeliana, ha promesso oggi la ’’vittoria’’ del suo movimento nei confronti di Israele. In nottata, intanto, i caccia con la stella di David avevano colpito una trentina di obiettivi, tra cui una moschea di Jabaliya adibita a deposito d’armi, case in cui erano stipate munizioni e veicoli con a bordo lanciarazzi e uomini armati. Oltre una dozzina di razzi sono intanto caduti in mattinata in diverse localita’ nel sud di Israele, tra cui Gadera e Kiriat Malachi che distano da Gaza decine di chilometri, senza causare vittime. Almeno cinque razzi sono caduti su Beersheva e Ashqelon. In quest’ultima località nove persone sono state ricoverate nel locale ospedale per ferite apparentemente non gravi.
Secondo fonti militari negli scontri in corso a Gaza oltre a un soldato ucciso ieri sono finora stati feriti altri 53 suoi commilitoni, quattro dei quali in gravi condizioni. Fonti palestinesi, da parte loro, hanno stimato il numero dei palestinesi uccisi a Gaza in almeno 524, in parte civili. Negli scontri della scorsa notte e stamane, secondo le stesse fonti, una dozzina di civili sono stati uccisi e tra questi almeno tre bambini. Le autorita’ israeliane hanno intanto autorizzato l’ingresso a Gaza di un convoglio di decine di autocarri con aiuti umanitari.
Sul piano diplomatico, oggi e’ atteso in Israele la troika europea, reduce dall’Egitto, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, fattosi promotore dell’iniziativa europea tesa a ottenere un cessate il fuoco, mentre ad Ankara si rechera’ il ministro degli esteri siriano Walid Mualem per colloqui con il suo collega turco Ali Babacan, con il presidente della Repubblica Abdullah Gul e con il premier Tayyip Erdogan.
Quest’ultimo stamani e’ tornato ad attaccare con durezza l’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza affermando fra l’altro che ’’questa tragedia dell’umanita’ procurera’ molti problemi anche allo stesso Israele. Israele sara’ maledetto per i bambini e le donne innocenti morti sotto le bombe. Israele sara’ maledetto per le lacrime versate dalle madri palestinesi’’. Da parte sua anche Hamas inviera’ oggi una sua delegazione in Egitto in risposta all’invito del governo del Cairo ad avere colloqui.
TROIKA UE A MUBARAK: URGENTE IL CESSATE FUOCO - L’Unione Europea opera per un "cessate il fuoco rapido a Gaza, e più presto arriverà, meglio sarà". Lo ha affermato l’Alto Rappresentante Ue, Javier Solana, in una dichiarazione dopo il colloquio avuto a Sharm el Sheikh stamane dalla ’troika’ (Repubblica Ceca, Francia, Svezia) con il presidente egiziano, Hosni Mubarak. Nel primo pomeriggio è previsto l’arrivo a Sharm del presidente francese, Nicolas Sarkozy. Solana ha anche ripetuto che l’Unione Europea è pronta a nominare i nuovi osservatori da inviare al passaggio di Rafah, tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, ritirati nel luglio 2007 dopo che il movimento integralista di Hamas prese il potere con la forza nel territorio palestinese. Al colloquio, durato oltre un’ora hanno partecipato anche il ministro degli esteri della repubblica ceca, Karel Schwarzenerg, quello svedese, Carl Bildt e quello francese, Bernard Kouchner, oltre alla commissaria europea per le relazioni esterne, Benita Ferrero Waldner.
FRATTINI: NON SI TRATTA CON I TERRORISTI DI HAMAS - "Noi non possiamo trattare con Hamas che è un’organizzazione terroristica". E’ categorico il ministro degli Esteri Franco Frattini che - in un’intervista sulla situazione a Gaza rilasciata a Sky Tg24 - ribadisce che i soli con cui si deve trattare sono il presidente palestinese Abu Mazen ed il governo israeliano. "Completamente diverso", per Frattini, è il tentativo di avviare un contatto con Hamas che in queste ore sta tentando l’Egitto. L’iniziativa, ha spiegato il titolare della Farnesina, "avviene nell’ambito della Lega Araba, dove l’Egitto ha un ruolo chiave. Viene fatto - ha aggiunto - a livelli di organismi di sicurezza per garantire una tregua sul territorio e non per dare ad Hamas la dignità di Stato o di un interlocutore".
"Appena le condizioni saranno mature" il ministro degli Esteri Franco Frattini. "I viaggi si fanno quando c’é qualche utilità concreta", ha aggiunto Frattini. Quindi, citando la missione mediorientale di due giorni del presidente francese, Frattini ha osservato che Nicolas Sarkozy "ha appena lasciato la presidenza (di turno dell’Ue), dunque - ha detto - può avere un motivo evidente, perché fino al 31 dicembre la presidenza francese ha lavorato" a questo dossier.
Alle critiche rivolte dall’ex titolare della Difesa Antonio Martino alla Farnesina, accusata di "non avere coraggio" nella crisi di Gaza, Frattini ha risposto: "Devo dire, per onor del vero, di aver ricevuto una telefonata di Martino dispiaciuto ed indignato per come le sue parole sono state interpretate".
NAPOLITANO: AUSPICO TREGUA
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso l’auspicio di una tregua immediata a Gaza ed augurato il successo alle missioni di Javier Solana e Nicolas Sarkozy.
’’La situazione mi pare molto dura - ha aggiunto il Capo dello Stato - gli appelli vengono da molte parti ma mi pare che la difficolta’ sia nel concentrare un’azione efficace sul piano politico e diplomatico. Ci sta provando l’Europa con qualche difficolta’. Mi auguro che anche con la visita della missione europea coordinata da Solana, e con la missione del presidente Sarkozy, si riesca a trovare un filo per realizzare una tregua, ed una sospensione delle ostilita’ e di aprire una prospettiva di pace’’.
’’La situazione di Gaza e’ caratterizzata da una presenza come quella di Hamas, che ha segnato la spaccatura del mondo palestinese. Io l’ho constatato quando sono andato li’ poco piu’ di un mese fa - ha aggiunto - e’ un elemento di complicazione di una crisi gia’ pesante che si trascina’’.
’’Non mi pare che ci siano grandi divergenze tra i partiti italiani sulla crisi di Gaza. Ho visto che c’e’ una sollecitazione perche’ il governo faccia di piu’ ma il diritto di Israele alla sicurezza e quello dei palestinesi a un loro Stato indipendente mi pare un punto sul quale concordano tutte le forze politiche’’.
sono 50 i palestinesi uccisi e 200 i feriti da quando è partita l’operazione di terra
Gaza: 130 obiettivi bombardati
nella notte, l’esercito avanza
Le forze terrestri israeliane hanno continuato la loro penetrazione, appoggiate dall’artiglieria navale
GERUSALEMME - L’aviazione israeliana ha attaccato nella notte fra domenica e lunedì 130 obiettivi, mentre le forze terrestri hanno continuato ad avanzare nella Striscia di Gaza. Lo ha reso noto un portavoce militare di Tel Aviv. «Le nostre forze aeree hanno attaccato nella notte 130 obiettivi, tra i quali una moschea di Jabaliya adibita a deposito d’armi, abitazioni in cui erano stipate munizioni, e veicoli con a bordo lanciarazzi e uomini armati». Sempre secondo la stessa fonte «le forze terrestri israeliane hanno continuato la loro avanzata, appoggiate dall’artiglieria navale».
BAMBINI FRA LE VITTIME - Secondo fonti mediche citate dalla tv satellitare araba al Jazeera, sarebbero 18 i palestinesi uccisi stamane a causa dei raid dell’aviazione israeliana su vari settori della striscia di Gaza. Tra le vittime dell’azione dell’esercito ci sarebbero tre bambini palestinesi, rimasti uccisi nell’attacco di un carro armato israeliano, mentre erano nella loro casa nella parte orientale di Gaza City. Lo riferiscono fonti mediche locali. Stando alle stesse fonti, diversi altri palestinesi sono rimasti feriti nello stesso episodio accaduto nel quartiere Zeitoun di Gaza. Testimoni locali riferiscono anche di una famiglia (padre, madre e cinque figli) morti per una cannonata della marina israeliana contro una casa nel campo profughi della spiaggia di Gaza. Fonti di Gaza riferiscono che sono 50 i palestinesi uccisi e 200 i feriti da quando è partita l’operazione di terra. In totale i morti palestinesi sono almeno 520 e i feriti 2.500 dall’inizio dell’operazione «piombo fuso».
CIVILI ABBANDONANO LE CASE - Molti civili di Beit Lahyia, nel nord della Striscia dove è iniziata l’operazione di terra israeliana, hanno lasciato le loro case dopo il tramonto di ieri per rifugiarsi nelle abitazioni di parenti e amici nella zona considerata più sicura di Jabaliya. Lo scrive il sito israeliano Ynetnews, aggiungendo che la gente è partita a piedi nel timore che le automobili vengano prese di mira dagli aerei israeliani. Gli spostamenti si sono svolti nel buio, in seguito al collasso della rete elettrica nella Striscia. La rottura di condutture idriche e sistemi fognari ha allagato molte strade.
SPARATI RAZZI QASSAM - L’offensiva israeliana non ferma i missili Qassam. Tre razzi sono stati sparati lunedì mattina dalla Striscia di Gaza contro il Negev israeliano, senza causare vittime nè danni. Al Jazeera riferisce anche di «violenti combattimenti tra elementi della resistenza palestinese e le truppe israeliane» a est della Striscia. Il ministro della Sanità di Hamas, Bassem Naeem, ha ordinato al personale sanitario di proibire ai combattenti armati di salire sulle ambulanze in modo «da non dare agli israeliani una scusa per attaccare i veicoli». Lo riferisce il sito israeliano Ynetnews, citando fonti
* Corriere della Sera, 05 gennaio 2009
Le vittime che servono per dire basta
di Adriano Sofri (la Repubblica, 04.01.2009)
C’è una domanda cui bisogna rispondere. Sembra una domanda facile, e il guaio è là. Che il numero dei morti palestinesi per l’offensiva israeliana a Gaza sia così alto, e cresca ancora, è un segno di vittoria di Israele, o di sconfitta, o di che cosa? E una sottodomanda, in apparenza ancora più facile: che i morti palestinesi siano tantissimi, e quelli israeliani pochissimi, è una vittoria o una sconfitta di Israele? Leggo che il generale Yoav Galant, comandante della regione sud, ha dato la sua risposta secca ad ambedue le domande, illustrando il proposito dell’offensiva: "Ributtare indietro di decenni la striscia di Gaza in termini di capacità militare, facendo il massimo di vittime presso il nemico e il minimo fra le forze armate israeliane". Il massimo dei loro, il minimo dei nostri. Noi, i generali, le donne e i bambini, e loro, i bambini, le donne e gli sceicchi. Ah, come sono difficili le domande facili! Si tratta del capriccio con cui il libero mercato fissa il pregio delle diverse vite umane. Avete visto a che ritmo vertiginoso è cresciuto da noi l’impiego del termine: Bioetica. L’impiego, e gli impiegati. La bioetica ha a che fare coi progressi spettacolosi della medicina, della biologia, dell’ingegneria genetica, gli inseguimenti trafelati della filosofia e del diritto, e le supervisioni delle chiese. Una sua esemplare dichiarazione è che "la vita umana è sacra e va difesa dal concepimento alla morte". La cito non per ridiscuterla qui, ma per osservare che la nostra fresca sensibilità bioetica si concede il lusso di concentrarsi sui due poli, il concepimento, o almeno la nascita, e la morte, il capo e la coda, riservando un’attenzione minore a quello che sta fra l’inizio e la fine, cioè alla vita nella sua durata, che poi è la vita.
Così, benché le innovazioni che la scienza introduce e la filosofia insegue col fiato corto e la religione rilega in pergamena, valgano per tutte le disgrazie che investono l’intermezzo fra nascita e morte - la fame, le malattie, le guerre - ce ne commuoviamo meno. La nostra guerra (di religione) sulla trovata secondo cui la vita è così sacra da essere "indisponibile" alla stessa singola persona vivente sta ai luoghi in cui la vita viene mietuta all’ingrosso, come i nostri botti di Capodanno, adorati da tutti tranne i cani i bambini e chi ha conosciuto una sola notte di guerra, stanno ai bombardamenti su Gaza. Così vicino, oltretutto - due sponde dirimpettaie- che si potevano sentire reciprocamente, e raddoppiare l’allegria degli uni e lo spavento degli altri.
Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come lo sarebbe stata l’Atene del V secolo - per un pelo, la questione degli schiavi. Siccome voglio così bene a Israele, e ne taccio da un bel po’ di tempo, dirò come si è andato incupendo il mio stato d’animo settimana per settimana. Ogni settimana, la rivista "Internazionale" pubblica una rubrichetta di poche righe, intitolata "Israeliani e palestinesi", che aggiorna il numero dei morti dell’una e dell’altra parte a partire dalla seconda Intifada, cioè dal settembre del 2000.
Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione è cresciuta, e se i morti israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un turbamento complicato; poi il divario ha continuato ad accrescersi, finché all’inizio di dicembre, ben prima dell’attacco a Gaza che fa impennare le cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte quello dei morti israeliani (5.301 a 1.082). Complicato, il turbamento: perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri...
Descrivo qualcosa che assomiglia più a un riflesso condizionato che a un pensiero. Del resto il mondo, benché secondo molti e benevoli suoi passeggeri continui a progredire, è platealmente pieno di smisuratezze, a cominciare dalla differenza fra ricchi e poveri, e fra vite medie che si allungano spettacolosamente e vite medie dimezzate.
La popolazione ottuagenaria e passa dell’Europa potrebbe protestare di non avere colpa nella popolazione sì e no quarantenne dello Zimbabwe: ma non sarebbe del tutto vero. E non è vero, certo non del tutto, che gli israeliani non c’entrino con la mortalità di guerra cinque volte superiore dei loro vicini. La sproporzione si riproduce e si moltiplica in una quantità di circostanze. Negli scambi di prigionieri, che Israele rilascia a centinaia in cambio di uno o due propri, o anche di due salme, com’è appena successo con gli hezbollah libanesi. Israele ha pressappoco undicimila prigionieri palestinesi, la Palestina, cioè Hamas, uno solo, il povero Gilad Shalit.
Negli ultimi otto anni, se non sbaglio, dalla striscia di Gaza sono stati lanciati sulle città del sud di Israele migliaia di razzi sempre più micidiali (l’ultimo ha colpito una scuola per fortuna evacuata di Beersheva, aveva dunque una gittata di 40 km) facendo in tutto 18 morti. L’offensiva aerea su Gaza ne ha fatti oltre 400 in pochi giorni, contro 4 dalla parte israeliana: in ragione di più di 100 a uno. E’ vero che il conto dei morti non dice tutto. Ad Ashkelon, Sderot, Ashdod, Gan Yavne, è un decimo della popolazione di Israele a vivere sotto la minaccia quotidiana dei missili. Tuttavia quel complicato turbamento resta, e anzi si fa sempre più pungente. Dunque, la domanda: più morti palestinesi facciamo, più vinciamo? E la sottodomanda: più forte è la differenza fra "il massimo dei morti loro" e "il minimo dei morti nostri", più vinciamo?
C’è un argomento forte in favore di Israele. Israele fa tesoro della vita dei suoi figli. Guarda con orrore il fanatismo islamista che addestra i figli al suicidio assassino, e si inebria del loro "martirio". E’ appena successo un episodio esemplare e agghiacciante. Nizar Rayan, sceicco invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione.
Tanto meno i bambini, e le sorelle e i fratelli ammazzati insieme dalle incursioni, com’è inevitabile in uno zoo così fitto di umani e così prolifico. Ci sono madri che non trionfano per la morte da shahid delle loro creature, e invece rinfacciano al cielo e alla terra la doppia misura. La madre delle cinque sorelline di Jabaliya ammazzate: "Se venisse ucciso anche un solo bambino israeliano, il mondo intero si indignerebbe... Ma il sangue dei nostri bambini non conta niente per il mondo". Non importa nemmeno da che parte sia venuta la strage, come per le due sorelline di Beit Lahya, ammazzate dal razzo kassam di Hamas, "per errore". Dice quel padre: "Non s’è scusato nessuno. Siamo poveri".
La bioetica, dunque. Se davvero un’azione militare mirasse al "massimo di vittime nel nemico", l’ideale sarebbe lo sterminio. Se la confermasse, il generale che ha pronunciato una frase del genere andrebbe messo ai ferri. Ma resterebbero sempre gli altri. Quelli - quasi tutti, fra le autorità, e a gara di sondaggi e di voti- che dicono amaramente: "E’ la guerra. La guerra esige le vittime civili. Noi facciamo di tutto per ridurne il numero". Non è un buon argomento, non più. Non è "la guerra". E’ qualcosa di più, per il soffocante odio di vicinato, e di meno, per la sproporzione delle forze. Di quella sproporzione (provvisoria, peraltro, con l’Iran che incombe) Israele non dovrebbe avvalersi per proclamare preziose le vite dei bambini palestinesi come quelle dei proprii, e agire di conseguenza? Utopia? Certo, bravi, continuiamo così. Se l’utopia troverà mai un luogo, sarà in quel pezzetto di terra in cui il Dio di tutti gli eserciti ha deciso da sempre (dalla strage degli innocenti, che nessun angelo avvertì, sospira Massimo Toschi) di togliere il senno alle sue creature. Continuiamo così. Il sangue dei martiri è il seme della cristianità ? diceva Tertulliano. Il sangue dei martiri, anche di quelli equivoci e abusivi, è seme di qualunque pianta. Si vuole cancellare Hamas? Sarebbe bello.
Ma i bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti aerei (l’esperienza più paurosa) non avranno un futuro ragionevole e gandhiano. L’ammasso di profughi e figli e nipoti di profughi che è Gaza ha un’età media, ho letto, di 17 anni. Quanto al resto del mondo, dei razzi su Ashkelon ha sentito sì e no parlare. Ma le immagini di questi giorni le ha viste. Israele sembra aver smesso da tempo di badare all’opinione del mondo. E’ vero che il mondo, quando gli ebrei erano al macello, applaudì o guardò dall’altra parte. Appunto. Tzipi Livni si è industriata di spiegare al mondo le sue buone ragioni, poi è bastata una frase ?"A Gaza non c’è una crisi umanitaria"- per cancellarne ogni effetto.
Mi dispiace delle parole rassegnate di Yehoshua: "Non avevamo altra scelta". Non è possibile che Israele, cioè gli israeliani, pensino e sentano di "non avere altra scelta" ? dunque di non avere scelta. Ce l’hanno, sanno anche qual è: tutti, o quasi. Sanno qual è, e vanno da un’altra parte. In cielo e, tanto peggio, in terra. Nel giorno della strage nella moschea - ci sarà la battaglia di propagande sul fatto che fosse un deposito di armi, o un deposito di umani, o le due cose insieme, ma non cambia - l’ingresso dei soldati israeliani fa temere che tutta la macabra contabilità della morte stia per impazzire. Soldati bravi, ben equipaggiati e risoluti ad andare avanti si troveranno di fronte, oltre a nemici votati alla morte, una gente disperata ed esasperata, in cui i bambini sono la maggioranza. I carri armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta come tornare indietro.
Ansa» 2009-01-03 21:31
GAZA: VIA OFFENSIVA DI TERRA
MISSILE SU MOSCHEA: STRAGE
TEL AVIV/GAZA - Forze di terra israeliane sono entrate stasera in due diversi punti della Striscia di Gaza. Lo ha confermato un portavoce militare israeliano. L’operazione ’durera’ molti giorni’, si legge in un comunicato diffuso dall’esercito israeliano che parla di ’seconda fase’ dell’operazione ’Piombo fuso’ avviata il 27 dicembre.
Il portavoce militare israeliano, nel suo comunicato, ha precisato: "L’obiettivo in questa fase é di distruggere la infrastruttura terroristica di Hamas nelle zone di operazione. Intendiamo inoltre assumere il controllo di alcune zone di lancio di razzi utilizzate da Hamas, allo scopo di ridurre in maniera significativa la quantità di razzi sparati contro Israele e contro i suoi civili". Secondo il portavoce stanno partecipando alla operazione "ingenti forze di fanteria, carri armati, unità del genio militare, di artiglieria e di intelligence, con il sostegno dalla aviazione, della marina e dello Shin Bet (servizi di sicurezza interna)".
Il portavoce ha aggiunto che "gli abitanti della Striscia di Gaza non sono un obiettivo per questa operazione. Coloro che usano i civili, gli anziani e i bambini come ’scudi umani’ (allusione a Hamas, ndr) sono responsabili per ogni perdita tra la popolazione". Infine, un avvertimento: "Chiunque nasconda un terrorista o armi nella propria abitazione sarà considerato alla stregua di un terrorista".
Israele ha richiamato i riservisti posto in stato di allerta il nord del paese, in previsione di possibili ostilità anche in questa regione che confina col Libano e con la Siria. Lo ha riferito il Canale 10 della Tv.
BARAK: PRONTI AD OGNI EVENTUALITA’ AL CONFINE COL LIBANO
Israele segue "con attenzione" anche la situazione al confine con il Libano ed è pronta a qualsiasi evenienza". Lo ha detto stasera il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, con un chiaro avvertimento al movimento sciita Hezbollah. L’offensiva lanciata da Israele contro Hamas "non sarà facile e nemmeno breve - ha detto Barak - Non voglio illudere nessuno e anche gli abitanti nel sud di Israele passeranno giorni non facili". "Noi seguiamo con attenzione la situazione sul confine nord. Noi non vogliamo uno scontro e speriamo che il fronte nord resti calmò ma siamo pronti a ogni eventualità ", ha continuato.
HAMAS, ISRAELE PAGHERA’ PESANTE TRIBUTO
GAZA - Israele "pagherà un pesante tributo" per la sua operazione a Gaza. Lo ha detto stasera il movimento estremista islamico che controlla la Striscia di Gaza. L’annuncio è giunto da Abu Obeida (il portavoce del braccio armato di Hamas), in un comunicato letto alla televisione al-Aqsa del suo movimento. Abu Obeida ha chiarito che i miliziani di Hamas si sono addestrati da mesi per far fronte a questa evenienza e dunque ha espresso la convinzione che "Israele pagherà un tributo pesante".
ABU MAZEN CONDANNA INVASIONE E CHIEDE RIUNIONE ONU
RAMALLAH - Il presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) ha condannato la operazione militare sferrata oggi da Israele a Gaza. Lo ha detto alla stampa il negoziatore Saeb Erekat secondo cui l’Anp chiede la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per fermare gli spargimenti di sangue. Secondo Mustafa Barghuti, un noto esponente politico palestinese, le forze israeliane sono appena entrate nel campo profughi di Jabalya, non lontano da Gaza City.
NUOVO BILANCIO PRIMA FASE, 460 MORTI, 2300 FERITI
Con il bombardamento della moschea di Beit Lahya - avvenuto nel pomeriggio di oggi - è salito ad almeno 460 il numero complessivo dei palestinesi rimasti uccisi a Gaza nel corso dell’operazione ’Piombo Fuso’. Lo riferiscono fonti mediche locali. I feriti sono stimati in oltre 2.300. Queste cifre non includono tuttavia le vittime dei combattimenti delle ultime ore, seguite all’invasione terrestre da parte delle forze israeliane di diverse zone nella striscia di Gaza. A quanto risulta sono in corso duri combattimenti in diverse località di Gaza, ma finora non è stato possibile valutare il numero delle nuove vittime.
CARRO ARMATO UCCIDE BIMBO, NE FERISCE UNDICI
GAZA - Un bambino palestinese è stato ucciso e undici altri sono stati feriti stasera da una cannonata sparata da un carro armato israeliano nella città di Gaza. Sono le prime vittime dell’offensiva terrestre, secondo testimoni e fonti mediche.
La cannonata del blindato è caduta su una casa del quartiere di Zeitun, nell’est della città. Lo ha precisato il dottor Muawiya Hassanein, direttore dei servizi di soccorso per la Striscia di Gaza. Numerose persone sono state anche ferite da un’altra cannonata sparata da un carro armato israeliano a Beit Lahya, nel nord della Striscia di Gaza. Lo hanno riferito testimoni e parenti delle vittime senza poter precisare il numero dei feriti.
STRAGE IN MOSCHEA, ARTIGLIERIA IN AZIONE
di Furio Morroni
TEL AVIV/GAZA - Almeno 16 palestinesi, tra cui quattro bambini, sono morti e circa 50 sono rimasti feriti stasera in un raid aereo israeliano nel quale è stata colpita una moschea a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza. Oggi, nell’ottavo giorno dell’operazione ’Piombo fuso’ lanciata dalle forze armate di Israele contro il movimento integralista palestinese Hamas, sono entrati in azione anche i cannoni israeliani, che potrebbero preludere a un attacco di terra.
Nella moschea, hanno riferito i testimoni, al momento dell’ attacco si trovavano circa 200 fedeli in preghiera. Con le vittime di oggi, secondo fonti mediche palestinesi, i morti hanno superato i 450 (tra cui circa 80 bambini e quasi 30 donne) mentre i feriti, di cui circa 300 gravi, sono quasi 3.000. Intanto si muove la diplomazia internazionale: domani arriva nella regione, con l’obiettivo di ottenere un "immediato cessate il fuoco", una missione della troika dell’Unione europea, prima iniziativa della nuova presidenza di turno della Repubblica ceca e guidata dal ministro degli esteri ceco, Karel Schwarzenberg. Lunedì inoltre è attesa anche una missione del presidente francese, Nicolas Sarkozy, e le due delegazioni si incontreranno lunedì a Ramallah. Il presidente americano, George W. Bush, da parte sua ha detto che gli Stati Uniti "lavorano ad un cessate il fuoco", ribadendo però che i razzi di Hamas sono un "atto di terrore".
Sul terreno, mentre si è sensibilmente ridotto il numero dei razzi sparati da Hamas contro Israele, sono proseguiti i raid dei caccia israeliani e i cannoneggiamenti dal mare ai quali, per la prima volta dall’inizio delle ostilità (il 27 dicembre), si è unita questo pomeriggio l’artiglieria di terra, che ha cominciato a bombardare con i mortai varie località all’interno della Striscia, tra cui Beit Hanun e Jabaliya nel nord e Khan Yunis a sud. L’intenso bombardamento ha fatto presagire a diversi commentatori tv israeliani (e temere ai palestinesi) la possibilità di un imminente lancio di un’offensiva terrestre, perché anche in passato le incursioni delle forze armate israeliane (Idf) sono sempre state precedute da pesanti bombardamenti d’artiglieria. Hamas minaccia, in caso di invasione terrestre, di rapire altri soldati israeliani, dicendo che in quel caso "Gilad Shalit avrà nuovi amici", riferendosi al militare catturato da Hamas il 25 giugno 2006 e da allora prigioniero a Gaza. I caccia con la stella di David intanto hanno provveduto a tenere sotto pressione Hamas compiendo solo in nottata 25 incursioni e più di 40 in 24 ore. In uno degli attacchi aerei notturni è rimasto ucciso un alto esponente del movimento radicale palestinese, il terzo in tre giorni: Abu Zakaria al-Jamal, 40 anni, uno dei comandanti di Ezzedine al Qassam, braccio armato di Hamas, responsabile dell’ organizzazione e del coordinamento in tutta la Striscia di Gaza del lancio di razzi verso il sud di Israele. Sempre nelle prime ore di oggi, sotto diversi bombardamenti, erano morti una bambina palestinese di 13 anni a Gaza City, due miliziani di al Qassam e un civile a Khan Yunis, e un guardiano dell’American School di Gaza, anch’essa colpita dai missili israeliani.
Anche Hamas, da parte sua, aveva ripreso stamani all’alba gli attacchi contro diverse città nel Sud di Israele sulle quali sino a sera sono caduti, senza fare vittime ma solo alcuni feriti lievi, circa 20 razzi contro i 36 di ieri. Le località prese di mira, come di consueto in quest’ultima settimana, sono state Ashqelon, Netivot, Eshkol, Sderot, Ashdod e Bnei Daron. Ezzedine al Qassam, tramite un portavoce ha intanto fatto sapere che la scorsa notte suoi miliziani hanno respinto un’incursione di uomini delle forze speciali israeliane che tentavano di penetrare all’interno della Striscia nei pressi di Shijaiyah. Secondo la fonte, gli israeliani - contro i quali sarebbero stati esplosi sei salve di mortaio - si sono ritirati senza subire vittime. Un portavoce dell’Idf, da parte sua, si è limitato a dire di non essere a conoscenza dell’incidente.
Gaza, iniziata l’offensiva di terra Primi scontri a fuoco
Israele: "Ripuliremo l’area dai missili" Missile su moschea: sedici morti
L’operazione "Piombo Fuso" è entrata oggi nell’ottavo giorno. Testimoni palestinesi riferiscono di aver visto forze di terra israeliane entrare da due diversi punti della Striscia. In giornata i preparativi dell’esercito israeliano, lasciavano intuire l’attacco imminente. In precedenza l’aviazione aveva colpito la moschea di Beit Lahia provocando morti e feriti. I miliziani islamici dicono di aver respinto un tentativo di infiltrazione israeliana al confine. Bush preme per un cessate il fuoco duraturo, sotto il controllo internazionale. Ripresi anche i lanci di razzi dalla Striscia. Allarme Onu: "L’emergenza a Gaza è sempre più grave". Domani missione Ue in Medio Oriente per cercare di arrivare alla tregua.
20:19 Esercito: "Partita la seconda fase di ’Piombo fuso’" "Le forze della difesa israeliana hanno cominciato a mettere in pratica la seconda fase della operazione ’piombo fuso’" si legge nel comunicato diffuso dall’esercito di Israele. All’operazione partecipano truppe di fanteria, carri armati, reparti del genio, dell’artiglieria e dell’intelligence, con l’appoggio dell’aviazione, della marina, dell’agenzia della sicurezza israeliana e di altre agenzia di sicurezza.
20:17 "Pesante" scontro a fuoco tra Tsahal e Hamas Il primo scontro a fuoco tra l’esercito israeliano e Hamas è stato confermato dai media israeliani e sarebbe stato "pesante"
20:14 Militari: "L’offensiva durerà molti lunghi giorni" L’offensiva di Israele su Gaza, culminata oggi nel previsto attacco da terra, durerà molti giorni. Lo ha dichiarato il portavoce militare Avi Benayahu in televisiva. "Non sarà una gita, passeranno molti lunghi giorni
* la Repubblica, 03.01.2009 - ripresa parziale, cliccare nella zona rossa, per aggiornamenti.
Accecati dal mito della guerra lampo
di Gad Lerner (la Repubblica, 30 dicembre 2008)
«TUTTO ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano». Così pensava nella sua saggezza Mendel Singer, l’impareggiabile "Giobbe" di Joseph Roth. Magari ne serbassero memoria gli israeliani, esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia.
Solo che al posto dei fanti straccioni del panarabista Nasser ora c’è l’islamismo di Hamas e Hezbollah. Al posto del generale Dayan e del capo di stato maggiore Rabin, c’è il ministro Barak, pluridecorato ma già politicamente logoro. E alla guida provvisoria del governo c’è un dimezzato Olmert che non crede fino in fondo in quel che fa, dopo aver condiviso negli ultimi anni l’autocritica strategica di Sharon.
Il bene arriva piano piano. Tutto ciò che è improvviso è male. Non sono massime buone solo per deboli ebrei diasporici come quel Giobbe di un’Europa che non c’è più. È la sapienza antica d’Israele che ci ammonisce ? da Davide e Golia in poi ? come la superiorità militare non basti a dare sicurezza. Perché la forza non è tutto, anzi, può trascinare alla sconfitta le buone ragioni.
Tre minuti di bombardamento micidiale preparati da mesi di lavoro d’intelligence possono schiacciare l’apparato visibile di Hamas ma non disinnescano il suo potenziale offensivo clandestino. Così i minuti si prolungano in giorni, mesi, anni. Seminando un odio tale da rendere sempre meno probabile che tra i palestinesi recuperi legittimità la componente moderata dell’Anp, destinata a soccombere dopo Gaza anche in Cisgiordania.
Il risultato sarà un Israele che riesce a mettersi dalla parte del torto e del disonore pur avendo ragione nel denunciare la sofferenza delle sue contrade meridionali bombardate e, di più, la ferocia del regime imposto dagli sceicchi fondamentalisti alla popolazione di Gaza che tengono in ostaggio con la scusa di proteggerla. La competizione elettorale israeliana del prossimo 10 febbraio non offrirà più l’alternativa del 2005: di qua la coalizione che prospettava la pace in cambio di sacrifici territoriali, di là l’oltranzismo di chi considera gli arabi capaci d’intendere solo le bastonate. Ora tutti i contendenti gareggiano nel mostrarsi inflessibili, a costo di sacrificare le trattative con l’Anp e la Siria. L’opinione pubblica si rassegna all’inevitabilità della guerra, ma non per questo ritrova fiducia e combattività.
All’indomani dell’attacco riaffiorano le divisioni. Gli stessi celebri scrittori, rappresentativi di un’intellighenzia minoritaria, dapprima hanno confidato che la rappresaglia di Tsahal rimanesse limitata, ma ora già chiedono un cessate il fuoco. Sono i primi ad avvertire, nel loro profetico distacco dalla politica, come il disonore possa trascendere nella perdizione d’Israele. Esprimono il malessere di una comunità frantumata cui riesce sempre più difficile riconoscersi in una cultura nazionale unitaria.
L’affievolirsi della solidarietà esterna costringe Israele a guardarsi dentro, sottoponendo a autoanalisi pure le sofferenze indicibili, come il trauma della generazione ebraica sterminata. Si misurano i danni dell’ultimo lascito velenoso di Hitler, cioè il transfert nelle generazioni successive dei "sopravvissuti per procura". È il richiamo terribile con cui scuote Israele l’ex presidente del suo parlamento, Avraham Burg: non hai un futuro di nazione come "portavoce dei morti della Shoah"; noi dobbiamo diventare altro che un’insana, dubbia rappresentanza delle vittime. Il nostro futuro pensabile è di compenetrazione con l’Oriente nel quale di nuovo gli ebrei provenienti da regioni lontane si sono fra loro mescolati; è di relazione con le altre vittime di questa terra.
Perfino l’unico obiettivo politico realistico - due popoli, due Stati - come notava ieri Bernardo Valli, viene rimesso in discussione da un orizzonte storico in cui si registra il declino parallelo dei due nazionalismi (sionismo e panarabismo) in lotta da un secolo. Quanto al rimpianto per le innumerevoli occasioni perdute, la guerra lo confina in un ambito letterario e cinematografico. Si legga il bel romanzo dell’ebreo irakeno Eli Amir, immigrato in Israele nel 1951, Jasmine (Einaudi). Racconta l’incapacità di trarre frutto dalla consuetudine con gli arabi degli ebrei orientali, che pure sarebbe stata preziosa quando si cercava una soluzione per i territori occupati nella guerra-lampo. Invano zio Khezkel, reduce da una lunga detenzione per sionismo nelle prigioni di Bagdad, liberato dopo la vittoria del 1967, cerca di convincere una platea laburista di Gerusalemme: "Noi dobbiamo prestare ascolto al loro dolore, non ignorare la Nabka, la loro tragedia, ricordare che anche loro hanno una dignità. Dobbiamo ricordare che il debole odia il forte e chi oggi è sull’altare domani potrebbe ritrovarsi nella polvere". La leadership ashkenazita non poteva intendere l’appello di zio Khezkel, i giovani gli danno del codardo.
Mi ha fatto impressione domenica sera vedere al telegiornale il migliaio di musulmani convenuti di fronte al Duomo di Milano per pregare Allah dopo il bombardamento di Gaza. Ho ricordato la notte del 1982 in cui, per protestare contro la strage di Sabra e Chatila, ci ritrovammo in quella piazza arabi ed ebrei insieme, laicamente, non certo a genufletterci verso la Mecca. Oggi pare impossibile, costretti ad appartenenze irriducibili da un fondamentalismo che inferocisce la guerra nei suoi connotati religiosi. Hamas all’epoca non esisteva. Nasceva in Israele il movimento "Pace adesso" che avrebbe spinto al dialogo con i palestinesi. La rivoluzione iraniana degli ayatollah, nei suoi primi tre anni di vita, non era ancora riuscita a contagiare d’odio (suicida) l’islam globale.
Oggi viviamo il pericolo di un conflitto che si estende e si assolutizza dall’una all’altra sponda del Mediterraneo, bersagliando Israele come tumore da estirpare. Distruggere Hamas, cioè l’islam fondamentalista penetrato fino a immedesimarsi nella causa nazionale palestinese, appare obiettivo difficilissimo da conseguire. Dubito che il governo di Gerusalemme, dichiarandolo, creda davvero che sia questa, chissà perché, la volta buona. Il rischio, al contrario, è che si consegni all’obbligo di combattere una guerra senza fine.
Solo qualche settimana fa Ehud Olmert , un leader che non ha più niente da perdere e quindi s’è preso la libertà di dire le verità scomode, raccomandava ben altro futuro agli israeliani. Dobbiamo ripensare ciò in cui abbiamo creduto per una vita, anche se è doloroso. Rinunce territoriali, un lembo di Gerusalemme capitale palestinese. Olmert ha usato perfino una parola terribile, "pogrom", per sanzionare le violenze messe in atto dai coloni contro i palestinesi di Hebron. Era prossimo a raggiungere un accordo con la Siria quando Hamas, rompendo la tregua e scatenando l’offensiva missilistica, ha trascinato l’establishment israeliano nella coazione a ripetere di questa guerra dei cent’anni.
Spero di sbagliarmi, ma temo che i più entusiasti sostenitori dell’operazione "Piombo Fuso" saranno i primi a squagliarsi, quando si avvicineranno le ore fatali d’Israele.
A Gaza. È in gioco l’etica del genere umano
di Václav Havel, Hasan bin Talal, Hans Küng, Yohei Sasakawa, Desmand Tutu, Karel Schwarzenberg (la Repubblica, 3.1.2009)
Perdere tempo è sempre deplorevole. Ma il tempo perso in Medio Oriente è anche fonte di pericolo. È trascorso un altro anno senza alcun consistente progresso per superare le divisioni tra palestinesi e israeliani.
Le incursioni aeree in atto su Gaza, così come i continui lanci di razzi contro Askelon, Sderot e altre città del Sud di Israele stanno a dimostrare l’estrema gravità della situazione. L’impasse esistente tra Israele e la leadership palestinese di Gaza sulla questione della sicurezza ha condotto tra l’altro al blocco degli aiuti alimentari israeliani alla popolazione di Gaza, riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di persone. Sembra che nelle sue trattative con i palestinesi di Gaza Israele sia tornato a impuntarsi sul primato della "hard security": un’impostazione che porta solo a precludere ogni altra opportunità di segno non violento, ogni soluzione creativa al contenzioso israelo-palestinese.
Con l’inasprimento della loro posizione i politici israeliani restano legati alla prospettiva di ulteriori insediamenti israeliani in Cisgiordania. E molti palestinesi, messi in questo modo con le spalle al muro, incominciano a non vedere altra scelta, per tradurre in realtà le loro aspirazioni nazionali, al di fuori delle tattiche più radicali. Da qui il rischio di sempre nuove violenze. È quindi fondamentale, per i partner regionali di Israele come per gli attori internazionali, comprendere che i palestinesi non potranno comunque essere distolti dall’obiettivo strategico della conquista di uno Stato indipendente. Il popolo palestinese non abbandonerà mai la sua lotta nazionale.
Ma israeliani e palestinesi devono rendersi conto che non conseguiranno mai i loro obiettivi a lungo termine con il solo uso della forza. È necessaria invece l’adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa, volte ad evitare le esplosioni di violenza. E sebbene talora non si possa escludere l’uso della forza, solo la via del compromesso verso una soluzione integrata può produrre una pace stabile e duratura.
Perché un processo di risoluzione di un conflitto possa avere esito positivo, è necessario che le energie generate dallo scontro siano canalizzate verso alternative costruttive e non violente. Questo dirottamento delle energie conflittive è possibile in ogni fase del ciclo dell’escalation; ma quando non vi è stata, fin dai primi segnali di tensioni, un’azione preventiva per affrontare i problemi e costruire la pace, soprattutto allorquando il conflitto si intensifica e degenera nella violenza, è necessario ricorrere a un qualche tipo di intervento. Solo allora diventa possibile instaurare un processo di mediazione e conciliazione, avviare il negoziato, l’arbitrato e la collaborazione in vista della soluzione dei problemi. In definitiva, la ricostruzione e la riconciliazione sono le sole vie percorribili per giungere a una stabilità che comunque non può essere imposta.
In tutto questo non c’è nulla di sorprendente. E tuttavia è il caso di chiedersi per quale motivo non vi sia stato un impegno più concertato e concentrato per trasformare la situazione a Gaza e in Palestina. Si è parlato di un protettorato internazionale, per proteggere i palestinesi sia dagli elementi più pericolosi al loro interno che dagli israeliani, e fors’anche gli israeliani da se stessi; ma questa proposta ha ricevuto scarsa considerazione.
Ciò che preoccupa in particolare chi si impegna nella risoluzione delle crisi internazionali è l’assenza di un tentativo coordinato di costruire un accordo tra israeliani e palestinesi, in vista di una struttura basata su un approccio inclusivo, interdisciplinare e sistemico, in grado di spostare le variabili e di condurre a una pace che entrambi i popoli possano considerare giusta ed equa.
Uno degli elementi chiave per una struttura di riconciliazione è la crescita economica. Come ha ripetutamente sottolineato la Banca Mondiale, esiste una stretta correlazione tra povertà e conflitti. Ecco perché una soluzione politica sostenibile tra palestinesi e israeliani non può prescindere dal superamento del deficit di dignità umana, del divario esistente tra una società prospera e una popolazione priva di tutto. Ma gli sforzi in questo senso sono stati finora frammentari, e quindi insufficienti a consentire la speranza reale di una vita migliore.
È necessario che tra israeliani e palestinesi si stabilisca un dialogo costruttivo, al di là dell’enorme divario sociale che li divide; e allo stesso modo è imprescindibile il dialogo tra le autorità e la gente comune, gli abitanti di queste zone che vivono nella confusione su quanto si sta facendo in loro nome. È necessario ricostruire la fiducia per consentire alle parti in causa di individuare le vie per il superamento delle ostilità del passato. Solo l’avvio di un nuovo clima di fiducia pubblica permetterà di procedere a una diagnosi corretta dei problemi, per poterli affrontare efficacemente.
Naturalmente, tutte le parti in causa devono comprendere l’esigenza di sicurezza degli israeliani; e allo stesso modo, le misure di costruzione della fiducia hanno bisogno del contributo di tutti. Ma più di ogni altra cosa c’è bisogno oggi di un chiaro messaggio ad indicare che non la violenza, ma il dialogo è la via maestra da seguire in questo periodo di grandi tensioni.
Quello che è in gioco a Gaza è l’etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l’arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignità umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l’entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina.
Václav Havel è stato presidente della Repubblica Ceca;
Sua Altezza Reale Principe Hasan bin Talal è presidente del’Arab Thought Forum (Forum per il Pensiero Arabo) e presidente emerito della Conferenza mondiale delle Religioni per la pace;
Hans Küng è Presidente della Stiftung Weltethos (Fondazione per un’etica globale) e Professore Emerito di Teologia Ecumenica all’università di Tübingen;
Yohei Sasakawa è presidente della Sasakawa Peace Fandation;
Desmand Tutu è stato insignito del Premio Nobel per la pace;
Karel Schwarzenberg è ministro degli esteri della Repubblica Ceca.
Copyright: Project Syndicate, 2008 Traduzione di Elisabetta Horvat