di Elena Loewenthal (La Stampa, 28.06.2006)
La scena ha, indubbiamente, un’improbabile apparenza. Suona metafisica quasi quanto il volto arcigno della mamma di Woody Allen che gli fa la ramanzina da sopra i cieli di New York. Eppure, viene quasi da credergli, al rabbino Simcha Weinstein. Sarà per merito del suo faccione incorniciato dalla austera barba nera. Sarà per via di quel suo passato da attore che non si prende affatto il disturbo di occultare dietro il tomo di Talmud che compulsa adesso, nell’austera parte assegnatagli ora dalla vita. Fatto sta che lui è un po’ che lo bisbiglia.
Ma ora che il ritorno di Superman sbanca i botteghini d’oltre Oceano, il rabbino ha deciso di dirlo sul serio e fieramente ad alta voce. Con tanto di filologiche pezze d’appoggio e inequivocabili echi linguistici. L’ultimo segreto che ci mancava in fatto di supereroi è proprio questo: il nostro beniamino in mantello rosso è, incredibile a dirsi, d’ebraica, atavica stirpe. «Superman è senza dubbio ebreo!», sentenzia allegramente il rabbino Simcha Weinstein. Ma non è solo una battuta di spirito. Con un poco di attenzione e una modesta misura di pazienza, conviene davvero prestargli ascolto. Jerry Siegel e Joe Shuster, i due padri del nostro eroe, erano ebrei.
E, benché per la tradizione d’Israele valga il principio della discendenza matrilineare, anche i padri nel loro piccolo contano. Inoltre la data di nascita di questa creatura fantasmagorica ha un che di significativo, anzi d’inquietante. Lui viene alla luce, infatti, nel 1938. Siamo alla vigilia della guerra e della Shoah e, per restare in Italia, proprio allo scoccare delle leggi razziali. Poi, prosegue Weinstein, in «Kalel», il nome kryptoniano di Superman, non è difficile individuare un’eco della lingua ebraica, dove queste due parole, appena sincopate kal (kol) el significano «voce di Dio».
Ma le corrispondenze fra Superman e il popolo d’Israele non si esauriscono in modiche coincidenze cronologico-fonetiche. Che dire di quel mite alter ego che è il bozzolo da cui sorge ogni volta il nostro eroe? Che è una caricatura dell’assimilazione. Di quel desiderio quasi spasmodico di non farsi notare con cui gli ebrei mossero i loro primi passi dentro la modernità. Un Clark Kent qualunque era, per i profughi ebrei approdati a Ellis Island direttamente dai pogrom della Vecchia Europa, la suprema ambizione di invisibilità. L’unica speranza di vivere indisturbati.
Il possente eroe che erompe da quell’ebraicamente agognato guscio di banale normalità, rappresenta invece l’ineludibile diversità. Come Superman, anche gli ebrei si sentono un poco degli extraterresti. Anzi, per meglio dire, per duemila anni e più è stato il mondo circostante a considerarli (quando andava bene), delle creature giunte da un altro mondo. Ma il nostro Superman-Moishele è certamente qualcosa di più di un pupazzo in formato diasporico. E’ anche e soprattutto un entusiastico sogno di riscatto. Un eroe che trova la propria forza straordinaria, il proprio sconfinato slancio di bontà, nel fatto stesso d’essere diverso dagli altri.
Una specie di alieno in fattezze di timido fusto, venuto di lontano e destinato ad andare lontano. Ma per intanto qui fra noi, disarmate tribù sperdute ai quattro angoli del mondo. Meno male che ogni tanto c’è un rabbino Wienstein a farci cogliere il lato sorridente di una storia così generosa di malinconie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
LE RADICI EBRAICHE DI SUPERMAN
di Stefano Priarone (La Stampa, 10.06.2018)
E’un dato di fatto che gli ebrei americani hanno creato gli albi a fumetti: Siegel & Shuster, i creatori di Superman, ne sono stati i fratelli Lumière, Jack Kirby il Cecil B. DeMille e Will Eisner il D.W. Griffith››.
A parlare è lo studioso americano di comics Adam McGovern egli stesso ebreo. Quando esce il numero 1 di Action Comics, con data di copertina giugno 1938, dove debutta Superman, il comic book, l’albo a fumetti, è un medium nuovo: per anni i fumetti venivano pubblicati solo sui quotidiani, in strisce in bianco e nero nei giorni feriali, e in pagine a colori nell’inserto domenicale, se i cartoonist che lavoravano sui quotidiani erano considerati giornalisti, quelli all’opera sugli albi a fumetti erano visti come mezzi falliti che non erano riusciti ad approdare alla grande stampa.
‹‹All’epoca negli Stati Uniti gli ebrei erano esclusi da varie occupazioni a causa dei pregiudizi nei loro confronti - continua infatti McGovern. Ma quello dei fumetti era un campo nel quale potevano entrare: gli albi erano rivolti solo ai ragazzini, nessuno vi prestava attenzione. E così il medium diede agli ebrei (ma anche a non pochi italiani, anch’essi vittime di pregiudizi) un’opportunità, come avrebbe fatto in seguito il rock ’n’ roll per gli afroamericani e per i bianchi delle zone rurali››.
Erano ebrei gli autori: Siegel e Shuster, Bob Kane e Bill Finger creatori di Batman nel 1939, Will Eisner creatore nel 1941 dell’eroe noir Spirit e dagli anni Settanta autore di fondamentali romanzi a fumetti, Stan Lee e Jack Kirby che nel 1961, con altri autori «gentili» come Steve Ditko e John Romita avrebbero dato vita al cosiddetto Universo Marvel (Fantastici Quattro, Spider-Man, Hulk).
E anche gli editori: come Harry Donenfeld della National Periodical Publications (adesso DC Comics) o Martin Goodman della futura Marvel Comics. Stan Lee (vero nome Stanley Lieber) viene infatti assunto, giovanissimo, da Goodman perché suo parente acquisito.E l’origine ebraica si riflette nelle storie: molti supereroi sono ebrei con nome anglicizzato, come i loro autori (Jack Kirby in realtà si chiamava Jacob Kurtzberg),Superman è una sorta di nuovo Sansone (non c’entra nulla con l’Übermensch di Nietzsche e dei nazisti), la zia May di Peter Parker alias Spider-Man è la classica, oppressiva mamma ebrea, il potentissimo essere alieno Galactus affrontato dai Fantastici Quattro è una sorta di versione a fumetti del Dio dell’Antico Testamento.
‹‹Immigrati o figli di immigrati nel Nuovo Mondo, gli ebrei hanno costruito i mondi fantastici del fumetto››, conclude McGovern.
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Nel nome di Mosé
È un prete, vive in Svizzera e lo chiamano così. Ogni giorno divide le acque per i rifugiati. Salvando vite. E invitandoci a restare umani
Ascoltare parole e approfondire. Non lasciarle macinare dal vortice. Nella trama delle parole scelte c’è l’interpretazione del mondo stesso. Quando il vicepresidente della Camera ha usato la parola “taxi” riferita alle imbarcazioni che salvano vite, ha descritto con una parola che sa di comodità una situazione di disperazione.
Poi ha cercato di recuperare distinguendo tra «ong buone e ong cattive». E poi la frase di rito, facile da dire e facile da applaudire: «Che la magistratura faccia il suo corso», pietra tombale su ogni ragionamento. Lo scopo è stato raggiunto e le ong diventano “complici” di malviventi difficilmente identificabili (un capro espiatorio serve e da qualche parte va trovato). Le espressioni da cui vengono accompagnate ormai sono: «improvvisamente proliferate», «finanziate da chi ha interesse a destabilizzare l’Europa» e a usarle è chi sa che non sono proliferate all’improvviso e che sono altri i fattori che destabilizzano l’Europa. Ad esempio la crisi economica, che non è scaturita dall’arrivo di migranti. Ma quanto è più facile dire: state male perché siete invasi, piuttosto che: continuate a stare male perché il nuovo che avanza è uguale al vecchio. Dietro le polemiche sulle ong nessuna volontà di fare chiarezza, ma solo razzismo, quello acchiappavoti e quello di chi ha completamente abdicato al ragionamento.
Vi racconto la storia di un uomo che dal 2003 salva vite. È un prete cattolico di origini eritree che oggi vive in Svizzera. Si chiama Mussie Zerai: Mosé lo chiamano i migranti, perché in qualche modo divide le acque per far arrivare i naufraghi sulla terraferma. Nel 2003 Gabriele Del Grande gli chiese di tradurre le testimonianze di alcuni rifugiati eritrei che erano in un centro di detenzione in Libia dopo aver tentato di migrare verso l’Europa.
Padre Zerai rimase scioccato dalle storie dei suoi connazionali che gli raccontarono la vita in quella prigione, tanto che prese l’impegno di denunciare la situazione e lasciò il suo numero di cellulare ai prigionieri. Nei giorni che seguirono quell’incontro iniziò a ricevere telefonate da migranti che erano in mezzo al mare, che chiedevano aiuto. Come era possibile che chiamassero lui? Semplice. Qualcuno aveva inciso il suo numero su una parete del carcere in Libia con sotto scritto: «In caso di emergenza chiamate questo numero». Lo aveva letto una donna, che se l’era trascritto sulle mani e dalle mani lo aveva trascritto sui legni di un barcone durante il suo viaggio dalla Libia verso Lampedusa.
I migranti, in genere, scrivono il numero dei familiari sui vestiti, in modo che si sappia a chi restituire la salma in caso finisse male, lei invece aveva scritto il numero di Padre Mosé, perché fosse visibile in caso di emergenza. Da quel giorno il cellulare di Padre Zerai non ha più smesso di squillare. A chiamarlo sono indifferentemente cattolici, musulmani, ortodossi, a cui è stato detto che Padre Zerai è capace di far comparire una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare. Succede questo: quando le cose si mettono male in mare, chiamano padre Mosé e lui cerca di organizzarne il salvataggio, comunicando alla Guardia Costiera italiana più informazioni possibili per andare a prestare soccorso. Secondo le autorità italiane il cellulare di Padre Zerai ha permesso di salvare finora almeno 5 mila vita umane.
E poi c’è Nawal Soufi, chiamata la vedetta del Mediterraneo. Nawal Soufi è nata in Marocco, vive a Catania ed è diventata un punto di riferimento per chi fugge verso l’Italia. «Tutti hanno il mio numero, ne ho salvati a migliaia», dice. Il suo contatto passa tra chi fugge dalla guerra tentando l’approdo sulle coste europee. I profughi l’hanno soprannominata Lady SOS perché la chiamano dai barconi in difficoltà per dare le loro coordinate prima di affondare. E lei lancia l’allarme telefonando alla Guardia Costiera con un cellulare vecchio di 10 anni «perché almeno la batteria dura 4 giorni e posso essere sempre reperibile». Presta gratis questo servizio da oltre due anni ed è stata anche denunciata per aver facilitato l’immigrazione illegale (per la Bossi-Fini la solidarietà è un crimine). Nawal è in Italia da quando aveva un mese, studia Scienze Politiche e parla perfettamente italiano, la sua storia l’ha raccontata Daniele Bella nel libro “Nawal, l’angelo dei profughi”.
Immagino Padre Zerai e Nawal Soufi chiedere al telefono: «Mi scusi, non sarà mica uno scafista, perché nel caso sa che le dico, potete pure morire tutti».
Saviano: “Mosè per me era un amico immaginario, un alleato, un supereroe”
di Gisella Ruccia *
“Non ho mai visto Mosè come una una severa figura, la più importante dell’ebraismo, ma l’ho visto quasi come un alleato, una di quelle figure a cui parlare come un amico immaginario“. Sono le parole di Roberto Saviano ai microfoni di “Sorgente di vita”, il programma di Rai Due curato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dedicato alla cultura ebraica.
Lo scrittore, che ha aperto quest’anno il Festival internazionale della letteratura e cultura ebraica di Roma, racconta il suo amore e la sua ammirazione per l’ebraismo. “La cultura ebraica non mi ha semplicemente attratto, ma formato” - afferma - “Gli scrittori ebrei mi hanno insegnato a non disperare, a cercare sempre una via d’uscita”.
E rivela: “I racconti biblici di mio nonno per me sono stati fondamentali. Quando ero bambino, Mosè era davvero un supereroe. Accanto a Batman, Superman, Spiderman, l’Uomo Tigre, c’era Mosè. Lui era il balbuziente che guida un intero popolo, sbaglia di continuo, viene punito sempre per il minimo errore”. Saviano aggiunge: “Ci penso spesso a Mosè e penso spesso a me bambino che guardava a Mosè come qualcuno che, anche se sbagliava, sapeva che poteva farcela e poteva farcela a trovare un senso alle cose”
di Gisella Ruccia
* The Huffington, 31 luglio 2013 (ripresa parziale - con video).
Il salmone sta piangendo
Non bastavano gli allevamenti intensivi dove i salmoni, come ogni altro animale, vengono cresciuti in condizioni inaccettabili per i pesci stessi e per chi se ne nutre. Adesso dagli Usa arriva anche un super salmone ogm, capace di raggiungere il peso utile per essere messo in commercio in 16-18 mesi anziché nei 30 mesi necessari a un esemplare tradizionale. Per le industrie significa ottenere più cicli di produzione e ridurre i costi di allevamento. A novembre l’agenzia governativa statunitense che si occupa della regolamentazione degli alimenti e dei medicinali ha dato il via libera alla commercializzazione di questo salmone geneticamente modificato sostenendo che è nutriente come quello dell’Atlantico e che non c’è alcuna differenza biologica con un salmone tradizionale
di Gustavo Duch (Comune info, 27 dicembre 2015)
Ridono quando si sparge la notizia che “presto potremo avere nei nostri piatti filetti di salmone transgenico“, visto che lo scorso mese di novembre e per la prima volta nella storia la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti [1] ha stabilito che, dal punto di vista nutrizionale, il salmone Ogm AquAdvantage è un alimento identico al tradizionale salmone atlantico.
Ridono perché sanno bene che, transgenici o no, cresciuti in allevamenti intensivi e in una monocoltura, questi animali ingrassano in condizioni inaccettabili. In Cile, potenza leader nel settore, con una produzione annuale lorda di 800 mila tonnellate di salmonidi, vengono utilizzati circa sette chilogrammi di antibiotici ogni 10 tonnellate di produzione.
Ridono quando la notizia spiega che la modifica transgenica consente ai salmoni in questione di raggiungere il loro peso commerciale, circa cinque chili e mezzo, tra i 16 e i 18 mesi, a differenza dei 30 mesi necessari a un salmone tradizionale.
Ridono perché sanno bene che, crescendo in allevamenti intensivi, ciò che aumenterà sarà la capacità di produrre salmoni: se crescono più velocemente si potranno ottenere più cicli nello stesso periodo e, di conseguenza, maggiore sarà il sovrasfruttamento delle principali zone di pesca pelagica del pianeta con le quali si riforniscono questi allevamenti marini. Come, per esempio, lo sgombro, la cui pesca nelle acque cilene è scesa, tra il 1994 e il 2010, da 4,4 milioni di tonnellate annue a meno di 800 mila tonnellate.
Ridono e pensano alla balenottera azzurra, la più emblematica delle vittime dell’inquinamento generato dall’industria dell’allevamento intensivo di salmoni in gabbia.
Sanno che con un salmone che avrà una crescita più veloce, l’inquinamento avrà un’accelerazione e gli accordi adottati dalle industrie del salmone per “incoraggiare modelli produttivi responsabili, sotto l’aspetto sociale ed ambientale”, saranno, come già sono adesso, solamente belle parole in un affare molto sporco. Le spiagge del sud del Cile e i suoi fondali marini sono depositi di rifiuti di plastica, cavi metallici, vecchie reti e altri oggetti provenienti da questo settore.
Ridono perché questo animale transgenico, evoluzione della scienza, non è pensato per migliorare le condizioni lavorative e sanitarie del settore, che non sono per niente buone. Infatti, secondo il governo cileno, più dell’80 per cento delle aziende violano le norme più elementari e solo tra settembre ed ottobre tre lavoratori sono morti sul loro posto di lavoro, per incidenti sulle imbarcazioni per il trasporto delle gabbie di contenimento o durante lavori in immersione per il controllo delle stesse.
Ridono quando ascoltano i discorsi che ripetono: i progressi transgenici salveranno il mondo.
Ridono perché la notizia presenta il salmone transgenico come un superman “che contribuirà allo sviluppo di un settore economico diventato una risorsa fondamentale per l’economia cilena”. Un settore, quello dell’allevamento intensivo dei salmonidi per l’esportazione, che, e ridono, sanno che se ancora sta in piedi è perché tutta la popolazione cilena lo sta sovvenzionando con le proprie tasse. Si stima che prima della fine dell’anno, un primo gruppo di 400 lavoratori del settore sarà licenziato, nel quadro dei processi di “aggiustamento”. E tra le cause della cosiddetta “tempesta perfetta”, c’è una crescita accelerata e una sovrapproduzione, con caduta dei prezzi internazionali, che il salmone transgenico probabilmente estenderà ancora di più. Attualmente la grande maggioranza di imprese cilene di allevamento dei salmoni si trova in una situazione molto delicata; infatti, le loro azioni in borsa hanno registrato un calo medio del 93 per cento da quando sono entrate nel mercato.
Ridono perché, prima, si immaginano gli oceani invasi da salmoni colossali che mangiano e ingrassano senza sosta. Poi, un oceano desertico. Perché i signori dell’industria dei salmoni transgenici, dicano quel che dicano, prendano le misure che prendano, che siano sterili o che siano allevati in vasche a terra lontano dalle coste, non è impossibile che questi esemplari si riproducano in mare.
E ridono, con una smorfia che non nascondono più, quando spiegano che tutto questo non è questione di salmoni.
Approvare un animale transgenico è il primo passo -in un mondo intessuto di trattati di libero commercio- per incrementare il consumo di massa di prodotti di origine franken-animale che saranno prodotti industrialmente da una manciata di multinazionali e commercializzati da poche altre grandi catene di supermercati, controllando i modelli di consumo della popolazione urbana, constituendo contemporaneamente un devastante impatto su chi produce cibo in base a modelli su piccola e media scala.
Ridono
Ma ridono per non piangere.
[1] Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali: ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici
Fonte: http://gustavoduch.wordpress.com/2015/12/18/el-salmon-esta-llorando/
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavllo
Scheda: Salmone, l’incredibile pesce in viaggio tra mare e fiume (Adnkronos).
storia
Il mea culpa della Sarfatti: non dovevo creare il Duce
S’intitola «My fault» il saggio finora inedito scritto nel 1945 dall’ex amante (e prima mentore) di Mussolini, oggi per la prima volta svelato agli studiosi
DI ROBERTO BERETTA (Avvenire, 13.11.2010)
Se mai ci fu una Penelope del regime fascista, questa è Margherita Sarfatti. Prima infatti ’costruì’ il mito di Mussolini (di cui all’epoca e ra amante), con quella biografia ’ro mana’ fin nel titolo , Dux (1926); poi nel 1945 disfece la sua stessa tela in un inedito altrettanto significativamente intitolato My fault, ’Il mio errore’ (o anche ’Mea culpa’...).
Ora proprio questo ritrovato dattiloscritto costitui sce il nerbo della ponderosa ricerca del giornalista e scrittore comasco Ro berto Festorazzi, ormai navigato inda gatore di cose ducesche; Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini s’intitola il saggio, che si avvale appunto del prezioso inedito messo a disposizione dagli eredi e che forse a vrebbe meritato una pubblicazione integrale in appendice.
Non è la vendetta postuma di una donna abban donata dall’amato: la Sarfatti godeva infatti di statura intellettuale autono ma, di frequentazioni mondane ed e sperienze internazionali superiori a quelle di Mussolini e di origini aristocratiche che escludono ogni soggezio ne all’uomo di potere. Fu semmai lei - negli anni Venti a Milano - a ’educa re’ il futuro Duce, a insegnargli come stare in società, a presentarlo agli am bienti finanziari e culturali, a soste nerlo quando aveva dubbi per la Mar cia su Roma, insomma a ’crearlo’ come uomo di Stato.
Un giudizio eccessivo? La personalità dell’intrigante no bildonna veneziana ed ebrea - il padre era tuttavia molto amico del pa triarca Sarto, poi Pio X - invece giusti fica l’assunto: nata nel 1880, a 14 anni padroneggiava già tre lingue; sociali sta, a Milano frequentava il salotto di Anna Kuliscioff e Filippo Turati, oltre a curare appena ventenne la critica arti stica dell’Avanti! ; collezionava opere di Boccioni. Mirò, Chagall, Koko schka, ospitò a casa sua Ada Negri, Panzini, Medardo Rosso, Pirandello...
Insomma: la Sarfatti non aveva biso gno di Mussolini per emergere; al con trario - scrive Festorazzi - ai suoi inizi «Mussolini era certamente succubo di Margherita». E la controprova è che, quando il Duce fu padrone assoluto d’Italia, lei alla fine del 1938 per resta re libera dovette e spatriare prima a Pa rigi, poi in Sudame rica e negli Stati Uni ti, dove rimase fino al 1947. Lì nacque
My fault che - al di là di possibili occa sionali scoop, come la conferma che il Duce era malato di sifilide e usava co caina, o il racconto di un suo inquietan te ’incontro’ notturno con Satana - rappresenta «una testimonianza e stremamente critica della degenerazione della personalità di Mussolini», e non solo di quest’ultimo: «Mi allontanai dal fascismo con mio grande dolore - scrive difatti Margherita, che nel 1929 era diventata cattolica - quando cominciò la sua degenerazione, quando si mise a copiare lui stesso la sua copia, o piuttosto la sua parodia sadica e grottesca, il nazismo».
Il mito del Dux non era riuscito a offuscare l’in telligenza scintillante dell’ex amante, anzi. Prima di morire presso Como nel 1961, lascerà scritti giudizi singolar mente lucidi: «Ciò che il fascismo fu, l’ideale per cui la gioventù italiana e sultante diede sangue ed entusiasmo, divenne alla fine il contrario delle sue sublimi origini, e introdusse, quasi, la tirannia sovietica contro la quale ci a veva chiamati a combattere... Tragico paradosso! Mussolini si era trasforma to nel superuomo brutale, alla tede sca, e invece dell’essere umano totale, cercò di creare il robot, schiavo dello Stato totalitario: vale a dire, di lui».
*
Roberto Festorazzi
MARGHERITA SARFATTI
La donna che inventò Mussolini
Angelo Colla. Pagine 432. Euro 22 ,00
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
Asta milionaria: venduto il primo numero di Superman
Un esemplare del primo album di Superman è stato venduto all’asta ieri per 317.200 dollari (circa 245 mila euro). Nel 1938 costava 10 centesimi di dollaro. L’asta, lanciata due settimane fa sul sito internet www.comicconnect.com, è rapidamente arrivata ai 200 mila dollari, prima che un’offerta dell’ultimo minuto le facesse superare la soglia dei 300 mila. In totale sono state fatte 89 offerte e il sito ha prolungato la vendita di alcuni minuti. Le identità del venditore e dell’acquirente restano ignote. La copertina di questo raro esemplare, non restaurato, del primo numero di ’Action Comics’ mostra Superman, mantello rosso e attillata tuta blu con sul petto la grande ’S’, mentre lancia un’auto verde oltre passanti terrorizzati.
* l’Unità, 14 marzo 2009
Ansa» 2008-06-10 08:43
SUPERMAN, IL PRIMO SUPEREROE VOLA DA 70 ANNI
ROMA - Forza sovrumana, velocità, vista a raggi X, invulnerabilità (tranne che alla kriptonite, il minerale che può arrivare a ucciderlo), volo: sono le caratteristiche di Superman, il primo fra tutti i supereroi, l’invincibile uomo d’acciaio dai buoni sentimenti, che domani compie 70 anni. Era il 10 giugno del 1938 quando, sul numero 1 di Action Comics, edito dalla National (poi Detective Comics), debuttò il personaggio creato da Jerry Siegel e Joe Shuster, due studenti della Glenville High School, nello stato di New York. Inviato sulla Terra dal lontano e ormai distrutto pianeta Krypton, allevato da una gentile e umile coppia di agricoltori che gli daranno il suo nome ’borghese’, Clark Kent, Superman cresce nella cittadina di Smallville, dove tornerà regolarmente per ritrovare pace e serenità.
Un ambiente tranquillo, costantemente messo a confronto con Metropolis, la caotica e infernale New York, dove Clark Kent troverà lavoro come reporter al Daily Planet. E’ qui che, grazie ai suoi superpoteri, combatterà sempre contro i nemici che attentano ai valori di base della società americana, dai primi gangster ai sofisticati scienziati nemici della razza umana. In Italia, Superman esordisce nel 1939, sugli Albi dell’audacia: "In realtà per noi era Nembo Kid", ricorda Marco Giusti, critico e studioso di cinema e fumetti. "Lo celebriamo come il primo supereroe, ma in realtà, come spiega molto bene il personaggio di David Carradine nel film Kill Bill vol.2, non lo è in senso tradizionale. Superman, infatti, non é una persona che ha poteri soprannaturali e ogni tanto li tira fuori, ma un alieno che si camuffa da persona normale".
Un eroe non a caso ebreo: tutti i disegnatori dei primi comics made in Usa erano ebrei, originari dell’Europa centrale, a cominciare proprio dai padri dell’uomo d’acciaio: Siegel era figlio di immigrati ebrei lituani, mentre in genitori di Shuster venivano dall’Ucraina e dai Paesi Bassi. Più in generale, Giusti vede in Superman l"all american herò, l’eroe interamente americano: "Gli americani hanno visto il genere supereroe come il prodotto statunitense per eccellenza, finalmente affrancato dalle mitologie europee, e hanno riletto in questa chiave tutto il Novecento, fino ad arrivare a Hulk, agli X-Men o a Iron Man".
Consacrato da una fortuna che ha spaziato dalla pubblicità - si pensi perfino a Capitan Dash - all"arruolamentò a scopi benefici nei teatri di guerra - come in Kosovo o Bosnia, dove è stato usato per spiegare ai bambini come evitare le mine antiuomo - Superman è anche morto (nel 1993), poi è risorto e intanto è approdato in tv e al cinema, con cinque film. Il primo è stato diretto da Richard Donner trent’anni fa, nel 1978, con Christopher Reeve nei panni dell’eroe in calzamaglia azzurra e mantello rosso che avrebbe indossato per altre tre volte. Rimasto paralizzato nel 1995 per una caduta da cavallo, diventato uno dei più celebri paladini delle ricerche mediche basate sulle cellule staminali, l’attore è morto nel 2004, a 52 anni.
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo (Corriere della Sera, 26.05.2008)
Supera l’alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo
Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l’affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un’«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10). Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l’autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l’interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po’ spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell’etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l’unico fine possibile per l’esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l’«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l’«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone».
In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un’opera d’arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l’identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un’azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall’altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d’eccezione.
A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l’esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all’inizio del Novecento, non poteva certo farsi un’idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un’aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l’affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l’idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento rimane un’eredità preziosa ancora oggi, quando l’utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.
SUL TEMA
UNO STUDIO DI JACOB GOLOMB (Nietzsche e Sion. Motivi nietzschiani nella cultura ebraica di fine Ottocento, La Giuntina, 2006)
E UNA RECENSIONE DI GIULIO BUSI ( "Quel sionista di Nietzsche. Secondo la tesi provocatoria di Jacob Golomb, il filosofo del superuomo, tacciato di antisemitismo sarebbe stato in realtà un padre occulto del movimento ebraico. Qualcuno arrivò a chiamarlo rabbi", Il Sole-24ore/Domenica, 29.10.2006, p. 44).
Federico La Sala
W.A.S.P., KUKLUXKLAN, E ..... PERDITA DELLA MEMORIA E DELIRIO DI "iSRAELE"!!!
Caro "Omar Tonani"
la cosa non è affatto "inverosimile"!!! E la tua "altra chiave di lettura" chiarisce ancora molto di più e meglio di che cosa oggi sta succedendo e della volontà "superomistica" di guerra degli USA e di ISRAELE. Lode a te che hai "collegato" insieme le "due" immagini e fornito ulteriori elementi di riflessione - per comprendere il terribile e minaccioso "clima" del nostro presente storico. M. grazie!!!
Per la redazione
Federico La Sala
P.S.
Sul tema. si cfr. anche
Usurpato il patrimonio della vera fede ebraica
di Ariel Levi di Gualdo
Sionismo ed ebraismo . Dietro questa differenza si nasconde la tragedia che ormai da anni si vive in quest’area del Medio Oriente, così da risultare connessi il dramma palestinese e l’ideologia sionista. Questa dovrebbe essere morta alla stessa stregua di quella comunista
Ringraziamo Ariel Levi di Gualdo per averci messo a disposizione questa suo intervento pubblicato sul Quotidiano La Sicilia del 27.07.06.*
Gli scontri seguitano da due settimane e i soldati israeliani di stanza in Libano stanno penetrando sempre più nel territorio di quel Paese che sino agli anni Settanta fu la Svizzera del Medio Oriente. Qualcuno ricorda che gli israeliani sono i buoni e gli Hezbollah i cattivi, perché a questo mondo c’è chi crede ancora all’esistenza di eserciti etici formati da milizie angeliche contrapposte a eserciti cattivi formati da milizie sataniche. Ai nostri lettori ho manifestato sin dall’aprile 2004 la mia ostilità verso il Sionismo politico spiegando perché lo considero una mortale metastasi. Il Sionismo non è l’Ebraismo, è un moto politico nazionalistico nato a fine Ottocento da profughi in fuga desiderosi di sottrarsi alle persecuzioni degli ebrei dei paesi slavi e della Grande Russia. Agli ebrei della Russia zarista e poi comunista non bastava più sognare, avevano bisogno di mettersi in salvo dalle angherie. Non si può parlare di Sionismo senza partire da corretti elementi storici, né questi può fondersi all’occupazione dei Territori palestinesi. Si tratta di due elementi originati da problemi diversi, anche se decenni dopo l’ideologia sionista e il dramma palestinese risulteranno connessi. Il Sionismo oggi dovrebbe essere morto alla stregua del Comunismo, tanto per ricordare un altro movimento che accese d’illusioni masse oppresse. Il ciclo del Comunismo si chiuse a fine anni Ottanta attraverso tre tappe: la passione rivoluzionaria, il consolidamento ideologico, il pervertimento politico nato da un’utopia dogmatica, aggressiva e cristallizzata. Dopo vari ictus il Comunismo morì per arresto cardiaco. La fase ciclica del Sionismo è identica, ma con una differenza: agli inizi del Terzo Millennio si trova nella fase del pervertimento politico generato da un’utopia dogmatica, aggressiva e cristallizzata. Quel che fa sorridere è che la fallimentare ideologia sionista sia protetta da quei paesi liberali che per decenni combatterono la fallimentare ideologia marxista, Stati Uniti in testa a tutti. La confusione seguita a trascinarsi sui giornali tramite pericolosi giochi semantici: lo Stato ebraico... i soldati ebrei... le milizie ebraiche. Non solo lo Stato d’Israele usurpa l’antico nome biblico di una storia, di una tradizione e di una fede che è anche patrimonio di cristiani e mussulmani, c’è di peggio: il Sionismo ha finito per equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, usando all’occorrenza la Shoa come randello sul tavolo della politica internazionale. Di fronte al dramma della Shoa, a molti non è facile esprimere neppure l’evidenza solare: lo Stato d’Israele è una nazione dove i non ebrei sono discriminati e relegati a rango di cittadini di terza classe. La politica degli Stati Uniti in Iraq è stata devastante. Solo George Bush poteva credere che tre bombe intelligenti riempite di polvere democratica avrebbero salvato i nostri interessi petroliferi. Oggi siamo dinanzi al naturale epilogo: il Medio Oriente è scoppiato e la Terza Guerra Mondiale potrebbe essere alle porte. Allo Stato d’Israele sono state concesse nel tempo immunità scandalose, mentre per meno altri paesi si facevano decenni d’embargo. La soluzione palestinese rimasta irrisolta ha fatto sì che le peggiori dittature arabe soffiassero sul fuoco stimolando odio verso l’Occidente, dando vita a fanatici religiosi, terroristi e kamikaze. Anziché imporre una soluzione e dare uno Stato ai palestinesi, anche di fronte alla durezza della Destra israeliana, anche di fronte alla cecità dei dirigenti palestinesi divenuti vittime volontarie delle frange terroriste, siamo andati a scoperchiare la pentola afgana e quella irachena. Poi abbiamo iniziato a tuonare contro l’Iran che non doveva avere l’atomica perché Stato cattivo. Qualcuno potrebbe obiettare che lo Stato d’Israele è armato fino ai denti, ma questo non vuol dire nulla, lo Stato cosiddetto “ebraico” ha la patente di buono. E chi dà le patenti, in questo mondo dove tutto si compra e si vende nei più lordi mercati? Abbiamo fatto in pezzi le sovranità nazionali, ci siamo arrogati il diritto di stabilire chi è civile e incivile, abbiamo usato la parola democrazia non per proteggere i deboli, ma per fare gli interessi delle multinazionali del petrolio in danno dei popoli oppressi. E oggi siamo qua col Medio Oriente in fiamme, ad illuderci che con una conferenza di pace sotto le tette dell’antica lupa romana sarà sistemato anche questo bordello.
* www.ildialogo.org, Sabato, 29 luglio 2006
D’Alema vola in Israele: appelli alla moderazione ignorati *
Il vertice di Roma è stato solo l’inizio. Ed è inutile nascondere che sul cessate il fuoco «sono rimaste le differenze più nette». Con gli Stati Uniti e Israele ( secondo cui dal summit è arrivato un avallo all’offensiva) da una parte, il resto del mondo dall’altra, la Francia che accusa Condoleeza Rice di aver rinviato, ancora una volta, l’appello per una tregua urgente.
Ma di questo inizio Massimo D’Alema sembra voler fare buon uso, subito. Rilanciando l’offensiva diplomatica italiana all’indomani della conferenza internazionale sul Libano. Già nel pomeriggio di giovedì 27 luglio l’incontro, a Roma, con il presidente palestinese Abu Mazen. Ma al centro dell’agenda c’è un altro appuntamento: «Domenica prossima sarò a Gerusalemme per discutere con le autorità israeliane».
Una discussione che si annuncia non facile. Il punto di partenza è critico: «Purtroppo gli appelli alla moderazione di Israele non hanno sin qui raccolto un’eco concreta», osserva D’Alema di fronte alle Commissioni esteri di Camera e Senato riunite a palazzo Madama. Gli esempi più recenti sono il bombardamento israeliano in cui sono morti uomini della missione Onu in Libano e «l’uccisione di civili a Gaza». La priorità, ora, è l’emergenza umanitaria: «È essenziale che la comunità internazionale continui a premere per evitare che la morta di vittime innocenti cresca a dismisura».
D’altro canto il vertice di Roma ha segnato passi avanti importanti. Per il ministro degli esteri «nessuno poteva illudersi che si poteva fare la pace», anche perché «mancavano i belligeranti». Principale elemento di novità è il «formarsi di una coalizione che può e vuole agire per la pace». L’inizio, al di là delle evidenti divergenze con Washington, di una nuova politica. Perché, spiega, «solo una stretta collaborazione tra l’Europa tutta, gli Stati Uniti, una larga parte del mondo arabo, con il contributo delle istituzioni internazionali e in particolare con il contributo delle Nazioni Unite, può portare a dei passi in avanti e uscire da una situazione creata da una politica unilaterale».
Uno sforzo diplomatico che da Gerusalemme e Beirut deve estendersi a tutta la Regione. Fino ad un passo indispensabile: «Coinvolgere la Siria e l’Iran nello sforzo di pacificazione». Successivamente D’Alema pensa all’impegno di una forza internazionale con mandato Onu da impegnare nella Regione, in Libano ma anche a Gaza. «Non una forza solo di osservatori» né «una forza combattente» ma «una forza di sicurezza consistente che impegni molti paesi in modo significativo e «che possa installarsi sul territorio». Stop invece all’ipotesi di un comando Nato: «Probabilmente non verrebbe accolto dagli arabi. Si deve pensare a qualcosa di diverso»
* www.unita.it, Pubblicato il 27.07.06
Annan condanna Israele. Olmert: «Non ci fermiamo»
Bombe su villaggio: uccisi 17 civili *
«La guerra potrebbe durare ancora a lungo». Così scrive, da Tel Aviv, il capo di Stato maggiore israeliano Dan Halutz ai suoi soldati. E a New York l’ambasciatore di Israele all’Onu, Dan Gillerman, ha criticato aspramente il rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, che davanti al Consiglio di Sicurezza aveva condannato «l’uso sproporzionato della forza in atto fino a oggi» fatto da Israele, chiedendo la sospensione della guerra, la riconsegna del soldato catturato da Hezbollah e l’apertura di un «corridoio umanitario» per fare arrivare i soccorsi nei territori del Libano meridionale. Ma non solo. Israele, come ha spiegato Louise Arbour - responsabile per i diritti umani dell’Onu - potrebbe adesso essere incriminata per «crimini contro l’umanità». Arbour ha ipotizzato reati ti tipo penale per i bombardamenti indiscriminati israeliani sopra i centri abitati.
La rottura tra Israele e la comunità dell’Onu si è consumata nell’aula del Consiglio di Sicurezza, quando l’ambasciatore del governo di Tel Aviv ha dichiarato: «Annan, nel suo discorso, si è dimenticato di menzionare tre parole: terrorismo, Iran e Siria». E sulle intenzioni di Israele, Gillerman è stato altrettanto chiaro: «Continueremo a fare quello che stiamo facendo in Libano per sradicare il cancro del terrorismo». Con buona pace di quelli che nella comunità internazionale, tra cui il ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema, avevano chiesto il cessate-il-fuoco per permettere di creare un cammino dove fare entrare nel Paese dei cedri gli aiuti umanitari.
Nell’ottavo giorno del conflitto, i raid aerei israeliani hanno ucciso 61 civili e un combattente di Hezbollah: è il bilancio delle vittime più grave dallo scoppio della guerra. Migliaia di persone sono state sfollate e gli stranieri evacuati. A Beirut, è sbarcato anche un plotone di quaranta marines americani: è la prima volta che i soldati Usa rientrano nel Libano dal 1983, quando i marines lasciarono il Paese dopo un attentato che aveva ucciso 220 di loro.
Questa volta, 23 anni dopo il ritiro, i soldati Usa si sono limitati a evacuare i 1.052 cittadini a stelle e strisce presenti in Libano e facendoli sbarcare a Cipro. E così hanno fatto anche altri 359 italiani, saliti a bordo del cacciatorpendiere italiano "Durand De La Penne", salpato nel pomeriggio per Larnaka con un carico di cittadini di quindici nazionalità.
Con le ultime sessanta vittime, il conto dei morti dopo otto giorni di guerra è salito a 297 persone uccise in Libano e 29 in Israele. I razzi di Hezbollah hanno ucciso due bambini a Nazareth, secondo quanto riferito dai medici. Altri razzi sono atterrati su Haifa e uno ha colpito un ristorante deserto sul mare.
I soldati israeliani hanno attraversato il confine per colpire le postazioni Hezbollah e l’esercito ha riferito che due soldati sono morti e nove sono rimasti feriti in scontri con i guerriglieri. Nonostante le preoccupazioni internazionali, così, non ci sono segnali che possano far pensare a una fine dei combattimenti. Il primo ministro libanese Fouad Siniora ha detto che oltre 500mila persone sono sfollate e ha fatto appello agli aiuti internazionali. «Vi chiedo di rispondere immediatamente e senza riserve al nostro appello per una tregua e fornire urgenti aiuti umanitari internazionali», ha detto in un discorso trasmesso in tv.
Il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, ha però risposto ribandendo la linea espressa dal suo ambasciatore all’Onu. «I bombardamenti dureranno quanto necessario per liberare i due soldati rapiti da Hezbollah il 12 luglio scorso e assicurarsi che i militanti vengano disarmati». E nel villaggio libanese di Srifa, mentre Hezbollah ha fatto sapere di essere pronta a scambiare i due soldati catturati con i cittadini libanesi e palestinesi che si trovano nelle carceri israeliane, almeno 17 libanesi, compresi diversi bambini, sono morti e 30 sono rimasti feriti da un altro attacco aereo israeliano che ha distrutto un centro abitato. «È stato compiuto un massacro a Srifa», ha dichiarato il sindaco del villaggio, Afif Najdi. I soccorritori stanno ancora cercando superstiti. Israele ha bombardato anche una pista all’aeroporto internazionale di Beirut, chiuso da giovedì scorso. La pista e i serbatoi di benzina sono stati colpiti diverse volte.
www.unita.it, Pubblicato il 20.07.06
PER UN’ALTRA STORIA E PER UN OLTRE-ISRAELE !!! Una ’indicazione’ di Moni OVADIA*
"OYLEM GOYLEM racconta di un popolo intero che ha saputo vivere tra cielo e terra, di un popolo senza patria, senza confini, senza burocrazia, senza esercito, senza coltelli in tasca, eppure popolo. Un popolo che ha saputo vivere l’orrore senza perdere mai la santificazione della vita, e la vita l’ha santificata anche con un dirompente umorismo. Un umorismo che cercava di essere una rispsota disarmata e sublime alla brutalita’" (Moni Ovadia)
* OYLEM GOYLEM. IL MONDO E’ SCEMO di Moni Ovadia (Einaudi: Libro+ DVD dcon la registrazione dello spettacolo teatrale)
ISRAELE: OLTRE-UOMO.... O SUPERUOMO?! (30.06.2006).
E’ il primo palestinese ucciso nell’offensiva per liberare il caporale Shalit Il presidente egiziano Mubarak: "Da Hamas ok condizionato alla liberazione"
Missili israeliani su Gaza, un morto Colpito il ministero dell’Interno
Il premier Olmert: "Non pagheremo nessun riscatto" *
GAZA - Alla fine è arrivato anche un morto palestinese, il primo nell’offensiva sferrata dall’esercito israeliano nel tentativo di liberale il soldato rapito domenica scorsa. Nella notte una serie di attacchi hanno colpito la striscia di Gaza: un miliziano palestinese delle brigate dei martiri di Al-Aqsa è morto per le ferite riportate in uno scontro a fuoco a Nablus.
Una notizia confermata da una fonte militare israeliana: "Vi è stata una sparatoria mentre le truppe entravano in città per arrestare dei militanti e che un uomo armato è stato colpito". Ieri era stato ritrovato il corpo del colono israeliano rapito e ucciso a Ramallah, in Cisgiordania.
Nella notte i missili lanciati da jet ed elicotteri israeliani hanno colpito anche gli uffici del ministro dell’Interno, Saeed Seyam, che sono stati avvolti dalle fiamme. Gli edifici erano vuoti al momento dell’incendio e quindi non ci sono state vittime. Tra gli obiettivi dei raid anche una sede di Fatah, due campi di addestramento, edifici utilizzati da Hamas e un deposito di armi, tutti deserti al momento dell’attacco.
Ma non ci sono stati solo attacchi dal cielo. Nel nord della striscia, è avvenuta una sparatoria con armi leggere tra soldati israeliani e militanti palestinesi. Lo hanno raccontato alcuni testimoni palestinesi anche se l’esercito israeliano ha negato che suoi soldati siano stati coinvolti in scontri a fuoco nella zona o abbiano varcato il confine della striscia di Gaza. Israele ha anche negato di aver colpito una centrale elettrica nel sud della striscia, affermando che immagini aeree provano come questa sia stata colpita da un missile Qassam sparato da parte palestinese.
Continuano i contatti fra le autorità palestinesi e quelle israeliane per la liberazione del caporale Ghilad Shalit, rapito domenica scorsa da un commando di palestinesi. Il premier Olmert fa sapere, parlando alla radio militare, che "Israele non intende pagare alcun riscatto". Una reazione che segue la dichiarazione del presidente egiziano Mubarak che, in un’intervista, aveva aperto uno spiraglio per la trattativa: "Il movimento radicale Hamas ha dato la sua approvazione condizionata" alla liberazione del caporale Ghilad Shalit, aggiungengo che però non è stato ancora raggiunto un accordo con Israele. "Finora, la parte israeliana non ha accettato le condizioni", ha aggiunto Mubarak.
Un’apertura che sembra in contrasto con quanto affermato da un deputato di Hamas. "Non riconosceremo mai Israele". Il deputato, durante un comizio a Gaza, ha continuato: "Giuriamo a Dio che, anche se verremo uccisi e annientati, non riconosceremo mai Israele e non rinunceremo mai ai nostri diritti". Al Masri ha detto più tardi che parlava in nome sia dell’organizzazione, la cui Carta invoca la distruzione dello Stato ebraico; sia del governo palestinese, controllato da Hamas, vincitore delle elezioni legislative del gennaio scorso. Nei giorni scorsi un accordo fra Hamas e Al Fatah aveva aperto le speranze per un riconoscimento implicito dello stato d’Israele da parte del movimento radicale. (30 giugno 2006)
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WWW.REPUBBLICA.IT, 30.06.2006
FERMATE ISRAELE
di Rossana Rossanda
Il sequestro di 64 parlamentari palestinesi di Hamas, fra i quali otto ministri, in tutte le città della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano non è un rappresaglia, è il tentativo di affondare per sempre la già assediata e affamata Autorità palestinese e di chiudere con ogni trattativa che pareva potersi aprire negli ultimi giorni. Sul documento dei prigionieri palestinesi in Israele,Hamas e Al Fatah avevano raggiunto un accordo per molti versi storico. Per la prima volta Hamas riconosceva, sia pure implicitamente mainmodoinequivocabile, la legittimità dell’esistenza di due stati. Contro questo accordo, che innovava radicalmentenon solo la linea di Hamasma anche [...] (il manifesto, 30.06.2006)
Sternhell: «Da israeliano dico: per salvare Shalit non servono i tank» di Umberto De Giovannangeli*
«Quella messa in campo da Israele è l’impotenza della forza militare. Ma credere di poter vincere con la forza militare questo tipo di resistenza non è solo un errore, è una tragica illusione». A sostenerlo è uno degli intellettuali più in vista di Israele e più affermati a livello internazionale: Zeev Sternhell, storico, docente di Scienze Politiche all’Università Ebraica di Gerusalemme. «Ciò che si rivela fallimentare -avverte Sternhell- è l’unilateralismo forzato, strategico, che l’"allievo" Olmert ha ereditato dal "maestro" Sharon».
Professor Sternhell, nei Territori la situazione è esplosiva e si teme un conflitto devastante e prolungato. C’è un motivo per cui tutto questo avviene ora? «Il motivo che è alla base delle violenze fra noi e i Palestinesi, non è cambiato: quando due nemici non si parlano, non cercano e non presentano una vera, sincera e profonda soluzione al problema, si è condannati alla perpetuazione della violenza. Le violenze continueranno fin quando da parte palestinese non si arriverà alla definitiva e generale accettazione della esistenza di Israele, alla comprensione che Israele non è cancellabile dalla mappa, e che la terra deve essere divisa fra i due popoli. E le violenze continueranno anche se il governo israeliano proseguirà sulla strada intrapresa da Sharon, senza cercare di affrontare veramente e risolvere il conflitto intorno ad un tavolo di trattative. Olmert vuole portare avanti un altro piano di ritiro unilaterale. Come se i Palestinesi, una volta usciti noi Israeliani, potessero essere felici e svilupparsi in una nazione frammentata in cantoni. Purtroppo il risultato sarà, ancora una volta, il semplice spostamento delle linee delle ostilità. Questo unilateralismo forzato, strategico, ha avuto il suo peso nell’affermazione elettorale di Hamas e nel mancato radicamento di una leadership palestinese moderata. Alla stregua del suo maestro, Ariel Sharon, Ehud Olmert è fermamente convinto che l’interlocutore con cui trattare una soluzione politica della questione palestinese, non vada cercato a Ramallah o a Gaza, e nemmeno in Europa, ma a Washington. E con gli Stati Uniti il "negoziato" è permanente».
Israele trepida per la sorte del caporale Shalit, rapito da un commando palestinese. «Per quanto riguarda l’operazione militare in atto, non la capisco e non l’approvo. Il soldato rapito potrà forse essere localizzato con l’aiuto di carri armati? Saranno forse gli aerei a portarlo via dalla prigionia? No. Se ciò avverrà, sarà solo per l’uso di strumenti che non hanno nulla a che fare con l’esercito: sarà un collaboratore che verrà pagato per aver dato l’informazione giusta, e saranno reparti speciali anti-terrorismo che si metteranno in azione per irrompere in una specifica casa».
Si ha la netta impressione che accanto alla risolutezza, Israele stia dimostrando anche molta frustrazione, l’impotenza della potenza militare che nulla può contro le azioni di gruppi terroristici... «Non c’è dubbio che le cose stiano proprio così. E purtroppo devo ribadire la stessa idea espressa in precedenza: si è frustrati quando si cerca di fare una cosa che si ritiene possibile. Ma vincere con la forza militare questo tipo di resistenza, non è possibile. La storia moderna è piena di esempi di tentativi del genere e falliti. Da Napoleone in Spagna, ai Francesi in Algeria, e poi il Vietnam, l’Iraq e così via. Israele ancora non l’ha capito del tutto, come non ha capito che erigere un muro non può rappresentare una soluzione. Ci si può scavare sotto, ci si possono fare delle brecce e ovviamente ci si può sparare sopra con armi sempre più sofisticate. Israele non può non interrogarsi su cosa accade al di là di quel muro, dei processi di frustrazione, di rabbia e di cieco desiderio di vendetta che crescono all’ombra del muro».
Israele si trova ancora una volta di fronte al dilemma posto dalla necessità di salvare la vita di propri cittadini operando però in modo da far soffrire dall’altra parte centinaia di migliaia di civili palestinesi che non hanno colpe dirette. «L’azione militare in corso, non ha la sola finalità di liberare il soldato rapito - e semmai lo mette in pericolo - ma è purtroppo anche una forma di punizione collettiva inflitta alla popolazione di Gaza. Altrimenti, non riesco a capire l’utilità di far saltare ponti e centrali elettriche. C’è veramente qualcuno che pensa che i rapitori si muoveranno in carovane di auto per spostare il soldato rapito? E a che serve - se non a punire collettivamente la popolazione palestinese - lasciare senza elettricità mezzo milione di persone? Non posso accettare la demagogia e il cinismo di chi - come Peres - dice che sono i Palestinesi ad autopunirsi».
Oggi alla guida politica del ministero della Difesa c’è Amir Peretz, leader del Partito Laburista, proveniente dall’area più pacifista del partito. È deluso di queste scelte «militariste» di Peretz, oppure chi arriva in quella posizione non può comportarsi altrimenti? «La questione non sta in questo o quel leader laburista, ma nella strada scelta dal partito. Voglio sperare che Peretz abbia ancora bisogno di un po’ di tempo per far pesare la sua opinione sulle decisioni militari. Ma se non riuscirà a distaccare il suo partito da quello di Olmert, se non si porrà nel governo come elemento che spinge verso una soluzione negoziata, se non sarà capace di presentare un’alternativa ai piani che si trovano ora sul tavolo del governo e che sono destinati a fallire, allora, il suo operato non si differenzierà da quello delle precedenti leadership laburiste, che si sono appiattite sulle posizioni di centro-destra del Likud e che ora si appiattiscono sulle posizioni del Kadima di Olmert. E se non saremo in grado di parlare oggi con i Palestinesi, si dovrà rimandare la ricerca della soluzione a quando le due parti saranno veramente mature per affrontare i difficili compromessi per arrivare alla pace. E nel frattempo i due popoli continueranno a soffrire».
C’è chi dice che il vero obiettivo dell’azione militare è farla finita con il governo Hamas. «Di nuovo l’impotenza politica mascherata dalla forza militare. Abbiamo eliminato il fondatore di Hamas (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr), abbiamo proseguito con il suo successore (Abdelaziz Rantisi, ndr) ma Hamas è cresciuto, si è radicato nella società palestinese fino a vincere le elezioni di gennaio con un consenso popolare che certo non è stato estorto con la forza. Possiamo anche uccidere o incarcerare tutti i ministri ma ci chiediamo poi chi oserà in campo palestinese far parte di un governo "collaborazionista"? O pensiamo che per Israele sia meglio che nei Territori si consolidi il caos armato? Per negoziare la pace, Israele ha bisogno di un interlocutore realmente rappresentativo e non di un Pétain palestinese».
WWW.UNITA.IT, Pubblicato il 02.07.06
’’Irrealistica’’ secondo il premio Nobel per la pace ’’la politica di non parlare con Hamas’’
Jimmy Carter: ’’Israele possiede 150 bombe nucleari’’
Una dichiarazione che sorprende dato che Israele non ha mai ammesso di avere armi atomiche. L’ex presidente Usa ha anche spronato l’Europa a ’’rompere con gli Usa sull’embargo alla Striscia di Gaza’’ che è ’’uno dei più grandi crimini umani sulla Terra’’
Londra, 26 mag. (Adnkronos) - Israele possiede 150 bombe nucleari. Parola dell’ex presidente degli Stai Uniti Jimmy Carter (nella foto) che ne ha parlato a margine del festival letterario di Hay-on-Wye nel Galles.
Le sue dichiarazioni, riportate dal ’Times’ di Londra, colpiscono particolarmente dato che Israele non ha mai ammesso di avere armi nucleari, anche se molti ritengono che le abbia. Nessun funzionario americano ha mai deviato in pubblico dalla linea israeliana. La risposta standard dei vertici israeliani è che il loro Paese non sarà "il primo a introdurre l’arma nucleare in Medio Oriente".
Carter ha avuto anche parole molto dure sull’embargo imposto alla Striscia di Gaza controllata da Hamas, definendolo "uno dei più grandi crimini umani sulla Terra".
Quindi, come riporta il ’Guardian’, l’ex presidente Usa ha spronato l’Europa a rompere con gli Stati Uniti su questa questione. "Mica sono nostri vassalli - ha sottolineato - occupano una posizione di parità con gli Stati Uniti". Mentre a suo parere l’Ue mantiene una posizione "passiva" rispetto al conflitto israelo-palestinese e la sua mancata critica all’embargo imposto a Gaza è imbarazzante".
Carter considera irrealistica la politica di non parlare con Hamas, tanto più che Israele lo sta facendo indirettamente tramite l’Egitto. L’ostracismo contro Hamas se non rinuncerà alla violenza e non riconoscerà Israele e gli accordi firmati con i palestinesi, ha aggiunto l’ex inquilino della Casa Bianca, è stato messo a punto da Elliot Abrams del Consiglio americano per la sicurezza nazionale, da lui definito "un sostenitore molto militante d’Israele".
Carter è stato insignito del premio Nobel per la Pace nel 2002 per il suo impegno internazionale contro i conflitti, e in particolare per il suo ruolo nell’accordo di pace di Camp David fra Israele ed Egitto nel 1978. Recentemente l’ex presidente è stato ricevuto molto freddamente nello stato ebraico nell’ambito di un suo viaggio in Medio Oriente durante il quale ha avuto una serie di colloqui con i leader di Hamas.
Peres e Barak: raid contro l’Iran sempre più probabile. Francia: attacco sarebbe destabilizzante *
Mentre il mondo guarda alla crisi dell’Eurozona, il G20 discute dell’emergenza economica in Europa, della debole ripresa negli Stati Uniti, e la primavera araba sembra fare un passo avanti e due indietro, si riaccende il fronte Iran, paese che ha visto la nascita di un movimento di protesta giovane, l’Onda verde del 2009, e la sua repressione a opera del regime di Kamenei e del presidente Mamoud Ahmadinejad.
Il presidente israeliano Shimon Peres ha ribadito ieri notte in una intervista ad una tv israeliana: «un attacco all’Iran» da parte di Israele e di altri Paesi fra cui Stati Uniti e Gran Bretagna è «sempre più verosimile». Le sue dichiarazioni sono giunte dopo che da giorni si parla sui media israeliani di un possibile raid aereo contro installazioni nucleari in Iran. Il primo ministro Benyamin Netanyahu non ha accennato alla questione aprendo oggi la consueta riunione settimanale del governo, ma altri ministri hanno criticato i colleghi che hanno affrontato pubblicamente l’argomento. Ma il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha detto alla Bbc che un l’Iran «determinato ad avere capacità militari nucleari» rappresenterebbe «una grossa minaccia per il mondo» anche perché una atomica iraniana «rischierebbe di aprire una corsa al nucleare in Medio Oriente».
Il ministro Juppè: rafforzare sanzioni
Come in altre occasioni, quando si tratta di prendere posizione su questioni mediorientali e del mondo arabo - dai palestinesi alla Libia - spiccano le parole contro della Francia. Un raid militare contro le installazioni nucleari iraniane porterebbe ad una situazione «totalmente destabilizzante» in Medio oriente, dice oggi il ministro degli Esteri francese Alain Juppè, in un’intervista a radio Europe 1, aggiungendo che Parigi insisterá per rafforzare le sanzioni internazionali. «Possiamo ancora rafforzarle (le sanzioni) per premere sull’Iran. Continueremo su questa strada perchè un intervento militare creerebbe una situazione totalmente detabilizzante nella regione, ha detto il ministro- »Dobbiamo fare il possibile -ha aggiunto- per evitare l’irreparabile».
* IL SOLE 24 ORE, 6 NOVEMBRE 2011
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-06/peres-barak-raid-contro-162245.shtml?uuid=AaKHoFJE