IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO. SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG * .
"Alla chiusa della mia esposizione possono trovare il loro posto alcune considerazioni sulla mia filosofia stessa. [...] che l’interno essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo, lo aveva già visto e compreso il mio tempo, dopo che gli elatici, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza l’avevano estesamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina. Ma che cosa sia quest’Uno e come esso giunga a rappresentarsi come Molto, è un problema, di cui la soluzione si trova per la prima volta presso di me. - Parimenti si era, fin dai tempi più antichi, riconosciuto l’uomo come microcosmo.
Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come macroantropo, in quanto volontà e rappresentazione esauriscono l’essere dell’uno e dell’altro. Evidentemente però è più giusto, imparare a comprendere il mondo dall’uomo, che l’uomo dal mondo, perché si ha da spiegare ciò che è dato mediatamente ossia il dato dell’intuizione esterna, da quel che è dato immediatamente, ossia dal lato dell’autocoscienza, non viceversa.
* ARTHUR SCHOPENHAUER, Supplementi al "Mondo", II, Editori Laterza, Bari 1986, pp. 662-665.
L’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG. LA LEZIONE "PRE-CRITICA" DI KANT *
[...] Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa e il suo proprio Spirito ateo e devoto (“un Io che è Noi e un Noi che è Io”). Kant, come Mosè, buon profeta: Emanuel Swedenborg, il padre di tutto l’idealismo tedesco e del romanticismo dell’Assoluto!
ECCO L’“UOMO SUPREMO”. In una pagina della "parte seconda o storica" dei "Sogni", nel capitolo secondo intitolato "Viaggio estatico di un entusiasta nel mondo degli spiriti", dopo aver fornito - senza aver "aggiunto nessuna fantasticheria" sua a quella di Swedenborg - un "fedele riassunto al lettore comodo ed economo", Kant così scrive:
"[...] Ho già detto che secondo il nostro autore [Swedenborg] le diverse forze, e proprietà dell’anima sono in simpatia con gli organi del corpo sottoposti al loro governo. Tutto l’uomo esteriore corrisponde quindi a tutto l’uomo interiore, e se perciò un notevole influsso spirituale colpisce dal mondo invisibile l’una o l’altra di queste potenze dell’anima, egli ne risente pure armonicamente nell’apparente presenza nelle membra del suo uomo esterno, che corrispondono ad essa. [...]
Da questo si può ora, se si crede che valga la pena, farsi una idea della più strana e rara immaginazione, nella quale concorrono tutti i suoi sogni. Nello stesso modo cioè che le diverse potenze e facoltà costituiscono quell’unità che è l’anima o l’uomo interno, così anche i diversi spiriti (i cui caratteri principali concordano fra di loro come le diverse capacità di uno spirito) costituiscono una società, che ha in sé l’apparenza di un grande uomo, e nella cui figura ciascuno si vede in quello stesso posto e in quelle membra visibili che sono conformi alla sua speciale funzione in un simile corpo spirituale. Tutte le società spirituali poi e l’intiero mondo di tutti questi esseri invisibili appare alla fine ancora sotto l’apparenza dell’uomo supremo.
Fantasia prodigiosa, gigantesca, che è forse lo svolgimento di una vecchia rappresentazione infantile, quando cioè nelle scuole, per venir in aiuto alla memoria, si raffigura tutta una parte del mondo sotto l’aspetto di una vergine seduta, eccetera. In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi.
Io sono stanco di riprodurre qui le assurde chimere del più temerario fra i sognatori e non voglio spingermi fino alla descrizione dello stato dopo la morte. Poi ho anche altri scrupoli. Poiché, sebbene un naturalista ponga nella sua vetrina fra le sue preparazioni del mondo animale non solo quelle che sono formate secondo natura, ma anche i mostri, tuttavia egli deve stare attento di non mostrarli a chiunque né in modo troppo chiaro. Perché vi potrebbero essere fra i curiosi delle donne incinte, sulle quali tali cose potrebbero fare una brutta impressione.
E siccome fra i miei lettori ve ne potrebbero essere di quelli che in rapporto alla concezione ideale si trovino in uno stato analogo, così mi spiacerebbe se ne dovessero soffrire qualche inconveniente. Tuttavia, siccome io li ho già avvertiti fin dal principio, non ne rispondo per nulla e spero che non mi addosseranno i mostriciattoli che potrebbero nascere in questa occasione dalla loro feconda immaginazione [...]" (I. Kant, I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 156-157).
UN ARCHIVIO DELLA RAGIONE UMANA. Quanto importante e decisivo per Kant sia stato lo studio e l’interpretazione dei "sogni" di Swedenborg, forse, è possibile capirlo meglio solo riflettendo su quanto scrive anche dopo, nella “Critica della Ragion pura”, alla fine della "Dottrina trascendentale degli elementi": "non si cesserà mai di discutere, sino a che non si penetrerà entro la vera causa dell’illusione, da cui anche l’uomo più razionale può essere ingannato [...] mi è sembrato necessario indagare dettagliatamente, sino alle sue fonti prime, tutta questa costruzione - sebbene vana - della ragione speculativa [...] mi è sembrato allora consigliabile redigere dettagliatamente gli atti di questo processo, e depositarli nell’archivio della ragione umana, per prevenire futuri errori di una simile specie" (I. Kant, Critica della Ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 704-705). [...]
Federico La Sala (14.10.2010)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
SUL FILO DELLA LEZIONE CRITICA DI KANT, NON E’ MALE PENSARE INSIEME LE DUE IMMAGINI (QUELLA ACCANTO AL TITOLO, SOPRA, CHE rimanda al frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes, Leviatano E QUESTA DEL "CHARLIE HEBDO"):
Le frontiere della tecnoscienza
Se l’uomo si fa Dio
Intelligenza artificiale, bioingegneria, robot sono la nuova frontiera. E tornano a dividere i filosofi tra apocalittici e visionari. Che ne sarà della specie umana?
di Marco Pacini (l’Espresso, 01.04.2018)
Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il sociologo e filosofo Edgar Morin all’alba del millennio: «L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota». Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecnoscienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche.
Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (o transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica).
La squadra B schiera i postumanisti che anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecnoscienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita.
Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché «tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante», come disse allo Spiegel nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica.
Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari.
L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani - assicurano - non sono più in grado di gestire gli immensi lussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo.
Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: «Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (...) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del Novecento per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo».
Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” rilette: «Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (...). Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità frutto del matrimonio tra I.A. e bioingegneria ndr) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri».
Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola “umano” non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I.A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I.A.
Nel frattempo, finché con o senza “post” ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica (ne parlano negli articoli che seguono Nicoletta Iacobacci e Gianna Milano) pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo in dove si "può", o in dove si "vuole"?
È vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano. «La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea», ha scritto la filosofa del posthuman Rosi Braidotti.
Ma forse una parte di ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un “salto” più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che “funziona” e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole.
Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecnoscienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi).
Quel noi ha il volto, per esempio, di chi si vede uscire dalla mostra “Human+” (viaggio tecnoartistico sul futuro della specie, in corso a Roma al Palazzo delle esposizioni). E la cui espressione sembra dire: lo voglio o non lo voglio quel “più” per i miei figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno deciderlo?
Il nuovo inizio è la vita
colloquio con Rosi Braidotti
di M.P. (l’Espresso, 01.04.2018)
«Quando si parla di postumano non si può parlare solo di ricerche neuronali, intelligenza artificiale, bioingegneria. Non c’è niente di nuovo su questo, solo un’accelerazione. Quello che dobbiamo fare è trovare una convergenza tra i saperi».
Raggiunta al telefono nel suo studio all’Università di Utrecht, dove insegna da anni, la filosofa italiana Rosi Braidotti prova a mettere ordine. A sottrarre il dibattito sul postumano ai singoli saperi, ai tecnologi e tecnocrati, per riconsegnarlo alla filosofia. O meglio al pensiero critico. Ha da poco pubblicato in inglese “The Posthuman Glossary”, scritto con Maria Hlavajova. Ma il suo lavoro principale è “Il Postumano”, uscito anche in Italia nel 2014 per DeriveApprodi.
Professoressa Braidotti, siamo all’ennesimo “post”, ma questa volta sembra decisivo.
«Sì, e chiama in causa insieme lo sviluppo tecnologico e le realtà sociali. Si può pensare all’accelerazione tecnologica come a una rivoluzione, ma anche una tragedia sociale, all’antropocene come alla catastrofe ambientale senza ritorno... C’è un clima di ansia. Ma io resto ottimista, perché può far scattare la convergenza tra i saperi, un pensiero critico ma non nichilista».
Il suo postumano parte dalla fine dell’antropocentrismo e dell’opposizione natura-cultura. Verso quale inizio?
«L’inizio è considerare la struttura vivente in sé vitale e contemporaneamente non naturalistica. Costruire un’etica non antropocentrica che consideri tutti i viventi, sperimentando le possibilità della scienza senza timori».
Non vede nelle istanze postumaniste e tecnoumaniste un prevalere di queste ultime ma nella forma di nuovi spazi di dominio?
«Sul postumano stanno lavorando le grandi compagnie della Silicon valley. Si deve ragionare su come il capitalismo cognitivo si è impossessato delle humanities. Si deve ricostruire un terreno comune per discutere su cosa sta accadendo. Il potenziamento umano è diventato centrale in queste discussioni e ciò che lo rende perverso è che lo presentano come l’ultimo capitolo dell’illuminismo. Io dico il contrario. La grande mutazione non avviene nel vuoto, ci sono le implicazioni sociali. Bisogna negoziare su che cosa siamo capaci di diventare. Riorganizzare i saperi, posizionarsi come cittadini, reinventarsi in un’emergenza epistemologica. Spinoza scrisse l’Etica per questo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
Karl Löwith
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
di Maurizio Schoepflin (Il foglio, 21 Marzo 2018) *
Che cosa è successo alla filosofia nei quattro secoli che separano la nascita di Cartesio dalla morte di Nietzsche? Si tratta di una domanda tanto difficile quanto importante per comprendere un periodo decisivo della storia del pensiero occidentale che ha lasciato all’epoca contemporanea un’eredità drammaticamente complessa.
Si può considerare una fortuna che a rispondere a questo interrogativo ci abbia pensato, tra gli altri, uno studioso del calibro di Karl Löwith, le cui teorie interpretative sono sicuramente opinabili ma non certo trascurabili, essendo egli, che nacque a Monaco di Baviera nel 1897 e morì a Heidelberg nel 1973 e fu allievo di Husserl e di Heidegger, una delle voci più interessanti della filosofia novecentesca.
La risposta löwithiana è contenuta in un denso lavoro, del quale recentemente Orlando Franceschelli ha tradotto e curato per la prima volta l’edizione italiana della versione definitiva risalente al 1967. E proprio nel titolo stesso del libro - Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio e Nietzsche - è contenuta una parte significativa di ciò che l’autore vuol dire al lettore, ovvero che per cercare di comprendere l’evoluzione del pensiero moderno bisogna indagarne la componente metafisica, quella che, come ha insegnato Immanuel Kant, ha al centro proprio Dio, l’uomo e il mondo.
A giudizio di Löwith, il pensiero metafisico della modernità è caratterizzato dalla “caduta di Dio”, un evento dal quale il sapere filosofico è rimasto gravemente vulnerato, tanto da non essere in grado di fare a meno del creazionismo e dell’antropocentrismo di ascendenza biblica e da concludere la sua corsa nel devastante nichilismo di Max Stirner.
Secondo Löwith, tuttavia, nell’epoca moderna ha preso forma anche un altro percorso che, pur prendendo atto della fine della metafisica tradizionale, non ha finito per incagliarsi nelle secche del nulla: tale percorso ha avuto come guide Feuerbach, Nietzsche e Spinoza.
Il primo sarebbe stato il maestro di un’antropologia naturalistica non più bisognosa di una divinità creatrice, il secondo avrebbe sconfitto sia Dio che il nulla rinunciando, come afferma Franceschelli, “a tutti i retromondi metafisici e alle speranze sovrannaturali”, il terzo si presenterebbe come colui che, liberandosi dall’antropocentrismo e dal finalismo, sarebbe riuscito a fare a meno del creazionismo biblico.
Interpretato in questi termini, il testo di Löwith diventa una specie di manuale contenente le istruzioni per un saggio svezzamento dall’eredità teologica, nel quale giocano un ruolo decisivo una concezione naturalistica del mondo e una buona dose di scettico disincanto.
Il mezzo secolo che ci separa dalla pubblicazione di questo bel libro ci dice che non tutto è andato “tranquillamente” nella direzione auspicata da Karl Löwith.
*
Karl Löwith,
DIO, UOMO E MONDO NELLA METAFISICA DA CARTESIO A NIETZSCHE,
a cura di O. Franceschelli, Donzelli, 200 pp., 23 euro.
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.11.2017)
Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito?
«Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa - “controfattuale” - della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi.
Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose.
Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio.
«Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso.
Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani.
Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali - sviluppando il contrattualismo hobbesiano - avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ADAMO, EVA ... E L’EDEN? Archeologia, preistoria, e storia
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
"GENESI" E GENERE SESSUALE. MUTAMENTI "BIBLICI" IN CORSO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
Federico La Sala
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuo dei due?!
*** "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico: Boni metaphysici praxim una CHARITAS christiana docet" (G.B. VICO, De constantia iurisprudentis, 1721). ***
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
La vita futura della particella Xi
Quali sono gli scenari che si disegneranno dopo la scoperta di Ginevra? Un puzzle da completare: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure». Al Cern stanno già progettando il prossimo acceleratore, che entrerà in funzione nel 2040
di Andrea Capocci (il manifesto Alias, 09.07.2017)
Per la prima volta, nei laboratori del Cern di Ginevra è stata rilevata la particella Xi, un’importante conferma del «modello standard» della fisica delle particelle. Lo ha annunciato Giovanni Passaleva, che dirige il gruppo di ricerca che ha compiuto la scoperta, all’annuale conferenza europea sulla fisica delle alte energie (si tiene in questi giorni a Venezia). Il gruppo di Passaleva lavora presso l’acceleratore di particelle Lhc lo stesso che ha permesso la scoperta del bosone di Higgs. Per dare l’idea della complessità di un esperimento del genere: la lista degli autori occupa da sola tre pagine dell’articolo scientifico che riporta la scoperta.
Il «modello standard» è la teoria che descrive le particelle fondamentali con cui si spiega la materia di cui è composto l’universo e le sue interazioni. Come ipotizzarono Murray Gell Mann e George Zweig nel 1964, le particelle più pesanti presenti nel nucleo degli atomi che strutturano la materia, i protoni e i neutroni, sono composte da particelle ancor più elementari, dette «quark». I quark sono di sei tipi diversi, distinti per massa e carica elettrica. I quark possono aggregarsi tra loro, ma soltanto se la loro combinazione rispetta alcune regole. Protoni e neutroni sono l’esempio di aggregazione più comune. Altre combinazioni sono possibili, ma si trasformano (i fisici dicono «decadono») in altre particelle molto rapidamente e normalmente non sono osservabili con gli strumenti tradizionali. Una particella Xi, ad esempio, decade dopo meno di un millesimo di miliardesimo di secondo. Alle energie elevate che possono essere raggiunte al Cern (14 TeV), però, si possono generare moltissime particelle di questo tipo, misurandone le proprietà fisiche con precisione.
A QUESTO SCOPO, l’acceleratore Lhc del Cern studia le collisioni tra fasci di protoni lanciati a velocità prossime a quelle della luce. In queste collisioni, le particelle ne formano alcune più instabili, che decadono a loro volta dando vita ad altre particelle. In questo modo, gli scienziati ritengono di poter rilevare anche le particelle, come la Xi, la cui esistenza è prevista dalle leggi della fisica ma che di fatto sono talmente instabili da non poter essere individuate con altre tecniche. Come previsto dal Modello Standard, la particella Xi è composta da due quark del tipo «charm» e un quark «up» e pesa come quattro protoni, le particelle atomiche con la massa maggiore. La sua esistenza non è un’assoluta novità. Già nel 2002, al Fermilab di Chicago era stata avvistata una particella con caratteristiche simili, ma con una massa inferiore a quella teorica. Ma la misura di allora fu accolta da una certa diffidenza. L’esperimento descritto a Venezia invece rimette a posto le cose. Dunque, l’idea che abbiamo sul funzionamento della cosiddetta «interazione forte» che tiene insieme le particelle elementari, è corretta.
È L’ENNESIMA CONFERMA di una teoria che dagli anni ’60 ha sbagliato poche previsioni. Molte di queste sono state verificate proprio al Cern, anche con gli acceleratori delle generazioni precedenti rispetto al Lhc. Fu una scoperta simile, l’osservazione dei bosoni W e Z previsti dalla teoria, a meritare a Carlo Rubbia il premio Nobel del 1984 insieme a Simon van der Meer. Pochi anni fa, sempre all’Lhc, la scoperta del bosone di Higgs (altro premio Nobel) fu effettuata in maniera analoga. In quel caso, la scoperta era ancor più rilevante. Il bosone di Higgs, oltre a confermare il Modello Standard, gioca un ruolo decisivo anche nelle teorie sull’origine dell’universo nei primi momenti successivi al Big Bang.
Questo tipo di scoperte lasciano un’impressione da «fine della storia»: il modello standard funziona, gli esperimenti non fanno altro che confermarlo e dunque non c’è motivo di andare avanti alla ricerca di nuove teorie. Ma è davvero così? Ovviamente, no. Il modello standard, nonostante la sua efficacia, lascia insoddisfatte molte domande. Ad esempio: il modello si basa su ben 19 costanti, il cui valore è fissato dagli esperimenti: è possibile capire l’origine di questi numeri con una teoria ancor più elementare? Oppure: come conciliare le interazioni fondamentali descritte dal modello standard (l’interazione «forte» e quella «elettrodebole») con la forza di gravità, mirabilmente studiata da Einstein ma in un quadro teorico completamente diverso?
INFINE, FORSE IL QUESITO più importante: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure», cioè non sappiamo di cosa siano fatte. Il Modello Standard, dunque, ci racconta solo un piccolo pezzo della realtà. Riusciremo un giorno a completarlo? Sono domande molto difficili, e che non interrogano solo gli scienziati del Cern. La fisica delle alte energie si rivolge sempre più spesso verso lo spazio alla ricerca di risposte adeguate. Sulla Terra, l’atmosfera ci protegge da fenomeni fisici intensi come quelli provocati da protoni lanciati alla velocità della luce. Ma nelle stelle e nelle galassie lontane avvengono reazioni che coinvolgono energie inaccessibili persino ai laboratori del Cern.
MOLTI STUDIOSI di fisica delle particelle oggi utilizzano telescopi spaziali o osservatori posti in luoghi inusuali, sotto al Gran Sasso o a due chilometri di profondità nel ghiaccio dell’Antartide, come l’osservatorio IceCube. In quelle condizioni, la schermatura dall’esterno è tale da permettere di isolare i neutrini, altre particelle ancora misteriose e provenienti dalle zone più remote e irrequiete dell’universo.Lo stesso Cern, in questo momento, è impegnato nella ricerca delle particelle che potrebbero semplificare il Modello Standard con le sue 19 costanti ancora da spiegare. Tale «ineleganza» potrebbe essere superata dalla teoria detta «Supersymmetry» o «SuSy», secondo cui ogni particella elementare possiede una compagna «super-simmetrica». Al Cern finora queste particelle non sono state avvistate. Potrebbe trattarsi della bocciatura della teoria SuSy, o l’indicazione che le particelle supersimmetriche devono essere cercate a livelli energetici ancora maggiori: su questo, solo gli esperimenti futuri potranno darci qualche indicazione in più, se Lhc sarà in grado di raggiungere energie ancora superiori ai 14 TeV attuali.
NEL FRATTEMPO, AL CERN stanno già lavorando alla progettazione del prossimo acceleratore, ancora più grande e potente dell’Lhc attuale. Per ora, il progetto si chiama Future Circular Collider (Fcc). Si tratterà di un tunnel lungo cento chilometri (rispetto ai ventisette attuali) in cui a collidere saranno fasci di protoni, elettroni e delle loro controparti di anti-materia, gli anti-protoni e i positroni. Nel Fcc si potranno raggiungere energie dell’ordine dei 100 TeV, sette volte più dell’acceleratore attuale.
Dato che l’acceleratore Lhc, entrato in funzione nel 2008, proseguirà la sua attività ancora per una ventina d’anni, per vedere in funzione il Fcc occorrerà aspettare il 2040, o giù di lì. Sembra un orizzonte temporale lunghissimo, in un’epoca dominata dalla precarietà delle cose e delle persone. Lo sforzo finanziario a carico degli stati europei genererà legittime discussioni sulle priorità da assegnare ai sempre più magri bilanci nazionali. Ma gli studi sull’impatto economico del Lhc, come quello dell’economista Massimo Florio dell’Università di Milano, suggeriscono che anche un laboratorio di fisica teorica può creare ricchezza: a patto che le tecnologie e le conoscenze prodotte al Cern circolino senza barriere poste da brevetti e copyright.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
Ipocrisia del documentario
di Ivelise Perniola (AlfaDomenica, 9 luglio 2017)
Nell’interessante volume di Dario Zonta, L’invenzione del reale, sono raccolte alcune approfondite interviste ad autori piuttosto vicini dal punto di vista generazionale e accomunati, oltre che da fattori anagrafici, da una medesima idea di cinema, caratterizzata dallo sconfinamento del documentario nella finzione o della finzione nel documentario (come vuole il caso di Matteo Garrone, Pietro Marcello e Alice Rohrwacher).
Autenticamente falso o falsamente autentico? si domanda e domanda Dario Zonta ai suoi bendisposti interlocutori. L’elemento che più colpisce nelle interviste raccolte è la sostanziale omogeneità delle risposte, per cui anche invertendo i nomi, operando un montaggio deturnante delle risposte, il risultato complessivo non cambia. La differenza documentaria è quanto di più obsoleto si possa immaginare, almeno a parole, tuttavia si continuano a fondare festival dedicati al documentario, premi, pubblicazioni, si aprono corsi universitari, master, portali, newsletter, panel all’interno di convegni, esposizioni, articoli di giornale, tesi di laurea: tutto un fiorire di produzione culturale intorno al cinema documentario, senza che nessuno più abbia il coraggio di pronunciare in pubblico questa vituperata parola, compresi i cineasti, che trovano però spesso spazi produttivi e distributivi solo in nome di questa “differenza documentaria”.
Christian Metz sosteneva che tutto è finzione e certamente aveva ragione, perché ogni immagine è cinema nel senso più commerciale del termine. È solo cinema, of course. Però ci sono due piccole, trascurate, differenze che permettono al documentario di rivendicare la sua diversità e che sono: la ricezione spettatoriale (di cui sempre Metz ci ha incominciato a parlare) e l’attore sociale. Sulla prima il libro di Zonta tace o fa fulminei accenni ma della seconda parla ampiamente, con risultati piuttosto interessanti. Sul primo aspetto occorre sottolineare che la scelta documentaria non è soltanto una scelta dell’autore, un punto di vista sul mondo, ma anche una modalità di lettura, di ricezione spettatoriale.
Gianfranco Rosi ha poco da inalberarsi se i suoi film vengono definiti documentari, se nel momento in cui lo spettatore entra in una sala cinematografica e all’uscita li definisce come tali. La lettura documentarizzante è un fattore culturale, pregresso rispetto al testo e alle intenzioni dell’autore; appartiene alla sfera del paratesto, tutto ciò che sta intorno al testo e ne modifica la lettura, molto spesso è indipendente dalla volontà dell’autore, anzi quasi sempre.
Sul secondo punto, invece, Dario Zonta si sofferma giustamente molto, dal momento che la questione dell’attore sociale, per utilizzare un termine proveniente da Erwin Goffmann, è veramente centrale nel cinema documentario, dal momento che investe una problematica dirimente ovvero quella dell’etica.
L’acuto intervistatore domanda a tutti i registi coinvolti quale sia la loro relazione con l’attore non professionista, se lo preferiscano rispetto a quello professionista, se cambino le modalità di approccio, la preparazione prima e durante le riprese. Le risposte sono abbastanza in linea le une con le altre: i registi interpellati preferiscono lavorare con i non professionisti dal momento che con loro il film risulta più libero di prendere pieghe impreviste, i volti sono più aderenti alla realtà, le esperienze della vita reale filtrano attraverso l’immagine cinematografica facendo acquisire un surplus di verità ai singoli fotogrammi.
È davvero con coraggio che Rosi dichiara: “Dov’è la verità nel documentario? Secondo me è nella verità interiore dei personaggi che stai raccontando” - sottolineiamo il coraggio del regista dal momento che i personaggi messi in scena dal pluripremiato regista lasciano trasparire una verità interiore veramente molto esile, quasi bidimensionale, quasi marionettistica. Basti pensare all’anguillaro che legge brani dalla Repubblica in Sacro Gra o al piccolo Samuele che succhia gli spaghetti e legge in inglese davanti alla zia Maria attonita in Fuocoammare o al delirio falsamente autentico e altamente performativo del sicario messicano in El Sicario. Room 146.
Anche Leonardo Di Costanzo dà una significativa risposta: gli attori professionisti “sono difficilmente modellabili, a meno di avere gli strumenti, o un’idea geniale, usandoli esattamente per l’immaginario che loro veicolano”. Insomma permane una certa ingenuità di fondo sull’attore non professionista, utilizzato come un personaggio puro e modellabile, naïf, quando in realtà l’attore sociale tende al regista la trappola peggiore, proprio perché più subdola: ovvero il costante rischio, quando non diventa immediatamente una concreta realtà, dell’autocompiacimento performativo e della seduzione ipocrita, ovvero “faccio come vuoi tu perché così ti piaccio e se piaccio a te allora piaccio anche a tutto il mio potenziale pubblico”.
L’attore sociale è un attore al quadrato, un ipocrita perfetto. Il termine “ipocrita”, come ben sappiamo, viene dal greco e significa colui che finge, colui che simula, quindi l’attore. Per tradizione questo termine indica un secondo attore che imita, col fine di imparare, le azioni del primo attore: quindi un attore al quadrato. Uno studio etimologico più attento ci rivela che la parola ipo-crita è composta da ipo (sotto) e crinein (decidere), e designa quindi un’incapacità di decidere, di agire con coerenza: un’inclinazione naturale a lasciarsi trasportare dove il vento ci conduce.
Secondo Carl Gustav Jung l’ipocrita è colui che nega il lato oscuro della sua natura, celando le pulsioni più nascoste e sotterrandole sotto false convenzioni, colui che non entra mai in contatto con la sua vera natura, negandola. L’attore sociale molto spesso agisce ipocritamente di fronte alla macchina da presa, negando la propria natura e indossando panni che non gli appartengono per ottenere consenso sociale e mediatico.
Si crede di avere a che fare con esseri puri e spontanei e si scopre che sono solo una masnada di ipocriti. Anche se la loro ipocrisia non è malevola, si ha a che fare col problema etico giustamente sollevato da Alice Rohrwacher: “Ho iniziato con il documentario e mi sono accorta che i rapporti e la fiducia che si vengono a creare al momento delle riprese sono talmente forti che mi bloccano e mi provocano un profondo disagio. Mi pare soprattutto che riprendere le persone nelle proprie vite spesso difficili, sia legarle solo a un aspetto della propria vita. [...] Spesso in un documentario la persona interpreta la propria vita e non credo sia totalmente libera. Ci sono resistenze, vergogne, imbarazzi”. Legare qualcuno solo a un aspetto della propria vita, questo è il rischio e la sfida del cinema del reale: da giocare con senso etico affinché questo legame sia produttivo non solo per l’autore ma anche per l’attore.
L’etica per la produzione delle immagini è un principio ora più fondamentale che mai, espresso anche in un libretto che andrebbe letto di pari passo con le interviste di Zonta, ovvero L’immagine che uccide di Marie-José Mondzain (EDB 2017), in cui la filosofa francese sottolinea l’urgenza di un pensiero critico ed etico in grado di indebolire e annientare il potere violento delle immagini, per riportarle nel loro alveo di pure immagini.
Ma se si polemizza con alcune risposte, con alcuni autori (un grande assente è Alessandro Rossetto), si apprezza in generale l’impalcatura del volume, il pensiero sincero che sorregge questo tentativo di perlustrare il cinema italiano del reale, intercettando gli autori più interessanti (Marcello, Di Costanzo e Rohrwacher sono certamente in cima alla lista di chi scrive) e le tendenze del momento (Rosi, Minervini, Comodin) centrate sulla modalità osservativa, per utilizzare un termine di Bill Nichols.
Nella lettura, infine, abbiamo sicuramente imparato qualcosa relativamente alle modalità produttive. Un tema solitamente taciuto, imparando che fare un film oggi in Italia è un grande atto di coraggio: solo per questo dovremmo sostenere pubblicazioni del genere, in grado di andare contro il sistema imperante dell’ottusa e monoculare iconocrazia.
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 08 luglio 2017)
GIOVEDÌ scorso, cioè l’altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L’ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".
Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d’acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l’ho interrotto dicendo: è un po’ che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz’altro.
Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all’altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.
Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell’intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l’affratel-lamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l’amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.
Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.
Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l’amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.
Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".
Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?
"Il pericolo riguarda l’immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D’altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l’invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".
Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?
"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l’Europa. Il colonialismo partì dall’Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l’Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l’obiettivo principale dei popoli migratori".
Anch’io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l’ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.
"È vero, l’ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l’Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".
Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.
"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".
Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest’ultima cosa non l’avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".
Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".
Grazie, comincio dall’Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L’Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.
"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch’io, su sollecitazione dell’Ordine dei Gesuiti. "All’epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".
La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?
"Diciamo che c’è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l’immanenza e confermare la trascendenza".
Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?
"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".
Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c’è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l’aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell’ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.
"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento". Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un’immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni". Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c’è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D’altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c’è una linea che dall’orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.
"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l’ha fatto, mi piace moltissimo".
Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.
La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L’aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.
Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un’Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.
Un Papa come questo non l’abbiamo mai avuto.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
KANT (1784), FOUCAULT (1984), E "LA FINE DI TUTTE LE COSE" (KANT, 1794). Una nota ... *
NONOSTANTE LA SOLLECITAZIONE DI FOUCAULT (1984) A ESSERE GIUSTI CON KANT E A RISTUDIARE E A RIPENSARE LA SUA OPERA E LA SUA LEZIONE A PARTIRE DALLA "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COSA E’ L’ILLUMINISMO?" (1784), IL LAVORO DELLA GRANDE RESTAURAZIONE IDEALISTICA PRIMA E MATERIALISTICA POI CONTRO LA VIA DELLA “CRITICA” E LA SUA “RIVOLUZIONE COPERNICANA” CONTINUA FEROCE, CALPESTANDO OGNI DECENZA STORIOGRAFICA E ADDIRITTURA IGNORANDO NON SOLO LE OPERE DELLA FASE COSIDDETTA "PRE-CRITICA" (cfr.: Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”) MA ANCHE LE OPERE DELLA FASE "CRITICA" (cfr. I. Kant, "La fine di tutte le cose", 1794 - e in particolare la seconda nota, dove chi si sbizzarrisce in paragoni ripugnanti per rappresentare il nostro mondo terreno, "senza degnare di attenzione la disposizione al bene che vi è nella natura umana, raffigurando la nostra dimora terrena con grande disprezzo: 1) come una locanda - o un caravanserraglio ... 2) come un penitenziario... 3) come un manicomio... 4) come una cloaca, che raccoglie tutti i rifiuti espulsi dagli altri mondi")!!!
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SU KANT (e Freud e la banalità del male), mi sia consentito, si cfr. ALCUNE MIE "NOTE PER UNA RILETTURA": https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE.
Federico La Sala
1. Nell’ottobre 1974, in una conferenza sulla progressiva medicalizzazione della società tenuta presso l’Università di Stato di Rio de Janeiro, Foucault introduce il concetto di «bio-storia» per sottolineare che «la storia dell’uomo e la vita sono profondamente intrecciate», dal momento che «la storia dell’uomo» è in grado di modificare, almeno «fino a un certo punto», il «processo» della vita 1. Da allora, a seguito dell’«intrusione di Gaia» - per usare un’espressione di Stengers -, la bio-storia ha assunto una fisionomia molto differente.
Il recente Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros de Castro 2 non lascia dubbi al proposito: l’immensa crisi ecologica in corso esercita un tale impatto sulla «storia dell’uomo» da avere definitivamente messo in crisi, oltre all’impianto sociale e allo stile di vita egemoni a livello planetario, una delle più classiche tra le dicotomie su cui si fonda la teologia politica occidentale, quella tra natura e cultura. Come affermano la filosofa e l’antropologo brasiliani, la nostra specie si è trasformata «in forza geologica», «in un oggetto “naturale”» e il «Sistema Terra» in «un agente politico», in «una persona morale» (p. 45).
Il vettore della bio-storia, insomma, non è unidirezionale: se è certo che la “nostra specie” continua a manipolare i processi naturali su scale forse neppure immaginabili fino a poco tempo fa, altrettanto certa è la capacità della storia naturale di sconvolgere a fondo i processi umani; tanto che oggi non è più possibile parlare seriamente di politica senza tenere conto del ruolo politico della “natura”.
Che ci piaccia o meno, grazie alle sempre più continue e terrificanti irruzioni bio-storiche di Gaia «il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano». La forza di Gaia nell’arena politica ha definitivamente mandato fuor di sesto «Dio, Anima e Mondo», le «tre grandi idee trascendentali» di Kant (p. 36), destituendole di senso e facendole girare a vuoto: non siamo di fronte a «una “crisi”nel tempo e nello spazio, ma [a] una feroce corrosione del tempo e dello spazio» (p. 52).
2. Esiste un mondo a venire?, allora, non è «solo» un’accurata revisione delle evidenze empiriche della catastrofe in cui siamo già immersi e degli effetti a lunghissimo termine che comunque comporterà. Revisione, sia detto per inciso, sicuramente necessaria vista «la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald Trump» (p. 13) e considerato che - per parafrasare Žižek - un conto è sapere che qualcosa può accadere e un altro è credere che stia accadendo.
Esiste un mondo a venire? è anche, e soprattutto, il tentativo di portare alla luce il clamoroso non dettodelle più recenti narrazioni occidentali - filosofiche, letterarie e cinematografiche; utopiche o distopiche - della fine del mondo: la ripetizione acritica della «dualità mitica “umanità/mondo”» (p. 55). Aspetto questo tutt’altro che trascurabile dal momento che la rigida separazione Uomo/Mondo ha contribuito a forgiare - quantomeno legittimandola - la potenza operativa dell’impresa tecno-scientifica occidentale, principale causa dell’attuale disastro planetario. Anche se a prima vista sembrano contrapporvisi, le «nostre» mitologie della fine del mondo, sia che prevedano «un mondo senza noi» o, all’opposto, «un noi senza mondo», non si smarcano dalla logica più profonda del dualismo gerarchizzante e sezionante che si cela dietro l’«ottimismo “umanista”» (p. 22).
Semplificando molto e senza seguirne le molteplici ramificazioni - che i due autori descrivono in dettaglio e criticano con acume sia che guardino al passato o al futuro, sia che si inseriscano in paradigmi di «sinistra» o di «destra», sia che si presentino come «apocalittiche» o come «integrate» -, ciò che conta è che nessuna di queste visioni ha preso congedo dall’«allucinazione narcisistica» (p. 79) dell’antropocentrismo.
Che il «mondo senza noi» sia inteso come una sorta di mitico giardino dell’Eden prima della Caduta o come il risultato finale della catastrofe ecologica, e che il «noi senza mondo» assuma le tinte fosche di un annientamento su scala globale o quelle deliranti di un’umanità capace di trascendersi riassorbendo il mondo in se stessa, il «mondo che finisce» è sempre «il “nostro” mondo» (p. 98) e il “noi”, che sta parlando e di cui si parla, è sempre «l’“Umano, che lo si chiami Homo sapiens o Dasein» (p. 57).
Detto altrimenti, le «nostre» bio-storie della fine del mondo sono ancora umane, troppo umane, poiché ribadiscono sia l’esteriorità e la singolarità del «mondo» - che servono a naturalizzare la cosmogonia scientifica occidentale - sia l’universalità del «noi» - che in questo caso opera come dispositivo di occultamento del fatto che la crisi ecologica non è attribuibile indistintamente a tutta la specie umana e che i suoi effetti deleteri si estendono, e si estenderanno sempre di più, ben oltre i confini della nostra specie.
3. Come è noto, esistono altre bio-storie oltre alla «nostra», bio-storie meno violente e distruttive che enfatizzano l’intrinseca relazionalità del vivente. Tra queste, Danowski e Viveiros de Castro si concentrano sul prospettivismo amerindio in quanto propone una concezione del «noi» e del «mondo» - ammesso che si possa continuare a usare questa terminologia - diametralmente opposta a quella della modernità umanista.
Per il prospettivismo amerindio all’inizio «tutto era umano» (p. 148) e tutto resta tale anche dopo che i non umani si sono differenziati morfologicamente nel tempo delle trasformazioni. Da un lato, allora, «l’umanità [è] una moltitudine polinomica» che «si presenta [...] nella forma di una molteplicità interna» da cui, solo in un secondo momento, si originano altri individui e altre specie in una sorta di darwinismo invertito (non sono gli umani a evolversi dagli animali, ma gli animali a travestirsi da umani).
E dall’altra il mondo, «quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in generale, è [...] una molteplicità di molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono [...] entità politiche». In breve, «gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia» (pp. 150-151).
Quest’altra bio-storia che, malgrado tutto, è riuscita a sopravvivere alla fine del suo «mondo» conseguente all’invasione coloniale, permette agli autori, di declinare la crisi ecologica nei termini di una «guerra civile» (p. 195) tra «Umani» e «Terreni», guerra che non coincide con la linea di divisione tra la nostra specie e le altre, poiché non solo è certo, come gli autori affermano, che non tutti gli umani sono «Umani» ma anche che - e questo aspetto non pare essere sufficientemente sottolineato - che la maggioranza dei «Terreni» sono animali.
4. Nella bio-storia di Danowski e Viveiros de Castro gli animali - che sperimentano quotidianamente la fine dei loro mondi - continuano a rivestire un ruolo politico ancora troppo marginale. Sebbene non esitino a definire «l’“eccezionalità umana” [...] un autentico stato d’eccezione ontologico» che legittima «l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura» (pp. 73-74) e a ridicolizzare l’idea secondo cui saremmo animali dotati di un «supplemento spirituale che è “il proprio dell’uomo” - la preziosa proprietà privata della specie» (p. 144), i due autori non riescono a liberarsi completamente dall’antropocentrismo che percorre indisturbato anche il pensiero più critico 3.
Testimonianza di questa tenace persistenza è l’idea discutibile secondo cui antropocentrismo (occidentale) e antropomorfismo (amerindio) rappresentino visioni del mondo diametralmente contrapposte: se è vero, infatti, che «dire che tutto è umano è come dire che gli umani non sono una specie speciale» (p. 155), altrettanto vero è che l’affermazione “tutto è umano” nasconde - volenti o nolenti - un’operazione di appropriazione colonizzante dei mondi non umani. In altri termini, l’umano continua ad essere l’operatore centrale, seppur depotenziato, anche nel caso dell’ antropomorfismo.
Non a caso, allora, pur usando una terminologia corretta per descrivere le loro condizioni di detenzione («La spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l’estrazione di proteine»), i due autori annoverano gli «animali da reddito» tra gli «alleati» degli Umani in quanto «potenti fabbriche di metano» (p. 211) e non esitano a domandarsi: «Quando esauriremo le scorte di pesci?» (p. 243).
Con queste premesse, risulta difficile capire come sia possibile lasciarsi alle spalle le nozioni sezionanti di «Umano-in-sé» e di «Animale-in-sé» (p. 156), passo che Danowski e Viveiros de Castro sembrano considerare necessario per pensare la tanto auspicata «decivilizzazione» (p. 205), per mettersi all’ascolto « dell’eccezionalismo terrestre» (p. 188), per rendersi finalmente «responsabili dinanzi ai Terreni» (p. 235).
5. Pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il motto andino « Vivir bien e no mejor» (p. 163) debba costituire il fine a cui, nel tempo della fine, della «mancanza di scelta» (p. 246), dovrebbe tendere la resistenza dei Terreni alla «logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo» (p. 235). Meno certo è invece come tale fine possa trasformarsi in una politica a venire all’altezza dei tempi e del tempo che resta.
Basta il generico «becoming with» di Haraway (p. 237) o il troppo locale «ridivenire-indio» degli autori? O, forse, per trasformare lo «shock» in «evento» (p. 252) è necessario radicalizzare questi divenire nel deleuziano divenire animale? Non è, infatti, il concetto di specie e l’opposizione Umano/Animale l’operatore più tagliente che sta al centro dei meccanismi materiali e simbolici che hanno costruito proprio quella società degli Umani che si vorrebbe combattere?
6. Nel 1955, Deleuze afferma che «L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» 4. L’irruzione di Gaia ha inverato questa intuizione. La questione oggi è come pensare e agire per far sì che questo spogliarsi non si traduca - come finora è accaduto - in spoliazione, ma in esitazione potenziante, gioiosa e creativa. La crisi ecologica in corso, infatti, non è caratterizzata esclusivamente, come pensano i più, dall’urgenza materiale di ridurre, per quanto possibile, i danni - urgenza che, tra l’altro, potrebbe spingere in direzione di un’ulteriore e più salda presa dell’Umano e pertanto «mascherare una grandiosa espansione del vangelo diabolico dello “sviluppo”» (p. 249).
L’ingombrante presenza di Gaia impone infatti un’altra e ancora più decisiva urgenza: il ripensamento radicale delle categorie politiche che ci hanno portato qui dove siamo, nel tempo dell’orrore più estremo, urgenza questa ben più difficilmente digeribile dalle logiche dell’impresa tecno-capitalista. Urgenza più resistente perché libera dal fardello narcisistico dell’antropocentrismo, perché sostenuta dalla consapevolezza che, come sostiene Kojève, «la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è [...] una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale [...]. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto [...] [e] il Soggetto opposto all’Oggetto [...]. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente; l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’uomo felice» 5. E questa, ovviamente, è tutta un’altra bio-storia, un mondo a venire che, forse per gli ultimi istanti, sta ancora aspettando un atto di creazione.
1 Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 210.
2 Le pagine da cui sono tratte le citazioni sono riportate nel testo tra parentesi.
3 Un esempio recente di questa forclusione è il volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, Verona, ombre corte, 2017. Il saggio, per altri versi estremamente interessante, si dimentica infatti di porre nella giusta prospettiva il ruolo politico della reclusione degli animali, nonostante il filo spinato sia tuttora uno dei dispositivi di compartimentalizzazione dello spazio centrale nella gestione della vita dei non umani.
4 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 32.
5 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron (il manifesto, 10.06.2017)
Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali.
Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.
di Marco Aime (DoppioZero, 18.05.2017)
Integrazione. Questa è la parola chiave, usata troppo spesso, senza che ci si renda pienamente conto del suo significato reale. Il verbo “integrare” significa, nella sua accezione principale, «rendere integro o intero». Integrare significa quindi rendere un qualcosa di diverso conforme all’intero, renderlo simile. Un’operazione del genere si fonda però su di un presupposto ineluttabile: deve esistere un intero. Se voglio integrare, devo prima avere un integro di riferimento. Integro è un aggettivo che si associa a qualcosa di completo, intatto.
Questo significa che, quando a proposito di stranieri, parliamo di integrazione, partiamo da un assunto fondamentale: la nostra società, la nostra comunità è un intero, è intatta, un unicum in cui tutti condividono gli stessi valori, rispettano le stesse leggi, pensano allo stesso modo.
Questo è un po’ il messaggio che emerge dalla recente sentenza con cui la Corte di Cassazione ha condannato a un’ammenda di 200 euro un sikh che il 6 marzo del 2013 era stato sorpreso a Goito, dove c’è una grande comunità sikh, mentre usciva di casa, come sempre, con il kirpan (un coltello lungo quasi 20 centimetri) infilato nella fascia che avvolge la vita. Quel coltello, per i sikh è un simbolo religioso ed è segno di difesa della fede, non è considerato un’arma. Tanto è vero che la sua richiesta di assoluzione era stata condivisa dalla Procura della Suprema Corte che aveva ritenuto tale comportamento giustificato dalla diversità culturale. Sentenza non confermata dall’ultimo grado di giudizio.
Il fatto ha subito trovato ampio spazio su tutti i giornali e come spesso accade, la questione può essere liquidata in modo semplicistico, da una parte o dall’altra: “poche storie, le leggi sono uguali per tutti” oppure, “ciascuno ha il diritto di esprimere i propri simboli culturali”.
In realtà la questione è più complessa, non tanto sul piano della sanzione, quanto su quello delle motivazioni. Se la legge prevede che non si può circolare con una lama superiore ai venti cm, c’è poco da discutere, il signore in questione l’ha trasgredita. Semmai si può discutere sul fatto se le leggi debbano o no essere adeguate alle nuove realtà culturali che caratterizzano il nostro paese.
Quello che invece fa riflettere sono le affermazioni per cui gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno “l’obbligo” di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso "di stabilirsi" ben sapendo che "sono diversi" dai loro e «non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».
Di quali valori stiamo parlando? Quelli della società occidentale? In Gran Bretagna, che anche dopo la Brexit credo rimanga occidentale, il kirpan è ammesso. Il velo è proibito nei luoghi pubblici in Francia, ma non in altri paesi occidentali. Per i paladini nostrani dell’abolizione del velo, questa peraltro varrebbe solo per le donne islamiche, non per le suore o le fedeli ortodosse. Proibire di circolare armati è senza dubbio giusto, meno armi, meno pericoli, però stride con lo spirito della legge appena approvata in Parlamento sulla legittima difesa.
Di due l’uno: siamo per bandire ogni arma o solo alcune?
«In una società multietnica, - prosegue il verdetto della Suprema Corte - la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere». Parole condivisibili, ma qual è il nucleo comune? Quali i valori di riferimento? Sono comuni a tutti coloro che includiamo nel “noi”? In altri termini, siamo davvero un “integro” tale da considerarci una unità coerente? Certo, esistono punti di riferimento più o meno condivisi, ma sono difficili da identificare e soprattutto non sono un’esclusiva dell’Occidente, ma in molti casi sono condivisi anche da altri.
Visto che si parla di integrare, esiste peraltro anche un’altra accezione del verbo, che indica: «completare aggiungendo ciò che manca o che serve a migliorare, ad arricchire o a modificare.»
Letta in questo senso, l‘integrazione assume un’altra prospettiva, quella di un processo dove non abbiamo una parte fissa, immobile, monolitica che assorbe l’altra, ma uno scambio dialettico, dove entrambe le parti danno e prendono, dando vita a nuove forme culturali, come sempre è avvenuto nella storia dell’umanità.
Questo episodio, perciò, potrebbe essere un valido e interessante punto di partenza per una riflessione più ampia, che affronti in modo sereno e non strumentale la necessità di armonizzare il carico di memoria e di ricordo che chi arriva da fuori si porta dietro, con il comprensibile desiderio di conservare un certo modus vivendi di chi accoglie, tenendo conto del vantaggio di quest’ultimo. Solo così, negoziando senza pregiudizi, si può arrivare a una convivenza pacifica, tenendo sempre ben presente, che nessuna comunità è mai totalmente omogenea, nessuna è un intero.
Integro, tra l’altro, significa anche onesto, incorruttibile.
I SIKH, LA COSTITUZIONE, E LA TEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO ...
La Cassazione e la teocrazia
di Alessandro Gilioli *
Mi rendo conto che l’argomento è complicato - perfino un po’ filosofico, quindi magari palloso.
Ma la questione posta dalla sentenza della Cassazione sul sikh che voleva girare con un coltello in realtà non parla di un sikh che voleva girare con un coltello: porta dritti a temi come l’ontologia, il relativismo, la teocrazia, perfino a Nietzsche e a Dostoevskij.
Ecco: dopo aver allontanato il 90 per cento dei lettori con la frase sopra, provo a spiegarmi - e chi sa già queste cose mi perdonerà le semplificazioni divulgative.
Per un paio di millenni o quasi, nessuno in Europa aveva dubbi sulla fonte oggettiva di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. La fonte che stabiliva giusto e ingiusto era Dio. Qualcosa di ontologico, appunto: in sé e per sé, oltre l’opinabile umano. Le leggi di cui le società si dotavano derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna.
Come noto - ma questa è divagazione - la legittimazione ontologica e religiosa della legge finì per attribuire un potere al papato che andava molto oltre i territori controllati dalla Chiesa. Il Papa che nel Medioevo incoronava gli imperatori o i re era il simbolo di questo passaggio di legittimazione: da Dio al Papa, dal Papa al monarca, il quale poi esercita questo potere derivante da Dio. Nel corso della lotta per le investiture, nell’XI secolo, diversi pensatori vicini al papato arrivarono a teorizzare che senza il placet pontificio il re non avesse quindi alcuna legittimazione a governare, e che il popolo avesse nel caso diritto a ribellarsi. Questo - al netto delle questioni di interesse - perché il potere e le sue leggi derivavano da Dio, il Papa ne era l’intermediario in terra e il re ne era solo il provvisorio depositario finale.
Ne conseguiva, sostanzialmente, una società teocratica, come ovvio se tutti i valori e le leggi derivano da Dio.
Questa cosa, tuttavia, a un certo punto si è incrinata. Non la faccio lunga, che è cosa nota: l’Illuminismo, la Ragione, il vaglio critico della mente umana. Frutto, si sa, di una borghesia che voleva spezzare l’ordine antico del rapporto di potere esclusivo tra aristocrazia a Chiesa. Ma al di là delle questioni di classe, fu anche una rivoluzione culturale: si iniziò a dubitare che la fonte del giusto e dell’ingiusto - e delle leggi che vi si conformavano - fosse Dio. Si iniziò a pensare che fosse, invece, l’uomo.
Quindi che il giusto e l’ingiusto fossero qualcosa di soggettivo, opinabile e non eterno. Privo di una fonte oggettiva, di un aggancio ontologico. Era nato il relativismo.
Il relativismo poneva diversi problemi. Ad esempio, Dostoevskij si chiedeva se in assenza di Dio fosse tutto lecito. Cioè se l’assenza di una fonte oggettiva non determinasse la fine dell’etica. Bel problema, se senza Dio ognuno poteva fare quel che gli pareva, perché tanto nessuna legge aveva più un aggancio ontologico.
I relativisti invece partorirono la democrazia. Cioè l’idea che in termini etici ognuno avesse i paradigmi valoriali che voleva, ma in termini pratici la legge con cui regolare la convivenza sociale doveva essere il frutto della volontà della maggioranza.
In altre parole, non è che morto Dio fosse tutto lecito. Semplicemente, morto Dio era la maggioranza delle persone a decidere cos’era lecito e che cosa no. Per regolare la convivenza civile, la società non ha più bisogno di Dio: fa da sé. E la questione etico-valoriale viene staccata da quella pratica-legislativa: la prima è libera e soggettiva, ma all’interno delle regole poste dalla seconda la cui unica fonte è la maggioranza.
Ovviamente anche questa soluzione ha i suoi punti deboli.
Ad esempio, in termini logici contiene un paradosso: si stabilisce che non esiste un valore etico oggettivo e assoluto, se non il fatto che non esiste alcun valore etico oggettivo e assoluto (quindi si fa a maggioranza). Un paradosso logico, appunto. Ma finora non si è ancora trovata una soluzione migliore se non quella di proclamare come oggettiva e assoluta un’opinione valoriale soggettiva e di minoranza. E quest’ultima è una soluzione peggiore, come ho cercato di dimostrare qualche tempo fa sfottendo chi si oppone al suffragio universale.
Il secondo punto debole della relativizzazione di ogni norma a ciò che vuole la maggioranza (senza alcun aggancio ontologico valoriale) è che la maggioranza può fare cazzate gigantesche, dal "Crucifige!" che salvò Barabba alle elezioni che diedero la vittoria a Hitler. Non che invece le decisioni prese da pochi potenti nella storia non abbiano provocato altrettante ingiustizie, ma insomma non è detto che le democrazie la imbrocchino sempre.
Per questo sono nate le Costituzioni. Che hanno mura più solide di leggi ordinarie, esigono più riflessioni e più passaggi per essere modificate, per alcuni punti si stabilisce perfino che non siano modificabili (es.: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale»), quindi - nuovo paradosso - se ne presume una seppur parziale eternità ontologica.
Insomma un discreto casino. Non è tutto semplice e chiaro come quando le leggi provenivano da Dio. Ma finora non si è appunto riusciti a fare di meglio - e tutto sommato la cosa funziona. Se qualcuno ha proposte alternative, dica pure.
È all’interno di questo contesto culturale che forse occorre fare qualche valutazione critica del dispositivo della sentenza della Cassazione.
Perché non vi è dubbio che la legge - la laica legge, semplice espressione della maggioranza - impedisce a chicchessia di andare in giro con un coltello lungo 20 centimetri. Dal 1975, mi pare. Per decisione del Parlamento italiano, eletto dai cittadini, sul tema delle armi improprie.
Altro è fare riferimento all’esigenza, anzi all’obbligo, di "conformarsi ai valori del mondo occidentale". Perché qui vi è un richiamo ontologico. Oggettivo. Assoluto. Metodologicamente teocratico. Pre illuminista, se non anti illuminista. Un richiamo a un presunto sistema di valori oggettivo (la cui vaghezza e i cui confini peraltro potrebbero essere oggetto di discussioni molto ampie) che antecede la legge, ne è la fonte.
Un grosso passo indietro culturale, a mio avviso, frutto delle paure identitarie proprie di quest’epoca incerta, spaventata dalla velocità dei cambiamenti e delle contaminazioni.
Forse non è proprio un caso che gli Stati Uniti - con tutti i loro difetti, ma pur sempre figli dell’Illuminismo - si guardino bene dal chiedere agli immigrati e ai nuovi cittadini di "conformarsi ai valori del mondo occidentale". Chiedono solo, molto a chiare lettere, di rispettare le leggi e di pagare le tasse.
Roba laica, insomma. Non teocratica.
E un grazie di cuore a chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui.
L’immaginario del cattolicesimo romano.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Capitalismo come religione
di Walter Benjamin *
Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo - e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso - condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.
Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.
Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione - che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa - e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso - che è il capitalismo - resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura - ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.
Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è - per una profonda analogia ancora da esaminare - il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene - con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) - Socialismo.
Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Il capitalismo si è sviluppato in Occidente - come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse - in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.
Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.
Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.
Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.
[metà 1921]
Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).
Vai allo speciale IL CULTO DEL CAPITALE
Solo Dio è ateo.
Il diavolo è il più grande credente»,
Flannery O’Connor
TWEET armando massarenti - 5 feb 2017
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
WALTER BENJAMIN, IL “PROGRAMMA DELL FILOSOFIA FUTURA”, E “CAGLIOSTRO”: KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.... *
CONDIVIDENDO LA CONCLUSIONE DELLA NOTA DI Iside Gjergji (si cfr.:‘La morte nera’ e il fascista che è in noi - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/23/la-morte-nera-e-il-fascista-che-e-noi/3274504/):
MI PERMETTO DI DIRE, SOLAMENTE, CHE “leggere *monotematicamente* Benjamin” e “metterlo al servizio del comunismo” - come chiarisce Fabrizio Denunzio nelle “Memorie di famiglia” (si cfr. l’Introduzione a “La morte nera”, Ombre Corte, Verona, 2016, p. 14) riporta al punto di partenza, nel vicolo cieco - da cui lo stesso Benjamin non è uscito.
Sulla “teoria del fascismo di Walter Benjamin”, Denuzio ha brillantemente messo e rimesso a fuoco il problema, ma non ha visto e non poteva vedere la “CAGLIOSTRO-sità” del problema per essersi collocato con lo stesso Benjamin in un’orizzonte hegelo-marxista (e non più propriamente “kantiano” - alla Kant, e “marxiano” - alla Marx!) e pensare meglio e bene il nesso tra “ragione e religione”, il materialismo - “quel vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”(op. cit., p. 34), e, infine, lo stesso “Messia” delle Tesi “Sul concetto di storia”.
Benjamin (come Freud, Aby Warburg, Kantorowicz) cerca di imitare “Mosè”, pensa il problema dell’”esodo”, ma alla fine non riesce a scappare “dall’Egitto” e, drammaticamente, finisce per restare (e con Goethe!) nella terra e nell’orizzonte del “Grande Copto”, del “Cagliostro” di turno. La “carica rivoluzionaria dell’Illuminismo” (op. cit., p. 11) di Kant è rimasta impensata - e ancora impensabile!
* Sul tema, mi sia consentito, cfr.: FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829: in particolare, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790
Federico La Sala
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato
di Francesco Fiorentino (alfapiù, 13 gennaio 2017)
«Abbiamo appena salvato la cultura», scrive Brecht a George Grosz dopo aver preso parte al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, che si tenne a Parigi nel giugno del 1935. «Ci abbiamo messo 4 (quattro) giorni, e abbiamo deciso di sacrificare tutto piuttosto che far morire la cultura. In caso di necessità di sacrificare anche 10-20 milioni di persone».
È l’ideologia della cultura che chiude gli occhi davanti ai crimini, che è essa stessa criminale perché collusiva con le condizioni economiche e sociali che rendevano possibile il nazismo. Portatore e beneficiario - ma anche vittima - di questa ideologia è il tui, come Brecht chiama ironicamente «l’intellettuale dell’epoca delle merci e dei mercati, il noleggiatore dell’intelletto». Su questa figura progetta di scrivere un Romanzo dei tui, cui lavora tra il 1930 e il 1942 senza concluderlo. Ora L’orma lo propone per la prima volta in italiano, insieme ad altri scritti - racconti, trattati, appunti, schizzi - che ne hanno accompagnato la stesura.
È un libro che contiene molti libri; che usa e mischia satira, parabola filosofica, aneddoto, barzelletta, aforisma, racconto. C’è una provocatoria riabilitazione satirica di un serial killer che macella le sue vittime per mangiarne o venderne la carne; c’è un gustosissimo trattato sull’arte del leccapiedi o uno sull’arte del coito, poi il frammento di un Epos dei tui, ma ci sono anche una serie di Storie dei tui, piccoli gioielli di scrittura popolare ad alta tensione dialettica; poi diverse pagine di appunti, lacerti di quel magma già depurato da cui nasce la scrittura tersa di Brecht.
Ma soprattutto c’è il frammento del Romanzo dei tui: un tentativo di scrivere la storia della Repubblica di Weimar in forma di una grande satira sugli intellettuali ambientata in una Cima che serve a trasportare i fatti storici nella terra di uno straniamento parabolico.
La Repubblica di Weimar è rappresentata come «la grande era dei tui», che poi è l’epoca del loro grande tradimento della «rivoluzione degli operai e dei contadini». La satira di Brecht è dolorosa; è come alimentata da una rabbia divertita, da una rabbia che non si lascia piegare dal pessimismo. Ma in certi punti rivela un’origine traumatica, come quando dipinge con tratti quasi comici l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che è il grande choc per la sinistra tedesca, il fallimento della speranza di una rivoluzione comunista in Europa.
Un altro trauma dissimulato satiricamente è l’elezione democratica di Hitler: «Che la prima applicazione della democrazia provochi la sua abrograzione; che il popolo liberato imponga la propria sottomissione, questo è il paradosso comico del libro». Paradosso comico e lancinante.
L’origine del nazismo sta nella democrazia di Weimar, in un ordine economico e sociale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La grande colpa dei tui è di non averlo riconosciuto e contestato; di aver preso partito per la cultura senza opporsi ai rapporti di proprietà ingiusti su cui essa si fonda. Solo un’illusione è la libertà della cultura: lo spirito può credersi libero finché le sue critiche sono innocue o magari si prestano a essere sfruttate per far profitti, per esempio dai giornali sui quali vengono formulate.
Il mercato è capace di assorbire e sfruttare anche chi lo contesta. Perché quelle contestazioni poggiano su basi sbagliate. Idealistiche. Brecht non si stanca di mettere alla berlina la collusività tra idealismo e mercificazione. Il tui è oggetto e soggetto di mercificazione: crede di esercitare la libertà di pensiero, ma in realtà vende il proprio intelletto facendosi complice di un sistema governato dalla produzione di mancanza.
Ne ha per tutti, Brecht. Anche per quelli che trattano il socialismo come merce e traggono profitto dalle loro opinioni «sulla pericolosità sociale del fatto che tutto ormai sia una merce». Sulla Scuola di Francoforte è fulminante: «Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso».
Un altro choc è l’esilio americano: l’esperienza di una florida industria culturale in cui davvero l’intelletto è sottomesso apertamente al ritmo e all’ordine della merce: «questo paese mi manda in fumo il mio Romanzo dei tui», appunta il 18 aprile 1942 nel suo Diario di lavoro. «Qui la vendita delle opinioni non la si può svelare. Perché se ne va in giro nuda». La realtà supera la satira e la rende superflua.
Non siamo lontani dall’attuale condizione neoliberale in cui l’intellettuale è costretto sempre più a farsi imprenditore di se stesso, impegnato soprattutto a autopubblicizzarsi, a trasformarsi in marchio riconoscibile capace di garantire per i prodotti del suo lavoro, i quali però sono sempre meno richiesti. Quale satira può essere all’altezza dei tanti lamenti sulla condizione del lavoro intellettuale in quest’epoca post-salariale? In quest’epoca in cui l’intellettuale è impegnato in un marketing del sé che va fino ai limiti dell’autosfruttamento, alla disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità da spendere su un mercato sempre più ristretto? Ogni critica è metabolizzata a priori, utilizzata anzi come alimento di un sistema in cui il controllo ideologico è ormai interiorizzato, automatizzato; e che perciò non ha più bisogno di intellettuali che forniscano giustificazioni dell’ingiustizia sociale o ammantino la violenza con una retorica della libertà.
Il romanzo dei tui suscita continuamente domande sulla possibilità di pensare la figura e la funzione dell’intellettuale al di fuori della logica della merce e dell’ideologia dell’inelluttabilità del mercato.
La risposta che sembra prospettare Brecht, insieme a Benjamin, è l’utopia di un’espansione del «sapere sociale generale» (Marx) che facesse evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale. Svanirebbe allora la figura dell’intellettuale di professione, cioè di un individuo che mette a frutto il proprio intelletto nella competizione economica; svanirebbe per lasciar posto a un’intellettualità diffusa, anonima, non più legata a nomi, titoli, riconoscimenti. Quindi svincolata dalla doppia morsa della mercificazione e del narcisismo che sottrae all’intelletto la sua potenza critica. È un’utopia che la rivoluzione digitale sembra rendere una possibilità concreta: l’unica, forse, sulla quale potremmo e dovremmo puntare.
“Il romanzo dei tui” uscito solo ora in Italia è una satira (attualissima) su chi vende idee e talento al miglior offerente
“Gli intellettuali da tre soldi smascherati da Brecht”
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 5/1/2017)
«Su larga scala la stupidità diventa invisibile», suggerisce Bertolt Brecht, e le sue parole risuonano più che mai concrete e pertinenti mentre galleggiamo negli oceani delle scemenze populiste. Quanto alla prassi del leccapiedi, che è sempre in auge, il sommo drammaturgo del Novecento tedesco la dipinge con cura irresistibile. Perché se è vero che di adulazioni è affollato
il mondo, l’arte del leccapiedismo esige allenamento e disciplina.
«Solo con l’esercizio ci si può elevare dalle bassezze della leccata corriva, e soltanto quando la perseveranza lascia il posto alla fantasia si diventa maestri», scrive. Aggiungendo che bisogna distinguere la più ovvia adulazione dal lecchinaggio artistico: il primo «è merce dozzinale e cicaleggio meccanico»; il secondo «produce espressioni originali e profondamente sentite: crea una forma».
Stiamo pescando citazioni da un libro di Brecht che piacerebbe da matti a Dario Fo: stessa satira sferzante e stessa rabbia giullaresca lanciata a sinistra del marxismo. S’intitola Il romanzo dei tui e lo ha appena pubblicato in Italia L’Orma editore. A questa raccolta di considerazioni e siparietti futuristici sull’opportunismo dei cosiddetti pensatori, Brecht lavorò dal 1931 al 1942, ben piantato nel proprio odio per tutti gli ideologi occidentali: da Hegel a Freud, da Marx a Lenin, dagli artisti partecipi dell’impresa mitica del Bauhaus fino agli accademici, ai ministri, ai rivoluzionari e ai poeti.
È una strage che non salva nessuno, proprio come le vignette schiacciasassi di Charlie Hebdo, irrispettose per principio con chiunque al di là di tendenze e colori. Collezionando ritratti, cronache mascherate e testi corrosivi in un florilegio di nomi storpiati, Brecht offre una messe di materiali acidi e inopportuni, curati nella versione italiana da Marco Federici Solari, abile nell’arricchire il “Roman” con appendici relative alla progettazione dell’opera e con un attento vocabolarietto dei termini e dei loro equivalenti.
Il bersaglio di Brecht sono le creature che non esitano, in ogni tempo e luogo, a prostituire l’ingegno, e sappiamo che il pianeta annovera una tale moltitudine di membri di questa categoria che il lettore, tuffandosi nella costellazione “tuistica”, si sente di continuo emergere sulla punta della lingua una miriade di esempi ritagliati dalla politica e dalla intellighenzia di ieri e oggi.
Nato dalla parola “intellettuale” (Brecht isola le inziali di “Tellekt-uell-in”), il “tui” è il noleggiatore dell’intelletto che ingrassa vendendo analisi e opinioni al miglior offerente. Muovendosi tra la storiografia comica e la parabola filosofica, l’epopea dei “tui” narra le sorti del Reich dal suo primo germinare fino agli apici del nazismo. La storia che dalla disfatta tedesca della prima guerra mondiale arriva all’ascesa di Hitler e all’esilio degli intellettuali passando attraverso la Repubblica di Weimar viene trasposta in “Cima” o in Cina, luogo focale corrispondente alla Germania. Grande territorio in cui tra l’altro dilaga biecamente la razza dei funzionari, dato che la burocrazia dell’impero ha inventato quel genere di “basso” intellettuale pronto ad affannarsi su astrazioni e scartoffie «sostituendo in corso d’opera il mezzo con il fine ».
Così, mentre da esule si aggira furente in una dozzina di paesi, l’autore di Mahagonny e de L’opera da tre soldi si sfoga identificando con il tema del «cattivo uso dell’intelletto » il fulcro della propria rivolta. Nemico della malafede dei cerebralisti di ogni risma, giunge a mettere alla berlina anche eventi tragici come l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ed è talmente perfido da descrivere, con sprezzo da comunista snob, «i cappellini inguardabili » della Luxemburg.
Paradossale è il tono roboante e impavido che vibra in ogni pagina dello pseudo- romanzo, dove il Führer diventa Gogher Gogh, il ministro della propaganda Goebbels si riconosce in un certo ridicolo Gobbelo e i riflettori della prosa, teatralmente, illuminano le gesta degli agiografi, dei pretestologi e dei reggicoda. Avventurandosi nell’etica “tuista” fin dalle radici, Brecht rievoca Kant, «il grande filosofo tuistico Ka-an», ricordato per la sua definizione del matrimonio come «unione di un uomo e una donna finalizzata alla cessione reciproca degli organi genitali». Il Papa è un grottesco capopopolo catalogato come “Tashi-Lama” che attraversa la Cima marciando a braccia aperte verso l’imperatore, e “Len”, che sarebbe Lenin, è un danneggiatore tarchiato e munito di barba caprina. Nei comportamenti pubblici e privati non esistono alternative al male dei pochi che si approfittano dell’idiozia dei molti. Ogni speranza di giustizia cade nell’irraggiungibilità di auspici buoni e onesti.
Il diario non è mai un apologo sul valore e l’efficacia del raziocinio, anzi: dal Romanzo dei tui è completamente assente il Brecht articolato e finissimo di Vita di Galileo, dove la forza cieca dell’ideologia viene attaccata in nome della ragione. Piuttosto qui s’alza la voce di un individuo folle di sdegno e soffocato dalle proprie risate, o dai propri singhiozzi espressionisti, di fronte allo spettacolo mostruoso del nazismo.
Sotto apparenze ludiche, leggiamo insomma una dichiarazione di assoluto e disperato isolamento. Solo in tal senso Brecht potrebbe somigliare al personaggio di Galileo, che davanti alla sconfitta impostagli dall’Inquisizione si ritira a riflettere in solitudine, abbandonato da tutti. Specialmente dai propri ideali.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
‘La morte nera’ e il fascista che è in noi
di Iside Gjergji *
Il recente libro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin (Ombre Corte 2016) è uno dei testi più interessanti pubblicati in Italia nel 2016. L’opera prosegue e, forse, conclude una elegante e seducente lettura di Walter Benjamin, già avviata da Denunzio con L’uomo nella radio. Organizzazione e produzione della cultura in Walter Benjamin (Giulio Perrone 2012) e, prima ancora, con Quando il cinema si fa politica. Saggi su “L’opera d’arte” di Walter Benjamin (Ombre Corte 2010).
Il libro tratta un tema attuale - il fascismo - e lo fa attraverso le parole e i silenzi del filosofo berlinese. La morte nera non è solo un testo di critica e, senza dubbio, non è uno di quei lavori che - come va di moda - si accaniscono sul “corpo” di un autore, nella speranza di ricavarne un lembo, al fine di assicurarsi un posto nella koinè culturale che conta.
Al contrario, il testo ha un obiettivo ambizioso: vuole realizzare uno schizzo multidimensionale del fascismo, vuole mostrare il suo cuore segreto, ancora palpitante, per farci sentire anche nella vigna dei testi il suono inquietante del “duro metallo della violenza” (Baudelaire). Obiettivo riuscito.
Inoltre, come si può intuire già dal titolo (per gli amanti di Guerre stellari, la Morte Nera è l’arma potente e segreta dell’Impero, che, da sola, può annientare interi pianeti, cosi come “Morte Nera” è l’espressione con la quale si definisce la peste che sterminò più di un terzo della popolazione europea nel XIV secolo), il lavoro ha un carattere ibrido. Vi si trova la critica più rigorosa attraversata da intuizioni, collegamenti storici e biografici, rimandi a frammenti letterari, epistolari, trasmissioni radiofoniche e film.
Nella prima parte si svolge come una sceneggiatura in tre atti (fasi), denominata “Il fascismo”, il cui prequel, nella seconda parte, è dedicato a “Il fascista”.
Ma andiamo con ordine. Denunzio, come anticipato, individua tre fasi nello sviluppo del pensiero benjaminiano sul fascismo. Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, Benjamin pensa a un modello di fascismo a partire da una analisi “giornalistico-informativa”, anche come diretta conseguenza del suo girovagare in Europa.
La sua attenzione è catturata pressoché interamente dalla figura del “duce”. L’autore coglie in questa fase lo sguardo critico di Benjamin sull’Illuminismo e la sua conseguente spiegazione della legittimazione popolare del “duce” attraverso il conflitto tra ragione e religione. Il collegamento è da ricercare nel “vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”, creando spazio a “personaggi che, contrabbandando un soprannaturale di scarto, [...] vengono investiti di un potere che sicuramente useranno contro quanti gliel’hanno conferito” (p. 34).
La soggettività a cui Benjamin pensa in questo periodo non coincide con l’uomo razionale, ma con l’uomo religioso, capace di esperire la trascendenza.
La seconda fase, secondo l’autore, coincide con gli anni 1934-36 e si caratterizza per l’approccio “politico-combattente” del filosofo. Benjamin perviene, infatti, a un modello di fascismo fondato su elementi strutturali, tenendo conto della composizione delle classi e delle strategie di dominazione del capitalismo. È in questo passaggio che il filosofo tedesco accantona la coppia concettuale “ragione-religione” e abbraccia un’altra, anch’essa oppositiva, ovvero “natura-tecnica”.
La riflessione più matura sull’Illuminismo e sulla modernità spinge Benjamin a pensare un rapporto inedito tra natura e tecnica, in quanto egli riesce a immaginare la tecnica “liberata dal fine strumentale di dominare la natura e finalmente impiegata per fare giocare e divertire gli uomini” (p. 63).
La soggettività dominante nel pensiero benjaminiano di questa fase non è l’individuo, ma la classe lavoratrice. È il lavoro a mediare le relazioni e, di conseguenza, la trascendenza finisce in secondo piano (senza però scomparire del tutto) per lasciare maggiore spazio alla Ragione.
L’ultimo e terzo atto della sceneggiatura denunziana sulla teoria del fascismo di Benjamin si consuma nel 1940, che è anche l’ultimo anno di vita del filosofo, ormai esule e solitario nelle strade d’Europa, nelle quali imperversa la “follia”. Il modello di fascismo delineato in questa fase conserva il nesso struttura/sovrastruttura sviluppato nelle fasi precedenti, ma questa volta l’elemento (strutturale) economico trova un perfetto rispecchiamento nella sovrastruttura ideologica del fascismo: “La conservazione millenaria della prima si rispecchia fedelmente nell’eternità della seconda” (pp. 72-73). Benjamin perviene così a una riflessione sul tempo nella modernità, sui momenti temporali dell’eternità e dell’istante.
La chiave di lettura dell’intera sceneggiatura è, però, nascosta nel prequel, ovvero nella seconda parte del libro, laddove Denunzio, in modo raffinato, sviluppa un’analisi sociologica e psicoanalitica, setacciando il tempo, la vita e le parole del filosofo tedesco, a caccia di lapsus, di non detti e del rimosso. È nella seconda parte, infatti, che le parole e i silenzi abitano corpi che ci consentono di interpretare e comprendere comportamenti, testi, dottrine ed eventi narrati nella prima parte. E nondimeno ci consegnano un ritratto completo di Benjamin, con le sue luci e le sue (non poche) ombre nere. Qui il fascismo diventa una silhouette autoritaria e tirannica, una presenza che si produce in fasi storiche e passaggi biografici caratterizzati da “vuoti” di autorità e che si manifesta sotto molteplici sembianze: padri sostituivi con simpatie naziste, personaggi letterari che evocano tiranni, poeti vicini alle SS.
L’autore sottolinea, dunque, quanto già evidenziato dalla migliore tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero l’imprescindibilità della teoria freudiana nella comprensione del fascismo come fenomeno sociale, in quanto pone l’urgenza di comprendere, accanto a tutto il resto, anche i condizionamenti e le tirannie interne (IL fascista interno) al soggetto. Curiosamente, però, Fabrizio Denunzio attribuisce l’ulteriore sviluppo di tale riflessione, nella seconda metà del Novecento, ad alcuni illustri autori francesi, quali Foucault, Deleuze, Guattari, i quali notoriamente si sono ispirati a pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e Heidegger, tutti, almeno a parere di chi scrive, reazionari, anti-dialettici e immersi nel tunnel dell’irrazionale. La lotta contro i residui del “fascista” (morte nera) dentro di noi, a quanto pare, non può mai dirsi conclusa. Che la Forza sia con noi!
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IL FATTO QUOTIDIANO, di Iside Gjergji | 23 dicembre 2016
Walter Benjamin, l’inquilino in nero
di Massimo Palma (alfapiù, 11 gennaio 2017)
A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni.
L’angolatura è originale - evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio.
Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona - nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata -, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma - questa la tesi dirompente - altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano.
Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici.
Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Questo postulato d’inizio libro resta tale. Tutto lo studio ne consegue. Questa premessa-conclusione - «il fascismo intrapsichico di Benjamin», il «padre compensativo interiorizzato da Benjamin per rispondere alla crisi d’autorità paterna: guerrafondaio, criminale e sadico» - si dirama, serpe in seno al lettore, in parallelo alla formula dell’«ebreo comunista esule e perseguitato» che, assieme all’intellettuale antifascista precario declassato non-accademico, classifica WB nel casellario vittimario. Paria come tanti.
Eppure, tale premessa-conclusione per esser presa sul serio deve celare una sottaciuta rilettura del concetto di immedesimazione o empatia, che Benjamin individua come una dannazione operativa della storiografia e della «tecnica» artistica in generale e che legge in questi termini sin dall’Origine del dramma barocco tedesco, per demolirlo nella tesi VII Sul concetto di storia come funzione «fascista» della scrittura.
Ma il libro sul barocco viene ignorato da Denunzio fin quasi alla fine: non lo menziona riguardo alla ricostruzione iper-cattolica, à la Schmitt, della «filosofia» del primo Benjamin (schiacciato sul Programma della filosofia futura e definito «non rassegnato a vivere in un mondo senza dei e trascendenza»), ma solo per affrontare il tiranno. E certo, nel momento in cui si affronta la teoria della storia di Benjamin, la decostruzione dell’Einfühlung deve emergere, perché è una decostruzione politica che modula il concetto anti-fascista di storia che Benjamin lascia ai posteri.
Dobbiamo quindi supporre che Denunzio la dia per scontata, nel momento in cui la sua tesi verte sul consentire col fascismo e sull’identificazione di Benjamin nel capo fascista («Benjamin si trova ad aver interiorizzato proprio una figura di Capo di questo tipo»). Un’immedesimazione il cui precipitato, nel critico che usa fonti tedesche già compromesse col regime, è esposto senza infingimenti: «li si disponga tutti assieme in un’unica immagine, i Kommerell, gli Obenauer e gli Schmitt, a mo’ di foto dell’epoca, semmai con tanto di divise e di fasce al braccio, e si vedrà in tutta la sua crudezza una costante dell’atteggiamento di Benjamin nei confronti di questi gerarchi del sapere fascista idealmente fotografati: la complicità».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
Restano gli affondo, la profondità abissale del tema, la libertà di ricerca esibita, ma anche l’incedere di un libro pesantissimo che vola da un fiore all’altro dell’orto benjaminiano, decontestualizzando un singolo riferimento epistolare del 1924, un passo di diario del 1938 e passaggi di opere complesse (decenni di ricezione non solo «idealista» né «teologico-politica» sarebbero lì a testimoniarlo), per attribuire all’autore l’inconscia «richiesta di uno Stato forte» e un «desiderio» di fascismo», senza dialogare con alcuno se non i suoi testi.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
NOTA *:
LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE. La teoria del fascismo di Walter Benjamin ...
Benché segnata da timore e tremore, l’autore della recensione ("Alfabeta2", 11 gennaio 2017) non ha potuto non riconoscere il coraggio dell’Autore e del suo lavoro sulla “morte nera” ... e superate le resistenze ha saputo accogliere anche dentro di sè “l’inquilino in nero”!!!
Trovata la “cosa” di grande interesse teoretico e storico (sul tema, ad ampio ‘spettro’, si cfr.: “Le due metà del cervello”, “Alfabeta”, n. 17, settembre 1980, p. 11), l’ho ripresa qui: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556#forum3119697, in collegamento e in riferimento a un mio ‘vecchio’ lavoro (“La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Roma 1991).
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Federico La Sala
Psicoanalisi, Storia e Politica....
I demiurghi che alimentano la linfa religiosa della sovranità
di Ubaldo Fadini (il manifesto, 27.04.2016)
Con questo suo recente testo - La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, Ombre Corte, pp. 119, euro 10 - Fabrizio Denunzio sviluppa ulteriormente un radicale e impegnativo confronto con l’opera complessiva del filosofo berlinese di cui si può ricordare perlomeno un’altra tappa particolarmente felice concretizzata in Quando il cinema si fa politica. Saggi su «L’opera d’arte» di Walter Benjamin, pubblicata alcuni fa dalla stessa casa editrice veronese. Ciò che risulta particolarmente chiaro dagli esiti di tale confronto è lo sforzo operato da Denunzio per fornire dei segnavia decisivi che consentano al lettore di orientarsi al meglio nei territori difficili e spesso irregolari della produzione teorica benjaminiana.
La massa dei risentiti
L’attenzione si concentra soprattutto su quei testi e «frammenti» di Benjamin che concorrono alla formazione di una storia dell’interesse manifestato nei confronti del fascismo. Nella prima parte del suo studio, quella più consistente (anche quantitativamente), Denunzio individua tre fasi/momenti di tale manifestazione di interesse. La prima, tra il 1924 e il 1930, delinea un modello di fascismo in termini di analisi «giornalistico-informativa», a partire dal girovagare benjaminiano, soprattutto tra la Francia e l’Italia (senza dimenticare la città di partenza: Berlino).
Tale modello coglie in definitiva il collegamento tra la legittimazione popolare del «duce», assicurata in molteplici maniere, e la presenza di un deficit intrinseco alla modernità, un vuoto che la contraddistingue nel momento in cui l’affermazione del primato della Ragione si accompagna alla abolizione di qualsiasi legame con la trascendenza (ricondotta alla misura, facilmente contestabile, della religione). È questo vuoto ad alimentare quelle dinamiche di compensazione, su base materiale, che troveranno in determinati gruppi sociali, risentiti e impoveriti (dopo la prima guerra mondiale), i soggetti facilmente predisposti all’impiego di classe (al servizio del capitalismo) contro la lotta proletaria e rivoluzionaria. È importante qui l’annotazione di Denunzio, secondo la quale emerge, in questa prima fase, un punto di vista critico di Benjamin nei confronti dell’Illuminismo come marca della modernità, che registra un eccesso di potenziamento della Ragione nel suo rapporto con la trascendenza a cui si può trovare rimedio soltanto con un riequilibrio che impedisca la strumentalizzazione dell’altro (relativo) della medesima Ragione nei modi della violenza fascista al soldo del capitale.
Concetti materiali
A questo modello ne segue un altro, quello del periodo 1934-36, che si qualifica non più come «giornalistico-informativo» ma «politico-combattente», nel senso di una più precisa indicazione dell’importanza anche del momento sovrastrutturale per la comprensione del fenomeno del fascismo, accanto all’ovvia considerazione del valore della dimensione strutturale, economico-materiale, con i suoi determinati rapporti di proprietà. In quest’ottica, Benjamin predispone una batteria di concetti che pretende di dar corpo ad una ragione politica di lotta al fascismo che si vuole articolata sul piano della produzione culturale, con particolare riferimento alla teoria dell’arte e alla registrazione del ruolo dei mass-media (dalla radio al cinema) nella realizzazione di una ben governabile «massa compatta» (disoccupati, reduci, impiegati: quest’ultimi raffigurati attraverso l’indagine preziosa di Siegfried Kracauer), «monumentale», come l’arte veicolata dal regime fascista, in grado di legare/integrare dentro di sé la collettività, i gruppi sociali.
Anche rispetto a questo modello, Denunzio coglie felicemente il diverso rapportarsi di Benjamin all’anima illuminista della modernità, con la sua ambivalenza (indicativa di un volto da opporre a quello fascista) che verrà «lavorata» dagli esponenti di maggior rilievo della «teoria critica», Adorno e Horkheimer: l’attenzione del filosofo berlinese si sposta in effetti dalla coppia di opposti «ragione-trascendenza» a quella «natura-tecnica», individuando in una tradizione di illuminismo «segreto», tipicamente tedesco, carico di spirito rivoluzionario, la possibilità di non considerare la tecnica soltanto come dominio ma di apprezzarne anche un uso «ludico», positivo, in una prospettiva concretamente emancipatrice.
Nell’ultima fase, emblematicamente raccolta nell’anno conclusivo dell’esistenza di Benjamin: 1940, si delinea un terzo modello di fascismo, rispetto al quale il compito teorico/politico appare quello di «salvare» il tempo, di non lasciare irrimediabilmente la modernità al suo rapporto con il fascismo, laddove il capitalismo - come capitalismo di Stato in grado di ricomprendere al suo interno l’esperienza «socialista», anche nella sua prefigurazione saint-simoniana - crea il fascismo statualizzato come dinamica di riunificazione dei poli opposti dell’eternità (il sempre-uguale) e dell’istante (la novità), una dinamica specifica della modernità disegnata in forme classiste nel trionfo fantasmagorico del feticismo della merce, che sembra prolungarsi all’infinito, in una tragica e terribile perpetuazione della propria «logica».
Appare quindi evidente come il confronto di Beniamin con la modernità, la sua particolare «esperienza» di essa, porti con sé anche un rapporto con l’Illuminismo attento a situare materialmente l’operato della Ragione, ad apprezzarne la temporalità plurima, la provvisorietà/revocabilità dei suoi assetti e delle sue configurazioni dalla parte dei soggetti interessati a non s/qualificarsi come subagenti commerciali di quel capitalismo che storicamente si è presentato (si presenta) come ciò che consegna il nostro tempo in mano al fascismo: vale a dire ad una particolare modalità (teoria) di potere da cogliere a tutti i costi - così ancora Benjamin - come il vero e proprio «nemico da combattere».
Il tiranno e il martire
La seconda parte, quella più breve, del testo di Denunzio è dedicata ad una ricostruzione socio-psicologica delle ragioni di carattere anche più «personale» dell’attenzione di Benjamin al fenomeno del fascismo, inteso come figura iper-autoritaria proiettata, per così dire, su piani di formazione individuale e collettiva, al fine di compensare quelle assenze o crisi di autorità (i «vuoti») che costituiscono e accompagnano la vicenda complessa della modernità. In tale prospettiva, la giovanile assunzione benjaminiana di figure «politiche» di sostituzione parziale di una autorità paterna avvertita come carente, viene analizzata, da Denunzio, nei suoi sviluppi e nelle sue trasformazioni, in ciò che prende corpo e si manifesta, ad esempio, in alcuni dei personaggi-chiave del libro sul dramma barocco tedesco (il sovrano: tiranno e martire, anche sulla scia della ripresa dell’idea schmittiana di «stato di eccezione») o nelle pagine straordinarie su Kafka.
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Scenario
Dobbiamo superare le reticenze sull’islam
L’Isis ha dichiarato la sua guerra contro cristiani e pagani. I suoi messaggi non vanno elusi né liquidati come «deliranti», ma studiati per contrattaccare
di Roberto Calasso *
La ritrosia dei giornali a pubblicare i proclami e le rivendicazioni dei terroristi mi è sempre sembrata stolta. L’argomento secondo cui la pubblicazione equivarrebbe a una involontaria propaganda delle loro idee mi sembra ancora più stolto - e offensivo verso i lettori dei giornali stessi, come se questi avessero bisogno delle parafrasi dei giornalisti per capire qualcosa. Mentre non c’è nulla che possa sostituire la conoscenza diretta. E per conoscere qualcuno essenziale è sapere come parla e come scrive.
Se Mein Kampf, che oltre tutto è un libro ben anteriore alla presa del potere da parte di Hitler, fosse stato letto e commentato subito con la dovuta attenzione e scrupolo filologico, sarebbe stato molto più chiaro con chi il mondo aveva a che fare.
Oggi, più che dichiarazioni del genere: «Non ci fate paura», servirebbero analisi secche e puntuali delle parole usate dai terroristi. Perciò ogni volta che leggo di «rivendicazioni deliranti», la cui lettera non viene riportata, sento un’invincibile irritazione e frustrazione. Se davvero «deliri» sono, si tratta di materiale prezioso da analizzare. Freud fondò la sua teoria della paranoia sull’analisi di un singolo delirio, quello del presidente Schreber, che si manifestava in un libro di 516 pagine.
Stando così le cose, è d’obbligo contentarsi di minuscole schegge che qualche giornalista osa riprodurre fra virgolette. Ma a volte anche le schegge possono essere molto eloquenti.
Nella rivendicazione dell’Isis per l’attentato al Reina di Istanbul si dice che l’azione ha colpito «dove i cristiani stavano celebrando la loro festa pagana».
Poche parole, ma dovrebbero bastare, almeno per capire un dato essenziale: l’Isis è una setta islamica che vuole colpire gli infedeli in quanto tali - fatto non privo di precedenti nella storia. La novità è la composizione degli infedeli, identificati con l’Occidente. E l’Occidente in una sua notevole parte si dichiara cristiano: perciò è assimilabile ai Crociati, nemici da secoli. Ma l’Isis ben sa che l’Occidente non è tutto cristiano. In vasta parte è secolare, privo di affiliazioni religiose. Anzi, il suo apparato tecnico e la macchina dei suoi poteri è tutta secolare.
Ma per chi ha avviato, come la setta dell’Isis (e di Al Qaida), una guerra di religione, non c’è nulla che non dipenda da una religione. Quale sarà allora quella dei secolari? In verità, sarebbero tutti pagani. È questo che l’Isis ha scoperto - e i secolari stessi non lo sanno. In un club dove si celebra la festa pagana del Capodanno, la setta avrà l’occasione di uccidere insieme cristiani e pagani. Quindi la totalità degli infedeli, se si eccettuano gli Ebrei, che sono demograficamente irrilevanti, anche se hanno il privilegio di occupare il primo posto fra gli infedeli e sono perciò meritevoli di un odio specifico ed esemplare.
La rivendicazione dell’Isis non potrebbe essere più chiara. E mostra un tratto euforico nell’osservare l’opportunità dell’occasione per l’attacco. Era ora, si lascia intendere, che i secolari capissero chi sono: semplicemente pagani, camuffati sotto altro nome. Tutti i fieri laici occidentali, convinti di essersi liberati di ogni impaccio religioso, ora dovranno rassegnarsi a riconoscere di essere soltanto dei vecchi pagani. Perciò passibili di essere colpiti non meno dei cristiani, nella nuova guerra di religione.
Perché di questo - e solo di questo - si tratta, anche se la Chiesa e i governi fanno di tutto per evitare l’espressione. E una peculiarità di questa guerra di religione è che avviene in anni dove il sentimento religioso si è ridotto al minimo, in Oriente come in Occidente. Ma bisogna pur sempre ricordare che la guerra di religione è la forma primordiale della guerra. Le guerre politiche, fra nazioni, sono una breve eccezione nella storia, durata meno di tre secoli, dalla pace di Vestfalia allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Però dire oggi guerra di religione significa dire anche da quale religione è promossa - e questo obbligherebbe a usare la parola «islamico» (intendendo tutto ciò che si appella ad Allah). E oggi non c’è parola che la Chiesa e i governi evitino con maggiore cura. Davanti a una persecuzione in atto di cristiani in quanto cristiani, che va da larghe zone dell’Africa all’intero Medio Oriente, non basta che il Papa si dichiari «vicino» a chi soffre. Ci si aspetterebbe che nominasse chi fa soffrire.
Così come, durante la Seconda guerra mondiale, non si poteva dire di essere «vicini» agli Ebrei perseguitati senza dire che erano i nazisti a perseguitarli. Spetta a ogni Papa proteggere tutti i cristiani, anche i venticinque copti che sono stati uccisi mentre assistevano alla Messa al Cairo. Certo, il Papa dispone solo della parola, ma è una parola potente. E allora il Papa non potrebbe evitare la parola proibita: «islamico». E non potrebbe neppure più rifugiarsi nella deprecazione del «Dio denaro». Certamente l’Isis e Al Qaida non sono una questione di poveri incattiviti che si rivoltano contro ricchi sopraffattori occidentali.
Non meno pavidi sono stati, sino a oggi, i governi europei e occidentali in genere. Ma la posizione della Chiesa spicca maggiormente, perché l’odio della Croce torna costantemente nei proclami dei terroristi. Che fare, allora? Rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia. E innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli. E non parlare più di un «sedicente» Stato Islamico, così come anni fa si parlava delle «sedicenti» Brigate rosse, facendo intendere che dietro c’era qualcos’altro. Il punto più duro da capire è appunto questo: ciò che i terroristi dicono di essere. Che cosa essi poi siano, lo mostrano i fatti.
Corriere della Sera, 4 gennaio 2017 (modifica il 4 gennaio 2017
BABBO NATALE, IL DIRETTORE D’ORCHESTRA, E IL PROBLEMA ONTOLOGICO:
’Babbo Natale non esiste’, è bufera
Allo show Disney Frozen a Roma, cacciato direttore d’orchestra
(ANSA) - ROMA, 30 DIC - "Comunque Babbo Natale non esiste": una frase che ha scatenato la bufera quella pronunciata, a sorpresa, dal direttore d’orchestra Giacomo Loprieno alla fine della prima dello spettacolo per bambini ’Disney in concert: Frozen’, il 29/12 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Un’esclamazione che ha raccolto subito critiche sulla pagina ufficiale Facebook dello show, spingendo l’organizzazione, Dimensione Eventi, a destituire dalla carica il maestro, che sarà sostituito già dalla replica del 30 dicembre.
In una nota, l’organizzazione "si dissocia completamente" dall’accaduto: "Come tutti i presenti siamo rimasti sconcertati da una dichiarazione assolutamente personale del direttore, tra l’altro a spettacolo ormai terminato. Il nostro lavoro è di creare emozioni positive e far sognare i più piccoli. Quanto è stato detto dal direttore d’orchestra è totalmente fuori luogo ed è il gesto arbitrario di una singola persona".
Babbo Natale non esiste, ancora polemica
Il 30 in sala tra i bimbi. Web diviso su direttore licenziato
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Non si placa la polemica su Giacomo Loprieno, il direttore d’orchestra che il 29/12, alla fine dello show per bambini dedicato al film Disney Frozen, ha detto davanti alla platea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma: "E comunque, Babbo Natale non esiste".
Archiviate le lacrime dei piccoli e lo sbigottimento dei genitori, l’organizzazione ha licenziato Loprieno, assegnando il posto al suo vice, Marco Dallara, immortalato in una foto pubblicata sul profilo dell’Auditorium proprio con Babbo Natale per placare gli animi.
I social, però, continuano a pullulare di critiche al maestro e su Facebook nascono di ora in ora gruppi e pagine contro ma anche pro Loprieno. C’è chi lo critica per aver spezzato i sogni dei bambini e chi, invece, lo elegge a "oratore motivazionale", scherzando sull’estemporaneo discorso ai bambini. Gli stessi che si sono fatti fotografare con i loro beniamini ai piedi del palco, nella seconda data romana dello show, alla quale ha partecipato - a sorpresa - anche Babbo Natale.
«Sì, Virginia, Babbo Natale esiste» *
La storia di un editoriale del 21 settembre 1897 su Babbo Natale che da allora è un pezzo dei natali americani
“Is There a Santa Claus?” era il titolo di un editoriale nell’edizione del 21 settembre 1897 del New York Sun. Quell’editoriale, che comprendeva la risposta “Yes, Virginia, there is a Santa Claus” (“Sì Virginia, Babbo Natale esiste”), è diventato un elemento indelebile del clima natalizio negli Stati Uniti. L’espressione “Sì Virginia, esiste...” è stata usata spesso anche nei titoli dei giornali anglosassoni, per indicare qualcosa che esiste o è vera, sotto gli occhi di tutti: una riscrittura ironica dell’editoriale, ad esempio, comparve sull’Huffington Post nel dicembre 2007 con il titolo “Yes, Virginia, There is a War on Terror”.
La lettera di Virginia
Nel 1897 il dottor Philip O’Hanlon di Manhattan si sentì domandare dalla sua bambina di otto anni Virginia se Babbo Natale esistesse davvero. Virginia aveva cominciato a dubitarne per quello che le avevano detto degli altri bambini.
Suo padre le suggerì di scrivere al New York Sun, un importante quotidiano del tempo di orientamento conservatore, assicurandole che “se lo dice il Sun, allora è vero”. Uno dei direttori del giornale, Francis Pharcellus Church, che era stato corrispondente di guerra durante la Guerra Civile, scrisse una risposta che oggi, più di un secolo dopo, resta l’editoriale più riprodotto nella storia dei giornali anglosassoni.
La lettera di Virginia diceva:
Il direttore del Sun Edward P. Mitchell passò la lettera della bambina, perché rispondesse, a Church, uno dei veterani del giornale. Leggendola, si dice, sbuffò e sembrò arrabbiarsi perché gli era stato assegnato un compito di così poco conto. Poi, in meno di cinquecento parole e finendo prima della scadenza, Church le rispose così, in un editoriale non firmato:
La fortuna
La fama di “Yes, Virginia” è sopravvissuta ai suoi creatori. Church morì nel 1906 e Virginia nel 1971, dopo una carriera come maestra di scuola e direttrice a New York. Malgrado l’editoriale fosse pubblicato come settimo nella pagina delle opinioni - dopo ben più seri argomenti come questioni politiche a New York e nel Connecticut, la forza della marina britannica e una ferrovia tra il Canada e lo Yukon, e persino dopo un commento sulla “bicicletta senza catena” appena inventata - lo scambio colpì moltissimi lettori del Sun. Venne ristampato ogni anno, prima di Natale, fino alla chiusura del giornale nel 1950, e ancora oggi viene recitato alla Columbia University di New York (l’università dove studiarono sia Church che Virginia) in una cerimonia prenatalizia ai primi di dicembre. Nel centenario dell’editoriale, nel 1997, il New York Times pubblicò una riflessione sulla fortuna di “Yes, Virginia, There is a Santa Claus” nella cultura americana.
Nel 1932 l’emittente televisiva NBC lo mise in musica, e allo scambio si ispirarono anche un musical di David Kirchenbaum e Myles McDonnel (1996) e diversi cortometraggi e film per la TV statunitense. Dal 2008, la campagna pubblicitaria natalizia dei grandi magazzini statunitensi Macy’s si basa sulla lettera di Virginia e sulla risposta di Church: in uno spot televisivo, personaggi celebri come Jessica Simpson, Donald Trump e Martha Stewart citano frasi dell’editoriale.
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni. Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente. Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
Strappare il velo della Maya
Ultraoltre. Posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 03.12.2016)
«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo perspicuo.
Per il potere della Maya - al femminile in sanscrito, come tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale - agli occhi dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di essa.
Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita, essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù, tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?». Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la capacità magica, trasformatrice, delle acque.
Giustamente, fa notare Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.
Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa - per paura, insicurezza, avidità, ignoranza - tanto più il velo si inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso della nostra stessa esistenza. Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo». Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai... La visione dell’Essere... non si può ottenere o percepire che in un solo istante». Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.
Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana; per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza: esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della Maya, ma come? Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito, traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine, come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere.
La consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del mare - allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di vivere.
Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi. Ogni espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria esistenza.
NEL NOME DI DIO E DELLO STATO. L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA ...
A confronto con la fede
Non mi piace chi ha paura dell’inferno
La risposta del fisico a chi gli chiede perché non crede in Dio
di Carlo Rovelli (Corriere della sera, 26.11.2016)
Diverse persone mi hanno chiesto perché dico che non credo in Dio. Ecco la mia risposta.
A me non piacciono quelli che si comportano bene per paura di finire all’inferno. Preferisco quelli che si comportano bene perché amano comportarsi bene. Non mi piacciono quelli che sono buoni per piacere a Dio. Preferisco quelli che sono buoni perché sono buoni. Non mi piace rispettare i miei simili perché sono figli di Dio. Mi piace rispettarli perché sono esseri che sentono e che soffrono. Non mi piace chi si dedica al prossimo e coltiva la giustizia pensando in questo modo di piacere a Dio. Mi piace chi si dedica al prossimo perché sente amore e compassione per le persone.
A me non piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone stando zitto dentro una chiesa ascoltando una funzione. Mi piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone guardando i miei amici negli occhi, parlando con loro, e guardando il loro sorriso. Non mi piace emozionarmi davanti alla natura perché Dio l’ha creata così bella. Mi piace emozionarmi perché è così bella.
Non mi piace consolarmi della morte pensando che Dio mi accoglierà. Mi piace guardare in faccia la limitatezza della nostra vita e imparare a sorridere con affetto a sorella morte. Non mi piace chiudermi nel silenzio e pregare Dio. Mi piace chiudermi nel silenzio e ascoltare le profondità infinite del silenzio. Non mi piace ringraziare Dio: mi piace svegliarmi al mattino, guardare il mare e ringraziare il vento, le onde, il cielo e il profumo delle piante, la vita che mi fa vivere, e il sole che si alza.
A me non piacciono quelli che mi spiegano che il mondo l’ha creato Dio, perché penso che non lo sappia nessuno di noi da dove viene il mondo; penso che chi dice di saperlo si illude; preferisco guardare in faccia il mistero, sentirne l’emozione tremenda, piuttosto che cercare di spegnerla con delle favole. A me non piacciono coloro che credono in Dio e così sanno dove sta la Verità, perché penso che in realtà siano ignoranti quanto me. Penso che il mondo è per noi ancora uno sterminato mistero. A me non piacciono quelli che conoscono le risposte. Mi piacciono di più quelli che le risposte le cercano, e dicono «non so».
Non mi piace chi dice di sapere cosa è bene e cosa è male, perché sta in una chiesa che ha il monopolio di Dio, e non vede quante diverse chiese esistono al mondo. Quante morali diverse, e ciascuna sincera, esistono al mondo. Non mi piace chi dice a tutti cosa tutti devono fare, perché si sente forte grazie al suo Dio. Mi piace chi mi dà suggerimenti sommessi, chi vive in un modo che mi stupisce e ammiro, chi fa scelte che mi emozionano e mi fanno pensare.
Mi piace parlare agli amici, provare a consolarli se soffrono. Mi piace parlare alle piante, dare loro da bere se hanno sete. Mi piace amare. Mi piace guardare il cielo in silenzio. Mi piacciono le stelle. Mi piacciono infinitamente le stelle. Non mi piace chi si rifugia nelle braccia di una religione quando è sperso, quando soffre; preferisco chi accetta il vento della vita, e sa che gli uccelli dell’aria hanno il loro nido, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il suo capo.
E siccome vorrei essere simile alle persone che mi piacciono, e non a quelli che non mi piacciono, non credo in Dio.
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA E I DUE CORPI (E LE "DUE SEDIE") DEL RE *
!Il significato profondo del messaggio porta a galla (è il caso di dire) il PODERE, la Proprietà, la Poltrona! E dà un significato beffardo alla frase di Michel E. de Montaigne: "Anche sul trono più elevato del mondo, si è pur sempre seduti sul proprio sedere"!!! Con tutta la sua boria, il PADRONE (di sempre e di turno) così dichiara *Urbi et orbi*: La Poltrona è mia, e guai a chi la tocca (sul tema, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=697)!!!
MONARCHIA DEL PENSIERO UNICO: "FORZA ITALIA" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3515). Solo al PADRONE è possibile l’uso delle "DUE SEDIE", la salita (dalle stalle alle stelle) e la discesa (dalle stelle alle stalle). Per tutti gli altri e per tutte le altre, alla luce della grammatica del PODERE, ogni META-FORA è vietata, e SEDERE vale solo come sostantivo!!!
COSTITUZIONE E MONARCHIA DEI "DUE SOLI". A ben vedere e a ben leggere DANTE con la sua teoria dei "DUE SOLI" non a caso fu giudicato eretico: aveva lanciato il programma delle "due sedie" per tutti e per tutte, e non per uno SOLO!!!
Dopo 700 ANNI e più, non solo non abbiamo ancora capito il messaggio di Dante (e la lezione di Kantorowicz, "I due corpi del re": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/forum.php3?id_article=5726&id_forum=2635841), ma nemmeno quello della nostra "sana e robusta" COSTITUZIONE (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3811), e ci lasciamo prendere per i fondelli, allegramente: "Forza Italia" ( cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4282). La misura non è ancora colma?!
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Federico La Sala
Quel dio crudele dei cattolici reazionari
di Alberto Melloni (la Repubblica, 08.11.2016)
LA VOLGARITÀ di un frate domenicano - che dai microfoni di Radio Maria ha letto il terremoto come una punizione ed è stato licenziato dopo una presa di posizione vaticana - ha aperto un piccolo squarcio su una religiosità integrista, solitamente invisibile.
È un sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari: nell’era-Francesco è spesso antipapale, da sempre è teologicamente approssimativo.
Riprende il ritornello dell’intransigentismo dell’Otto-Novecento: per cui la modernità produce ribellioni contro le quali un Dio crudele, irriconoscibile alla fede biblica, reagisce mandando flagelli pedagogici. Quel pensiero antimoderno s’è sempre dotato di media “moderni” come i giornali, i movimenti, la radio, la tv.
Nel mondo dell’iper-comunicazione questo pulviscolo integrista è diventato più invisibile. Siti e antenne, blog e social, somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista profumo d’incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l’amore omosessuale il risentimento degli irrisolti.
Basta ascoltare Radio Maria: che inculca in dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto “smaschera” i traditori. Il tutto inframmezzato da momenti spirituali - per chi guida la notte o aspetta l’alba in ospedale, il rosario o l’ufficio divino sono meglio di Isoradio - dietro ai quali traluce la pretesa di essere gli unici battaglieri in una chiesa molle, gli unici fedeli in una chiesa di codardi, gli unici cattolici in una chiesa di apostati.
Le fantasticherie antibergogliane di Antonio Socci lì non suscitano compassione, ma ammirazione: la tesi del giornalista, nelle ore del terremoto, era che un vero pontefice avrebbe consacrato l’Italia alla Vergine Maria; e che Francesco non l’aveva fatto perché era un gesto “troppo cattolico” per un papa che egli ritiene grosso modo un usurpatore.
È un mondo agli antipodi della autentica pietà popolare: essa è il modo in cui una comunità espropriata della liturgia dal protagonismo clericale trova spazi e linguaggi che nascono da quell’intuito credente che la dottrina cristiana chiama “sensus fidei”.
In questo mondo di mezzo, invece, la partita è molto politica. Anche se non sono ancora diventati la variante cattolica delle chiese televisive americane - il cui peso elettorale sul voto americano di oggi è stato ben stimato dal Pew Center - i fans dei blog e delle radio integriste esprimono sono una potenzialità politica perché nel mondo delle disaffezioni politiche rappresentano una fidelizzazione.
La minaccia contro Renzi del raduno familista di Adinolfi - che giurava la vendetta della legge sulle unioni nelle urne del referendum - era solo una di queste possibili declinazioni. Che però potrebbero domani trovare inattese convergenze nel grillismo, la cui cultura, tutta e solo di destra, non ignora che c’è sempre un cattolicesimo opportunista, pronto a “dialogare” con ogni potere disposto a farsene patrono.
Che ad una voce onestamente minore come quella del padre Cavalcoli abbia reagito la Santa Sede in persona (non è usuale che il regista della politica italiana, il Sostituto, prenda la parola in modo così netto e categorico) dice che la chiesa di Bergoglio non sottovaluta quel che c’era di “politico” in quelle parole.
Che il disastro naturale possa dar adito a questioni filosofiche l’Europa lo sa dal 1755, quando il terremoto di Lisbona permise a Voltaire di polemizzare con i virtuosismi della “teodicea”, che giustificava Dio davanti alle catastrofi del mondo: ma onestamente padre Cavalcoli non è in quell’alveo... Appartiene piuttosto alla deriva che agitando temi reazionari ha fatto scivolare le chiese verso posizioni pericolose: come quelle della omonima Radio Maria polacca, che allarmò perfino Benedetto XVI nel 2006, quando i deliri antisemiti di quella emittente furono sanzionati, anche se senza grande successo.
Oggi con la casa natale di san Benedetto patrono d’Europa che si sbriciola mentre si sbriciola l’Europa, la Santa Sede ha dato un segnale molto cristiano e molto politico. Là dove viene meno il buonsenso umano e il buoncuore cattolico, si annida un bisogno di odio: che è l’aria che si respira in questo paese lacerato e vulnerabile. Che ha pensato per molto tempo di potersi scegliere i suoi grandi problemi - la disoccupazione, la denatalità, le migrazioni, il terrorismo, la crisi economica - e l’ordine in cui affrontarli. Anziché chiedersi quanta umiltà e quanta coesione servono per essere pronti quando ciò che incombeva accade, presentando al domani il conto di molti ieri.
La questione Heidegger. Jean-Luc Nancy riapre il dossier
di Luigi Azzariti-Fumaroli (Alfabeta-2, 30 luglio 2016)
In un saggio apparso nel 1969 Iris Murdoch osservò che «in filosofia è difficile capire se si sta dicendo qualcosa di sensato e obiettivo o se si sta solamente erigendo una barriera, adatta al proprio temperamento, contro le proprie paure personali». L’affermazione, una volta sottratta a labili letture esistenzialiste, sembra introdurre a un piano che non può essere compreso concettualmente, poiché esso è appena illuminato da una luce fioca ed incerta, che lascia soltanto cogliere l’ombra sfuggente che «dorme addosso e ferisce il fianco» d’ogni pensiero. La biografia di Martin Heidegger, a dispetto di quanti vorrebbero mantenerla avvolta in un’olimpica perfezione aliena a ogni tremito, è, nel Novecento, fra quelle che maggiormente tradiscono fragilità alla luce delle quali un’intera filosofia si rivela racchiusa in un disperato solipsismo.
A questo riguardo, se le congetture a proposito di un tentativo di suicidio che si sarebbe verificato fra il 1937 e il ’38 non sono mai state suffragate da prove certe, è però senz’altro vero - come ha documentato anni fa Michele Ranchetti - che nell’estate del ’45 Heidegger fu ricoverato in una clinica psichiatrica a seguito di un crollo nervoso. Nel diario ch’egli tenne in quei giorni si rinvengono alcune affermazioni decisive per provare a condurre un’analisi che non si risolva nell’accertamento dell’evidenza frontale della sua riflessione, ma tenti di cogliere ciò che in essa giace sul fondo, trasversalmente. Vi si fa riferimento, in particolare, a una «situazione di smarrimento, di stallo, di disperazione», che parrebbe «del tutto consueta»: è - scrive - «la descrizione della mia normalità», «e forse della mia filosofia».
Prestando fede a tale confessione, e dunque accedendo all’idea che il pensiero heideggeriano smarrisca ogni punto di riferimento, procedendo alla deriva sino al definitivo naufragio, si può meglio riflettere sul perché a partire dai Contributi alla filosofia del 1936-1938, quasi non vi sia pagina - ha osservato Franco Volpi - non intrisa «dalla triste luce dell’esaurimento», mentre l’Essere sarebbe rimasto «l’ultima chimera che valesse la pena sognare», lasciandosi ogni volta sorprendere dalle sue mutazioni sempre eccedenti l’essere-sé o l’essere come sé.
Tale era stata l’immagine di Heidegger che maggiormente si era imposta nel corso della seconda metà del Novecento; suscitando, specialmente in ambito francese e italiano, una sorta di attrazione onirica, sospesa fra coscienza e incoscienza. Il progresso «inedito e irreversibile» aperto nella storia della filosofia dall’autore di Essere e tempo, specialmente negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si volle rinvenire nel considerare l’essere «non come ciò che non può non essere, bensì come ciò che diviene, che nasce e muore, che ha una storia»: un essere «tarlato», secondo l’icastica definizione di Gianni Vattimo.
Ancora di recente Jean-Luc Nancy, in un saggio tempestivamente tradotto da Antonella Moscati per Cronopio, scrive al riguardo: «non possiamo non riconoscere che proprio da Heidegger sono venuti gli slanci e gli sforzi che avrebbero aperto nuove strade», percorrendo le quali si sarebbe pervenuti a concepire l’essere al di fuori di qualsiasi sua esatta determinazione, inducendo non da ultimo a profilare la possibilità di un’affinità segreta fra la sua filosofia e «un certo ebraismo». Ma tale ultima evenienza - avverte lo stesso Nancy - si rivela ormai insostenibile: troppo acuto è il suo stridere con quanto, a mano a mano che la loro pubblicazione procede, si evince in modo inconfutabile da alcuni passi dei Quaderni neri (pubblicati in Italia, fra rumorose polemiche, da Bompiani: di quest’anno il secondo volume, che comprende i quaderni del 1938-39), nei quali le proposizioni di chiaro segno antisemita, e le conseguenti affinità e sincronie ideologiche con le politiche naziste, frangono ogni silenzio, vanificando ogni tentativo di voler dedurre proprio da questa sigetica, da questa strategia del silenzio - come, nel 1988, suggerì Derrida -, un retaggio ancora da pensare.
Nancy lo osserva con amaro disincanto, incapace di trovare una spiegazione per l’abiezione con la quale una filosofia, ch’era parsa svettare per originalità e rigore su tutte le altre, si mostra sempre più frammista. È, quello di Nancy, un travaglio segnato da un’ideale agnazione tradita, da un’eredità guasta che, fino all’ultimo, si vorrebbe riscattare: ravvisando una giustificazione plausibile a ciò che l’evidenza condanna come osceno, quale modo d’essere che «appartiene a ciò che è totalmente privo di grazia».
Quanto emerge dai Quaderni inficerebbe infatti proprio quel richiamo alla grazia che Heidegger in più luoghi della sua opera non manca di compiere, certo consapevole che il greco «charis» a sua volta traduce il nome ebraico (chen) nel quale si condensa «l’ingiustificabile giustificazione che può venire dal completamente-fuori».
Sarebbe sotto questo profilo riduttivo ricondurre - come voluto dal curatore dell’edizione originale dei Quaderni, Peter Trawny, in Heidegger e il mito della cospirazione ebraica (Bompiani 2015) - la portata delle annotazioni redatte nell’arco di un quarantennio, dal 1930 al 1970 (e consegnate agli Schwarze Hefte, con l’espressa volontà di non renderle pubbliche fino a quando non fosse terminata l’edizione delle Opere complete), a un istupidirsi del pensiero del filosofo tedesco, quasi suo malgrado trascinato «nella peggiore e più malevola banalità» dal torbido vaniloquio fomentato dai Protocolli dei Savi di Sion. Occorre piuttosto tornare a considerare l’intero precipitato heideggeriano, senza indulgere in ammirazioni supine, né in transfert a occhi aperti.
Ed è a questo approdo che, con formidabile capacità d’analisi, invita la lezione di Nancy, nel soffermarsi a considerare la palinodia che Heidegger di nascosto parrebbe aver costantemente compiuto rispetto a un pensiero che dichiarava e rivendicava, con mirabile persuasione illusionistica, definitive differenze rispetto a ogni altra ontologia della pura presenza, ma che nelle sue latebre era affetto da un’inesorabile sclerosi autarchica, unita alla più bigia e greve xenofobia.
Come, in Da fuori (Einaudi 2016), ha con lucidità osservato Roberto Esposito, il tratto precipuo delle analisi di Heidegger è da considerarsi dominato da un assoluto accentramento: l’intera sua semantica non può infatti che dirsi dominata da un «centro raddoppiato su se stesso». È dunque a cospetto di tale egotismo che deve porsi l’interrogativo già avanzato da Derrida e rilanciato da Nancy: se una metafisica razzista e in particolare antisemita, che, contrariamente a quanto sostenga una certa «filologia col botto», i Quaderni neri attestano in diversi passi, sia più o meno grave di un naturalismo o di un biologismo razziali. Le risposte che al riguardo sono provenute hanno voluto sottolineare il nesso che legherebbe Heidegger a una lunga serie di filosofi, cominciando da Agostino e proseguendo fino a Nietzsche, accomunati da un inquietante spregio nei confronti del popolo ebraico.
In questo senso secondo Donatella Di Cesare, autrice di Heidegger e gli Ebrei e di Heidegger & Sons (Bollati Boringhieri, 2014 e 2015), più che al nazionalsocialismo, per spiegare l’avversione che il pensiero heideggeriano nutre nei confronti degli ebrei, occorrerebbe far riferimento al loro essere un popolo senza radici, e per questo scisso, separato da un Essere che Heidegger, contrariamente a quanto tentato in Essere e tempo (1927), pare sottomettere sempre più a un ordine di discorso concluso e rigidamente determinato.
Ma il limitarsi a ritenere, assecondando il dettato dei Quaderni, che l’antisemitismo sorga in Heidegger in ragione di una possibile equivalenza fra ebraismo ed entificazione dell’essere, come si trae dai contributi recentemente raccolti in Reading’s Heidegger’s Black Notebooks (MIT Press 2016), se dà ragione di un progressivo coincidere della sua ontologia con le coercizioni omologanti proprie di un universo concentrazionario, non è sufficiente. Seguendo questo indirizzo interpretativo, si mancherebbe infatti di considerare che il pensiero ebraico produce una desostanzializzazione dell’«indogermanico essere» nella misura in cui lo immette in un divenire, in un avvenire, in un incontro, così da introdurre a una dimensione in cui è dato pensare - nelle parole di Nancy - un esistere «senza denominazione e senza destinazione».
La massima distanza fra l’ontologia heideggeriana e l’Être juif sarebbe pertanto da far risalire all’apertura di quest’ultimo a quella paradossale insecuritas di cui Abramo, chiamato a essere straniero abitando, appare la più emblematica incarnazione. «Al mito di Ulisse che torna ad Itaca», il pensiero ebraico - ha scritto in un’intensa pagina Emmanuel Levinas - «contrappone la storia di Abramo che abbandona per sempre la propria patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza».
All’opposto, in Heidegger l’idea di erranza è sempre destinata a un compimento, a una meta, a una risposta. Aver creduto il contrario, ritenendo che nella sua riflessione gli estremi dell’ebreo-greco e del greco-ebreo potessero incontrarsi, è forse l’errore con il quale - ammette anche Nancy - occorre misurarsi, non tanto per chiarire il peso che la «questione ebraica» riveste in Heidegger, quanto perché il suo antisemitismo comporta l’«aggravarsi» di un pensiero che, movendo dall’esegesi heideggeriana, aveva inteso verificare le condizioni di possibilità per un superamento del nostro vivere nella e della differenza fra l’Ebreo e il Greco, onde consentire «il movimento della significazione» al di là dell’ontologia. «Non basta» - scrive risoluto Nancy - «che essere non si sottometta ad alcuna “ontologia”», occorre assumere il rischio di ricominciare a pensare senza ambire ad alcuna conclusione, ad alcuna identità che non sia, insieme, alterità, ad alcuna presenza che non sia anche assenza. Solo «per questo - notava Fëdor Tjutčev - deve esserci la notte paurosa».
La grammatica tedesca della razza
Storia. Mentre compone una cartografia del discorso nazista, Johann Chapoutot sottrae a quel crimine e a quella colpa ogni pretesa di eccezionalità: «La legge del sangue»
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 17.07.2016)
«La poiana non avrà mai il suo nido insieme al pipistrello»: perentoria, anzi apodittica, la sentenza si affaccia dalle Fonti del diritto tedesco di Walter Buch, giudice supremo del partito nazionalsocialista. Dentro questa sola immagine, la più secca smentita dei Lumi e della Rivoluzione francese: è chiaro che l’egualitarismo orizzontale, uscito dalle fucine del pensiero illuminato e rivoluzionario, non incontra il favore delle camicie brune. «L’essenza, non solo degli uomini ma anche di ogni cosa, è la differenza», seguita l’autore imboccando la strada del paradosso. Che di paradosso si tratti è evidente al lettore odierno, che conosce le conseguenze e le ricadute storiche di questo pensiero, ma non lo era a chi scriveva queste parole o ai destinatari del messaggio, immersi in un quadro culturale coeso e inossidabile. Questo che inneggia alla differenza come valore aggiunto sembrerebbe uno slogan multiculturale, non fosse per il richiamo all’«essenza», concetto fermo e stabile, che traccia il perimetro di una costituzione originaria, non negoziabile e legata alle cose nel loro primo manifestarsi.
Un’essenza che, percorrendo il filo di questa logica, fonda la differenza e chiede di essere salvaguardata a ogni costo. Un’essenza che alberga nel sangue. E il sangue è - sempre seguendo da vicino l’argomentazione compatta e legnosa del nazipensiero - concetto passe-partout e vera testata d’angolo: strato oscuro e pesante che chiama alla vita, che scorre nella catena dei padri e delle madri, che nutre l’individuo, nel discendere delle generazioni.
È per le vie del sangue che si strutturano l’identità e l’appartenenza, nel legame con i gangli dell’esistere, con i nuclei biologici primari. Nel sangue si determinano la volontà e il pensiero, si cementa una comunità di uomini. Uomini del passato, del presente e del futuro, che dividono la stessa sostanza biologica. Quella tedesca - recitano monocordi gli scritti di diffusione del discorso nazista - è una «comunità del sangue», il cui vincolo si rinsalda lì dove la vita, la vita pura, trae origine e che congiunge anello ad anello nella continuità della discendenza, facendo della comunità popolare germanica un grande, secolare organismo.
In gioco è dunque lo ius sanguinis, e della specie più scura, che unisce i fratelli di stirpe nel rifiuto di quanti a questo sangue non partecipano. La sostanza germanica è, prima di ogni costruzione culturale, l’evidenza di un sangue che è necessario isolare, analizzare nella sua purezza, proteggere da contaminazioni e misture: da qui l’esclusione dei corpi estranei, gli ebrei prima di tutto, ma non solo. Sono questi i fondamenti della giurisprudenza nazista e della sua legislazione razziale. Niente di nuovo fino a qui, soprattutto nelle strettoie della sintesi.
Nella pioggia di studi sul nazismo composti in mille chiavi - storica, sociologica, politica, filosofica, antropologica, teologica - e nella gamma qualitativa che naturalmente accompagna la quantità, il libro di Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 463, euro 32,00) si distingue per taglio e accuratezza, essendo tutto fuorché sintetico e semplificatorio. Tema fondante del volume è la ricostruzione dell’universo mentale che unisce, in un unico orizzonte di riconoscibilità, tutti gli attori del discorso nazista, dagli ideologi, ai quadri, ai militanti, agli sgherri, ai criminali senza ulteriore sfumatura.
Le coordinate del pensiero nazista sono nette, percorse dalla forza e dalla rigidità dell’assioma, e descrivono la «coerenza rassicurante di un sistema chiuso, che si basava su alcuni postulati particolaristici e sulla deduzione implacabile delle loro conseguenze». Il merito del saggio di Chapoutot è nel disegno di una geometria del discorso nazionalsocialista, nella ricostruzione di un quadro di riferimento comune, il cui universo di significati, di principi e di (dis)valori viene scandagliato in modo reticolare, a partire dai nodi concettuali e lungo i rami delle loro molteplici variazioni e modulazioni.
Data per acquisita la sempre necessaria riflessione sulla dialettica tra cultura e barbarie, sul fondamento distruttivo di ogni umanesimo; bandita ogni scorciatoia che derubrichi il pensiero e soprattutto le pratiche del nazismo a figli di un’aberrazione vertiginosa o a esiti di un folle calcolo - la famosa «lucida follia», sintagma che, passando di bocca in bocca, si è da tempo logorato - lo studio di Chapoutot attinge a un serbatoio documentale di amplissima portata: un corpus di scritti - più di un migliaio - che vanno dalla scrittura pubblica a quella privata e passano per pagine di carattere informativo o divulgativo, per volantini ad usum militis, opuscoli, colonne di quotidiano, pamphlet, discorsi pubblici, stralci di diario o di lettere fino alle immagini squadrate e icastiche dei filmati didattici di regime.
Su queste testimonianze si struttura l’orientamento culturalista al nazismo di Chapoutot che, stazione dopo stazione, attraversa tutti i cardini del discorso bruno: la battaglia ingaggiata contro il giudaismo e il cristianesimo, colpevoli di avere instradato la serena e luminosa naturalità germanica verso una sterile antinatura, gravata dalla colpa e dal peccato, segnata dalla condanna del corpo e, va da sé, porta d’accesso di ogni stortura figlia della repressione. E ancora, per conseguenza, la paganizzazione della religione o, come minimo, la sua degiudaicizzazione per consentire a un tedesco di ceppo sano e di pura razza di seguire un profeta nato in Giudea. Resta comunque il fatto che «Gesù ha più familiarità col lago di Tiberiade che con le dune di Rügen».
Poi il rifiuto del diritto romano, soprattutto nella sua versione tarda e bizantina, e la rifondazione di un diritto germanico ancorato alla vita e alla forza, al senso buono del contadino che vive in accordo con le leggi della terra e con i cicli delle stagioni. Un’archeologia normativa, dove l’arcaico è la cellula primordiale per una rifondazione giuridica della nuova Germania.
Ancora, di capitolo in capitolo, Chapoutot descrive le politiche razziali, con gli inviti alla procreazione e la selezione, su base eugenetica, dei più forti e dei migliori, la sterilizzazione dei soggetti la cui prole sarebbe indesiderata, lo sbarramento della via patologica per una comunità dove lo spazio è riservato, in esclusiva, ai puri e ai sani. In una parola, ciò che il pensiero nazista pretende è la revoca risoluta della dottrina della pietà, frutto avvelenato offerto da rabbini e preti, da sempre nemici della vita, alla nobile semplicità delle stirpi germaniche.
Il transito dalla biologia alla storia avviene poi, per estensione concettuale, sulle cadenze della legge del conflitto, la guerra razziale che apre, per ineludibile necessità storica, gli spazi dell’Est all’eterno popolo germanico, costretto in una terra insufficiente che ne frena la propulsione. Di qui, il tempo storico si squarcia verso l’escatologia del Regno, raggiunge la frontiera del millennio e va oltre, stabilendo il governo sul mondo, in un compiersi del tempo che è nient’altro che una rimasticatura, in chiave politica, di un messianesimo depurato dalla grammatica giudaico-cristiana.
All’avanzare degli anni e al restringersi degli spazi di libertà, la pretesa del sangue è sempre più imperiosa e, dal 1939 al 1945, si riversa nell’eliminazione di quella sub-umanità esclusa dal tocco aureo della purezza biologica: malati ereditari, individui asociali, nemici del popolo, fino alla creazione dell’universo concentrazionario, nella logica d’acciaio di un umanitarismo inverso: «Esigere che individui difettosi non possano più generare altri scarti», infatti «è l’atto più umano dell’umanità» perché «là dove regna veramente la volontà di Dio, nel cuore della natura, non si trovano tracce di pietà per il debole e per il malato».
Questo è ciò che si ritrova nel volume di Chapoutot: un’esatta cartografia del discorso nazista nella sua coerenza interna e, allo stesso tempo, una tessera significativa di storia sociale e intellettuale che toglie al crimine ogni manto di eccezionalità: recingere l’orrore dentro lo steccato della mostruosità e dell’incomparabilità è, infatti, operazione tra le più pericolose e facile via alla rimozione. «Facendo dei criminali soggetti estranei alla nostra comune umanità» - questo è il rischio che Chapoutot addita in ogni sua pagina, l’avvertimento che trapela dietro ogni stralcio documentale - «noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro».
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-PO-LOGIA" ATEA E DEVOTA....
L’eccellenza del Nietzsche italiano
di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)
Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.
La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.
Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.
Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.
Fine della Storia o della "Preistoria"?
Un’idea di continente, Europa a braccia aperte
Gli storici antichi la descrissero diversa dall’Asia per clima e politica. E si accorsero che era più aperta all’accoglienza
di Martino Menghi (Il Sole-24 Ore. Domenica, 10.07.2016)
Di fronte alle pesanti emergenze odierne, l’Europa sembra scontare la mancanza di un forte progetto politico unitario, come confermano le spinte centrifughe che l’attraversano. Un problema cui potrebbe porre rimedio prendendo spunto da una appropriata conoscenza dell’esperienza greco-romana, come sostiene Alejandro Bancalari Molina nella parte conclusiva del suo libro La idea de Europa. Una vicenda, allora come oggi, segnata da conflitti, da pregiudizi nei confronti dello straniero, ma anche dalla capacità di inclusione, di integrazione e di scambio culturale tra i popoli. Rivediamone i punti essenziali sulla scorta dell’eccellente lavoro di questo studioso.
Nel racconto del conflitto tra Greci e Persiani Erodoto ci fornisce una prima accezione di Europa come entità politica, economica e culturale contrapposta all’Asia. È per bocca di Demarato, un esule spartano presso la corte persiana, che viene enunciato questo dualismo. Interrogato da Serse sul possibile esito di quella guerra, gli ricorda che la Grecia è sempre stata un Paese “povero”, ma proprio questa sua condizione ha permesso agli Elleni di essere forti, di superare le difficoltà, di difendere fino alla morte la propria terra e la propria libertà dall’invasore.
All’opposto, la ricchezza dell’Asia, in mano al Gran Re, ha corrotto la massa dei sudditi, asservendoli al suo capriccio e deprivandoli del senso di una causa comune per cui lottare. Sulla base di questo stereotipo veniva letta e celebrata la vittoria dei Greci sui Persiani a Maratona e a Salamina (490; 480 a.C.).
Non c’è ancora in Erodoto una precisa delimitazione geografica dell’Europa, vagamente situata lungo un asse Nord-Est/Ovest che dal Tanai (Don) giunge fino alle Colonne d’Ercole (Gibilterra) passando per la Grecia e le sue colonie nel Mediterraneo. Con Ippocrate (fine del V secolo a.C.) e Aristotele (IV secolo a.C.), il discorso si amplifica in senso geografico e si radicalizza in quello ideologico. Per il primo, l’instabilità del clima dei popoli europei, ora situati anche nelle regioni settentrionali del continente, li rende più operativi e coraggiosi, mentre il clima più uniforme degli asiatici li spinge all’inerzia e alla pigrizia; di più, l’essere costoro governati da monarchi accentua la loro debolezza di carattere.
Aristotele, tripartisce l’ecumene, assegnando ai popoli settentrionali il coraggio ma non l’intelligenza, e a quelli asiatici l’intelligenza ma non il coraggio, per attribuire ai popoli mediani, ovvero ai Greci, sia l’uno che l’altra e la loro vocazione al dominio delle altre genti. Quest’ultima prospettiva conoscerà un’originale attuazione con Alessandro che, nel segno dello scambio culturale e dell’integrazione, unifica la Grecia con l’impero persiano in un’unica realtà economico-politica.
Erede di questa vicenda sarà Roma, che conquisterà in pochi secoli un impero esteso dalla Scozia all’Africa settentrionale, da Gibilterra ai Balcani e a parte del Medioriente, sempre grazie a una sapiente politica di integrazione dei popoli man mano conquistati.
Il dualismo Europa/Occidente vs. Asia/Oriente, archetipo di tanti stereotipi xenofobi e razzisti, è di fatto contraddetto dalla storia. Ma lo è anche dal mito, che della storia è in qualche modo il riflesso: il nome di Europa deriverebbe dall’omonima principessa fenicia che Zeus, nelle sembianze di un docile toro, rapì, portò a Creta e lì si unì a lei; Enea, il leggendario fondatore della stirpe romana, è un eroe troiano, fuggito dalla sua città conquistata dagli Achei. Lo è infine dall’esperienza del cristianesimo, nato in Palestina in seno al giudaismo, che nell’arco di pochi secoli diventerà la religione dello Stato romano ereditandone le istituzioni, la cultura, compresa la capacità di integrare i popoli barbari.
Il modello romano rivive nell’impero fondato da Carlo Magno, in quello di Napoleone, e infine nel progetto europeo del secondo dopoguerra. Ma di quel modello occorre oggi conoscere, per valorizzarli, i punti di forza, prima di cedere alla tentazione di andare ognuno per la sua strada.
§ 2. Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa
di Luigi Pirandello *
L’idea, o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell’abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l’incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po’ d’ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita un’occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall’alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall’abside, scavalcando la cancellata; dò prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe ’l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata [p. 6 modifica]d’aria nell’orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l’abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
Oh oh oh, che c’entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
C’entra, don Eligio. Perchè, quando la Terra non girava...
E dàlli! Ma se ha sempre girato!
Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi, scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sè e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?
Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri [p. 7 modifica]così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacchè, a vostro dire, la Terra s’è messa a girare.
E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d’amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perchè, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. [p. 8 modifica] Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi! Chi ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.
*
Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904)
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21.05.2016)
Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio...) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica.
La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo.
Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».
L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » (Apocalisse 18,6).
Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» - Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
* IL FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “Schiavi”, il festival internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it
Un maschio portato al settimo cielo
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri (il manifesto, 21.05.2016)
Non si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi «consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio (Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto - opera di una comunità di soli uomini - la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che - come scrive Bachofen ne Il matriarcato - «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato - complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La «consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger - singolare figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel momento in cui avanza l’emancipazione femminile - chiama l’enigma del dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità, comparendo sulla scena pubblica - sono gli anni della scoperta della psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale, greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo. Per concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito - non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione. Affrontando le problematiche del corpo, dei sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
La trappola della verginità
Tempi presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica, sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 21.05.2016)
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
L’ontologia è svizzera e vale milioni
Ricerca La scoperta di due studiosi italiani: il termine che indica la «scienza dell’essere in quanto essere» fu coniato non in Germania nel 1613 ma nella Confederazione sette anni prima. E oggi gli elvetici investono in programmi di indagine filosofica nove volte quello che stanzia il nostro Paese
di Giovanni Ventimiglia (Corriere della Sera, La Lettura, 15.05.2016)
L’italiano parlato in Canton Ticino sorprende non poco per la presenza di termini nuovi e del tutto incomprensibili per un italiano. Alcuni esempi: natel per dire «cellulare», tiptop per dire «impeccabile», piccadilly al posto di «autogrill», jacky boy invece di «decespugliatore», rüt (o rutto, sic) per indicare il secchio della spazzatura. Interessante è il caso di azione per dire «offerta speciale» (onde l’esilarante «patate in azione» che una volta mi indusse a immaginare strane patate svizzere semoventi). Il termine deriva dal tedesco Aktion ed è un esempio chiaro di «elvetismo» ossia di lingua tedesca così come essa è parlata in Svizzera.
Suggerisco, prima di abbandonarsi alla canzonatura dei vicini ticinesi, di ascoltare la storia della parola «ontologia», che designa una importante disciplina filosofica. Studi recenti, infatti, hanno dimostrato che si tratta, come le parole appena menzionate, di un «elvetismo», ossia in quel caso del latino parlato in Svizzera agli inizi del XVII secolo. Fino a qualche anno fa, infatti, tutti gli studi e i manuali erano soliti riportare l’informazione secondo cui la prima occorrenza del termine «ontologia» fosse da rinvenire in Germania nel 1613 (precisamente nel Lexicon philosophicum di Rudolph Goclenius pubblicato a Francoforte). Tuttavia, anche grazie ai suggerimenti di Joseph Freedman e Jean-François Courtine, che già avevano individuato una «pista svizzera», gli italiani Raul Corazzon (nel 2005) e Marco Lamanna (nel 2006) hanno fatto una scoperta importante: il termine «ontologia» è nato in Svizzera nel 1606 nel Ginnasio riformato di San Gallo a opera del riformato Jacob Lorhardus (precisamente nel manuale Ogdoas scholastica). Insomma «ontologia» (un grecismo composto da logos, discorso, e ontos, dell’essere) non è termine nato nella Grecia antica e nemmeno in Germania, ma in Svizzera, nel latino parlato da alcuni professori di filosofia.
Il lettore non specialista si chiederà a questo punto giustamente che cosa mai sia questa «ontologia». Si tratta del nome attribuito a una misteriosa «scienza dell’essere in quanto essere» di cui parlava Aristotele nella sua Metafisica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». La botanica studia gli esseri vegetali, la zoologia gli esseri animali, la biologia gli esseri viventi, mentre la «scienza dell’essere in quanto essere» studia gli esseri e basta, ossia tutti gli esseri in generale: una disciplina, diciamo, all inclusive.
Ora, che ne è oggi, al tempo del dominio delle scienze e della tecnica, di questa antica forma di sapere? Sarà scomparsa dalla scena della cultura? Nient’affatto. Data per morta nell’Europa «continentale» per diversi anni nel XX secolo, sorprendentemente essa conosce ai nostri giorni, soprattutto nei Paesi di lingua inglese, una rinascita che ha dell’incredibile. Su Amazon i libri che contengono la parola ontology sono a oggi 2.435 e la Oxford University Press ha in catalogo 617 titoli con questa parola. Insomma, piano con la presa in giro degli elvetismi: metti che tiptop diventa fra qualche anno famoso in tutto il mondo, mentre «impeccabile» cade nel dimenticatoio!
Perché mai, tuttavia, in Svizzera si sentì a un certo punto l’esigenza di coniare un termine nuovo, visto che per designare quella disciplina esisteva già da secoli la parola «metafisica»? Il fatto è che, fin dai tempi di Aristotele, e poi nei secoli appresso, il termine «metafisica» veniva utilizzato nello stesso tempo per indicare sia la scienza all inclusive che studia tutti gli esseri in universale sia quella che indaga la causa prima di tutti gli esseri, ossia Dio.
Ora, nell’ordinatissima Svizzera questa ambivalenza, suscettibile di generare una certa confusione, dovette sembrare fuori luogo, sicché si decise di designare con il neologismo «ontologia» la scienza che si occupa di tutti gli esseri (attuali o anche solo pensabili). Questa scelta a sua volta porterà in seguito a riservare il termine «metafisica» perlopiù a quella scienza, più teologica, che tratta della Causa prima degli esseri.
La domanda di fondo che tutti si pongono da allora, legittimamente, è però questa: ma se l’«ontologia» non si occupa più delle realtà che stanno al di là di quelle fisiche, come avviene anche ai nostri giorni, in che cosa si distingue dalla «fisica»? Non sarebbe l’ontologia, alla fin fine, una specie di fisica di serie B, meno affidabile e più aleatoria? A questa obiezione si deve rispondere in due modi. Anzitutto: è proprio vero che le uniche realtà non fisiche siano quelle divine? E le idee, gli ideali, i valori, i numeri, dove li mettiamo? E quale scienza si occupa di queste cose e, insieme, di quelle fisiche? In secondo luogo: quando non si limita a misurare e fare esperimenti, ma utilizza termini come «materia», «funzione», «causa», «esistenza», «elemento» e simili, la fisica non sta forse utilizzando di fatto termini filosofici senza essersi data la briga di definirli con precisione?
Insomma la fisica presuppone sempre un’ontologia (o «meta-fisica») e spesso lo fa in modo inconsapevole. Non è dunque l’ontologia a essere una scienza aleatoria, è la fisica a essere una filosofia un po’ incosciente. O forse si dovrebbe dire meglio: quando non dialoga con la fisica, l’ontologia rischia di essere una fisica aleatoria; e d’altra parte, quando non dialoga con l’ontologia, la fisica rischia di essere un’ontologia incosciente.
Sarà - obietterà l’immancabile uomo-con-i-piedi-per-terra - ma mentre la fisica conosce applicazioni utilissime nella vita concreta, questa osannata «ontologia» alla fin fine a che cosa serve? A niente, si deve rispondere. E meno male. Se «utile» è solo ciò che risponde ai bisogni primari, come mangiare, bere e accoppiarsi, allora l’ontologia rivendica orgogliosamente la sua inutilità. D’altra parte inutili sono anche le poesie d’amore dedicate a donne impossibili (o addirittura già morte) o la letteratura, che si abbandona a narrazioni inventate, o ancora la musica e la pittura.
Eppure, per distinguere i resti di una scimmia da quelli di un essere umano, gli scienziati vanno alla ricerca di disegni rupestri: se vi sono tracce di attività oziose e inutili, come la pittura, si può star certi che si tratta di esseri umani. Perché l’uomo si distingue dagli animali proprio perché fa cose inutili. Per questo, un Paese che investe in ricerca anche nell’ambito delle discipline umanistiche inutili è un Paese che investe in umanità. Lo ha fatto di recente il Fondo nazionale svizzero per la ricerca, finanziando due giovani eccellenti ricercatori, italiani, ennesimi cervelli in fuga, di cui uno è di nuovo l’ottimo Marco Lamanna, per un progetto di ricerca sulla nascita dell’ontologia in Svizzera nell’età della Riforma. Cifra stanziata dopo durissima selezione competitiva: mezzo milione di franchi (poco meno di mezzo milione di euro). D’altra parte la Svizzera finanzia ogni anno progetti di ricerca in filosofia di giovani ricercatori per circa 20 milioni di franchi (circa 18 milioni di euro) mentre in Italia siamo a circa un nono di questa cifra (senza contare che la Svizzera conta 8 milioni di abitanti mentre l’Italia 60).
Forse il Paese del cioccolato e degli orologi è più consapevole dell’Italia - che pure ha dato i natali al padre dell’ontologia, ossia a Parmenide! - di quello che Aristotele scriveva nella Metafisica: «Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa ma nessuna le sarà superiore». Forse, infine, quel piccolo Paese che molti italiani guardano dall’alto della loro immensa storia culturale non ha dimenticato, come ha fatto l’Italia, il valore di una scienza che è espressione della capacità, squisitamente umana, di pensare il tutto: «Con lo spazio - scriveva Pascal - l’universo mi contiene e m’inghiotte come un punto, con il pensiero lo contengo io».
Bufera sulla rivista scientifica
“Le mani? Un disegno del Creatore”
di Elena Dusi (la Repubblica, 07.03.2016)
Che la meravigliosa destrezza della mano umana, l’“architettura di tendini, muscoli e articolazioni” sia “il disegno del Creatore per consentirci di compiere una moltitudine di attività quotidiane” non è frase che si legga spesso sulle riviste scientifiche. Quando l’affermazione è apparsa su Public Library of Science (Plos) - una rivista specialistica gratuita di San Francisco - la comunità scientifica è insorta, sommergendo di critiche la direzione e costringendola a ritirare lo studio.
L’episodio può essere letto con ironia. Ma nell’ambiente culturale americano, dove il rapporto fra scienza e fede è tutt’altro che risolto e le sensibilità su entrambi i fronti sono molto acute, citare l’intervento divino in uno dei templi della razionalità scientifica come Plos è considerato un’intollerabile invasione di campo.
Quell’accenno al Creatore con la C maiuscola ha fatto intravedere agli scienziati un rigurgito di creazionismo in un paese che nelle sue scuole non è mai riuscito a imporre del tutto la spiegazione scientifica della nascita dell’universo. Nello stato del Mississippi, per esempio, è attualmente in discussione una legge che consente di presentare la versione della Bibbia nelle lezioni di storia.
Lo studio di Plos, scritto da quattro ricercatori cinesi, uno dei quali affiliato al Politecnico di Worchester, menziona il Creatore tre volte: una nell’abstract che riassume il senso della ricerca e due nel testo. Difficile dunque che la giustificazione degli autori - una cattiva conoscenza dell’inglese, lingua in cui è scritto lo studio - possa essere accettata come valida. «Forse il Creatore ha fatto un buon lavoro, ma lo stesso non può essere detto dei revisori di Plos » è solo uno delle migliaia di messaggi di protesta pubblicati su Twitter.
La rivista ha ammesso i suoi errori nel processo di valutazione e revisione dell’articolo. Ha chiesto scusa alla comunità scientifica e ha ritirato lo studio. Essendo Plos anche il portabandiera della cosiddetta “scienza democratica” cioè delle riviste accessibili gratuitamente - i suoi detrattori non hanno perso l’occasione per ribadire che la qualità ha un prezzo, rivalutando le quotazioni degli editori che richiedono sostanziosi abbonamenti a istituzioni scientifiche e università.
Se molti quotidiani che hanno raccontato la storia hanno scelto di illustrarla con la mano di Adamo di Michelangelo, Twitter ha accompagnato i messaggi sulla “mano di Dio” con la foto di Maradona.
Sentieri critici. Un percorso di letture, alcune cruciali e altre discutibili, sull’opera di Michel Foucault, a partire dal confronto aperto con Marx che invita a un controverso «corpo a corpo»
di Girolamo De Michele (il manifesto, 11.02.2016)
La pubblicazione degli ultimi corsi e alcuni convegni hanno reso densa la bibliografia critica su Michel Foucault: dai volumi collettivi Usages de Foucault e Marx & Foucault a Le sujet des normes di Macherey, dalla monografia di Chignola Foucault oltre Foucault ai capitoli foucaultiani di Confini e frontiere di Mezzadra e Neilson e di La razón neoliberal. Economía barrocas y pragmática popular di Verónica Gago. Prova a staccarsi da questo panorama il volume curato da Daniel Zamora Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (edizioni Aden, Paris), che si propone di svelare, attraverso la comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale», una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo «ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata e spesso ignorata», e che sarebbe un significativo indice della deriva della gauche post-68.
In verità, è curiosa la descrizione di un Foucault misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante Michael C. Behrent, Michael S. Christofferson e Jan Rehmann, dei quali le critiche a Foucault sono note da anni: tant’è che buona parte del volume è costituito da testi già pubblicati lo scorso decennio, o riscritture di cose già dette. Vale a dire: testi che precedono non solo il «Foucault greco» (falsificandolo in una sorta di riposo del guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale), ma anche i corsi sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si evince la presenza di Thompson e Porchnev nelle letture del Foucault preteso pre-politico.
Insomma, un «ultimo Foucault» che inizia e finisce dove piace ai suoi «demistificatori». Cui si aggiunge spesso il mancato uso sistematico dei Dits et écrits, sostituiti da un utilizzo dei testi e delle citazioni secondo il metodo dei morceaux choisis. Così del corso sulla biopolitica Behrent fornisce una faziosa genealogia, che elenca l’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun nesso causale fra le traduzioni di Hayek e Friedman e il lavoro di Foucault: si allude a una concomitanza che si insinua essere non casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con episodi di militanza attiva, o con intense attività seminariali delle quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso fascicolo del 1978 di «aut aut» (n. 167-168).
Così come viene riscritta la biografia intellettuale di Foucault con scivoloni marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per buona senza verifica l’affermazione che «le parole capitalista e proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970» (Eric Paras): affermazione falsa - e molte sorprese avrebbe lo sciatto lettore se cercasse anche bourgeois, o addirittura Marx; e soprattutto che non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli enunciati e dei rapporti fra cose e parole.
Quanto alla tentazione neoliberale, essa è resa credibile con lo scorporo del corso del 1979 da quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di avviare, enunciando delle fondamentali «precauzioni di metodo», a un’analitica del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo - o l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru (Zamora) - per un’adesione ideologica. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages de Foucault, che Foucault ha chiarito in un’intervista inedita recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso nei Dits et écrits), come la sua «analisi positiva» delle forme di potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti di legna, non comporta alcun giudizio favorevole agli «aspetti negativi» del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti negativi di una nuova figura di potere».
Lotte trasversali
È Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce «dispotismo del capitale» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con buona pace di Chakrabarty, che si serve proprio di Foucault per attualizzare quel concetto marxiano). Il fatto è che Foucault non negava (si veda il dibattito con Chomsky del 1971) il carattere classista dello sfruttamento: aggiungeva però che la determinazione economica, da sola, non è sufficiente a individuare i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe».
È Rehmann, per contro, a non riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di Loach: dalle lotte dei migranti nel settore dei servizi che mettono in questione la centralità e le pratiche del sindacalismo tradizionale, alle soggettivazioni di genere e alle pratiche di assoggettamento. Ciò che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude, ma riapre la ricerca foucaultiana: in direzione del rapporto fra liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo.
Tutta qui, dunque, la loro capacità interpretativa? Sì e no. Perché se gli strumenti sono davvero rugginosi e spuntati, il vero scopo di questo libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio di quella politica grunf-grunf che vede nelle forme di lotta e conflitto del tempo presente il tradimento di un programma materialistico in stile-Diamat, del quale si indicano i responsabili in Foucault e nei Nietzscheani di sinistra - così Rehmann nel libro omonimo, non per caso introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni intento a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora. Quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali al loro manifestarsi, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati dalla lettura di Foucault, Nietzsche e Deleuze.
Non stupisce allora che sia l’autore del saggio più teoreticamente debole, Jean-Loup Amselle, a costruire (come fece Cacciari nel 1977) una «sinistra post-moderna» a suo uso e consumo nella quale ribollono assieme Negri e Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui strategia riformista consisterebbe nella svendita all’austerità e all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche «leccalecca» come il matrimonio per le coppie omosessuali.
Nondimeno, questi autori sfiorano una questione aperta: quella del mancato incrocio tra Foucault e il marxismo. Che non avvenne perché in Francia il marxismo «ufficiale» reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo strutturalismo fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico, nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in reazione al tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx. In altri termini, quel marxismo, costretto a «mollare la presa» di una critica che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva con ottusa protervia la Fortezza Bastiani da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari» in atto - così Negri nel 1978 - al quale anche Foucault contribuiva.
Il potenziale dirompente
Diversa era la situazione in Italia, dove un altro marxismo aveva cominciato a dialogare con Foucault - attraverso la rivista «aut aut», ma anche in quelle pagine del Marx oltre Marx dove Negri descriveva la circolazione e distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault dell’analitica del potere. Come sia stata interrotta quella ricerca teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e di fatto cominciano ad esserlo: lo testimoniano i testi già citati, e in particolare quelli del colloquio Marx & Foucault curati da Laval, Paltrinieri e Taylan. Dove al Foucault lettore di Marx, con saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un uso marxiano di Foucault, succedono tentativi, spesso riusciti, di avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (Negri, Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini).
Non si tratta di elevare la foucaultiana diagnostica del presente a un «insieme di consegne che il filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come sottolineano nel proprio intervento - che conclude il volume - Nicoli e Paltrinieri, ma di usare la critica per mostrare «il potenziale dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, i grunf-grunf bastano e avanzano.
La tragedia dell’Illuminismo
La Rivoluzione francese fu la fine dell’età dei Lumi, non la sua consacrazione Robespierre ne eliminò gli uomini più lungimiranti e moderati, come Condorcet
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07.02.2016)
Che libro strano questo di Jonathan Israel sulla Rivoluzione francese. Con le sue quasi mille pagine esso appare tanto affascinante e provocatorio quanto discutibile - se non inaccettabile, a mio parere - nella sua tesi di fondo che «l’Illuminismo radicale fu incontrovertibilmente l’unica “grande” causa della Rivoluzione francese» (pag. 790).
Non v’è dubbio che Israel figuri in prima fila tra quanti hanno alimentato l’impetuoso e inevitabile rinnovamento della storiografia internazionale dopo il 1989 e la liquidazione dell’utopia comunista. Un rinnovamento che ha avuto il suo cuore pulsante soprattutto nel mondo di lingua inglese, e di cui, curiosamente, le motivazioni ideologiche e le forme che esso sta assumendo sono passate sotto silenzio in Europa.
Spetta infatti a questo autorevole professore dell’ Institute of Advanced Studies di Princeton il merito di aver riportato la questione dell’Illuminismo al centro del dibattito storiografico mondiale, facendone un tema che per interesse e ricchezza di risultati è secondo solo all’ormai affollatissimo settore di studi della Global History.
In tre monumentali volumi, Israel ha dato vita a una suggestiva e potente narrazione unitaria dell’Illuminismo come da tempo non si era più vista. Lo ha fatto con una sorta di ritorno al passato, coniugando polemicamente storia e filosofia contro la storia sociale, la storia economica di matrice marxista, la nascente storia culturale e quel poco che ancora restava in circolazione degli epigoni delle «Annales».
Israel reinterpreta i Lumi come la concreta realizzazione nel corso del Settecento di un sistema filosofico, di una coerente e specifica ideologia spinoziana fondata sul monismo razionale e materialistico e sull’ateismo di Spinoza, e nutrita della circolazione e della diffusione di un sistema di idee eversive, repubblicane e democratiche che aveva i suoi nemici naturali nelle monarchie e le religioni.
In questa prospettiva Israel divide, con tassonomica inflessibilità, gli illuministi buoni da quelli cattivi, gli atei dai deisti, i radicali dai moderati. Al Radical Enlightenment (titolo del suo primo volume sul tema, pubblicato nel 2001) rappresentato soprattutto da Helvetius, Diderot, d’Holbach, Condorcet - atei, anticlericali, fautori del repubblicanesimo, dei diritti umani, della democrazia rappresentativa - egli oppone una sorta di Illuminismo moderato, incarnato da Locke, Hume, Montesquieu, Voltaire, Turgot, Rousseau, fautori della religione naturale e del provvidenzialismo deista e “colpevoli” di posizioni politicamente conservatrici come l’assolutismo monarchico o il costituzionalismo inglese, o pericolose come la democrazia diretta celebrata dal grande ginevrino, padre spirituale di Robespierre e del Terrore.
Inutile dire che questa rigida rappresentazione di un Illuminismo radicale che vive di un legame organico tra il materialismo ateo e il radicalismo politico è stata duramente e giustamente contestata dalla critica. Per rimanere in Italia, come si fa a considerare un illuminista radicale quel Gaetano Filangieri che univa il costituzionalismo repubblicano e l’amore per i diritti dell’uomo alla militanza massonica e al credo deista? E che dire di Vico, addirittura segnalato come repubblicano e materialista?
Indomabile, impermeabile a ogni critica, Israel ora non esita a entrare con il suo teorema riduzionista nel terreno incandescente della Rivoluzione, rilanciando la vexata quaestio del nesso tra quest’ultima e i Lumi, nesso antico e tutto teleologico da tempo abbandonato dagli specialisti. Lo fa accusando tutti i protagonisti di un’ormai secolare storiografia - da Mathiez a Lefebvre a Soboul, sino a Furet - di non avere capito che la soluzione dell’enigma delle origini del 1789 non stava nello studio dei prezzi, o delle sollevazioni contadine o delle dinamiche di piazza, ma soprattutto se non esclusivamente nella storia intellettuale, nella potente «rivoluzione della mente» (per usare una sua espressione) prodotta dagli illuministi radicali. Inutile dire che l’Hegel della Fenomenologia dello spirito avrebbe sorriso vedendo finalmente confermata la sua tesi della Rivoluzione come frutto del pensiero; non lo hanno fatto, invece, gli studiosi americani, che hanno subito reagito alla provocazione con recensioni al curaro.
Israel ripercorre la Rivoluzione reinterpretandone i momenti cruciali, naturalmente a modo suo. Prende sul serio le tesi complottarde di Barruel e le accuse di Burke agli illuministi quali padri della Rivoluzione, salvo tacciarle di genericità per non aver distinto tra illuministi radicali e moderati. Ai primi, pochi, ma padroni dell’opinione pubblica attraverso i giornali, guidati da Mirabeau, Sieyès, Brissot, Condorcet, Israel attribuisce la leadership rivoluzionaria sino al 1793. Sono loro i veri fautori dei diritti dell’uomo (non i deisti alla Voltaire o alla Rousseau), i padri delle leggi per l’eversione dell’aristocrazia, la separazione tra Chiesa e Stato, l’eguaglianza di fronte alla legge, l’abrogazione della monarchia, l’abolizione della schiavitù, l’introduzione del divorzio.
Nei convulsi dibattiti sulla prima costituzione democratica del mondo, nel 1793, i radicali si scontrarono con gli illuministi moderati ispirati al modello britannico, e seguaci di Montesquieu, Voltaire, Hume; al tempo stesso ebbero contro da un lato i robespierristi, dall’altro i fautori del Contro-illuminismo ispirati ai valori dell’Antico Regime. Essi si batterono a favore dei diritti dell’uomo, poi brutalmente sospesi nel 1793-94 e progressivamente abbandonati tra il 1799 e il 1804, anno del ripristino della schiavitù da parte di Napoleone.
La narrazione, va detto, è avvincente. E tuttavia, a un’analisi attenta, essa risulta tanto suggestiva quando artificiosa. Israel sopravvaluta l’omogeneità, l’identità e quindi i successi del fronte radicale. Condorcet, il grande eroe del libro, presunto capo degli illuministi radicali, non era certo un ateo militante ma bensì un massone deista, lockiano e ammiratore di Voltaire e di Rousseau. Così come deista era Thomas Paine, l’autore dei Rights of Man che fondava i diritti nella religione naturale.
Del resto persino un indiscutibile materialista come d’Holbach preferiva parlare di doveri anziché di diritti dell’uomo, rendendo evidente come radicalismo filosofico e progressismo politico non andassero necessariamente accoppiati. La stessa Chiesa temeva e denunciava, più che gli atei materialisti, i deisti riformatori alla Voltaire; per Pio VI la Costituzione civile del clero era eretica e scismatica, non figlia dell’ateismo.
Si potrebbe continuare, ma sarebbe ingeneroso. Ad Israel spetta infatti il grande merito di aver raccontato per la prima volta quella che potremmo definire la tragedia dell’Illuminismo, la sua fine nel sangue al di là delle ipotizzate distinzioni al suo interno. Quel mondo, in tutte le sue componenti, fu infatti la prima vittima del Terrore, dell’odio di Marat e Robespierre e del cosiddetto «populismo autoritario» dei montagnardi per gli intellettuali, gli accademici e le élite. Giustiziati i massimi rappresentati dell’Illuminismo, fatti morire in carcere personaggi come Condorcet, la ghigliottina non risparmiò neppure le prime coraggiose femministe, teoriche dei diritti della donna, Olympe de Gouges e Madame Roland.
Il racconto di questa tragedia appare in queste pagine indignate una risposta forte anche a chi ha sempre voluto trasformare le vittime in carnefici invocando le presunte origini illuministiche del Terrore e condannando in blocco una Rivoluzione nata nel segno dei diritti dell’uomo e terminata con la dittatura di Napoleone, le Restaurazioni dell’Antico regime e la nascita dei primi egoismi nazionali.
Ma soprattutto queste pagine aprono di fatto una nuova stagione di studi sull’eredità dell’Illuminismo nella storia dell’Occidente: toccherà indagare, in futuro, sui cosiddetti Risorgimenti nazionali del XIX secolo, cui è estraneo il concetto di diritti dell’uomo, per comprendere davvero da dove veniamo. Di questo, al di là dei dissensi, dobbiamo essere grati alla fatica di Jonathan Israel.
Secondo il filosofo tedesco, dopo Auschwitz la trascendenza non offre piú all’immanenza alcun significato. Auschwitz ha lo stesso effetto nel campo del sociale che il terremoto di Lisbona ha avuto nel campo dei fenomeni naturali. La malvagità umana ha realizzato “l’inferno reale”.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Non è piú possibile affermare che l’immutabile sia verità e il mosso apparenza caduca, l’indifferenza reciproca del temporale e delle idee eterne, neppure con il pretesto hegeliano che l’esistenza temporale serva - grazie all’annientamento implicito nel suo concetto - all’eterno, che si presenta nell’eternità dell’annientamento.
Uno degli impulsi mistici, secolarizzato nella dialettica, fu la dottrina della rilevanza dell’intramondano, storico per ciò che la metafisica tradizionale privilegiava come trascendenza, o almeno, detto meno gnosticamente e radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica.
L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente. Una tale costruzione affermò la negatività assoluta e collaborò ideologicamente alla sua persistenza, che comunque è realmente implicita nel principio della società esistente fino alla sua autodistruzione.
Il terremoto di Lisbona, fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana.
La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità in qualità.
La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è piú alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e piú misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati” - come si dice in gergo militare - finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 326-327
Dopo Auschwitz, Hitler ci costringe ad impegnarci con tutte le nostre forze per fare in modo che ciò che è avvenuto non possa ripetersi. Questo è diventato l’“imperativo categorico” della nostra epoca. Auschwitz dimostra inconfutabilmente il fallimento della cultura e dell’interpretazione illuminista della storia. Ma la negazione della cultura non è una soluzione. Neppure il silenzio.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano.
[...].
Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di piú che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito.
Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una volta a menzogna.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 330-331
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FONTE: FILOSOFICO.NET
I guardiani del Leviatano sovranazionale
di Dario Melossi (il manifesto, 19 gennaio 2016)
Difficile pensare ad un libro più «topico» di questo appena apparso di Giuseppe Campesi, Polizia della Frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo (DeriveApprodi, pp.236, euro 17), specialmente perché tratta di questioni delle quali quotidianamente leggiamo e vediamo nelle news.
Sembra essere in corso un tentativo di revisione della struttura, compiti e ruolo della «Guardia di frontiera europea» o come la si vorrà chiamare. Campesi ci fa vedere come Frontex costituisca un osservatorio privilegiato dal quale scrutnare in realtà il complesso della costruzione europea. Se ciò che è in gioco, come egli propone, è la costruzione di «uno spazio politico europeo», tramite la designazione dei «confini» (borders) di questo spazio, la questione che è lecito porsi, e che Campesi pone nelle prime pagine del suo testo è: per cosa sta tale «spazio»? Di quale spazio si tratta?
Campesi è assai cauto nel rispondere che questo è lo spazio di una sorta di «superStato» o forse meglio tout court di uno Stato federale europeo «in formazione». E che, così come per altri concetti fondamentali della convivenza politica, cittadinanza, fiscalità, forza, democrazia, anche per lo «spazio» si pone la questione di cosa significhi che esso è «europeo». -In particolare, se ciò significhi semplicemente che si tratta dello spazio-somma di 28 (per il momento) spazi nazionali oppure se sia qualcosa di più e di diverso. Al fine di rispondere a questa domanda di fondo Campesi ripercorre prima la genealogia della costruzione dell’organizzazione il cui agire dà vita a questo spazio, Frontex appunto, e poi quella che ne potremmo definire la fenomenologia.
Frontex è quindi un «capitolo fondamentale della costituzione materiale d’Europa», che ha dato vita ad uno spazio europeo della sicurezza. Tale spazio costituisce un aspetto cruciale di quell’animale burocratico-amministrativo che verrebbe voglia di chiamare il Leviatano europeo. E che, così come il Leviatano di Hobbes prendeva forma - si veda il bel saggio di Carlo Ginzburg nel suo recente Paura reverenza terrore - dalla paura della moltitudine di soggetti che gli conferiva vita, così anche la sua nuova versione «europea» sembra essere sospinta da una sorta di mantra ripetuto incessantemente in decine di documenti, trattati e convenzioni, quello della lotta contro «il terrorismo, il crimine organizzato e l’immigrazione illegale». -Si ripete qui, naturalmente, una storia che abbiamo già vista, nel corso del ventesimo secolo, sull’altra costa dell’Atlantico, laddove il sorgere delle «polizie federali», in primis l’Fbi, si nutrì della lotta contro anarchici e «tratta delle bianche» negli anni Venti del Novecento, «gangsters» come John Dillinger negli anni Trenta, comunismo negli anni della guerra fredda e infine pericolosi sovversivi, soprattutto il «Partito delle Pantere Nere», negli anni Settanta.
Sino ad oggi, secondo Campesi, il ruolo di Frontex veniva individuato in una produzione di conoscenza, a beneficio degli stati membri e delle loro forze di sicurezza, che si basava innanzitutto sulla individuazione di elementi di rischio. -Particolarmente efficaci appaiono le pagine di Campesi ove egli spiega come il problema centrale di Frontex stia nel contemperare e bilanciare l’imperativo neoliberale di aprire, rendere fluidi, e quasi inesistenti, i confini, e presidiare al tempo stesso la sicurezza della società neoliberale. A ciò si è finora risposto con la politica definita, sulla scorta della leadership nordamericana, degli «smart borders». I confini sono «intelligenti» quando riescono a capire - preferibilmente in 12 secondi - se l’individuo che chiede di transitare dal confine corrisponda o meno ad un profilo prestabilito di pericolosità.
Profilo che si basa sull’incrocio delle informazioni provenienti da un numero sempre crescente di banche dati (di qui, ad esempio, il dibattito attuale tra chi vorrebbe estendere in modo ancora più universale l’acquisizione di dati, come nel caso del Pnr e i difensori invece della privacy dei viaggiatori).
Dopo gli attentati di Parigi, tuttavia, tendenze già presenti da tempo ma che erano state tenute a bada da una coalizione mista di euroscettici e difensori della privacy, sembrano essere emerse con maggiore aggressività, e il processo di costruzione della sagoma del Leviatano europeo sembra avere fatto passi avanti, al punto di prospettare addirittura la trasformazione di Frontex in una opportunamente denominata polizia, o guardia, o agenzia europea di frontiera, in grado anche di imporsi alle forze di sicurezza nazionali se queste sembrassero esitare nell’affrontare i compiti che l’Ue, come interpretata da Frontex, ha loro imposto. Tutta la tematica della creazione dei cosiddetti «Hotspots», che si dovrebbero accompagnare - ma qui, guarda caso, la «volontà europea» sembra vacillare assai - ad un superamento delle «regole di Dublino», è legata a tale impostazione. In luoghi come Lampedusa, Pozzallo, o Lesbo, l’iniziale registrazione dei rifugiati dovrebbe avvenire, si dice, anche a costo di usare la forza, sotto l’occhio vigile di «guardie europee» che non si capisce se siano più interessate a ispezionare i migranti o coloro che li devono registrare.
C’è infatti una curiosa ironia - verrebbe da chiamarla ironia se non si trattasse della vita e del destino di milioni di persone! - in ciò che è accaduto alle frontiere meridionali d’Europa negli ultimi due anni e cioè che la sostanziale «devianza» di migranti e rifugiati - devianza rispetto a quello che dovrebbe essere l’«ordinato svolgersi» degli spostamenti da un paese all’altro, e che nel caso dei rifugiati non ha alcun modo di svolgersi in maniera ordinata in quanto non esiste «visto» per i rifugiati e quindi chi voglia sottrarsi ai pericoli sulla propria persona e sulla persona dei propri famigliari lo può fare solamente in modo eslege, al di fuori della legge - tale devianza, insomma, si è magicamente comunicata agli stessi organi di vigilanza e di sicurezza delle nazioni presidianti i confini i quali hanno finito per assecondare la volontà di centinaia di migliaia di rifugiati di cercare di trasferirsi verso quelle zone d’Europa che essi, a torto o a ragione, ritenevano più accoglienti.
In pratica, ciò ha significato la creazione di vie di fuga analoghe a quelle che, ai tempi della lotta antischiavista negli Stati Uniti antebellum, si chiamavano underground railroad. I cosiddetti «trafficanti di esseri umani» non fanno infatti che fornire, per un prezzo, un servizio che gli aspiranti rifugiati richiedono, nella assoluta assenza di alternative, sacrificati sull’altare del nuovo Moloch della «legalità». Non vi è dubbio che il bel libro di Giuseppe Campesi abbia dato un contributo importante alla critica della costruzione del Leviatano europeo, critica che fa tutt’uno con l’emergere di un reale processo di costruzione della democrazia europea. Anche per questo ci auguriamo che venga al più presto tradotto in inglese e nelle altre lingue dell’Unione.
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Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni. Ma quale famiglia, quale Dio?:
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
La guerra all’Is e i dettami di Kant
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 21 novembre 2015)
NON sappiamo quanto lunga sarà la convivenza con il terrorismo. I timori per la vita non sono amici diretti della libertà; eppure sono condizioni essenziali per creare la sicurezza, grazie alla quale soltanto la libertà può crescere. Su questo paradossale legame di paura, sicurezza, libertà - il paradosso del Leviatano - si incastonano le nostre istituzioni e i nostri diritti.
Non si dà diritto e quindi libertà senza una cornice di sicurezza e di sovranità statale le cui funzioni siano costituzionalizzate e il potere limitato e temperato dalla legge. Su questo “abc” si basa l’Occidente, quel grappolo di libertà, civili, politiche, morali che contraddistingue la nostra vita quotidiana. Se la guerra è una condizione tragica (e a volte necessaria) che ci accomuna tutti alla specie umana, la pratica della legge e dei diritti è quella straordinaria costruzione che qualifica la nostra tradizione dall’antichità, permeando tutte le sfere di vita, religiosa e secolare, privata e pubblica. Questo è l’Occidente.
E lo è soprattutto quando la violenza terroristica, cieca e imprevedibile, costringe a pensare in fretta e con determinazione quali misure prendere. Che cosa fare. Il governo francese ha messo in atto immediatamente dopo l’attentato, quasi reagendo all’emozione dell’indeterminato, una strategia di guerra e di polizia. François Hollande ha proposto modifiche d’urgenza alla Costituzione francese, per estendere nel tempo e nelle prerogative lo stato d’emergenza, e per dettare criteri di revoca della cittadinanza francese nel caso di terroristi che ne abbiano due. Le misure di guerra in Siria e quelle di stato d’emergenza interno prefigurano condizioni di eccezionalità che possono destare preoccupazione.
L’esperienza americana dopo l’11 settembre 2001 dovrebbe assisterci nelle nostre valutazioni. A partire da quella tragedia, George W. Bush prese due decisioni che si rivelarono onerosissime per gli Stati Uniti e il mondo, entrambe improntate alla logica della guerra: contro i nemici esterni e contro i nemici interni (cittadini americani e non). Tutte le forme di intervento vennero rubricate e gestite come operazioni di “guerra”. Si ebbe prima l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq (dove l’argomento era distruggere i siti di produzione di armi nucleari e cacciare il dittatore Saddam Hussein) e, nel frattempo, la creazione di un campo di reclusione per prigionieri-nemici totali situato fuori della giurisdizione americana, a Guantánamo, Cuba (poiché la Costituzione, che non venne comunque mai cambiata, avrebbero vietato una detenzione arbitraria dentro i confini statali).
Come riconoscono ormai tutti gli esperti, queste misure si sono rivelate onerose e fallaci da tutti i punti di vista: giuridico, economico, militare e politico. Con l’alleanza della Gran Bretagna di Tony Blair (il quale recentemente ha chiesto scusa per gli errori commessi con l’invasione dell’Iraq) gli Stati Uniti hanno creato oggettivamente le condizioni di instabilità radicale nelle quali fiorisce oggi il terrorismo dell’Is: la demolizione dello Stato di Hussein in Iraq ha consegnato parte di quel territorio vasto e ricco di petrolio a forze militari terroristiche o a loro sodali. Una condizione che si è recentemente ripetuta con la Libia.
Ha spiegato Romano Prodi, in alcune interviste rilasciate in questi giorni, che la strategia da anteporre a quella militare, e da integrare con quella di polizia, dovrebbe essere l’intervento sulle “libertà economiche” di cui godono i terroristi: libertà di vendere petrolio alle compagnie multinazionali occidentali a costi probabilmente competitivi o a mercato nero. L’introito miliardario di quel libero commercio consente ai terroristi di acquistare armi. Intervenire sul mercato delle armi e del petrolio è possibile solo se tutti gli stati si uniscono per limitare una condizione di quasi totale anarchia, a causa della quale le nostre libertà rischiano di morire.
L’Occidente ha dunque l’arma della legge, che è fortissima se usata con l’obiettivo giusto in mente, quello di combattere le forze terroristiche prima di tutto con l’intelligence e le forze dell’ordine, e intanto togliere loro risorse materiali e sostegno sulla scena globale.
Una sinergia di azioni coordinate tra tutti gli stati che si riconoscono nella famiglia dell’Onu può essere vincente, seguendo i dettami della pace perpetua di Kant: primo fra tutto, quello per cui la libertà si difende con armi proprie, che sono il diritto e la legge.
di ANTONIO GNOLI *
Il Leviatano è un grandissimo libro di teoria politica. Ancora oggi ci turbano le sue analisi. Ancora oggi stupisce la capacità introspettiva con cui Thomas Hobbes indagava la natura umana, estraendone miserie e nefandezze: la cupidigia e l’ invidia, l’ ostilità e la paura, la menzogna e il tradimento, la violenza e il sopruso. Sentimenti dell’ uomo sorretti dal bisogno innato di prevalere sul proprio simile.
Si tratta di descrizioni note che tornano alla mente in occasione della nuova edizione del Leviatano (edita da Rizzoli) e della pubblicazione di un vecchio saggio di Carl Schmitt: Sul Leviatano (edito da il Mulino). Entrambi i libri presentano un’ introduzione di Carlo Galli che ricostruisce con grande competenza l’ alfa e l’ omega del capolavoro hobbesiano.
Quando nel 1651 Hobbes pubblica il suo libro, l’ Europa - con la pace di Westfalia - ha messo fine al lungo periodo di guerre civili e religiose. Si avverte nel continente la necessità di un rinnovo profondo delle istituzioni, fino ad allora eccessivamente condizionate da una visione feudale e teologica. Hobbes è conscio che soltanto un gesto radicale che azzeri tutto quanto è accaduto in passato, possa far nascere un organismo così potente e persuasivo da regolare la vita dei sudditi.
La macchina politica hobbesiana - che Galli riconduce alla prima costruzione del moderno Stato rappresentativo del diritto - ignora i problemi legati alla legittimazione divina e va dritta alla questione essenziale: come superare il disordine che è insito nella natura umana, creando un ordine che sia stabile, duraturo e condiviso? Il passaggio dallo stato di natura allo Stato propriamente detto (e riconosciuto) si avvale secondo Hobbes di un patto di non belligeranza che gli uomini stringono tra loro, perché fuori da quel patto la vita risulterebbe brutale e insicura.
Tuttavia, un accordo così vasto non può che essere un artificio grazie al quale Hobbes formalizza la nascita dello Stato moderno e del legame sociale. Garantendo la pace e con essa la vita degli individui, lo Stato spoglia i suoi sudditi di tutti gli altri diritti. Non a caso c’ è chi ha visto in Hobbes delinearsi una prima forma di totalitarismo.
Galli ridimensiona questa preoccupazione e semmai scorge nel volto barocco del Leviatano (il nome allude a un mostro marino che Hobbes riprese dalla tradizione biblica) una potenza costantemente minacciata dalle forze della storia. Lo stato hobbesiano è in grado di arginare e ritardare il conflitto, ma non di debellarlo definitivamente. È il dramma nichilistico nel quale versa il pensiero di Hobbes.
Il Leviatano ha avuto numerosi interpreti. Da Rousseau, Kant ed Hegel fino agli stimoli novecenteschi offerti da Benjamin, Strauss, Macpherson, Bobbio e ovviamente Carl Schmitt. Il cui libro, Sul Leviatano, fu pubblicato nel 1938. Giurista autorevole, ma ormai inviso al regime nazista, Schmitt ci consegna pagine esoteriche, attraversate da deliranti pulsioni antisemite, ma anche capaci di illuminare il destino teorico di Hobbes. Già in passato Hobbes era stato al centro dei suoi interessi, ma qui si configura un problema nuovo: è in grado lo Stato leviatanico di affrontare e risolvere quei conflitti per i quali era predisposto?
Schmitt mette in dubbio la solidità di fondo dello Stato moderno insidiato dalla imprevedibilità dei soggetti patologici (ai quali lo stesso partito nazista appartiene). È probabile che una tale convinzione la ricavi dalla consapevolezza di vedere i primi segni della crisi dello jus publicum europaeum. Il crepuscolo della sovranità statale sarà infatti uno dei temi portanti del Nomos della Terra. Con l’ opera del 1950 Schmitt si va sempre più convincendo che lo spazio geopolitico stia mutando radicalmente e che gli stessi soggetti della politica (in primis gli Stati nazione) come Hobbes li aveva teorizzati, stavano tramontando.
Strana coppia Hobbes e Schmitt. Così la definisce efficacemente Galli. Tanto uno è all’ inizio del Moderno quanto l’ altro si colloca alla fine di quell’ esperienza. «Si tratta», osserva Galli, «di due visioni prospettiche della medesima epoca storica».
Scrivendo il Leviatano Hobbes immaginò che il disordine originario, fonte di mortale pericolo, dovesse essere quanto più possibile neutralizzato e sostituito dalle certezze dell’ ordine normativo creato dalla ragione umana. È proprio ciò che alla fine Schmitt mise in discussione: l’ efficacia di contenere il politico dentro una forma giuridica stabile e condivisa. Era convinto che le potenze (piùo meno segrete) della storia difficilmente si sarebbero adeguate alla misura umana. E alla sua ragione.
*Archivio: la Repubblica, 29.10.2011
Da Weimar a Parigi
Guerra allo Stato di diritto
Depoliticizzazione, rinuncia alla certezza delle leggi, paura:
così si negano le libertà per rispondere al terrorismo
di Giorgio Agamben (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016) *
Non si può comprendere la reale posta in gioco nella proroga di tre mesi dello stato d’emergenza in Francia, se non la si situa nel contesto d’una trasformazione radicale del modello statale cui siamo avvezzi. Occorre innanzitutto smentire le affermazioni di politici irresponsabili, secondo i quali lo stato di eccezione sarebbe un baluardo per la democrazia. Gli storici sanno perfettamente che è vero il contrario. Lo stato di eccezione è il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si sono insediati in Europa.
Negli anni che hanno preceduto l’ascesa al potere di Hitler, i governi socialdemocratici di Weimar si erano avvalsi così spesso dello stato di eccezione che si può affermare che la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia parlamentare ancor prima del 1933. Dopo la sua nomina, il primo atto di Hitler fu la proclamazione di uno stato di eccezione, che non venne più revocato. Quando ci si stupisce dei crimini commessi impunemente in Germania dai nazisti, si dimentica che si trattava di atti perfettamente legali, poiché il Paese si trovava in stato d’eccezione e le libertà individuali erano sospese.
Non c’è ragione di credere che un tale scenario non possa riproporsi in Francia: non è difficile immaginare un governo di estrema destra sfruttare ai propri fini uno stato d’emergenza cui i cittadini sono già stati abituati dai governi socialisti. In un Paese che vive in uno stato d’emergenza prolungato, in cui le operazioni di polizia si sostituiscono progressivamente al potere giudiziario, ci si deve aspettare una disgregazione rapida e irreversibile delle pubbliche istituzioni.
Tutto ciò è ancor più vero in quanto lo stato di eccezione s’iscrive oggi nel processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare “Stato di sicurezza” (Security State, per dirla con i politologi americani). Il termine “sicurezza” si è talmente integrato nel discorso politico che possiamo affermare che le “ragioni di sicurezza” hanno stabilmente preso il posto di quel che una volta s’intendeva per “ragion di Stato”. Benché questa nuova forma di governo non possa più essere spiegata nei termini del moderno Stato di diritto, un’analisi della sua struttura è tuttora mancante. Proveremo pertanto a fissare qualche punto in vista di una possibile definizione.
Nel modello di Thomas Hobbes, che così profondamente ha influenzato la nostra filosofia politica, il contratto che consente di trasferire i poteri al sovrano presuppone la reciproca paura e la guerra di tutti contro tutti e lo Stato è ciò che mette fine alla paura. Nello Stato di sicurezza, questo schema s’inverte: lo Stato si fonda stabilmente sulla paura e deve ad ogni costo mantenerla, perché trae da essa la sua funzione essenziale e la sua legittimità.
Foucault aveva già dimostrato che, quando il termine sicurezza appare per la prima volta nel discorso politico francese con i governi fisiocratici prima della Rivoluzione, non si trattava di prevenire le catastrofi o le carestie, ma di lasciarle accadere per poterle poi guidare e orientare verso la direzione ritenuta più conveniente. Parimenti, la sicurezza di cui si parla oggi non mira a prevenire gli atti terroristici (cosa del resto assai difficile, se non impossibile, poiché le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco avvenuto e il terrorismo è per definizione una serie di attacchi improvvisi), ma a stabilire un controllo generalizzato e senza alcun limite sulla popolazione (di qui, la concentrazione sui dispositivi che permettono il controllo totale dei dati informatici dei cittadini, compreso l’accesso integrale al contenuto dei computer).
Il rischio è qui la deriva verso la creazione d’una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare, si deve allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca. Vediamo così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta quello stesso terrorismo che devono poi combattere all’interno e intrattenere relazioni cordiali, se non addirittura vendere armi a Paesi che risultano finanziare le organizzazioni terroristiche.
Un secondo punto che è importante definire è il cambiamento nello statuto politico dei cittadini e del popolo, che era un tempo il depositario della sovranità. Nello Stato di sicurezza si assiste a una tendenza inarrestabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali.
Questa tendenza è tanto più inquietante, in quanto era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento essenzialmente impolitico cui lo Stato doveva garantire protezione e crescita. Secondo questi giuristi, c’è solo un modo per politicizzare questo elemento impolitico: attraverso l’uguaglianza di stirpe e di razza, che deve distinguerlo dallo straniero e dal nemico.
Non si tratta qui di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza contemporaneo: bisogna però capire che se si depoliticizzano i cittadini, questi potranno uscire dalla loro passività solo se li si mobilita attraverso la paura di un nemico straniero non solo esterno (gli ebrei per la Germania nazista, i musulmani nella Francia di oggi). È in questo contesto che bisogna inquadrare il sinistro progetto di revoca della cittadinanza a coloro che posseggono una doppia nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla denazionalizzazione dei «cittadini indegni della cittadinanza italiana» e le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.
Un terzo punto di cui è bene non sottovalutare l’importanza, è la trasformazione radicale dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella sfera pubblica. Ciò che più colpisce l’osservatore attento ai comunicati ufficiali sui crimini terroristici, è la totale rinuncia alla ricerca della verità giudiziaria. Mentre in uno Stato di diritto un reato deve essere accertato da un’inchiesta giudiziaria, nel paradigma securitario ci si deve accontentare dei comunicati della polizia e dei media che da questa dipendono, due istanze da sempre considerate poco affidabili.
Da qui l’incredibile vaghezza e le palesi contraddizioni nelle ricostruzioni affrettate dei fatti, che scientemente eludono ogni possibilità di verifica e assomigliano più a pettegolezzi che a inchieste. Ciò significa che lo Stato di sicurezza ha interesse a che i cittadini - di cui deve garantire la protezione - restino nell’incertezza quanto a ciò che li minaccia, poiché incertezza e terrore vanno sempre a braccetto.
Questa stessa incertezza si ritrova nel testo di legge dello scorso 20 novembre sullo stato d’emergenza, che interessa «ogni persona verso cui esistono seri motivi di pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza». È del tutto evidente che la formula “seri motivi di pensare” non ha alcun senso giuridico e, in quanto rimanda solo all’arbitrio di chi pensa, può essere applicata in qualunque momento a qualsiasi persona. Nello Stato di sicurezza, queste formule indeterminate, da sempre considerate dai giuristi contrarie al principio della certezza del diritto, diventano la norma.
Questa stessa imprecisione e questi stessi equivoci li ritroviamo nelle dichiarazioni dei politici secondo i quali la Francia sarebbe in guerra contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una contraddizione di termini, giacché uno stato di guerra si definisce precisamente attraverso la possibilità d’identificare con certezza il nemico che s’intende combattere. Nella prospettiva securitaria invece, il nemico deve restare nel vago, affinché chiunque - all’interno come all’esterno - possa essere identificato come tale.
Mantenimento d’uno stato di paura generalizzato, depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia a ogni certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello Stato di sicurezza non certo rassicuranti. Ciò significa, infatti, che lo Stato di sicurezza nel quale stiamo scivolando fa il contrario di quanto promette, poiché - se sicurezza significa assenza di preoccupazioni (sine cura) - al contrario esso alimenta la paura e il terrore. Lo Stato di sicurezza è, d’altra parte, uno Stato di polizia, poiché, escludendo il potere giudiziario, generalizza il margine discrezionale della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto norma, agisce sempre più come sovrana. Grazie, infine, alla depoliticizzazione del cittadino, diventato in qualche modo un terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dall’ambito della politica che conosciamo in direzione di una zona incerta, dove pubblico e privato si confondono e di cui è difficile tracciare i confini.
(Traduzione di Riccardo Antoniani)
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Apparso su Le Monde 27/12/15 sulla tribuna Bisogna costituzionalizzare lo Stato d’emergenza?
Fantasmi e concetti secondo Thomas Hobbes
Divano . La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
di Alberto Olivetti (Il manifesto, 23.O2.2018)
Nella prima parte del De corpore (1655), nel terzo capitolo, Thomas Hobbes, come scrive Ernst Cassirer, sostiene che «la verità non inerisce alle cose, ma ai nomi e al rapporto dei nomi, che si compie nella proposizione: ‘veritas in dicto, non in re consistit’». E nel convincimento espresso da Hobbes, puntualizza Cassirer, la filosofia, rinnegata la connessione coi principi della scienza sperimentale, «deve consistere in null’altro se non nella dottrina dell’esatto collegamento dei segni, creati dal nostro pensiero».
Si presta bene, questa considerazione di Cassirer, a orientare la lettura delle pagine della quarta parte del Leviathan (1651) ove si tratta Del regno delle tenebre. Tenebre spirituali derivanti da errate interpretazioni della Scrittura, dai residui della religione pagana nonché dal ricorso agli insegnamenti di filosofie «vane» così come dalla recezione passiva di «favolose tradizioni». Oscurità spirituali e ignoranze che, mentre recano danno a molti, portano ad altri considerevoli benefici.
Al vero, o al falso, della parola (dictus) consegue il bene, o il male, della cosa (res). Perché i segni creati dal nostro pensiero conformano la relazione politica, ovvero agiscono il legame civile effettivo.
Argomenta Hobbes: «Il nemico è stato qui nella notte della nostra ignoranza spirituale e ha seminato il loglio degli errori spirituali; e ciò, in primo luogo, abusando e spegnendo la luce delle Scritture, perché noi erriamo per non conoscere le Scritture. In secondo luogo, introducendo la demonologia dei poeti pagani, vale a dire, la loro favolosa dottrina concernente i demoni, i quali non sono che idoli o fantasmi del cervello, senza alcuna natura reale propria, distinta dalla fantasia umana; tali sono gli spettri dei morti, le fate e altra materia da storie di vecchie donne. In terzo luogo, mischiando con la Scrittura diversi resti della religione e molto della vana ed erronea filosofia dei Greci, specialmente di Aristotele. In quarto luogo, mescolando con queste due, tradizioni false e incerte e storie finte o incerte».
Il nemico che diffonde e fa durare tanta inettitudine e ottusità tra gli uomini è il principe del potere dell’aria, come si legge nella lettera di Paolo agli Efesini (II, 2 e VI, 12). Ed è nell’aria che si producono le visioni.
Attraverso l’aria, dice Hobbes, procede una immaginazione dell’oggetto: «tale immaginazione è chiamata vista e non sembra essere una mera immaginazione, ma il corpo stesso fuori di noi».
Si stabilisce, potremmo dire, una dinamica aerea che, una volta avviata in un giuoco di riflessi, rifrazioni e riverberi, permane, resta nell’apparenza intatta allorché i corpi opachi o lucidi o diafani, pur rimossi, continuano tuttavia il loro movimento in noi inducendo, scrive Hobbes, «ciò che chiamiamo immaginazione e memoria e sogno».
E aggiunge: «apparenze che rimangono nel cervello per l’impressione dei corpi esterni sugli organi dei sensi, e che sono chiamate comunemente idee, idoli, fantasmi, concetti, in quanto sono rappresentazioni di quei corpi esterni che le causano e non hanno realtà più di quanto ne abbiano le cose che abbiamo di fronte in un sogno». Seguendo Hobbes nel suo ragionamento sulle immagini riceviamo più di un insegnamento.
Intanto, che la vacuità, l’illusione, il segno (idee, idoli, fantasmi, concetti) assumono permanenza e consistenza e senso nel mondo degli uomini, costituiscono una essenziale condizione della relazione sociale e civile che va conosciuta. Tanto illusoria quanto perentoria per influenza e rilevanza. Una incidenza sempre nuova per l’opera assidua che il principe dell’aria è in grado di esercitare, possiamo dire, su ogni nostro inconsapevole sguardo.
Nel proponimento di Hobbes c’è, al riguardo delle immagini, una verità che richiede d’esser rivelata, da pronunciare.
Verità che si elabora e si afferma in dicto, affidata ad una perspicua e congrua combinazione di segni -nomi e rapporti tra nomi - creati dal nostro pensiero nella parola delle Scritture.
E per questa via Hobbes invita ad una riflessione sulla caratura fantasmatica che informa idee e concetti.
Sepulveda (1490-1573)
Guerre in nome del Vangelo
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.1.2016)
Nel 1545, mentre si aprono i lavori del Concilio di Trento, termina la stesura di un libro che legittima la guerra speciale per la conquista del Nuovo Mondo. La pubblicazione è però ritardata dai domenicani. Il suo autore, Juan Ginés de Sepulveda, aveva studiato anche a Bologna seguendo gli insegnamenti di Pomponazzi; dal 1536 era diventato storiografo di Carlo V, ma anche cappellano reale. Con Erasmo da Rotterdam aveva avuto scambi di consensi e di critiche. Nel clima umanistico di quell’epoca ha un suo peso, tanto che il cardinal Gaetano lo incaricò tra il 1527 e il 1529 di rivedere il testo del Nuovo Testamento.
Quel libro che dicevamo e che l’Università di Salamanca nel 1547 ha l’incarico di vagliare, si intitola Democrates alter. Oggi si dovrebbe subito precisare che contiene idee politicamente scorrette. Si possono riassumere così: erano legittime le guerre contro gli indigeni americani e lecito era catturarli come schiavi, data la loro natura inferiore. Non entreremo nei dettagli e nelle questioni sollevate dall’opera, che fu tradotta da Quodlibet nel 2009, aggiungiamo soltanto che ora esce il primo Democrates di Juan Ginés de Sepulveda, libro che vide la luce a Roma nel 1535. Ovvero nell’anno in cui Carlo V strappò all’Impero Ottomano la città di Tunisi e giunse a Roma cercando di convincere papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, da poco eletto, a convocare un concilio.
Questo primo trattato si presenta con un titolo lungo, accattivante ed esplicativo, Democrate. Dialogo sull’accordo tra la professione delle armi e la fede cristiana. Pone questioni come la seguente: è possibile intraprendere una guerra tenendo conto dei precetti evangelici? Respingendo gli ideali pacifisti di Erasmo, criticando Machiavelli che imputava al cristianesimo un infiacchimento degli animi e non poche colpe per la decadenza politica e militare, Sepulveda diventa il teorico della guerra umanitaria, un concetto che fu molto gradito al colonialismo europeo dell’epoca e dei secoli successivi.
Ora Quodlibet propone la traduzione con il testo latino a fronte, a cura di Vincenzo Lavenia, anche di questo primo Democrate. Va ricordato che Erasmo nella Querela pacis e negli Adagia aveva preso le distanze dal «Dio degli eserciti», quello caro all’Antico Testamento, a taluni pontefici nonché a numerosi interpreti che legittimavano l’uso delle armi, e scrisse parole chiare (riportate da Lavenia nella sua introduzione): «Un dottore davvero cristiano non approva mai la guerra; forse in qualche caso la permette, ma controvoglia e con dolore». Machiavelli, al contrario, più suadente del sommo umanista, attento nell’anteporre la forza alla giustizia, anzi vedendo la seconda dipendere dalla prima, credeva la guerra una realtà inevitabile (per Hegel sarà anche utile) e nei Discorsi attaccava senza mezzi termini il cristianesimo trapponendovi gli ideali pagani: «La religione antica... Non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato gli uomini più umili e contemplativi che gli attivi». Parole scritte in un mondo in cui la Chiesa non scarseggiava di guerrafondai, papi inclusi.
Sepulveda nel suo primo Democrate entra in questo ideale dibattito e fa proferire ad Alfonso la risposta al quesito se la professione delle armi contrasti con la dottrina cristiana: «Anch’io in passato mi sono lasciato irretire da quella tesi; non perché ritenga che ai cristiani la fede proibisca di fare guerra (spesso mi pare che vi siano cause assai giuste, anzi necessarie, per intraprenderla), ma perché accadono molte cose nella vita per le quali a un uomo di valore è necessario perdere la buona fama (di cui deve avere massima cura) oppure mettere da parte i precetti della religione».
Più avanti Sepulveda affronta il problema discettando del «giusto per natura»; riflette sul giudizio di chi deve stabilire cosa sia bene e male. Giunge tra l’altro a ricordare che la guerra «secondo il diritto di natura» è fatta anche dalle bestie.
Affrontando il tema «Per quali cause si debba muovere guerra» ricorda: «Non si dovrà affatto pensare che sia contro la religione o turpe rivendicare i propri beni sottratti o punire i malvagi. Né ci si dovrà vergognare di imitare Abramo, uomo giusto e chiamato amico di Dio. Egli molti secoli prima che fossero dettate le leggi degli ebrei, seguendo il diritto di natura mosse guerra contro quattro re che esultavano per la vittoria e li mise in fuga...». Il resto viene da sé. E tale dibattito torna ad avere una certa attualità.
DAL ’MONDO’ DEL "QUO VADIS?" AL ’MONDO’ DEL "QUO VADO?". PER UNA CRITICA DELLA LUNGA MARCIA DELLA CIVILIZZAZIONE VIDEO-CATTOLICA:
"QUO VADIS, DOMINE? - SIGNORE, DOVE VAI?): "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE - E IL MESSAGGIO EVANGELICO E’ IL MESSAGGIO EVANGELICO
Note su "Quo vadis? (romanzo storico e film" e su "Quo vado?" (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Luca Pasquale Medici, nei panni di Checco Zalone)":
A.
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;
guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano
e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
B.
INTERVISTA A Luca Pasquale Medici
Checco Zalone, dagli sms con Matteo Renzi al pranzo con Silvio Berlusconi: "Zalone starebbe sulle palle anche a me"
di Redazione (L’Huffington Post, 15/01/2016 - ripresa parziale)
Un successo trasversale, senza colori politici. Lo dimostrano gli sms con il premier Renzi e il pranzo a casa Berlusconi.
Forse, come racconta lui stesso in un’intervista a "Sette", Checco Zalone ha un solo difetto, un’eccessiva indulgenza verso gli italiani e i loro vizi. "È vero - dice a Vittorio Zincone - Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo".
Eppure, ormai, Zalone con Quo Vado?, è entrato prepotentemente nell’Olimpo del cinema italiano, quantomeno per i numeri strabilianti registrati ai botteghini, numeri che fanno da cassa di risonanza a un talento ormai appurato, attirando anche l’interesse del premier, che non nasconde di essere un suo fan.
Ma nella vita di Zalone non ci sono solo sms da Palazzo Chigi, ma anche un pranzo ad Arcore.
Poi il racconto della sua "storia" con Gennaro Nunziante, il regista con cui hai realizzato i suoi film.
Inevitabile un rapido passaggio sugli incassi delle pellicole: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? più di 60.
Infine i complimenti da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini e del regista Gabriele Muccino, entrambi concordi sul fatto che Zalone serviva al cinema italiano perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli. Il pugliese si diverte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL "ROMANZO DI FORMAZIONE" EUROPEO: LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI".
"Corrotti perdono pudore e dignità, provino vergogna"
Esce libro. "Mai emarginare i gay, ogni creatura è amata da Dio"
di Fausto Gasparroni (Ansa, 12 gennaio 2016)
ROMA "Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia". E’ quasi un vademecum per il Giubileo il libro-intervista di papa Francesco con Andrea Tornielli, "Il nome di Dio è misericordia" (Piemme, pp. 120, 15.00 euro), uscito oggi in 86 Paesi e presentato a Roma con ospiti come Roberto Benigni e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. "La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita - vi afferma Bergoglio -. Non aspetta che i feriti bussino alla sua porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati".
Nell’agile volume c’è tutta la visione di Francesco sulla misericordia, vero balsamo per "l’umanità ferita" del terzo millennio, cui ha voluto dedicare l’Anno Santo straordinario ponendola al centro della stessa idea di cristianesimo: "la misericordia è la carta d’identità del nostro Dio. Dio di misericordia. Dio misericordioso. Per me questa è davvero la carta d’identità del nostro Dio". Rivelando tra l’altro come una prima idea dell’Anno giubilare l’ebbe in embrione in una tavola rotonda tra teologi ai tempi di Buenos Aires: "si discuteva su che cosa il Papa potesse fare per avvicinare la gente, di fronte a tanti problemi che sembravano senza soluzione. Uno di loro disse: ’Un giubileo del perdono’. Questo mi è rimasto in mente". Forte l’accento posto dal Papa sul valore del sacramento della penitenza, sui confessori che devono avere "tenerezza" e "non allontanare" la gente che "soffre". E se, da una parte, "andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria", dall’altra i confessionali "non devono mai essere stanze di tortura". "A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale", confida Francesco. La stessa giustizia terrena "è più giusta, realizza davvero se stessa", se attuata "con la misericordia". Ecco quindi la crescita nella coscienza mondiale del "rifiuto della pena di morte". Bene anche "quanto si sta cercando di fare per il reinserimento sociale dei carcerati". La misericordia divina, insomma, "contagia l’umanità".
Tuttavia le parole più forti del Pontefice sono ancora sulla piaga della corruzione, un peccato che "viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere". "Il corrotto - denuncia Francesco - è così chiuso e appagato nella soddisfazione della sua autosufficienza che non si lascia mettere in discussione da niente e da nessuno. Ha costruito un’autostima che si fonda su atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri". Per il Papa, "il corrotto ha sempre la faccia di chi dice: ’Non sono stato io!’. Quella che mia nonna chiamava ’faccia da santarellino’". Il corrotto, in altre parole, "è quello che s’indigna perché gli rubano il portafoglio e si lamenta per la scarsità di sicurezza che c’è nelle strade, ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per evitare si assumerli a tempo indeterminato oppure sfrutta il lavoro in nero. E poi si vanta pure con gli amici di queste sue furbizie". E’ quello "che magari va a messa ogni domenica, ma non si fa alcun problema nello sfruttare la sua posizione di potere pretendendo il pagamento di tangenti". La corruzione, insomma, "fa perdere il pudore", mentre "il corrotto spesso non si accorge del suo stato, proprio come chi ha l’alito pesante e non se ne rende conto". Il Papa lo ripete più volte: "peccatori sì, corrotti no!", perché nell’animo dei secondi non c’è il pentimento e la richiesta di perdono. "Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo - aggiunge -, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna, la grazia di riconoscersi peccatori bisognosi del Suo perdono".
Bergoglio torna con chiarezza anche sul tema dei gay: "persone omosessuali", vuole che le si chiami, perché "prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore". "Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnandole", risponde a una domanda sulla sua esperienza di confessore. E a proposito della sua celebre frase "Chi sono io per giudicare?" afferma: "Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare".
Hitler, un figlio dell’occidente
70 anni fa il fututo Fuhrer diventava cancelliere del Reich. Aveva già programmato tutto in "Mein Kampf".
Lo storico Giorgio Galli ha curato la ristampa del libro per Kaos: "Razzismo e antisemitismo non erano sue invezioni".
di Oreste Pivetta *
Settant’anni fa Adolf Hitler diventava cancelliere dei Reich. Era la mattina del 30 gennaio quando il presidente Paul Hindenburg gli affidò l’incarico. Hitler poteva contare su una coalizione di destra, ma quarantotto ore dopo l’investitura ottenne da Hindenburg lo scioglimento del parlamento. A febbraio il nuovo governo decretò la sospensione della libertà di stampa e i nazisti scatenarono un’ondata di violenze contro gli oppositori politici. Soprattutto i nazisti misero in moto la formidabile macchina della propaganda, diretta da Goebbels, mentre per decreto legge (a fine febbraio) venivano sospese le libertà costituzionali e proibito l’attivismo politico delle sinistre. Il giorno prima, il 27 febbraio, era stato dato alle fiamme il Reichstag. Dell’incendio fu accusato un cittadino olandese di presunte simpatie comuniste, Marinus van der Lubbe.
Cominciava così la più tragica avventura del nostro secolo, alla fine la guerra, le deportazioni, lo sterminio. Le idee che ispirarono tutto questo, stanno in un libro, Mein Kampf, che Hitler aveva dettato al suo segretario Rudolf Hess nell’anno di prigionia, nel carcere di Landsberg, tra l’11 novembre 1923 e il 20 dicembre 1924. Hitler era stato condannato per alto tradimento per il tentato putsh di Monaco, il putsh della birreria. Mein Kampf, scritto in forma prolissa e contorta, fu rivisto e corretto (anche dagli errori grammaticali) da un prete che era diventato giornalista antisemita, Bernhard Stempfle, e da Josef Czerny, di origine cèca, giornalista e poeta ugualmente antisemita. Il titolo era di Max Amman, che stava in carcere con Hitler ed era il direttore commerciale della casa editrice del partito nazionalsocialista.
Il libro ebbe all’inizio scarsa fortuna. Alla fine della guerra, al crollo del nazismo ne erano state vendute dieci milioni di copie. Veniva regalato ad ogni coppia di neo-sposi. In Italia fu Bompiani a pubblicare nel 1934 il secondo volume, quello dichiaratamente teorico, che si intitolava Il movimento nazional socialista. Il primo volume (Resoconto), più autobiografico, apparve sempre con Bompiani nel 1938. L’editore Kaos ristampa ora entrambi i volumi, a cura di Giorgio Galli, che ha scritto anche un’ampia introduzione (con una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, associazione nazionale ex deportati).
Professor Galli, la prima domanda nasce dal disagio: il disagio, persino materiale di fronte a un oggetto come un libro, di chi ha sempre visto in «Mein Kampf» uno dei simboli della barbarie nazista. Un libro respinto dalla nostra coscienza. Perchè ristamparlo?
«Intanto perchè in una società aperta non dovrebbero esistere tabù. Poi perchè Mein Kampf non è mai scomparso: ne sono circolati estratti in una chiara logica apologetica e si sa che una cosa proibita esercita sempre una certa attrazione. Questa riedizione ha un dunque un senso: non accettare i tabù e offrire un testo storicamente collocato, un testo che può illuminare la figura di Hitler, che tante ambiguità, tante rimozioni e persino le censure possono avvolgere di un fascino sinistro... Proprio sere fa in un programma televisivo, padre Amorth, il prete esorcista del Vaticano, trattava Hitler al pari di un indemoniato. L’oscurità può sedurre: una indagine ha catalogato centocinquanta siti internet ispirati ad una sorta di mito hitleriano».
L’idea della follia è anche un’idea di alterità. Leggendo invece «Mein Kampf» si dovrebbe capire quanto Hitler viva invece nel solco della cultura del suo tempo?
«Mein Kampf è stato sempre giudicato un prodotto abbastanza singolare, sorprendente, quasi un incidente nei percorsi della storia politica occidentale. Non è vero. Hitler raccoglie idee che vengono da lontano. Mi rifaccio alle tesi di Poliakov e di Mosse. Il razzismo e l’antisemitismo non sono invenzioni di Hitler».
Raul Hilberg, nella «Distruzione degli ebrei d’Europa» (Einaudi), presenta addirittura le tavole comparative tra diritto canonico e misure naziste: dal divieto dei matrimoni misti (Sinodo di Elvira del 306) alla legge per la difesa del sangue e dell’onorabilità tedesca (15 settembre 1935), dalla proibizione per gli ebrei a rivestire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535) alla legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche (7 aprile 1933). Il distintivo di riconoscimento fu inventato dal Concilio Lateranense nel 1215. Scrive Hilberg: i nazisti non hanno rinnegato il passato, hanno costruito sulle vecchie fondamenta...
«Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico è l’approdo di una concezione razziale che affonda nella cultura occidentale. Hitler per esempio utilizza il francese Joseph-Arthur Gobineau e il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze. Ne ricava l’esecrazione per il "meticciato", che avrebbe portato alla degenerazione dell’umanità. Nel Mein Kampf si ritrovano le teorie eugenetiche dello psicologo inglese Francis Galton...».
Erano tutte letture di Hitler?
«Non letture dirette, ma non credo che la cultura di Hitler si limitasse a pochi opuscoli antisemiti. Conosceva Nietzsche e Schopenhauer. Ipotizzo che conoscesse anche Weber: nella concezione che Hitler manifesta del "capo carismatico", che dev’essere confermato dal successo e che è forte di una tradizione, vi è affinità con il pensiero del sociologo. Tra i dirigenti nazisti era popolare Gobineau».
La storiografia revisionista, che come scrive uno studioso che lei cita, Enzo Traverso, tende a espellere i crimini nazisti dalla traiettoria del mondo occidentale, spiegandoli come una reazione alla rivoluzione russa...
«Non fu l’antibolscevismo a indurre Hitler all’invasione dell’Unione Sovietica. L’operazione Barbarossa non fu il risultato di una contrapposizione ideologica, ma di una pretesa di "spazio vitale". Lo si legge appunto nel Mein Kampf: "Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra... quando oggi parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni: consegnando la Russia al bolscevismo, rapì al popolo russo quel ceto di intellettuali che finora ne addusse e garantì l’esistenza statale...".
Come si spiega invece la simpatia per l’Inghilterra. Anche qui fa testo il «Mein Kampf», a proposito di Inghilterra e Italia: «La più grande Potenza mondiale e un giovane Stato nazionale offrirebbero ben altri elementi per una lotta in Europa, rispetto ai putridi cadaveri di Stati ai quali la Germania si alleò nell’ultima guerra».
«Sullo sfondo c’è sempre la missione della razza ariana. Secondo i nazisti da una parte della Manica stavano gli ariani di mare, dall’altra gli ariani di terra».
«Mein Kampf» definisce anche il ruolo dello stato. Che cosa rappresenta per Hitler lo stato?
«Lo stato è uno strumento. Scrive: "Lo stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa...". Hitler ribalta le conclusioni di Gobineau: il meticciato non è irreversibile, l’ariano resiste, lo stato è solo il mezzo per invertire la tendenza alla degenerazione, da qui la politica eugenetica dedotta da Galton, teorizzata nel Mein Kampf, attuata dal Terzo Reich. Nella concezione hitleriana lo Stato non è dunque un oggetto di culto, ma uno strumento al servizio di una razza che si edifica in nazione e costruisce una civiltà».
Altro tema fondamentale del «Mein Kampf» è quello relativo alla concezione della classe politica...
«Di Weber appunto è l’idea del capo carismatico investito di una missione, attorno al quale si forma il primo nucleo dei fedeli e che deve essere confermato dal successo, "la inequivocabile prova del successo visibile, il quale, in fin dei conti darà sempre l’ultima conferma della giustezza di un’azione". I profeti disarmati non contano».
Siamo ancora nella tradizione occidentale?
«Tutti i politici anche i più moderati coltivano l’idea di essere investiti da una missione, coltivano la convinzione di avere un compito di pubblica utilità. Questo Weber lo coglie con lucidità. La storia politica dell’Occidente è costruita da personaggi di questo genere, da Cronwell a Napoleone. Hitler ha aggiunto la dimensione divina: capo politico e sacerdote del nuovo rito. Le sue oceaniche assemblee erano quasi cerimonie liturgiche: la massa dei sottoposti nel buio, la tribuna nella luce, il capo che arriva al culmine della rappresentazione. Non cita ovviamente una religione: Hitler si appella agli dei o a una provvidenza che non è mai la provvidenza cristiana... Hitler scrive: "Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza"».
«Mein Kampf» dunque sintesi della futura politica hitleriana. Singolare che non faccia cenno alle fonti...
«Mein Kampf esprime un progetto compiuto. Gli atti successivi sono rintracciabili in quelle pagine. Il nazismo si affermò sulla base di un disegno preciso e chiuso, al contrario del fascismo che procedette in modo molto più empirico. L’unica teorizzazione del fascismo sta in quella voce dell’enciclopedia Treccani scritta da Gentile e rivista da Mussolini... Per quanto riguarda le fonti, tacendole Hitler rivendicava l’originalità del proprio pensiero».
Non fu solo un progetto però ad assicurare il successo del nazismo... un movimento che fino al 1928 non aveva che il tre per cento dei voti dopo cinque anni andava al potere.
«Non fu l’ideologia ed anche questo smentisce i revisionisti. Furono sei milioni di disoccupati, con i quali il comunismo non aveva nulla a che fare. La crisi tedesca stava tutta all’interno del sistema liberal democratico. La classe politica della repubblica di Weimar si era mostrata incapace, non solo divisa. La soluzione venne da una medicina keynesiana, come quella adottata negli Stati Uniti, proposta a Hitler da Hjalmar Schacht, il presidente della Banca tedesca: investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Il bello è che Schacht aveva presentato lo stesso piano al governo di Weimar, che l’aveva respinto. Fu il primo successo di Hitler: la disoccupazione di massa cancellata. Il "miracolo economico" consentì la seconda performance di Hitler: il riarmo. Nel 1933 la Germania aveva un esercito di centomila uomini, male armati, senza aerei. Nel 1938 la Germania era la prima potenza militare europea».
Mein Kampf, il libro di Hitler torna in vendita: “Meglio, l’ignoranza non aiuta mai. E i tedeschi hanno fatto i conti con la Storia. Non come l’Italia”
di Davide Turrini
Il volume in cui il Führer anticipava l’ideologia dello sterminio antisemita. Ilfatto.it ha intervistato un giornalista (Gad Lerner), un politologo (Piero Ignazi) e uno storico (Gian Enrico Rusconi). E sono tutti d’accordo: è giusto che quelle pagine tornino "libere" di circolare. "Edizione critica come questa ci aiuterà a capire cosa abbiamo imparato in questi 70 anni"
di Davide Turrini *
Duemila pagine, quasi 5mila note a margine, 4mila copie in prima tiratura, e 59 euro come prezzo di copertina. Il Mein Kampf di Adolf Hitler tornerà ufficialmente nelle librerie della Germania dopo 70 anni da gennaio 2016. L’iniziativa della pubblicazione di un edizione “critica” del testo scritto dal dittatore nazista in due volumi, tra il 1924 e il 1926 mentre era detenuto in carcere dopo il fallito Putsch del 1923, e dove venivano delineati i prodromi ideologici dello sterminio antisemita, è stata presa dal prestigioso Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera. Secondo la legge tedesca la scadenza del copyright scatta a 70 anni dalla morte dell’autore (Hitler si suicidò nel bunker di Berlino il 30 aprile 1945).
E’ dal 1946 che il ministero delle Finanze del governo della Baviera detiene i diritti del libro che tra il 1933 e il 1945 aveva registrato 13 milioni di copie vendute. Il Land bavarese ne ha negato la pubblicazione a livello editoriale più volte nel corso dei decenni del dopoguerra, anche se non ha potuto fare nulla rispetto alle copie agiografiche circolate sottobanco in lingua inglese o francese (diverso il caso italiano che ha visto la pubblicazione di un volume “critico” di tutto rispetto edito in Italia da Kaos Edizioni e curato dal politologo Giorgio Galli).
Un’opposizione che però il ministero bavarese non potrà più esercitare per legge dal 31 dicembre 2015. Ed è qui che è entrato in gioco l’Ifz, con un team di validi e preparati storici tedeschi - Christian Hartmann, Thomas Vordermayer, Othmar Plöckinger, Roman Töppel -, a cui era già stata rifiutata a metà anni 1990 la pubblicazione del Mein Kampf dove aver dato alle stampe un volume contenente diversi discorsi hitleriani tenuti tra il 1925 e il 1933. “Il libro di Hitler è già ‘disponibile’ in una varietà di modi. L’obiettivo è quello di decostruire completamente la propaganda in maniera duratura e, quindi, di indebolirne l’ ancora vivo potere simbolico. In questo modo cerchiamo anche di contrastarne un uso improprio ideologico e propagandistica con fini commerciali”, viene spiegato sul sito dell’Istituto Storico di Monaco.
Sono stato di recente a visitare il serissimo istituto tedesco che ha ricevuto l’incarico di questa pubblicazione - racconta spiega Gad Lerner a ilfattoquotidiano.it - Ho parlato con i curatori che hanno molto ben presente la responsabilità che si assumono: l’alternativa è una circolazione clandestina dell’opera in forma apologetica venduta nei mercatini, mentre loro invece con grande senso di responsabilità ne fanno un’edizione critica, soprattutto come strumento di lavoro per studiosi, perfino poco maneggevole, oserei dire dissuasiva, costosissima, sovrastata di note, dove vengono denunciate molte delle falsità storiche contenute”. Secondo quanto spiega il giornalista, gli storici dell’Ifz “hanno avuto un confronto anche aspro con le personalità del mondo ebraico tedesco, che ha vissuto con fatica questa decisione. Però la scelta è stata veramente soppesata e non presa alla leggera. Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato”.
In Germania “grazie ad un’opera di divulgazione storica avvenuta persino in prima serata sulla tv pubblica già dagli anni Novanta ci si è richiamati ad una responsabilità storica collettiva su quanto accaduto col nazismo - continua Lerner - Da questo punto di vista i tedeschi hanno fatto i conti con un buco nero della loro storia in modo ben più consapevole rispetto a quanto l’Italia ha fatto con il fascismo. La classe dirigente italiana ha adottato uno spirito di autoassoluzione e di reticenza culminata nella minimizzazione del ruolo di Mussolini su quegli avvenimenti, come nelle bestialità proferite da Berlusconi al memoriale del Binario 21 nel Giorno della Memoria nel 2013”.
“Era ora”, commenta il politologo Piero Ignazi che si è occupato in parecchi volumi delle origini dell’estrema destra in Europa. “Non sono per la censura dei libri in generale, come comprendo il problema che può vivere la Germania. Ma attenzione, di testi maledetti se ne trovano sempre come ad esempio alcuni di Rousseau che portano ai disastri della Rivoluzione francese. Questi sono documenti che servono per capire ancora meglio ciò che è accaduto. L’ignoranza non aiuta mai. Anche se più complessa e spiacevole è sempre meglio affrontare la realtà dei fatti”. “Dal punto di vista della propaganda partitica dei partiti di destra odierni, a parte qualche folkloristico gruppo neonazista, non c’è più nessuno che si richiama al fascismo storico - continua Ignazi - Anche il Front National per ricevere così tanti consensi ha avuto la capacità con la nuova leadership di distaccarsi dal filo conduttore sottile del passato francese dell’Oas e di Vichy, altrimenti avrebbero fatto la fine del Movimento Sociale Italiano”.
Per lo storico Gian Enrico Rusconi, esperto del Novecento tedesco, il ritorno alla pubblicazione del Mein Kampf “è un segno di maturità questa pubblicazione a cui i miei colleghi di Monaco pensavano da tempo. Non siamo ingenui: copie del Mein Kampf ne giravano da anni. Scientificamente e storicamente il capitolo lo reputo relativamente chiuso, mentre rimane aperto e diffuso un aspetto antropologico-culturale più sottile e presente prima e dopo la pubblicazione di questo libro, perché le radici profonde del volkisch erano già vive prima di Hitler”.
Quindi secondo Rusconi questo testo non va letto “in maniera deterministica”. La “radicalizzazione sterminatoria”, aggiunge, è un processo “che avviene lentamente in una cultura che ha trovato l’espressione di Hitler per realizzarla e che adesso magari trova altre scorciatoie dove incanalarsi.
Se non fossimo in questo clima xenofobo, dell’ostilità verso lo straniero, legato alle ondate migratorie dal Medio Oriente, non ne parleremmo neanche. Semmai cogliamo l’occasione della pubblicazione di un’edizione critica del Mein Kampf come questa per capire, paradossalmente, quali sono le forme con cui oggi si manifesta questo sentimento radicale di appartenenza nazionale e di patria, e cosa abbiamo imparato in questi 70 anni”.
A un anno dalla strage
Ma Charlie è blasfemo?
di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani
(Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.01.2016)
Un anno dopo la strage, la copertina di Charlie Hebdo mostra l’immagine del carnefice: è Dio con il mitra in spalla, che ancora fugge con l’abito insanguinato. Questa è un’immagine blasfema? E, se blasfema, è illecita? Sicuramente aiuta ad avere gli strumenti per deciderlo un bel libro curato da Alberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, fresco di stampa per il Mulino. È un confronto tra storici, teologi, filosofi e giuristi sul tema della parola che offende il sacro: si va dall’evoluzione del concetto di blasfemia, al racconto di episodi di vilipendi storici - con qualche esempio in forma di immagine - e di persecuzioni, fino al tentativo di definire i limiti dell’intervento statale nella punizione. Il volume mantiene quel che Melloni promette nell’introduzione, ovvero «fornire [...] conoscenze giuridiche, politiche, storiche e teologiche che servano a comprendere e giudicare fatti, atti, ragioni, sfondi - incluso quello ambivalente della “blasfemia”».
Dai saggi non emerge una risposta univoca, anzi le posizioni sono diverse e a volte in contrasto tra loro. Ciò non ci pare discendere soltanto dalle credenze personali ma anche dalle differenti prospettive delle scienze di cui gli autori sono esponenti. Gli studiosi della società - antica o contemporanea - hanno un’ottica che consente di affermare l’inopportunità e financo la pericolosità di alcune espressioni oltraggiose, specie in alcuni passaggi storici o in contesti culturalmente non omogenei, con diversi gradi di tolleranza all’irrisione.
Il giurista, invece, lo evidenzia bene Giancarlo Bosetti, sembra avere una via maestra: quella di riconoscere che il diritto a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi debba passare attraverso una porta stretta. Il poco spazio che gli ordinamenti liberali possono riservare ai reati a presidio delle fedi deriva dalla constatazione che le religioni sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica. E come ogni altro potere, esse meritano, con le parole di Rushdie citate da Mauro Gatti, «le critiche, la satira e tutta la nostra impavida irriverenza».
Del resto, in una società laica, le convinzioni religiose non hanno maggiore dignità e valore rispetto a quelle filosofiche, politiche o di altro genere. E quindi, come nessuno può invocare la forza dello Stato per offese a una propria qualunque ideologia, analogamente, in una società davvero aperta, i fedeli non hanno strumenti giuridici per opporsi alla critica, anche feroce o irrisoria, alle religioni, soprattutto quando queste non si curano solo d’anime.
A conferma di ciò, non è certo un caso che in Europa negli ultimi decenni le leggi che puniscono la blasfemia siano sempre meno e sempre meno applicate. E pure negli Stati Uniti, ove nel Primo Emendamento sono incise una accanto all’altra la neutralità nei confronti delle religioni e la libertà di parola, già negli anni ’50 la Corte Suprema ha stabilito che «lo Stato non ha alcun legittimo interesse a proteggere una qualsiasi religione, o tutte le religioni da espressioni a loro sgradite», come ricorda ancora Gatti.
La violenza contro Charlie ha mutato il clima e ha fatto sostenere a taluno, forse per un principio di prudenza, che vietare l’offesa alla religione fosse una buona soluzione.
Al contrario, grazie anche alla lettura del libro, a noi piace ancora un legislatore che rinuncia a usare lo strumento penale contro il blasfemo, invece di cercargli «l’anima a forza di botte», come nella Spoon River di De Andrè.
UN BLASFEMO (DIETRO OGNI BLASFEMO C’E’ UN GIARDINO INCANTATO)
Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male.
Quando vide che l’uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
... mi cercarono l’anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
* FONTE: VIA DEL CAMPO - Testi NON AL DENARO NON ALL’AMORE...
Charlie Hebdo un anno dopo, la copertina con Dio insaguinato: “L’assassino è sempre in fuga”
Il giornale satirico uscirà nelle edicole nel giorno dell’anniversario della strage che ha decimato la redazione: in prima pagina l’immagine di un Dio con i vestiti sporchi di sangue. La Conferenza episcopale francese: "Non commentiamo chi cerca solo di provocare"
di F. Q. | 4 gennaio 2016 *
Un Dio con i vestiti sporchi di sangue e un kalashnikov sulle spalle. A fianco il titolo “l’assassino è sempre in fuga”. E’ questa la copertina del numero speciale del giornale satirico Charlie Hebdo che sarà pubblicato un anno dopo l’attentato terrorista che ha decimato la redazione facendo 12 mortie quasi due mesi dopo le stragi del 13 novembre. La decisione della redazione ha subito provocato numerose polemiche. “La Conferenza episcopale francese”, hanno scritto i vescovi in un Tweet, “non commenta chi cerca solo di provocare. E’ il genere di polemiche di cui la Francia ha bisogno?”.
Riss, il charlie hebdodirettore che fu gravemente ferito nell’attacco del sette gennaio scorso, firma inoltre un duro editoriale, che sarà pubblicato nella rivista in uscita, in difesa della laicità dove attacca “i fanatici abbrutiti dal Corano” e i “baciapile di altre religioni” che auspicavano la morte del giornale per aver “osato ridere della religione”. “Le convinzioni degli atei e dei laici possono spostare più montagne delle fede dei credenti”, aggiunge Laurent Sourisseau, meglio noto come Riss.
Sul numero straordinario, che avrà una tiratura di un milione di copie e sarà diffuso anche all’estero, compaiono disegni dei vignettisti uccisi: Cabu, Wolinski, Charb, Tignous e Honoré. Vi sono inoltre contributi esterni del ministro della Cultura Fleur Pellerin, delle attrici francesi Isabelle Adjani, Charlotte Gainsbourg e Juliette Binoche, oltre a intellettuali come la francese Élisabeth Badinter, la scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen, l’americano Russell Banks e il musicista Ibrahim Maalouf.
Dopo una serie di commemorazioni di basso profilo nel corso di questa settimana, la Francia organizzerà una grande cerimonia in ricordo delle 17 vittime alla redazione di Charlie Hebdo e negli attacchi immediatamente successivi di un anno fa, tra il 7 e il 9 gennaio 2015. L’appuntamento è a Place de la République, luogo simbolo della capitale francese che ha già ospitato grandi manifestazioni.
La storia della geometria non euclidea tra le intuizioni di Beltrami e i dubbi di un certo ingegner Dostoevskij
Quando Escher conobbe quelle teorie realizzò i suoi disegni più celebri
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.11.2015) *
Nella seconda parte dei “Fratelli Karamazov” Ivan e Alioscia hanno una lunga conversazione teologica in trattoria, nel corso della quale il primo se ne esce sorprendentemente con queste parole: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la Terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono pure ora, geometri e filosofi, anche fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più in generale tutto l’universo, siano stati creati secondo la geometria euclidea. E s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla Terra, potrebbero anche incontrarsi prima o poi nell’infinito».
La sorpresa però svanisce quando si tiene conto di due fatti. Anzitutto, che Dostoevskij era un ingegnere, laureatosi nel 1843 all’Università Politecnica Militare di San Pietroburgo. E poi, che la geometria non-euclidea alla quale egli alludeva nel 1879 era un’invenzione russa del 1829, diventata nel frattempo di dominio pubblico in tutta l’Europa, e certo non dimenticata nel suo paese.
In realtà, fin dagli inizi dell’Ottocento i tempi erano ormai maturi per la scoperta o l’invenzione della geometria non-euclidea: una geometria, cioè, in cui «per un punto fuori di una retta passa più di una parallela alla retta data », invece che una sola come nella geometria euclidea. E, come spesso accade in matematica, quando i tempi sono ormai maturi se ne accorge più di una persona, e non una sola. Ma per la storia conta la prima che, oltre ad accorgersene, lo fa sapere al resto del mondo.
Nel caso della geometria non-euclidea questa persona fu appunto un russo di nome Nikolaj Lobachevskij, che nel 1826 tenne all’università di Kazan, oltre gli Urali, un’Esposizione succinta dei princìpi della geometria, con una dimostrazione rigorosa del teorema delle parallele.
Quasi un millennio prima un altro letterato, più sensibile alla matematica dell’ingegner Dostoevskij, era già stato attratto dalla possibilità di una geometria non-euclidea. Si trattava del poeta persiano Omar Khayyam, autore delle famose Rubaiyat, “Quartine”, che l’Occidente venne a conoscere soltanto nell’Ottocento, in una libera e popolare traduzione inglese di Edward Fitzgerald.
Khayyam intravide l’esistenza di tre tipi di geometrie, distinte tra loro dal fatto che le parallele a una retta data passanti per un punto fuori di essa sono rispettivamente nessuna, una o più. O, se si preferisce, dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettivamente maggiore, uguale o minore di 180 gradi. La seconda geometria, quella intermedia in cui c’è una sola parallela e la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180 gradi, è ovviamente la geometria piana studiata ancor oggi nelle scuole.
La prima, quella in cui non c’è nessuna parallela e la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180 gradi, è la geometria sferica. Le sue rette sono i meridiani, analoghi a quelli così chiamati sulla sfera terrestre. E poiché due meridiani si incontrano sempre in due poli opposti, non possono appunto mai essere paralleli. Il problema è capire come raffigurarsi la terza geometria, quella in cui ci sono più parallele e la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. Lobachevskij ne aveva descritte le proprietà, ma c’era il rischio che si trattasse della descrizione di un mondo puramente immaginario, senza nessun modello reale. Il primo a capire come raffigurarsela in termini concretamente visualizzabili fu Eugenio Beltrami nel 1868, nel suo Saggio di interpretazione della geometria non- euclidea.
L’idea era che bisognava trovare qualcosa che fosse l’analogo, uguale e contrario, della sfera. Beltrami lo individuò in quella che egli chiamò pseudosfera: una strana superficie che in ogni punto aveva la stessa curvatura negativa, esattamente come la sfera in ogni punto ha la stessa curvatura positiva. E ne costruì a mano alcuni modelli, chiamati da un giornale satirico dell’epoca “cuffie della nonna”, a causa del loro aspetto ondulato come i bordi dei cappelli da notte di pizzo di una volta.
Ad esempio, era noto fin dall’antichità che il piano si può pavimentare con piastrelle triangolari regolari, raggruppate sei a sei attorno ai vertici. I pitagorici avevano scoperto che se si raggruppano invece i triangoli cinque a cinque, si ottiene una superficie che si chiude su se stessa, e diventa un solido regolare chiamato icosaedro, così chiamato perché ha venti facce triangolari, che approssima una sfera. Beltrami capì che un’analoga approssimazione della pseudosfera si poteva ottenere raggruppando invece i triangoli sette a sette.
In seguito si è scoperto che queste cose esistono già bell’e fatte in natura. Molti organismi biologici, soprattutto marini, esibiscono infatti una geometria non-euclidea, dalle alghe kelp ai nudibranchi, e così fanno le foglie di lattuga e di cavolo nero. Ma proprio a causa dei loro tipici bordi ondulati, questi modelli non si possono distendere perfettamente sul piano. Beltrami inventò dunque altri modelli piani, mettendo le piastrelle della pavimentazione dentro un cerchio, e facendole diventare sempre più piccole man mano che si avvicinano al bordo, in modo da farcene stare infinite.
Oggi questi modelli sono diventati famosi perché al Congresso Internazionale dei Matematici del 1954, che si tenne ad Amsterdam, il grafico Maurits Cornelis Escher ne venne a conoscenza e se ne innamorò. Dedicò dunque quattro opere ai Limiti del cerchio, la terza delle quali viene considerata la più bella raffigurazione del piano non-euclideo prefigurato dal persiano Khayyam, scoperto o inventato dal russo Lobachevskij, modellato dall’italiano Beltrami e rappresentato dall’olandese Escher, in un lavoro collettivo e millenario tipico delle imprese matematiche e scientifiche.
* LA CONFERENZA Piergiorgio Odifreddi oggi sarà tra i relatori della conferenza “Dalla Neva alle Alpi: avventure del pensiero matematico che scorrono attraverso la Scienza, l’Arte e la Musica”, organizzata a San Pietroburgo nel Consolato Generale d’Italia. La sua lezione si concentrerà sulla figura di Eugenio Beltrami
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi(la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
"DIO E’ SPIRITO": MA QUALE SPIRITO?!:
Cercando il vero Dio in un’immagine
Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 04.10.2015)
Rappresentare il creatore biblico è sempre stata la principale sfida nella storia dell’arte occidentale Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio? Credo sia sufficiente percorrere in senso cronologico un museo per rendersi conto del declino, per non dire tracollo, dell’arte sacra in occidente. All’inizio nei secoli medievali quasi ogni dipinto è una raffigurazione religiosa, poi con l’avvento del rinascimento compaiono anche soggetti profani, ma la religione rimane ancora la protagonista indiscussa: impossibile pensare Raffaello, Michelangelo o Caravaggio senza i loro soggetti religiosi.
Il Settecento con l’illuminismo segna la svolta, così che, anche quando l’interesse per la religione si ravviva con il romanticismo, l’iconografia tradizionale ormai non sa più parlare al sentimento contemporaneo e i tentativi di rivitalizzarla producono solo opere artificiali, in modo analogo alla neoscolastica nel campo del pensiero. Osservava in quegli anni Oscar Wilde: «Ogni imitazione, nella morale come nella vita, è errata». Quando poi la visita al museo ci avrà condotto alle sale del Novecento e della contemporaneità, i soggetti religiosi appariranno delle eccezioni.
Ma il punto è che anche l’arte sacra guidata dalle migliori intenzioni non raffigura quasi più i soggetti dove più risplende la gloria del divino, come Dio Padre o la Trinità. Ci si concentra quasi solo su Cristo, ma insistendo sulla sua dimensione umana, non su quella divina: Cristo è colui che soffre e che muore, non più il Pantokrator che domina il mondo come nella cattedrale di Monreale o nel duomo di Cefalù. Perché? Perché le immagini religiose di un tempo oggi appaiono estremamente improbabili nel loro comunicare Dio. Anzi, proprio mentre pretendono di rappresentare al sommo grado la gloria del divino dipingendo Dio Padre con il triangolo luminoso sulla testa, ne sono palesemente lontane. Fanno venire in mente il titolo di un celebre saggio teologico di John Robinson del 1963: Dio non è così.
Il punto è che “Dio è spirito”, come dice il vangelo (Giovanni 4,24) e come sostengono i grandi pensatori che hanno seriamente riflettuto al riguardo tra cui Platone, Aristotele, Origene, Agostino, Maimonide, Tommaso d’Aquino, Cusano, Hegel, e non è per nulla semplice, anzi è sostanzialmente impossibile, raffigurare lo spirito. Per questo osservava Montaigne: «È difficile portare le cose divine sulla nostra bilancia, senza che esse non ne soffrano un calo». Da qui l’implausibilità di tutte le opere artistiche che, a dispetto di ciò, cercano di rappresentare Dio.
Eppure il cristianesimo gioca gran parte del suo destino nell’impresa estetico-teologica. Esso infatti è la religione del Dio resosi visibile in forma umana e per questo, a differenza dell’ebraismo e dell’islam, ha sempre creduto nella possibilità di rappresentare il divino. Anche quando la Riforma protestante diede avvio a una sistematica distruzione delle immagini religiose, il cattolicesimo non smise mai di incoraggiare l’immaginazione artistica: nel nord Europa si distruggevano le immagini sacre, da noi Michelangelo dipingeva il Giudizio universale!
Nella capacità di tornare a esprimere in modo credibile la gloria del divino si determina in non piccola parte il futuro del cattolicesimo: se tornerà cioè a saper incidere nell’anima contemporanea, non solo in senso etico spingendola a essere buona, ma prima ancora in senso estetico, affascinandola per la sua bellezza e per la sua gloria. Il guaio è che ben pochi tra le gerarchie ecclesiastiche sembrano rendersi conto di tutto ciò.
SCHOPENHAUER E LEOPARDI
di Francesco De Sanctis
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Lo scritto di De Sanctis è certamente tra i primi lavori dedicati alla interpretazione di Schopenhauer, ed è indubbiamente unico, nel panorama delle reazioni filosofiche italiane a tale pensatore, non solo per la sua tempestività in ordine di tempo, ma proprio per il valore dell’interpretazione ivi presentata del filosofo tedesco, il quale era sugli allori, dopo il tardo successo del suo pensiero, avvenuto, finalmente, dopo l’uscita del suo scritto Parerga e Paralipomena, nel 1851.
Pubblicato nel dicembre 1858 sulla Rivista contemporanea, anche dal punto di vista strettamente letterario è «uno dei suoi saggi più geniali» (Muscetta), proprio per l’effetto concreto che ottiene, sotto l’apparente espressione di adesione e consenso al pensiero schopenhaueriano: ossia una effettiva spietata "liquidazione" della sua filosofia, a fianco di una altrettanto aperta rivalutazione del significato "progressivo" del "nichilismo" leopardiano.