Golem *
Il Golem (ebr. גולם) è una figura immaginaria frutto della mitologia ebraica e del folklore medievale. Il termine deriva probabilmente dalla parola ebraica gelem che significa "materia grezza", o "embrione". Esso fa la sua prima apparizione nella Bibbia (Antico Testamento, Salmo 139:16) per indicare la "massa ancora priva di forma", che gli Ebrei accomunano ad Adamo prima che gli fosse infusa l’anima.
Indice
1 Leggenda
2 Influenza culturale
3 Bibliografia
3.1 Narrativa
4 Filmografia
5 Altri progetti
6 Collegamenti esterni
Leggenda
Secondo la leggenda, chi viene a conoscenza di certe arti magiche può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Può essere evocato pronunciando una combinazione di lettere alfabetiche.
Si dice che il Golem sia stato formato attraverso il testo Sefer Yetzirah: esso risale alla sapienza di Avraham e si distingue per l’esegesi sui segreti dell’alfabeto ebraico, delle Sefirot nel legame con l’anatomia del corpo umano, con i pianeti e con mesi, giorni e segni zodiacali: queste tre figure - l’uomo, il mondo e l’anno - rappresentano tre testimoni completi. Il Maestro che volesse formare un Golem, così si racconta, si serviva delle lettere girando attorno alla forma di argilla per un numero di volte preciso, in corrispondenza a tutte le figure citate sul Sefer Yezirah.
Il Golem era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un’anima e nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela.
Si narra che nel XVI secolo un mago europeo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per servirsene come servi, plasmandoli nell’argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola "verità" (in ebraico אמת [emet]). C’era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in "morte" (in ebraico מת [met]); ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il Golem, come una sorta di angelo però creato dall’uomo, si racconta operasse anche per la difesa di alcune comunità ebraiche dell’Europa orientale. Ripreso il controllo della situazione, il mago decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga Staronova, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi.
Influenza culturale
Scena dal film muto Der Golem, wie er in die Welt kam (1920) di Paul WegenerLo scrittore ed esoterista Gustav Meyrink si ispirò a questa leggenda per il suo romanzo del 1915 Il Golem (Der Golem) come anche il regista Paul Wegener per la serie di film classici dell’espressionismo cinematografico degli anni venti a partire dal film muto Der Golem (1915). Questi film (soprattutto Der Golem: Wie er in die Welt Kam del 1920) ispirarono James Whale per il suo Frankenstein del 1931.
Il Golem è divenuto anche un personaggio dei fumetti Marvel Comics (1974-1975). A metà degli anni novanta un’altra versione del Golem apparve sotto il marchio DC Comics e si alleò ai Leymen in Primal Force.
Il Golem fa la sua apparizione anche nella serie animata I Simpson. Nell’episodio "La paura fa Novanta XVII" del 2006, Bart Simpson trova il Golem di Praga, il cui aspetto è identico a quello del film Der Golem di Paul Wegener.
Golem è il nome di un Pokémon, dalle sembianze vagamente umane, costituito da un corpo di roccia solida e fortissimo agli attacchi esterni.
Il Golem appare anche nei fumetti editi dalla Bonelli come Dylan Dog, Dampyr e Jonathan Steele.
Nel videogioco Golden Sun e nel suo seguito Golden Sun: l’era perduta appaiono vari tipi di Golem come nemici comuni.
Il gruppo musicale canadese dei Voivod ha dedicato al demone d’argilla della tradizione praghese il brano Golem dell’album Angel Rat.
La figura del golem appare anche nel romanzo "Le cronache del mondo emerso - Il talismano del potere" di Licia Troisi. Infatti Nihal (la protagonista) combatte contro due golem e per ucciderli cancella la prima lettera scritta sulla loro fronte in modo che compaia la scritta "morte". [...]*
* Fonte: Wikipedia, l’enciclopedia libera. - per una lettura integrale, clicca sul rosso.
L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA.
Nel nome della "Tradizione"
di Federico La Sala
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro-prezzo’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro-prezzo, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
Sul tema, nel sito, si cfr. (per leggere gli art., cliccare sul rosso->):
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!!
L’anima e la cetra /19.
Il grembo del seme diverso
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
La reciprocità è la benedizione e la maledizione dei nostri patti e delle nostre promesse. Siamo impastati di reciprocità, la desideriamo e la speriamo dopo i nostri doni, l’attendiamo sotto forma di stima dopo aver consegnato l’opera del nostro lavoro, e nessun amore riesce a fiorire in pienezza se ad un certo punto non diventa amore reciproco.
Quando il cristianesimo volle sintetizzare il messaggio di Gesù in un’unica legge non trovò nulla di meglio di un comando di reciprocità - "amatevi gli uni gli altri". Nell’umanesimo cristiano l’amore è ancora imperfetto finché non produce altro amore in ritorno.
L’agape, nel suo dover-essere, è amare ed essere amati. Questo sigillo di mutualità iscritto, indelebile, nel cuore della persona e delle comunità, genera un’indigenza radicale di riconoscenza e di riconoscimento, e quindi di attese e aspettative di reciprocità che non di rado sfiorano la pretesa. Non controlliamo la stima degli altri né la loro gratitudine, ma senza ci sentiamo parziali, insoddisfatti e incompiuti.
Ecco allora che molta infelicità, frustrazione e persino violenza si gioca sul confine tra desiderio e attesa, sperare e pretendere, libertà ed obbligo. Impara bene il mestiere del vivere chi, dopo aver appreso per tutta la vita la grammatica delle molte reciprocità, dopo averla infinitamente amata e compresa come il pane e l’acqua dei rapporti importanti, riesce un giorno ad imparare ad andare oltre la reciprocità, a vivere anche senza quel pane e quell’acqua. E lì inizia l’età di una nuova povertà e di una mitezza adulta, comincia il tempo della mansuetudine lieta. Perché capiamo che la nostra dignità è più grande della reciprocità, e che nessuna reciprocità può saziare la nostra sete e fame d’infinito, che ci accompagneranno, in crescendo, per tutta la vita. Ed ad accogliere le poche reciprocità come puro dono e stupore.
«Canterò in eterno la lealtà del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: "È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà". "Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza"» (Salmo 89,2-5).
L’inizio del Salmo ricorda un rito nuziale, o un’alleanza tra due popoli, dove ciascuno dice la sua promessa e edifica il patto come incontro di due "per sempre". Poi, in nome del popolo, si eleva l’inno d’amore: «I cieli cantano le tue meraviglie, oh YHWH, la tua fedeltà nell’assemblea dei santi... Beato il popolo che ti sa acclamare» (89,6-17). Quindi il salmo ricorda a Dio la sua promessa: «Un tempo parlasti in visione ai tuoi leali, dicendo: "Ho portato aiuto a un prode, ho esaltato un eletto tra il mio popolo. Ho trovato Davide, mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato... Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo... Non annullerò il mio amore e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa"» (89,20-36). Parole simili a quelle che ritroviamo sulla bocca del profeta Natan nel Secondo Libro di Samuele (cap. 7), alle quali forse il salmista si è ispirato, insieme ai poemi babilonesi (tra questi l’Enuma Elis).
Ed è qui, precisamente al versetto 39, dove si trova il centro drammatico del salmo. Quando, dopo aver ridetto il proprio amore e ricordato a Dio il suo, la preposizione avversativa "ma tu" imprime una svolta al canto e ne svela il senso: «Ma tu lo hai respinto e disonorato, ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai spezzato l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona... Hai posto fine al suo splendore, hai rovesciato a terra il suo trono. Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza» (89,39-46).
Ecco l’esilio, la roccia dove si è infranta la storia della salvezza, il fumo-vanitas che ha avvolto la promessa, la spada che ha reciso quel patto di reciprocità. Un Salmo composto in Babilonia, quando la grande prova d’Israele fu la (quasi) certezza che il suo Dio si fosse dimenticato dell’alleanza. I profeti lessero l’esilio come conseguenza necessaria dell’infedeltà del popolo - a ricordarci che è sempre molto difficile attraversare i nostri esili ed uscirne innocenti nell’anima. Ma tra quelle rovine religiose nacque anche la preghiera più sublime della Bibbia, Israele imparò a pregare diversamente.
Le parole che formano l’ossatura del canto sono hesed e emét. Hesed è una dimensione dell’amore che ricorda soprattutto la lealtà dentro rapporti durevoli. È l’amore leale, che quindi confina con fedeltà e affidabilità, cioè con emét. Emét rimanda a verità e fedeltà, e ha la stessa radice di ’aman (credere), emunah (fede) e amen (è vero, ci credo) la parola con cui si chiude questo salmo. Alla base di emét c’è un’idea di solidità, di verità in quanto evidenza, di "puntellare" (che è il primo significato del verbo ’aman).
Un senso nascosto anche nell’alfabeto ebraico: emét è composto da tre lettere che poggiano saldamente ciascuna su due "gambe", mentre la parola "falso", seqer poggia su un solo punto, barcolla, è instabile. È questa la fede biblica, che a differenza di quella greca e poi illuminista non è un atto cognitivo della ragione teso a credere in principi o enti, ma un prendere atto di una realtà che ha la sua evidenza-verità intrinseca e concreta. Sono le mani e i piedi i primi strumenti di questa fede.
La sovrapposizione tra queste due parole, che si muovono dentro il perimetro semantico di verità-fede-fedeltà-lealtà, è la chiave per entrare nel segreto di questo salmo. Il salmista chiede al suo Dio, che è il Dio dell’alleanza e quindi il Dio del patto reciproco, di essere più grande della reciprocità. E la possibilità di questa operazione paradossale sta soprattutto nella semantica della bellissima parola emét, che significa ad un tempo: verità e fedeltà. Torna di nuovo quel "ricordati di te" così comune nei salmi. Quando seduti sulle macerie del passato, nel tempo del fallimento e della sventura, la prima preghiera non è più quella dei tempi ordinari: «Dio ricordati di me». Nei tempi tremendi l’esercizio della memoria diventa radicale e stupendo. L’uomo fa ricorso alla risorsa di ultima istanza e osa dire a Dio: "ricordati di te", ricordati di chi sei. E nasce la preghiera più bella, quella che diciamo a Dio ma anche quella che ci diciamo tra di noi quando, seduti sul mucchio di spazzatura di ciò che resta dei nostri patti, troviamo ancora le forze per un’ultima richiesta: "ricordati chi eri, ricordati chi sei".
La fedeltà ad un patto ha quindi la sua radice e ragione nella verità. Un’espressione simile che si legge in altri salmi è: "per amore del tuo nome". Come a dire: "Tu YHWH non sei come noi, che siamo legati e imprigionati dentro la legge di reciprocità e di condizionalità dei nostri patti. Tu sei più grande perché sei capace di continuare ad essere fedele ad un patto anche quando noi lo tradiamo, tu sei Dio vero perché sei libero anche dalla reciprocità. Per questo devi essere fedele al tuo nome, devi essere leale al tuo ’per sempre’ proprio e perché noi non lo siamo più. Sii più grande della libertà che ci hai donato". Ed è stato così, ripetendo queste preghiere, che anche noi abbiamo imparato a pronunciare i nostri "per sempre". Ricordando a Dio i suoi "per sempre" siamo diventati capaci di dirli anche noi. E quindi abbiamo imparato il perdono, anche noi abbiamo appreso una fedeltà più grande per amore del "nostro nome", per una misteriosa fedeltà vera a noi stessi che ci ha fatto diventare, qualche volta, migliori delle nostre reciprocità.
Nei secoli, questo salmo è stato pregato da molti uomini e donne che davanti alle macerie della vita adulta hanno ricordato a Dio la verità della prima alleanza e della prima vocazione; e mentre la ricordavano a Dio l’hanno ricordata a se stessi, in una nuova esperienza di reciprocità - da adulti la verità-fedeltà al nostro "nome" può risorgere solo se qualcun altro ce la ricorda. Sappiamo che all’inizio c’era stata una voce vera, una chiamata e un’alleanza. Abbiamo risposto con generosità, abbiamo creduto a quella verità più vera. E abbiamo iniziato il cammino, ci siamo impolverati lungo la strada, e un giorno ci siamo ritrovati in esilio in una terra straniera, anche quando non eravamo mai usciti da una casa o da un convento. Si diventa adulti dentro una vocazione quando si riesce a capire che la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare, e nasce una profonda sensazione di infedeltà, una infedeltà che non è tradimento ma svelamento della verità della prima voce. Qualche volta, lungo questi fiumi, riusciamo anche noi a gridare a Dio "ricordati di te", per dirgli: "io non ce l’ho fatta a custodire la fedeltà del primo patto, ma tu devi essere fedele. E se tu sei fedele al patto con me non mi manca nulla, è un bel modo di invecchiare e di morire". Se la fede è anche corda (fides) allora si continua la scalata e non si precipita finché uno dei due non molla la presa.
Molto bella e misteriosa è la conclusione del salmo, il suo ultimo "ricordati": «Ricorda mio Signore: nel mio ventre io porto dei popoli il disonore» (89,51). Come non leggere qui una eco del canto del servo di Isaia?! («Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»: 53,4). Il poeta diventa nelle sue viscere (in sinu) immagine del popolo sofferente, esiliato, umiliato. Molto bello il commento di Guido Ceronetti a questo verso: «Se c’è un principio unificatore non d’invenzione teologica è questo disonore che ci accomuna. Ma in questo testo è anche la Scrittura stessa che parla, e dice di sé, con implacabile spudoratezza sacra, quel che ha portato del mondo e nel mondo» (Il libro dei salmi, p. 274).
Tutti i grembi dei servi e delle serve sofferenti della storia sono stati il luogo dove è maturato un seme diverso, che un giorno si raccolse nel seno di una vergine. Il "rallegrati o Maria" è la risposta ai tanti "ricordati o Dio".
Vaticano
Papa accusato di sette eresie, firma anche Gotti Tedeschi *
Una lettera di 25 pagine firmata da 40 sacerdoti e studiosi laici cattolici è stata spedita a Papa Francesco l’11 agosto e le firme sono oggi arrivate a 62. «Per il fatto che non è stata ricevuta nessuna risposta dal S. Padre, la si rende pubblica quest’oggi, 24 settembre», dicono i firmatari accusando Papa Francesco di “sette eresie” per la Amoris Laetitia. Spicca nell’elenco delle firme quella di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. La “correzione formale”ˮ presentata sotto forma di “correzione filialeˮ è stata resa nota la scorsa notte all’unisono negli Stati Uniti dal sito ultra-tradizionalista Rorate caeli e in italiano dal blog di Sandro Magister, dalla Nuova Bussola Quotidiana diretta da Riccardo Cascioli e dal sito Corrispondenza Romana del professor Roberto De Mattei (quest’ultimo tra i firmatari).
Il fatto che i tradizionalisti stessero valutando l’opportunità di una “correzione” al Papa per le novità introdotte sul matrimonio nella Amoris Laetitia era stata ventilata già nei mesi scorsi. A parlarne esplicitamente era stato uno dei cardinali dei cosiddetti “dubia”, Raymond Leo Burke, che però non è oggi tra i firmatari di questa lettera. La lettera è stata divulgata con un sito ad hoc, ed ha un titolo latino: Correctio filialis de haeresibus propagatis (letteralmente, Correzione filiale in ragione della propagazione di eresie). In essa si dichiara che il Papa, mediante la sua Esortazione Apostolica Amoris Laetitia e mediante altri parole, atti e omissioni ad essa collegate, «ha sostenuto sette posizioni eretiche, riguardanti il matrimonio, la vita morale e la recezione dei sacramenti, e ha causato la diffusione di queste opinioni eretiche nella Chiesa Cattolica”.
Tra i rilievi mossi al Papa dagli studiosi della frangia ultraconservatrice della Chiesa, il fatto che “direttamente o indirettamente, il Papa ha permesso che si credesse che l’obbedienza alla Legge di Dio possa essere impossibile o indesiderabile e che la Chiesa talvolta dovrebbe accettare l’adulterio in quanto compatibile con l’essere cattolici praticanti».
Tra le firme, oltre a quella di Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, c’è quella del Capo dei Lefebvriani, monsignor Bernard Fellay. C’è qualche religioso, noto ai siti tradizionalisti ma per la maggior parte le firme sono di studiosi laici. Nessun cardinale firma il documento, neanche quelli che si fecero portavoce dei “dubia” sulla stessa Amoris Laetitia.
L’elenco completo dei firmatari
Queste in sintesi le presunte 7 false affermazioni che i firmatari deducono dalla loro interpretazione del documento papale e da altre affermazioni del Pontefice:
1. Una persona giustificata non ha la forza con la grazia di Dio di adempiere i comandamenti oggettivi della legge divina, come se alcuni dei comandamenti fossero impossibili da osservare per colui che è giustificato; o come se la grazia di Dio, producendo la giustificazione in un individuo, non producesse invariabilmente e di sua natura la conversione da ogni peccato grave, o che non fosse sufficiente alla conversione da ogni peccato grave.
2. I cristiani che hanno ottenuto il divorzio civile dal coniuge con il quale erano validamente sposati e hanno contratto un matrimonio civile con un’altra persona (mentre il coniuge era in vita); i quali vivono ’more uxorio’ con il loro partner civile e hanno scelto di rimanere in questo stato con piena consapevolezza della natura della loro azione e con il pieno consenso della volontà di rimanere in questo stato, non sono necessariamente nello stato di peccato mortale, possono ricevere la grazia santificante e crescere nella carità.
3. Un cristiano può avere la piena conoscenza di una legge divina e volontariamente può scegliere di violarla in una materia grave, ma non essere in stato di peccato mortale come risultato di quell’azione.
4. Una persona, mentre obbedisce alla legge divina, può peccare contro Dio in virtù di quella stessa obbedienza.
5. La coscienza può giudicare veramente e correttamente che talvolta gli atti sessuali tra persone che hanno contratto tra loro matrimonio civile, quantunque uno dei due o entrambi siano sacramentalmente sposati con un’altra persona, sono moralmente buoni, richiesti o comandati da Dio.
6. I principi morali e le verità morali contenute nella Divina Rivelazione e nella legge naturale non includono proibizioni negative che vietano assolutamente particolari generi di azioni che per il loro oggetto sono sempre gravemente illecite.
7. Nostro Signore Gesù Cristo vuole che la Chiesa abbandoni la sua perenne disciplina di rifiutare l’Eucaristia ai divorziati risposati e di rifiutare l’assoluzione ai divorziati risposati che non manifestano la contrizione per il loro stato di vita e un fermo proposito di emendarsi.
«Tutte queste proposizioni - concludono i firmatari - contraddicono verità divinamente rivelate che i cattolici devono credere con assenso di fede divina. È necessario per il bene delle anime che esse siano ancora una volta condannate dall’autorità della Chiesa. Nell’elencare queste sette proposizioni, non intendiamo offrire una lista esaustiva di tutte le eresie ed errori che ad una lettura obbiettiva di “Amoris laetitia”, secondo il suo senso naturale e ovvio, il lettore evidenzierebbe in quanto affermati, suggeriti o favoriti dal documento. Piuttosto ci riferiamo alle proposizioni che Vostra Santità, mediante parole, atti e omissioni, ha in effetti sostenuto e propagato, causando grande e imminente pericolo per le anime».
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
Quando la creatura si ribella al creatore
di Giuseppe Montesano (la Repubblica, 12.12.2010)
L’inizio della storia del golem, l’automa vivente creato dall’uomo, si trova forse in una delle leggende del Talmud, il libro rituale dell’ebraismo, e non è priva di sapiente ironia: «Rabbi Hanina e Rabbi Oshaya tutte le vigilie del sabato si occupavano del Libro della Creazione, creavano un vitello grande un terzo del naturale, e se lo mangiavano...». In un’altra leggenda Rabbi Rava crea un uomo e lo manda da Rabbi Zera che lo interroga, ma l’uomo artificiale non riesce a rispondere: evidentemente il prototipo di Golem di Rabbi Rava era difettoso. Ma l’idea che l’uomo potesse creare qualcosa di vivo adoperando una formula o delle parole era nata, la storia del robot fatto di terra e di parole magiche cominciò a diffondersi e uno dei fratelli Grimm la riassunse così: «Plasmano con argilla la figura di un uomo, e quando pronunciano il nome di Dio, l’argilla deve prendere vita. È vero che non può parlare, ma capisce ciò che gli si comanda. Lo chiamano Golem, e lo usano come domestico che sbriga tutte le faccende di casa...». Il problema è che il comodo e gratuito tuttofare domestico cresce e diventa sempre più potente e aggressivo, finché colui che lo ha creato non gli cancella dalla fronte le parole che lo animano, e il Golem crolla sul suo incauto fabbricatore uccidendolo.
Nel Romanticismo il mostro ebete che sfugge al controllo del suo maldestro creatore riappare, e il golem si traveste da automa in Hoffmann e da patchwork umano nel Frankenstein di Mary Shelley. Per rivivere un secolo dopo, nel buio della Grande Guerra, nel Golem di Gustav Meyrink, il romanzo che piacque a Kafka e da cui Wegener e Bose trassero un capolavoro del cinema espressionista. Ma nella modernità non ci sono più vitelli in miniatura fabbricati e cotti al momento da giocondi rabbini, ci sono solo terrificanti prodotti della demente logica umana, e il nome di Dio non serve più: basta la tecnica. In piena Guerra Fredda nascono gli androidi di Philip Dick, copie quasi perfette dell’uomo, simulacri che imitano anche le passioni e sono destinati a confondersi ai loro originali e a prenderne il posto: come accade in Blade Runner, il film che Ridley Scott trasse da un romanzo di Philip Dick intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Del resto, in anticipo su Philip Dick, i sinistri padri dei totalitarismi avevano scoperto come si trasforma un essere umano in un meschino Golem con la croce uncinata, in un cupo Frankenstein con falce e martello, in un ridicolo androide con fascio e moschetto: basta un po’ di propaganda e il gioco è fatto. E nonostante i risultati catastrofici, la smania di creare sosia e automi non sembra finita. Non si possono più ottenere gratis servi che spazzano per noi? La pecora elettrica giapponese che piange se la trascuri è solo una nuova fonte di depressione? La maggior parte degli umani si ostina a preferire ai robot sexy il sudore dei corpi mortali, sia pure imbottiti di silicone? Allora, pur di illudersi di creare qualcosa, si creano gli Avatar: presenze che esistono nella rete di Internet e vivono al nostro posto una vita che noi non sappiamo vivere. Vivono o simulano? Forse gli avatar sono il vero "me stesso" di chi li genera, e il presunto originale, l’essere seduto dietro il computer, è la copia, l’automa. il simulacro. E, perso nel suo sogno di fuga, l’essere che non distingue più tra la copia e il modello non si accorge dei frankenstein e dei golem volontari che sorgono e si moltiplicano al suono dei nuovi pifferai magici.