di Ariel Levi di Gualdo
Sionismo ed ebraismo. Dietro questa differenza si nasconde la tragedia che ormai da anni si vive in quest’area del Medio Oriente, così da risultare connessi il dramma palestinese e l’ideologia sionista. Questa dovrebbe essere morta alla stessa stregua di quella comunista
Ringraziamo Ariel Levi di Gualdo per averci messo a disposizione questa suo intervento pubblicato sul Quotidiano La Sicilia del 27.07.06. *
Gli scontri seguitano da due settimane e i soldati israeliani di stanza in Libano stanno penetrando sempre più nel territorio di quel Paese che sino agli anni Settanta fu la Svizzera del Medio Oriente. Qualcuno ricorda che gli israeliani sono i buoni e gli Hezbollah i cattivi, perché a questo mondo c’è chi crede ancora all’esistenza di eserciti etici formati da milizie angeliche contrapposte a eserciti cattivi formati da milizie sataniche.
Ai nostri lettori ho manifestato sin dall’aprile 2004 la mia ostilità verso il Sionismo politico spiegando perché lo considero una mortale metastasi. Il Sionismo non è l’Ebraismo, è un moto politico nazionalistico nato a fine Ottocento da profughi in fuga desiderosi di sottrarsi alle persecuzioni degli ebrei dei paesi slavi e della Grande Russia. Agli ebrei della Russia zarista e poi comunista non bastava più sognare, avevano bisogno di mettersi in salvo dalle angherie. Non si può parlare di Sionismo senza partire da corretti elementi storici, né questi può fondersi all’occupazione dei Territori palestinesi. Si tratta di due elementi originati da problemi diversi, anche se decenni dopo l’ideologia sionista e il dramma palestinese risulteranno connessi. Il Sionismo oggi dovrebbe essere morto alla stregua del Comunismo, tanto per ricordare un altro movimento che accese d’illusioni masse oppresse. Il ciclo del Comunismo si chiuse a fine anni Ottanta attraverso tre tappe: la passione rivoluzionaria, il consolidamento ideologico, il pervertimento politico nato da un’utopia dogmatica, aggressiva e cristallizzata. Dopo vari ictus il Comunismo morì per arresto cardiaco. La fase ciclica del Sionismo è identica, ma con una differenza: agli inizi del Terzo Millennio si trova nella fase del pervertimento politico generato da un’utopia dogmatica, aggressiva e cristallizzata. Quel che fa sorridere è che la fallimentare ideologia sionista sia protetta da quei paesi liberali che per decenni combatterono la fallimentare ideologia marxista, Stati Uniti in testa a tutti.
La confusione seguita a trascinarsi sui giornali tramite pericolosi giochi semantici: lo Stato ebraico... i soldati ebrei... le milizie ebraiche. Non solo lo Stato d’Israele usurpa l’antico nome biblico di una storia, di una tradizione e di una fede che è anche patrimonio di cristiani e mussulmani, c’è di peggio: il Sionismo ha finito per equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, usando all’occorrenza la Shoa come randello sul tavolo della politica internazionale. Di fronte al dramma della Shoa, a molti non è facile esprimere neppure l’evidenza solare: lo Stato d’Israele è una nazione dove i non ebrei sono discriminati e relegati a rango di cittadini di terza classe.
La politica degli Stati Uniti in Iraq è stata devastante. Solo George Bush poteva credere che tre bombe intelligenti riempite di polvere democratica avrebbero salvato i nostri interessi petroliferi. Oggi siamo dinanzi al naturale epilogo: il Medio Oriente è scoppiato e la Terza Guerra Mondiale potrebbe essere alle porte.
Allo Stato d’Israele sono state concesse nel tempo immunità scandalose, mentre per meno altri paesi si facevano decenni d’embargo. La soluzione palestinese rimasta irrisolta ha fatto sì che le peggiori dittature arabe soffiassero sul fuoco stimolando odio verso l’Occidente, dando vita a fanatici religiosi, terroristi e kamikaze. Anziché imporre una soluzione e dare uno Stato ai palestinesi, anche di fronte alla durezza della Destra israeliana, anche di fronte alla cecità dei dirigenti palestinesi divenuti vittime volontarie delle frange terroriste, siamo andati a scoperchiare la pentola afgana e quella irachena. Poi abbiamo iniziato a tuonare contro l’Iran che non doveva avere l’atomica perché Stato cattivo. Qualcuno potrebbe obiettare che lo Stato d’Israele è armato fino ai denti, ma questo non vuol dire nulla, lo Stato cosiddetto “ebraico” ha la patente di buono. E chi dà le patenti, in questo mondo dove tutto si compra e si vende nei più lordi mercati? Abbiamo fatto in pezzi le sovranità nazionali, ci siamo arrogati il diritto di stabilire chi è civile e incivile, abbiamo usato la parola democrazia non per proteggere i deboli, ma per fare gli interessi delle multinazionali del petrolio in danno dei popoli oppressi. E oggi siamo qua col Medio Oriente in fiamme, ad illuderci che con una conferenza di pace sotto le tette dell’antica lupa romana sarà sistemato anche questo bordello.
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www.ildialogo.org, Sabato, 29 luglio 2006
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA... LA TERRA PROMESSA. Un’indicazione (1930) di Sigmund Freud
PAOLO BARNARD, IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI
"FORZA ITALIA"... E ITALIA. IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
Assalto israeliano a flotta pro Palestina, 15 morti
Hamas denuncia: è terrorismo di Stato. Portavoce militare di Tel Aviv: fuoco contro noi *
GAZA - Almeno quindici persone della flotta internazionale formata da sei imbarcazioni di attivisti pro-palestinesi che si dirigeva verso Gaza sono rimasti uccisi durante l’assalto di un commando israeliano. Lo ha annunciato la catena televisiva privata israeliana ’10’. La radio pubblica ha riferito che alcuni militari israeliani sono stati feriti. La Cnn turca, invece, parla di due morti e di 30 feriti.
La ’flottiglia’ organizzata da diverse Ong internazionali per portare aiuti umanitari nella striscia di Gaza, sfidando l’embargo imposto da Israele, era partita ieri pomeriggio da Cipro. A bordo delle sei navi con circa 700 attivisti, secondo gli organizzatori, ci sono 10.000 tonnellate di aiuti, tra cui 100 case prefabbricate e attrezzature mediche.
Alcune navi della flottiglia battono bandiera turca e una Ong turca sarebbe uno dei principali organizzatori dell’intera operazione di invio di una flottiglia di aiuti a Gaza sotto assedio. Israele, che nega che a Gaza sia in atto una crisi umanitaria, aveva ripetutamente avvertito che avrebbe impedito alla flottiglia di arrivare a Gaza ma si era offerto di far pervenire a destinazione gli aiuti, dopo ispezione, tramite un valico terrestre. Per Israele, perciò, l’intera operazione è una "provocazione" studiata con l’intento di diffamare la sua immagine agli occhi del mondo.
"Le immagini non sono certo piacevoli. Posso solo esprimere rammarico per tutte le vittime" ha detto il ministro israeliano per il Commercio e l’Industria, Binyamin Ben-Eliezer, alla radio dell’esercito.
ISRAELE CONFERMA MORTI, FUOCO CONTRO DI NOI - Un portavoce militare israeliano ha confermato stamane che un numero non precisato di passeggeri della navi di attivisti filo-palestinesi sono stati uccisi e che altri sono stati feriti nel corso dell’ operazione di abbordaggio delle navi. Ha detto che viaggiatori hanno fatto uso di armi da fuoco e da taglio e opposto resistenza violenta ai soldati. Più di quattro militari sono stati feriti, alcuni in modo grave.
CONVOCATO AMBASCIATORE ISRAELE IN TURCHIA - L’ambasciatore israeliano in Turchia, Gabi Levi, è stato convocato d’urgenza stamani al ministero degli Esteri turco per riferire dell’arrembaggio alla flottiglia di aiuti umanitari e di attivisti filo-palestinesi da parte della marina israeliana. Lo ha annunciato l’emittente privata Ntv dando la notizia di almeno 10 attivisti morti nell’operazione. Intanto, come riferisce la stessa Ntv, decine di persone inferocite si sono già radunate stamani davanti alla residenza dell’ambasciatore israeliano ad Ankara e davanti all’edificio che ospita il consolato di Israele a Istanbul.
FLOTTIGLIA, PER HAMAS ARREMBAGGIO E’ TERRORISMO DI STATO - Hamas ha denunciato stamane a Gaza l’arrembaggio della flottiglia di aiuti umanitari e di attivisti filopalestinesi da parte della marina israeliana, affermando che si tratta di "terrorismo organizzato di stato".
Hamas ha invocato oggi "una intifada (rivolta) dinanzi alle ambasciate israeliane. A parlarne è stato Ahmad Yusef, uno degli esponenti della fazione islamico radicale palestinese a Gaza. Altri portavoce del movimento hanno definito l’accaduto "un crimine internazionale", invitando l’Onu e la comunità mondiale a reagire e ad avviare una inchiesta affinché "i colpevoli siano puniti". A Gaza City, intanto, la gente si sta radunando in strada per una dimostrazione di protesta convocata sia da Hamas sia da altri gruppi radicali come la Jihad Islamica. Fonti locali non escludono un’immediata recrudescenza di attacchi o lanci di razzi verso Israele.
GRECIA ATTIVA UNITA’ DI CRISI - Il ministero degli Esteri greco ha attivato l’Unità di crisi in seguito all’assalto israeliano contro la ’Flottiglia per Gaza’, della quale facevano parte due unità battenti bandiera ellenica, il cargo ’Liberta’ del Mediterraneò e la passeggeri ’Sfendoni’, a bordo delle quali si trovavano cittadini greci e palestinesi. Atene ha indicato di non avere finora notizie ufficiali su quanto accaduto e sulla sorte dei propri concittadini. Secondo attivisti greci a bordo delle unità, citati dalla radio Skai, gli israeliani avrebbero dato l’arrembaggio con elicotteri e gommoni ed avrebbero fatto uso di "proiettili veri". Atene, riferiscono fonti del ministero degli Esteri, ha chiesto al governo israeliano chiarimenti e spiegazioni sull’assalto alla ’Flottiglia’, attraverso l’ambasciata greca. Il ministero degli Esteri ha inoltre contattato l’ambasciatore israeliano ad Atene per chiedergli informazioni dettagliate e assicurazioni sulla salute e la sicurezza dei cittadini greci che si trovavano a bordo della ’Flottiglia’.
TENSIONE FRA ARABI IN ISRAELE - La polizia israeliana ha elevato lo stato di allerta nelle zona del Wadi Ara (60 chilometri a nord di Tel Aviv), dopo che nella città di Um el-Fahem si è sparsa la voce - finora non confermata - che nell’attacco della marina israeliana alla flotta di attivisti filo-palestinesi diretti a Gaza sia stato ferito dai militari lo sceicco Raed Sallah, leader del Movimento islamico nel Nord di Israele, che vive a Um el-Fahem. La radio militare aggiunge che i vertici della polizia israeliana hanno condotto stamane una seduta di emergenza e che continuano a seguire da vicino l’evolversi della situazione nella popolazione araba.
La polizia israeliana ha deciso di chiudere al traffico, per motivi prudenziali, alcune arterie in Israele che passano attraverso zone popolate da arabi, fra cui nel Wadi Ara. In questa zona la tensione è molto elevata dopo che si è diffusa la notizia che un leader islamico locale, sceicco Raed Sallah, sarebbe rimasto ferito in modo grave negli incidenti verificatisi nella ’Flottiglia Ong’. La polizia israeliana ha inoltre deciso di isolare la zona della Spianata delle Moschee a Gerusalemme.
L’ideologia israeliana
di Rossana Rossanda (il manifesto, 15 gennaio 2010)
Anche da Israele viene la critica ai miti che accompagnano dovunque l’idea di nazione e in più con il crisma di una religione rivelata. Ma non ha sfiorato i governi di Sharon, di Barak e Tzipi Livni, né sfiora oggi quello di Netaniahu e di Lieberman. È come se vi coesistessero, ignorandosi, una storia in genere, libera nelle edizioni e per gli studiosi, e una «storia degli ebrei» inquadrata, ufficiale, base dell’istruzione obbligatoria.
Qualche mese fa è uscito in Francia il volume dello storico israeliano Shlomo Sand: Comment le peuple juif fut inventé (letteralmente «Come è stato inventato il popolo ebreo», Fayard, Parigi, pp. 446, euro 23, già segnalato da Maria Teresa Carbone nella edizione inglese, Verso). Shlomo Sand insegna all’Università di Tel Aviv e fa parte della giovane scuola di storici degli anni Novanta, che sulle tracce di Baruch Zimmerling (Berkeley, 1993) e Boaz Evron (Bloomington, 1995) - a loro volta seguendo i lavori di Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein ed Eric Hobsbawm - discutono alla radice i concetti di popolo, nazione e razza prosperati in Europa nella seconda metà del XIX secolo. E rifioriti adesso con la caduta dell’«universalismo» dei lumi e del movimento operaio socialista e comunista. Ma quel che i nostri nonni si sono raccontati, e cioè che in ogni terra sarebbe insediato ab origine un popolo o razza o etnia rimasto immutato nei secoli che quindi su di essa vanterebbe un diritto naturale, è un «romanzo» ottocentesco. Destinato a rafforzare gli stati, la loro chiusura e le loro eventuali velleità espansionistiche. Così anche per Israele.
Accusati di deicidio
La tesi di Sand è drastica: l’ebraismo non è un «popolo» o una stirpe o, neanche a dirlo, una razza, ma la prima grande religione monoteista diffusa sulle rive del Mediterraneo. Non è una popolazione insediata immemorialmente in Palestina, deportata di là dai romani nel 70 d.C., e da qualche decennio tornata dopo quasi duemila anni di esilio; è il primo monoteismo che si è esteso dal crogiolo mediorientale fra i due fiumi sulle sponde del Mediterraneo fino all’Africa settentrionale e, durante il regno degli asmonei, nel II secolo prima di Cristo, su parte dell’odierna Russia, contendendo il primato alle religioni persiane, ai politeismi egizio, greco e romano, poi al cristianesimo e, dopo il VII secolo, all’islam - due filiazioni del suo stesso Libro. Quanto agli abitanti di Israele e della Giudea, che secondo il Vecchio Testamento sarebbero stati unificati da Salomone e in seguito conquistati dai babilonesi e poi da Roma, è dubbio che siano stati riunificati dal sapiente, non sussistendo nessuna traccia né di lui né delle sue grandiose città, ma è certo che non sono stati deportati dai romani; ne sono stati assoggettati, passando dall’impero romano d’occidente a quello bizantino d’Oriente per essere infine occupati dai «cavalieri del deserto» arabi, con qualche sollievo per la loro maggiore tolleranza rispetto a Bisanzio (si contentavano di imporre ai non musulmani una tassa).
Certo non sono stati costretti a vagare di paese in paese. I fedeli di questa religione superiore, genti assai miste, si sono diffusi come altri nell’Europa e nel mondo, ma obbligati a difendersi dalla maledizione loro gettata dai cristiani che gli avevano attribuito, contro ogni evidenza, la colpa di deicidio. Menzogna mai esplicitamente riconosciuta dalla chiesa come propria: Giovanni Paolo II l’ha attribuita ad «alcuni cristiani», come se non sapesse che l’accusa era sorretta da qualche Vangelo, anche fra i non apocrifi, e più di un concilio. Il Laterano IV ne ribadiva la discriminazione come necessaria, come l’obbligo di portare una ruota vermiglia sull’abito per essere riconoscibili, l’esclusione da ogni pubblico ufficio e possibilmente l’espulsione. Non è l’ultimo dei paradossi che l’ebraismo abbia assunto dal suo principale avversario un tema fondativo come quello dell’esilio.
A suo sostegno Sand porta le fonti scritte e i reperti archeologici provenienti dagli scavi della seconda metà del Novecento, sia in Medio oriente, sia nell’Africa settentrionale, sia in parte della Russia meridionale, un’analisi dettagliata della nascita e degli sviluppi del sionismo dal 1870 ad oggi. E, in quanto costituzionalmente fondata su di esso, conclude con un dubbio sulla qualità della democrazia israeliana.
Un passato di discriminazioni
Va da sé infatti che quanto sopra costituirebbe una controversia storica, niente di meno e niente di più, se sulla teoria di un popolo ebraico secolarmente esiliato non si fondasse l’affermazione che la Palestina sarebbe la terra propria ed esclusiva degli ebrei, l’invito a tutti gli ebrei del mondo a raggiungerla e la cacciata da essa dei palestinesi. Ma il libro di Sand non ha dato luogo in Francia, per quanto mi risulta, a una contestazione da parte della comunità ebraica. Probabilmente per la sua massiccia documentazione e bibliografia, e perché la cultura che egli attacca ha ormai la consistenza di una tradizione recente ma spessa, popolare e populista, che con le radici nei secoli ha poco o nulla a che fare. È come se fosse nata da centotrent’anni, e fosse dotata da allora di una irriducibilità che l’ebraismo non aveva mai avuto.
All’impianto di Sand si può opporre, credo, un’unica obiezione, e cioè se una «identità» assai simile a «popolo» non sia da riconoscere proprio e soltanto a chi si definisce ebreo. Non gli è stata forse costruita addosso, negandogli una cittadinanza e opponendogli ossessivamente forme di esclusione? Quando migliaia, e nel Novecento milioni, di uomini e donne vengono discriminati, deportati o massacrati per essere «ebrei» ed è contemplato il loro sterminio totale, l’«essere ebrei» diventa più pesante di una discendenza millenaria e univoca di sangue, ammesso che questa si dia da qualche parte.
Questo vissuto può non giustificare niente ma spiegare tutto. Una riflessione sulle concezioni di popolo etnia e razza andrebbe fatta non sugli ebrei, «differenza» come un’altra, ma sulla pulsione che spinge a catalogare l’altro come diverso, a metterlo fuori dalla «polis» quando non addirittura dalla norma della natura, a temerlo e odiarlo. È una pulsione assassina e risorgente, non appartiene alla ragione ma all’oscuro e all’inarticolato.
Ma torniamo al libro di Sand. Egli punta il dito sull’assunzione della Bibbia da parte di Israele non già come testo fondatore ma come testimonianza di fatti realmente avvenuti in precisi luoghi e precisi tempi. E non importa che sulla datazione dei Libri e le molte mani che vi hanno concorso la discussione sia aperta fra gli stessi biblisti, o che il racconto della Genesi sia favoloso rispetto ai risultati della scienza - il big bang, i suoi tempi e la loro sequela - o quello dell’Esodo rispetto a quelli più modesti della storia. Succede con il tempo e i modi dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto, sullo spettacoloso aprirsi del Mar Rosso per aprire loro un varco, sulla sopravvivenza per ben quaranta anni di una ingente massa di persone nel deserto, sullo spietato sterminio di un’intera città, donne vecchi e bambini inclusi, ad opera di Giosuè ma per volere di dio, di cui fortunatamente non esiste traccia.
Ora un conto è l’acquisizione critica di un testo sacro, un altro è telegrafare come Ben Gurion ai soldati nel 1956 dopo la conquista del Sinai: «E ora possiamo intonare l’antico cantico di Mosè e dei figli di Israele... in un immenso slancio comune di tutti gli eserciti di Israele. Avete riannodato con il re Salomone che fece di Eilat il suo primo porto tremila anni fa... e Yotvat, che fu millequattrocento anni fa il primo nostro regno indipendente diventerà parte del terzo regno di Israele» (nel quotidiano «Davar» del 7/11/1956).
Gli eventi anche più antichi lasciano una qualche traccia, ed è normale metodo storico riscontrarne presenza o mancanza. E molte tracce si trovano a testimonianza di una religione ebraica presente su gran parte della riva del Mediterraneo, come fra i berberi nella vicenda della grande regina Kahina, o del lungo regno russo dei Kazari. Con l’avvicinarsi delle fonti storiche, dal vasto lavoro dell’ebreo romanizzato Flavio Giuseppe a quello indiretto del greco Dione Cassio, cade infine il mito della deportazione e si aprono, fra le altre, le pagine della discussa pratica della conversione e della discendenza matrilineare, probabilmente assente fino a Esdra; la Moabita Ruth essendo l’ava diretta nientemeno che di Davide.
I pogrom dell’Ottocento
Tuttavia assai più ricco di interesse è lo snodarsi del sionismo, a partire dall’amico di Marx, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau, tutti e tre tedeschi, inseriti nel movimento di identità nazionale allora in energica crescita in Germania e aspiranti ad esservi assimilati. È l’inizio; saranno più rigidi i loro successori provenienti dal vasto terreno yiddish fra Germana e Russia, e provati dai feroci pogrom di fine secolo l’antisemitismo all’est essendo stato più acuto che nell’Europa occidentale. Alla ricerca dell’origine degli ebrei non segue così immediatamente la domanda di una terra; essa è segnata piuttosto dal coacervo di tesi scientifiche o presunte tali, che mescolano e scontrano darwinismo e teorie della razza, spinta all’assimilazione e principio di sangue. Il sionismo ne porta i segni, e con l’ossessione di una origine «pura», l’ebraismo cessa di essere una ricca e varia cultura religiosa e diventa un «popolo» circoscritto; come il Volk tedesco o il narod polacco e russo. Ma diversamente da essi non ha un legame territoriale con le zone in cui risiede. È quindi una acuta mutilazione e mancanza, rovesciata nell’ammonizione divina per cui Israele «Non farà parte delle nazioni umane» (Numeri, 23,9).
Questa chiusura in sé rende la cultura ebraica di quel tempo tutt’altro che ostile al concetto di «razza»: non la scandalizza la tesi di Houston S. Chamberlain ma la sua definizione degli ebrei come razza bianca, sì, ma imbastardita. Così sono innamorati della razza un po’ tutti, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau (quest’ultimo ha cambiato perfino il nome da Sudfeld a Nordau). Costui diventerà un potente difensore della purezza della razza ebrea contro le degenerazioni della cultura, dell’arte, dell’omosessualità, delle malattie mentali... bisogna che gli ebrei prendano più sole, espandano i muscoli e facciano ginnastica. Martin Buber, personalità poi ragionante e moderata, scrive pagine deliranti di romanticismo sul sangue, la cui purezza è purezza dell’anima, ed è «lo strato più profondo della nostra comunità». Tutt’altro genere è Vladimir Jabotinski, furiosamente di destra e opposto a ogni composizione fra ebrei e non ebrei, ma sul sangue la pensano allo stesso modo: «un sangue ebreo puro non potrà mai adattarsi allo spirito tedesco o francese come il negro non potrà cessare di essere negro». Il rapporto con i fellahs I fondatori dello stato ebraico, Ben Gurion e Ben Zvi sono convinti fino alla rivolta araba del 1929 che i fellahs palestinesi sono della stessa loro razza, poi lo escludono. Insomma destra e sinistra nazionaliste procedono da parametri simili diversamente applicati, fin con gli ebrei stessi - come la tesi vagamente darwiniana che gli askhenazi sarebbero razzialmente superiori ai sefarditi per le maggiori difficoltà di selezione sopportate. Queste idee circolano anche ora.
Dal calderone tardo ottocentesco si stagliano poi le figure di Markus Isaac Jost e di Heinrich Graetz, e Heinrich von Treitsche; il pericolo di una reazione antisemita è avvertito da Thoeodor Mommsen.
Ed è uno scontro da far impallidire la recente Historikerstreit. Ma Graetz e Doubnov andrebbero ripubblicati per la massa concettuale che affrontano e rappresentano, e insieme il suo superamento - anche ma non solo, per la terribile crudeltà della Shoah. Quel che oggi costituisce l’ideologia israeliana non ne è che lo scheletro secco.
Che resta come l’eccezione e forse la contrapposizione massima alla natura che si vuole democratica dello stato di Israele. Su questo ossimoro si conclude il libro di Sand, dedicato a una speranza di pace. Peccato che non abbia trovato un editore in Italia.
Davvero non riuscite a vedere?
di Amira Hass (giornalista israeliana, art. dal quotidiano israeliano Haaretz del 30/8/06)*
Lasciamo da parte quegli israeliani la cui ideologia sostiene che l’espulsione della popolazione palestinese dalle sue terre è giusta perché “Dio ci ha prescelto”. Lasciamo da parte i giudici che danno copertura ad ogni politica militare volta ad uccidere e a distruggere. Lasciamo da parte i comandanti militari che deliberatamente imprigionano un intera nazione in recinti circondati da mura, fortificati da torrette, pistole, filo spinato proiettori di luce accecanti. Lasciamo da parte i ministri. Tutti questi non vengono presi in considerazione come collaboratori. Coloro sono gli architetti, i pianificatori, i disegnatori, gli esecutori.
Ma ce ne sono altri. Storici e matematici, editori famosi, star dei media, psicologi e dottori di famiglia, avvocati, che non vogliono sostenere Gush Emunin e Kadima, insegnanti ed educatori, amanti delle escursioni e delle canzoni di gruppo, maghi dell’high tech. Dove siete? E che ne è di voi, studiosi del Nazismo, dell’Olocausto e dei Gulag sovietici? Potreste davvero essere favorevoli a leggi sistematicamente discriminanti? Leggi che dichiarano che gli Arabi della Galilea non saranno neanche compensati dai danni della guerra con la stessa cifra che compete ai loro vicini ebrei (Aryeh Dayan, Haaretz, 21 Agosto).
E’ possibile che siate tutti a favore di una legge di cittadinanza razzista che proibisce agli arabi israeliani di vivere con le loro famiglie nelle proprie case? Che continuate con l’espropriazione delle terre e la demolizione di ulteriori frutteti, per la costruzione di un nuovo blocco di insediamenti e per un’altra strada solo ed esclusivamente per gli ebrei? Che tutti sosteniate i bombardamenti e l’uccisione di vecchi e giovani nella Striscia di Gaza? E’ possibile che tutti voi concordiate sul fatto che un terzo della Cisgiordania (La Valle del Giordano) dovrebbe essere off limit per i palestinesi? Che tutti sosteniate una politica israeliana che proibisce a decine di migliaia di palestinesi che hanno ottenuto una cittadinanza straniera di ritornare dalle loro famiglie nei territori occupati?
Possibile che la vostra mente abbia accettato un lavaggio del cervello in nome della sicurezza, usata per impedire agli studenti di Gaza di studiare terapia dell’occupazione a Betlemme e medicina ad Abu Dis, e impedendo alle persone malate di Rafah di ricevere cure mediche a Ramallah? Trovereste altrettanto facile nascondersi dietro la spiegazione “noi non ne abbiamo idea”: non avevamo idea che la discriminazione attuata nella distribuzione dell’acqua - che è esclusivamente controllata da Israele - lasci migliaia di famiglie palestinesi senza acqua durante i caldi mesi estivi; non avevamo idea che quando l’IDF blocca l’entrata dei villaggi, blocca anche i loro accessi alle fonti o alle cisterne d’acqua.
Ma non può proprio essere che non vediate i cancelli di ferro lungo la superstrada 344 in Cisgiordania, che bloccano l’accesso ai palestinesi dei villaggi che percorre. Non è possibile che sosteniate l’impedimento dell’accesso a migliaia di contadini alle loro terre e piantagioni, che sosteniate la quarantena di Gaza che impedisce l’entrata di medicinali per gli ospedali, il disagio elettrico e la fornitura d’acqua a un 1.4 milioni di esseri umani, chiudendo il loro unico accesso al mondo per mesi.
E’ possibile che non sappiate che cosa stia succedendo a 15 minuti dalle vostre facoltà e dai vostri uffici? E’ plausibile che sosteniate il sistema in base al quale i soldati ebrei, ai checkpoint nel cuore della Cisgiordania, lascino decine di migliaia di persone aspettare ogni giorno per ore e ore sotto il sole cuocente, mentre selezionano: ai residente di Nablus e Tul Karm non è permesso passare, dai 35 anni in giù, yallah, tornate a Jenin, ai residenti del villaggio di Salem non è neanche permesso trovarsi qui, una donna malata che salta la fila deve imparare la lezione e sarà deliberatamente trattenuta per ore. Il sito di Machsom Watch’s è accessibile a tutti; in esso sono raccolte innumerevoli testimonianze e peggio, la routine del giorno dopo giorno. Ma non può essere che coloro che impallidiscono per ogni svastica dipinta su una tomba in Francia e per ogni titolo antisemita apparso nei giornali locali spagnoli non sappiano come ottenere queste informazioni, e che non impallidiscano e si sentano oltraggiati.
Come ebrei tutti godiamo del privilegio datoci da Israele, e ciò ci rende tutti collaboratori. La questione è che cosa fa ognuno di noi nella propria vita quotidiana, in modo diretto o indiretto, per minimizzare la cooperazione con un regime che opprime ed espropria e che non si sazia mai. Firmare una petizione e scalpitare non servirà. Israele è una democrazia per i suoi ebrei. Le nostre vite non sono in pericolo, non saremo imprigionati nei campi di concentramento, i nostri mezzi non saranno danneggiati e la ricreazione nella campagna o all’estero non ci sarà negata. Per questo, il peso della collaborazione e di una diretta responsabilità è inequivocabilmente pesante.
Traduzione dall’inglese all’italiano a cura di Teresa Maisano
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www.ildialogo.org, Giovedì, 31 agosto 2006
FREUD, IL SIONISMO e LA TERRA PROMESSA. Una nota
di Federico La Sala*
Sul CORRIERE DELLA SERA (sabato 28 giugno 2003, p. 31), PAOLO DI STEFANO, in un art. intitolato: E Freud disse no al sionismo: la diaspora è di tutti, presenta un saggio di MICHELE RANCHETTI, LA TERRA PROMESSA. UNA LETTERA INEDITA DI FREUD, uscito sul n. 6 del semestrale "L’ospite ingrato" del Centro Studi Franco Fortini, e cita parte della lettera di Freud, del 26.02.1930, al dottor Chiam Koffler. Con chiarezza e determinazione ( non "reticente o prudente", scrive Ranchetti) sulla questione del sionismo, Freud così risponde: "Chiunque voglia influenzare le masse deve dar loro qualcosa di eccitante e di infiammante e il mio sobrio giudizio sul sionismo non me lo permette. Certamente io simpatizzo con i suoi fini, sono fiero della nostra università in Gerusalemme, e sono lieto per il prosperare dei nostri insediamenti. Ma, d’altra parte, io non penso che la Palestina potrà mai diventare uno stato ebraico e che il mondo cristiano e il mondo islamico potranno mai essere disposti ad avere i luoghi sacri sotto il controllo ebraico. Mi sarebbe parso più sensato fondare una patria ebraica in una terra meno gravata dalla storia. Ma so che un punto di vista così razionale non avrebbe mai ottenuto l’entusiasmo delle masse e il supporto finanziario dei ricchi. Riconosco con tristezza che è in parte da imputare al fanatismo irrealistico del nostro popolo il risveglio della diffidenza araba. Non in una reliquia nazionale che offende i sentimenti delle popolazioni locali. Giudichi ora lei stesso , se con un simile atteggiamento critico io sia la persona giusta per confortare un popolo illuso da una speranza ingiustificata". Paolo Di Stefano fa notare che l’originalità dello studio di Ranchetti sta nel cogliere la cor-relazione tra la nascita del sionismo avvenuta nel 1896 e la nascita della psicoanalisi avvenuta nel 1899: la conquista di un territorio, di una terra promessa - in Herzl una patria; in Freud la coscienza umana, poiché "la diaspora riguarda tutti gli uomini". L’indicazione mi sembra molto preziosa e non più "non propizia"(contrariamente a quanto si attendeva Chaim Koffler). Credo che di questo nodo valga la pena raccogliere il filo e portare avanti la riflessione - a tutti i livelli - in modo deciso e urgente. Ciò che è in gioco non è solo la convivenza tra palestinesi e israeliani, tra ebrei e arabi: è in gioco il destino della civiltà umana sulla Terra. E, per affrontare questo problema, possiamo ancora imparare molto da Freud e, in particolare, dal suo ultimo lavoro L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA (1939). La questione oggi è diventata planetaria ed è ancora e proprio quella di Mosè, quello della "terra promessa" - e questo enigma non lo può sciogliere assolutamente un solo popolo, ma solo tutti i popoli della terra, insieme e in pace: ogni interpretazione biologistica o semplicimente etnica ci porta sempre e solo ad AUSCHWITZ! Freud l’aveva capito e aveva anche capito che questo problema era legato al problema religioso, alla religione dei padri, al monoteismo ... e all’edipo in Vaticano! Egli aveva capito che il contenuto principale del Cristianesimo "fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l’espiazione divenne egli stesso dio accanto al padre e propriamente al posto del padre"(cit. da Mosé e la religione monoteistica). Marx, A SUA VOLTA, aveva già capito che il concetto di rapporto sociale di produzione era legato al concetto di religione. Oggi se vogliamo fare un passo innanzi sulla strada dell’umanità e della consapevolezza critica, e non tornare (o meglio restare nel deserto e) alla preistoria, questi nodi vanno affrontati... Lo stesso sogno e lo stesso problema di un altro mondo possibile passa per la soluzione di questi nodi....e il contributo di Freud e di Marx (come di Kafka, come di Buber, come di Benjamin ecc.) rivela di essere - contrariamente a quanto si pensa in giro - sempre più vitale e sempre più decisivo.
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www.ildialogo.org, Martedì, 01 luglio 2003