[...] Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in servitori. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il dominus assoluto» [...]
[...] Chierichetti dunque, e ancora subalterni a una prospettiva strumentale di selezione del clero. L’ipotesi dell’ordinazione della donna, già acquisita nella Comunione anglicana, continua a essere rifiutata dalla Chiesa cattolica [...]
"Ministri ridotti a servitori del capo"
di Orazio La Rocca (la Repubblica, 4.08.2010)
«Ministri e politici ridotti a servitori e a semplici esecutori dei voleri del capo». Nuovo severo richiamo del settimanale Famiglia Cristiana. Nel prossimo numero in edicola, il settimanale dei Paolini - in un editoriale dedicato alla frattura tra Fini e Berlusconi - traccia un quadro a tinte foschi dell’attuale quadro politico, parlando di «disastro etico» e di una situazione socio-politica «drammatica che è sotto gli occhi di tutti». Parole di condanna inequivocabili subito apprezzate dagli esponenti dell’opposizione di centro sinistra, ma contro le quali sono subito scesi in campo i ministri Bondi e Rotondi.
«Nel nostro Paese, in un anno, - si legge nell’editoriale - l’evasione fiscale sottrae all’erario 156 miliardi di euro, le mafie fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione brucia altri 50 miliardi, se non di più». Questo per Famiglia Cristiana «vuol dire che il male non riguarda solo il ceto politico. Ha tracimato, colpendo l’intera società. Prevale la morale fai da te: è bene solo quello che conviene a me, al mio gruppo, ai miei affiliati. Il bene comune è uscito di scena, espressione ormai desueta. La stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienza».
«C’è, anche ad alti livelli, un’allergia alla legalità e al rispetto delle norme democratiche che regolano la convivenza civile. Lo sbandierato garantismo, soprattutto a favore dei potenti - prosegue Famiglia Cristiana -, è troppo spesso pretesa di impunità totale. Nonostante la gravità delle imputazioni. L’appello alla legittimazione del voto popolare non è lasciapassare all’illegalità. Ci si accanisce, invece, contro chi invoca più rispetto delle regole e degli interessi generali. Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in servitori. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il dominus assoluto».
Parole inequivocabili in perfetta sintonia con analoghe critiche formulate, appena sabato scorso, anche dalla Radio Vaticana che, in un servizio dedicato alla situazione italiana, aveva parlato di «un paese privo di una classe dirigente adeguata». Tesi fatta totalmente propria da Famiglia Cristiana.
Subito presa di mira dal ministro della Cultura Sandro Bondi che si dice «sorpreso della presa di posizione del settimanale per la mancanza di una riflessione critica che riguardi anche il ruolo che la Chiesa ha svolto in questi ultimi decenni nel contribuire alla formazione di una nuova classe dirigente nazionale. Ma ho la sensazione - aggiunge Bondi - che certi giudizi, tanto più se manifestati con particolare virulenza politica, nascondano un vuoto di analisi culturale sia sul ruolo della Chiesa che del futuro dell’Italia».
Critiche anche da un altro ministro, Gianfranco Rotondi, secondo il quale «il settimanale insulto di Famiglia Cristiana al governo è un pregiudizio e un atto di arroganza che la mette fuori dalla dottrina sociale cristiana. Un giornale cristiano non può chiamare i ministri con disprezzo servitori, perché un cristiano non usa questo linguaggio né con gli ultimi né con i primi».
Applausi invece dal centro sinistra. Per Enrico Farinone (Pd), vicepresidente della commissione Affari europei, non c’è «nessuna sorpresa in merito a quanto rileva Famiglia Cristiana. Succede quando si hanno partiti lideristici, in cui la politica non ha un ruolo. Quando la mediazione politica è nulla, quando il radicamento e il contatto col territorio vengono considerati secondari allora succede quanto descrive Famiglia Cristiana. Nessuno si sorprenda». Come pure il senatore Pd Roberto Di Giovan Paolo, che vede nell’editoriale «la fotografia della realtà» con «un premier monarca e un esecutivo sotto ricatto dalla Lega. I ministri non se l’abbiano a male. Peccato che in pochi abbiano un sussulto di dignità».
Il potere dei chierichetti
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 4.08. 2010)
I chierichetti avranno anche le "vie pericolose" del film di Peter Care sugli "altar boys", ma si farebbe torto alla loro storia a ridurli ai ragazzetti che strimpellano il campanello ai piedi dell’altare nella fase culminante della messa, dimenano il turibolo, spostano il messale da un corno all’altro e porgono al prete le ampolline. Intanto non sono più solo i "piccoli chierici", allevati ai misteri dell’altare, sono anche degli adulti della comunità cristiana che accettano di fare questo servizio, una corrente particolarmente solida nelle chiese di tradizione francese e anglosassone.
Poi a partire dal Concilio Vaticano II hanno cominciato a ridefinire la loro identità di "ministranti", sostituendo quella clericale di "piccoli chierici". Un inizio che sembrava promettente, a chi cercava di cogliere nella loro presenza una simbolica delega ministeriale dell’intera comunità cristiana riunita intorno all’altare a celebrare i misteri.
È fuori dubbio che Roma abbia puntato sui bambini per questo servizio. Nella storia della pietà sono stati i chierichetti a rompere l’isolamento devozionistico con cui la pietà barocca aveva distanziato gli Ostensori d’oro dalla cultura del popolo. Nella seconda metà del XVIII secolo parte quel vasto movimento liturgico che mira a riscoprire i legami tra la Chiesa e l’eucarestia e a valorizzare il senso dell’assemblea liturgica.
L’altare cessa di essere un monopolio del prete, che mormora le formule rituali mentre la gente sgrana il rosario. La messa comincia a non essere più solo spettacolo sacro, senza partecipazione attiva dei fedeli. Solo il celebrante allora si comunicava, a volte assistito da un’unica persona, quella che gli serviva la messa.
Il pontificato di Pio X decide di anticipare l’età auspicabile per la prima comunione a sette anni. Di più, il culto eucaristico diventa movimento, grazie al fatto che viene preferita la celebrazione collettiva all’incontro individuale.
Il Congresso eucaristico mondiale di Lourdes nel 1914, il primo che coinvolga l’intera cattolicità, lancia la crociata eucaristica internazionale dei giovani. Fanno la loro comparsa le Leghe eucaristiche per bambini. La prima guerra mondiale potenzia il movimento destinato ai bambini che vengono fatti pregare davanti all’ostia per la salvaguardia dei loro familiari e per la pace. Grazie allo zelo degli animatori e al sostegno del Vaticano, specialmente tangibile sotto Pio XII, la crociata eucaristica raggiunge verso il 1950 molte centinaia di migliaia di bambini.
È l’immensa platea organizzata da cui la Chiesa recluta e forma con particolari modalità di catechesi i ministranti. Essi sono incaricati di rappresentare la linea di ricucitura della frattura tra il prete che celebra e il fedele passivo che si limita ad assistere. Su quella cerniera si è riverberata anche la questione della partecipazione della donna al servizio dell’altare. La questione delle "chierichette" ha fatto irruzione già verso la fine del Novecento negli attriti tra Santa Sede e alcune Conferenze episcopali nazionali, tra le quali quella degli Stati Uniti.
Nel 1992 il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi risolse positivamente il dubbio se "tra le funzioni liturgiche che i laici, uomini e donne, possono esercitare si può includere anche il servizio all’altare". Nel luglio di quello stesso anno Giovanni Paolo II confermava tale decisione e ne ordinava la promulgazione.
Ma poiché la presenza delle ragazze tra i ministranti continuava a suscitare dissensi tra i vescovi, interveniva nel 1994 la Congregazione per il Culto Divino la quale con una lettera firmata dal cardinale Javierre Ortas confermava il via libera alle chierichette, sotto la responsabilità di ogni singolo vescovo, ma coglieva l’occasione per ricordare che "sarà sempre molto opportuno di seguire la nobile tradizione del servizio all’altare da parte dei ragazzi". E quale la ragione invocata? "Come è noto, ciò ha permesso uno sviluppo consolante delle vocazioni sacerdotali".
Chierichetti dunque, e ancora subalterni a una prospettiva strumentale di selezione del clero. L’ipotesi dell’ordinazione della donna, già acquisita nella Comunione anglicana, continua a essere rifiutata dalla Chiesa cattolica. Di fatto, un’evoluzione è visibile: le donne provvedono in un numero crescente di comunità alle assemblee di preghiera, alla distribuzione dell’eucarestia come ministre straordinarie, a svolgere funzioni liturgiche ministeriali, a leggere i testi biblici nella messa.
Se tutto questo fa cadere l’ancestrale tabù dell’impurità sacrale della donna, resta pervicace lo stereotipo sulle chierichette. Al punto che di nuovo la Congregazione per il Culto Divino è dovuta intervenire nel 2001, sulla "eventuale ammissione di fanciulle, donne adulte e religiose come ministranti nella liturgia". E la risposta è stata: ogni vescovo "ha l’autorità di consentire il servizio delle donne all’altare, nell’ambito del territorio affidato alla sua guida". Comunque, in nessun caso tale autorizzazione può escludere gli uomini e in particolare i fanciulli né obbligare i preti a ricorrere a ministranti di sesso femminile.
In ogni caso Roma raccomanda che l’innovazione venga spiegata chiaramente ai fedeli. Il sogno luterano del "sacerdozio comune dei fedeli" - ripreso anche dal Vaticano II - deve limitarsi per ora a camminare con i piedi dei chierichetti. E con prudenza anche delle chierichette.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
Famiglia cristiana e il miracolo delle lingue
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 2 settembre 2010)
Una critica delle nequizie del dispotismo politico, come quella di Famiglia Cristiana, sarebbe difficile da comprendere fuori di un approccio profetico, cioè sulla sola linea in cui la Chiesa può prendere seriamente le distanze dalle logiche del mondo in ragione della propria identità spirituale.
È l’opposto della "pornografia mediatica", l’ingiuria lanciata sul settimanale del cattolicesimo popolare in Italia da tecnici del porno di Stato e da scienziati della denigrazione politica. Il compito profetico è una delle prerogative battesimali del "popolo di Dio". Ha spinto in ogni tempo i cristiani all’obiezione agli idoli imperiali, dai Cesari a Hitler, al fascismo e al comunismo, negli anni più vicini anche al neo-liberismo predatorio e alle Rupi Tarpee di Stato contro gli immigrati e i Rom. È distinto dal potere sacerdotale, e non a caso la Chiesa delle curie, per mestiere prudente, tende a dissociarsene, come hanno dimostrato ora le frettolose squalifiche erogate dal cardinale Scola e da monsignor Fisichella sull’anticonformismo di FC, piuttosto che sugli spericolati connubi di Cl e dei Legionari con i ceti al comando.
Il vero scandalo, tuttavia, è che la libertà di una testata cattolica abbia fatto scandalo. Almeno dalla gerarchia cattolica si avrebbe il diritto di attendersi che sappia che il diritto di opinione pubblica fa parte dello statuto della Chiesa (Pio XII) ed è sancito dal Codice di diritto canonico, che, oltre a legittimare l’autonomia politica dei fedeli, difende al canone 212 il diritto-dovere dei fedeli di «manifestare liberamente la propria opinione sulle cose che riguardano il bene della Chiesa ai Pastori e renderla nota agli altri fedeli». Si ha l’impressione che un riflesso autoritario produca in alcuni un tale timore della libertà dello Spirito che il solo sospetto che qualche fiammella scenda sulla testa di qualche cristiano basti a scatenare la voglia di chiamare d’urgenza i vigili del Fuoco per stroncare la nuova Pentecoste e il miracolo delle lingue, cioè della libertà, da cui la Chiesa era sorta.
Una visione gregaria della comunità ecclesiale ripugna anche a Ratzinger, di cui torna pertinente un testo del 1971 : «La vera obbedienza non è quella degli adulatori, chiamati falsi profeti dalla profezia genuina dell’Antico Testamento. Non è di quelli che evitano ogni ostacolo e urto, che pongono al di sopra di tutto la garanzia della propria comodità. Ciò che manca alla Chiesa di oggi (e di tutti i tempi) non sono i panegiristi dell’ordine costituito, ma gli uomini nei quali l’umiltà e l’ubbidienza non sono minori della passione per la verità, gli uomini che danno testimonianza nonostante ogni possibile travisamento ed attacco, gli uomini in una parola che amano la Chiesa più della comodità e della tranquillità del proprio destino».
FC non è sola a vivere di questa passione. Essa è parte di una multiforme realtà, una vasta rete di riviste, settimanali diocesani, agenzie d’informazione, testate missionarie, siti e fogli di ordini e congregazioni religiose, di associazioni e movimenti, prestigiosi quindicinali e mensili culturali diffusi capillarmente e radicati nel territorio. Insieme informano, educano, narrano il mondo alla Chiesa e la Chiesa al mondo. Spesso trivellano i sottosuoli della fede cristiana, per portare in superficie le facce della Terra più violentate e più oscurate, ma anche quei pezzi di realtà ecclesiale meno visibili che vivono il disagio di una Chiesa che mette all’asta la sua primogenitura per un piatto di lenticchie concordatario. L’obiettivo è la promozione di una cultura dei valori senza i quali, diceva Wojtyla, «la democrazia si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia». Sulla stessa linea Benedetto XVI nella enciclica «Deus caritas est» impegnava la Chiesa a offrire attraverso la formazione etica un contributo specifico, «affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili». È l’ispirazione di fondo cui attingono le testate cattoliche quando, come i campanili di fronte alle catastrofi, lanciano l’allarme al popolo sul pericolo che stiamo per diventare un paese razzista e che un paese razzista non è e non può dirsi un paese cristiano.
Colossale dunque l’abbaglio di quanti, di fronte all’indipendenza delle scelte politiche di FC, hanno tentato l’operazione di separarla dalla Chiesa gerarchica. Tanto più se si pondera il dato che il suo editore - la Congregazione dei Paolini - oltre all’autorità propria, ha la responsabilità di intrattenere con Papa Ratzinger vincoli così personali, avendone pubblicato libri, articoli e interviste rimaste nella storia, da rendere meritevoli di speciale attenzione le opzioni ecclesiali di questa multinazionale cattolica dei media.
Piuttosto il fianco più inquietante del paradosso - e motivo di crescente preoccupazione per i capi della Chiesa -, è che il suo pensiero sociale, malgrado gli sforzi dei media cattolici, stenta a trasformarsi in parte costituiva e direttiva della cultura del mondo cattolico. Molti campanili suonano per la Lega, e magari vendono le testate cattoliche critiche alle porte delle chiese. Lavorata dal frastuono di fondo dei talk-show si espande anche tra i fedeli la stanchezza del pensare in grande e del pensare sociale e politico, un certo disagio col pluralismo, con la critica e con le mediazioni, la voglia di delegare la coscienza e gli affari del gregge ai capi, bravi a pensare per tutti.
In questo scenario si consuma la parabola di un movimento come Cl, partito dalla critica alla cultura della mediazione di Scoppola, Lazzati e Carlo Maria Martini, per la salvaguardia integrale dell’identità cristiana, e finito cavalcando l’autonomia delle scelte politiche dei cattolici e le mediazioni anche più pragmatiche e ciniche per non scottarsi le dita relativistiche con le esigenze dei principi e dissociarsi dalle pressioni "profetiche" del cattolicesimo rappresentato da FC.
Nella Bibbia si racconta l’alternanza del mormorio critico e della rassegnazione servile agli idoli nella storia del popolo ebraico. Nel mondo cattolico italiano coabitano allo stesso tempo il mormorare e lo scodinzolare. Ma sono universi che di fatto non comunicano, anzi si vanno polarizzando
BENEDETTO XVI ("Deus caritas est", 2006). Così "il Dio del denaro" inganna Papa Ratzinger, e Papa Ratzinger inganna gli uomini.
«La festa della Gloriosa Asinità vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi»
di LAURA PARIANI (Avvenire, 05.08.2010) *
I giunchi degli stagni frigi cantavano: «Re Mida ha le orecchie d’asino». Il vento ne acchiappò la voce e propagò la notizia tra i boschi di olivi e di mandorli dolci, nei giardini di rose che emanavano la loro fragranza sotto la stella luminosa della sera. Per tutto il paese ormai non c’era persona che non sapesse il motivo per cui re Mida in pubblico si mostrasse sempre con un copricapo frigio dalle alte punte.
«Il re ha le orecchie d’asino» dicevano le serve nei mercati, mentre riempivano i panieri di focacce con le olive; e ridacchiavano pensando alle orecchie d’asino che i maestri mettono in testa agli scolari che difettano di comprendonio. «Re Mida è un asino» ghignavano i vecchi seduti all’ombra del grande fico della piazza, scuotendo il capo perché mettersi contro un dio potente come Apollo era stata proprio un’asinata che poteva meritare solo quella punizione.
E qualcuno si azzardava perfino a dire che pure quel tal barbiere, che non era riuscito a tenere il segreto per sé e aveva pensato di liberarsene scavando una buca e confidando alla sua profondità la verità scoperta sulla testa del re Mida, era stato un campione di asineria, per cui giustamente aveva pagato con la morte il poco senno.
«La gente ride di me, hi ha hi ha ...» ripeteva disperato re Mida nel chiuso delle sue lussuose stanze, agitando invano gli aliossi per cacciare i cattivi pensieri. I lacrimatoi d’oro massiccio traboccavano dei suoi pianti. Finché, una notte di mezzaluna, gli venne un’ispirazione... Di buon mattino mandò a chiamare il capo della società mercantile, il sommo sacerdote, la tenutaria del bordello più famoso e il comandante delle sue guardie. La riunione con i quattro personaggi gli portò via molte ore, ma al sopraggiungere della sera gli occhi di re Mida brillavano di una fredda luce di vendetta.
«Popolo mio» disse quella notte affacciandosi al buio dal suo balcone, «ricordati che di un re, hi ha hi ha, non si ride». L’indomani mattina nel tempio, all’ora in cui i fedeli erano intenti alle loro preghiere offrendo alle divinità crateri di vino, giare di latte e corone di rose, il sommo sacerdote tenne ai devoti questo discorso: «Lunga vita a re Mida che onora il tempio con la sua protezione, nonché con offerte di cera vergine e di arredi preziosi».
E, nel dire questo, mostrò gli anelloni d’oro che il re aveva quel mattino stesso inviato perché reggessero intorno all’ara sacra le grandi torce di pino. «Re Mida ha le orecchie d’asino. E questo è un prodigio da vantare, non da tenere nascosto. Sappiamo tutti quanto il cane sia adulatore, il gatto infido, il lupo crudele, la volpe opportunista, la colomba lasciva, il leone prepotente. Ben venga dunque la testa coronata dell’asino, animale mite e contemplativo... Con ciò arrivo a auspicare che tutti gli uomini pii dovrebbero porsi l’obiettivo di varcare la santa soglia dell’asinità. Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Un’ora dopo, mentre i soldati effettuavano il cambio della guardia davanti al palazzo reale, il comandante della guarnigione fece suonare le trombe d’oro e lesse personalmente un proclama alla folla che sempre si riuniva ad ammirare la parata:
«Lunga vita a re Mida, valoroso difensore di questa città e del suo popolo. Che Re Mida abbia le orecchie d’asino, è un grande orgoglio per noi soldati. Infatti quale cosa è più degna del fatto che un maschio inasinisca? Solida è l’asinità, possente il suo raglio: hi ha, hi ha, una manifestazione sonora ruvida, viscerale, inconfondibilmente virile: tuono di gran patria... Per non parlare della forza micidiale del calcio e del morso asinino».
E facendo schioccare per aria la lunga frusta di cuoio che portava legata alla cintura, il comandante scandì lentamente la conclusione: «Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Al mercato, nell’ora rovente in cui i cuochi arrostivano su graticci fegatelli col miele, tordi alla salvia e cosciotti di capretto lardellati, il capo dei mercanti della capitale parlò ai suoi compari, dopo aver offerto a tutti i convenuti formaggini freschi freschi, che recavano ancora i segni dei canestrini di vimini, accompagnati da vino di Samo conservato in otri odorosi di pelle di capra.
«Lunga vita a re Mida» disse, «che onora i mercanti difendendo le invenzioni locali come quelle del nostro Marsia, contro i prodotti stranieri. Lunga vita al re che mi ha onorato della sua amicizia». E nel dire questo mostrò come sulla sua tunica di lana bianca ricamata di fili d’oro e d’argento splendesse un’onorificenza nuova di zecca.
«Re Mida ha le orecchie d’asino. È questo il segno della fortuna del suo governo. Sappiamo tutti quanto gli asini siano affidabili nel trovare la strada giusta, tanto più che a quanto dicono ce ne sono alcuni che sanno perfino cacare oro. Insomma, l’asino è il socio ideale per noi mercanti. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Appena scesa la notte, mentre si aprivano le porte del maggior bordello della città, la tenutaria riunì intorno a sé le venditrici d’amore e tenne loro questo discorso: «Lunga vita al re che apprezza le suonatrici di flauto dalle labbra succulenti, le giovani danzatrici dai seni sodi come mele cotogne, i giovanotti profumati di lavanda e coronati di viole. Lunga vita al re che sa essere generoso con chi sa offrire notti felici e cosce depilate per il piacere del tatto o della vista».
E, sollevato il lembo della tunica di porpora di Tiro e la sottoveste di garza trasparente mostrò una cavigliera d’oro che mostrava lo stemma regale. «Re Mida ha le orecchie d’asino. È pregio da vantare, non da tenere nascosto...Felici noi, se tutti i nostri uomini, toccati dall’alito di Afrodite, mostrassero gli stessi attributi. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
La festa della Gloriosa Asinità, proclamata da re Mida nella settimana successiva, vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa, al posto delle solite corone di mirto o di lauree fronde, ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi: intrecciate di paglia bionda per i popolani, di cuoio rosso persiano per i padroni di botteghe, di stoffa tinta di croco per le ragazze più avvenenti. Il tutto tra danze sfrenate, punta tacco punta tacco, e voci squillanti in un delirio: «Lunga vita a re Mida, hi ha, hi ha!».
*
IL MITO
Re Mida è legata a due miti, quello più conosciuto, che racconta della sua straordinaria capacità di trasformare tutto in oro, dono effimero e «scomodo»; e un secondo che racconta della punizione ricevuta da Apollo, il quale gli fa crescere le orecchie d’asino, perché durante una gara musicale con il dio Pan non lo nomina vincitore. È solo il barbiere del re a conoscere questo segreto, che però non deve rivelare a nessuno, pena guai seri. Ma il barbiere, non potendo parlare con nessuno, decide di confidare il segreto alla terra. Scava una buca cui confida ciò che sa. Il resto lo fanno le canne che crescono dove il segreto è sepolto, così che il vento lo sussurra e lo fa sapere a tutti. Il primo a parlare di Re Mida è Erodoto, ma questa figura approda anche tra i romani: Ovidio racconta i due miti nelle «Metamorfosi».
COLLOQUIO DI MEZZA ESTATE.
di don Aldo Antonelli
Avezzano; ore 9,15 - Piazza Municipio.
Esco dal bar ed incontro un mio vecchio amico.
Un abbraccio, un saluto e parole di convenienza:
"Ciao, come stai? Che fai di bello? Sei andato in ferie?".
"Bene, grazie!"
"Sono tornato domenica dalla Sardegna".
"Immagino sei andato in qulche convento o seminario...".
"No! Non mi piacciono i conventi; e i seminari mi stanno stretti. Quando vado in giro, preferisco i normali alberghi per normali cittadini!".
"Beh! La chiesa è sempre la tua famiglia...!".
"Caro N.N. la mia famiglia è il mondo! Ti dirò di più: se mi poni davanti due persone, un cristiano ed un ateo, la loro appartenenza non mi dice niente che mi leghi più al primo che al secondo!
Anzi, un ateismo appassionato e impegnato può essere più meritavole di una fede stanca ed interessata".
Scrive Nicholai Berdayev: "La più terribile forma di ateismo la troviamo non nella battaglia militante e appassionata contro l’idea di Dio, ma nell’ateismo pratico della vita quotidiana, nell’indifferenza e nel torpore. Spesso incontriamo queste forme di ateismo proprio tra coloro che sono formalmente cristiani".
"Non è irreligioso chi rinnega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei" (Epicuro).
Un abbraccio.
Aldo
MA QUANDO?
di don Aldo Antonelli
Quando vediamo la luce?
Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno.
"Forse quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?".
"No" disse il rabbino.
"Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?".
"No" disse il rabbino.
"Ma quando allora?" domandarono gli allievi.
Il rabbino rispose:
"È quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore".
Finisca la notte. E inizi il giorno.
Aldo
La morale "fai da te"
editoriale
"Famiglia Cristiana", 5 agosto 2010
La questione morale agita il dibattito politico dal lontano 1981, da quando cioè - undici anni prima di Mani pulite - l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ne parlò per primo. La Seconda Repubblica nacque giurando di non intascar tangenti, di rispettare il bene pubblico, di debellare malaffare e criminalità. Bastano tre cifre, invece, per dirci a che punto siamo arrivati. Nel nostro Paese, in un anno, l’evasione fiscale sottrae all’erario 156 miliardi di euro, le mafie fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione brucia altri 50 miliardi, se non di più.
Il disastro etico è sotto gli occhi di tutti. Quel che stupisce è la rassegnazione generale. La mancata indignazione della gente comune. Un sintomo da non trascurare. Vuol dire che il male non riguarda solo il ceto politico. Ha tracimato, colpendo l’intera società. Prevale la “morale fai da te”: è bene solo quello che conviene a me, al mio gruppo, ai miei affiliati. Il “bene comune” è uscito di scena, espressione ormai desueta. La stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienza.
Se è vero, come ha detto il presidente del Senato Renato Schifani, che «la legalità è un imperativo categorico per tutti, e in primo luogo per i politici, e nessuno ha l’esclusiva», è altrettanto indubbio che c’è, anche ad alti livelli, un’allergia alla legalità e al rispetto delle norme democratiche che regolano la convivenza civile. Lo sbandierato garantismo, soprattutto a favore dei potenti, è troppo spesso pretesa di impunità totale. Nonostante la gravità delle imputazioni. L’appello alla legittimazione del voto popolare non è lasciapassare all’illegalità.
Ci si accanisce, invece, contro chi invoca più rispetto delle regole e degli interessi generali. Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano.
Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il “dominus” assoluto.
Che ne sarà del Paese, dopo la rottura avvenuta tra Berlusconi e Fini? La scossa sarà salutare solo se si tornerà a fare “vera” politica. Quella, cioè, che ha a cuore i concreti problemi delle famiglie: dalla disoccupazione giovanile alla crescente povertà. Bisogna avere l’umiltà e la pazienza di ricominciare. Magari con uomini nuovi, di indiscusso prestigio personale e morale. Soprattutto se si aspira alle più alte cariche dello Stato. Giustamente, i vescovi parlano di «emergenza educativa». Preoccupati, tra l’altro, dalla difficoltà di trasmettere alle nuove generazioni valori, comportamenti e stili di vita eticamente fondati.
Contro l’impotenza morale del Paese, il presidente Napolitano ha invocato i «validi anticorpi» di cui ancora dispone la nostra democrazia e la collettività. Famiglia, scuola e, soprattutto, mondo ecclesiale sono i primi a essere chiamati a dare esempi di coerenza e a combattere il male con più forza. Anche di questo si dibatterà a Reggio Calabria, dal 14 al 17 ottobre, nella 46ª edizione delle Settimane sociali dei cattolici italiani. Dei 900 delegati, 200 sono giovani. Una scelta. Un investimento. Un piccolo segnale di speranza.
Dario Franceschini su sfiducia a Caliendo
di Dario Franceschini
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Franceschini. Ne ha facoltà.
DARIO FRANCESCHINI. Signor Presidente, abbiamo letto molte spiegazioni sulla nostra scelta di presentare e calendarizzare la mozione concernente il sottosegretario Caliendo. Sono tutte letture di natura tattica, "dietrologica", per mettere in difficoltà maggioranza. Noi crediamo che in politica vi sia ancora spazio per battaglie di valori. Noi crediamo che debbano esservi ancora battaglie parlamentari in cui vi sia modo di richiamare i principi di legalità e di trasparenza, per ricordare il ruolo che hanno le classi dirigenti di un Paese, che trasmettono, con i loro comportamenti e le loro parole, al Paese che guidano.
Nessun giustizialismo: la mozione in oggetto non è animata da questo; anzi, il sottosegretario Caliendo fa bene a difendersi, è un suo diritto. L’accertamento delle responsabilità penali sarà compito della magistratura, e non dal Parlamento. Anzi, è grave che, oggi, il Ministro della giustizia Alfano sia venuto qui ad esprimere un giudizio sulle indagini. Non si è mai visto (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).
Noi facciamo - lo abbiamo fatto con le mozioni riguardanti Brancher e Cosentino - una battaglia per un Paese normale, per un Paese europeo: la politica non può attendere l’accertamento delle responsabilità penali. È possibile che non si dimetta subito un sottosegretario per la giustizia che ha partecipato ad una riunione per premere sulla Corte costituzionale sulla vicenda del cosiddetto lodo Alfano? È possibile che non si dimetta un sottosegretario per la giustizia indagato per associazione segreta? Leggete l’articolo 1 della "legge Anselmi": si tratta di un’associazione in cui i soci svolgono attività dirette ad interferire sull’esercizio delle funzioni degli organi costituzionali o di amministrazioni pubbliche. È esattamente ciò che è successo.
In qualsiasi Paese normale, in un caso così, ci si dimette subito. Siamo faziosi? Siamo giustizialisti? Guardate cosa accade nei Paesi normali, dove vi sono Governi conservatori normali. In Inghilterra, si dimette un Ministro per alcuni rimborsi spese eccessivi. In Francia, si dimette un Ministro perché è accusato di aver fatto pagare l’affitto allo Stato.
Negli Stati Uniti: si dimette il Ministro della giustizia accusato di circonvenzione di incapace; in Spagna: si dimette il Ministro, richiesto dai Popolari perché è stato a caccia con il giudice Gárzon; in Israele: si dimette il Primo Ministro che dice: sono orgoglioso di un Paese che indaga i suoi Primi Ministri; in Francia: si dimettono due sottosegretari perché hanno comprato con soldi pubblici dei sigari; in Svezia: si dimettono due Ministri accusati di non aver pagato il canone della televisione. Questi sono i Paesi normali, questi sono i Governi conservatori dei Paesi normali (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Italia dei Valori e di deputati del gruppo Unione di Centro).
Voi avete demolito il senso di rigore e il rispetto dell’etica pubblica che un Paese e una classe dirigente devono avere. Questo è il sistema che sta uscendo allo scoperto, non importi quali cognome porti, che siano Brancher, Verdini, Scajola, Caliendo, Bertolaso, Carboni, Anemone, Lombardi, Balducci: ognuno di loro ha il diritto di difendersi.
AMEDEO LABOCCETTA. Cambia Paese!
DARIO FRANCESCHINI. Noi non abbiamo alcun titolo, neanche morale, per condannarli, ma quello che emerge è un sistema malato basato sulla confusione tra politica e affari (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori), basato sul senso di impunità e sul senso di onnipotenza: non esistono reati e non esistono processi per chi ha vinto le elezioni. E se i magistrati insistono: si cambiano le leggi e si cambiano i reati, e non più solo per il Presidente del Consiglio, adesso anche per tutti quelli che stanno vicino al Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).
CARLO CICCIOLI. Ricordati di Tedesco!
DARIO FRANCESCHINI. Il rispetto delle regole e la legalità non dovrebbero avere nulla a che fare con lo scontro fra destra e sinistra, ma dovrebbero essere un patrimonio comune delle democrazie, questo è quello che ci chiede la gente. Ministro Bossi, è questo che chiede la gente del nord, quella a cui per anni avete detto che venivate a Roma a combattere contro Roma ladrona, e adesso tacete, anzi, li difendete (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori - Commenti dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)!
Cameron, Sarkozy, Angela Merkel, leader conservatori europei che non farebbero mai quello che avete fatto voi allo Stato di diritto. Quei conservatori non si scontrano con i progressisti sulle regole, sui magistrati, sulla Costituzione, ma si scontrano sulla politica, e le regole, i magistrati e le loro Costituzioni le difendono insieme ai loro avversari progressisti. E sanno, quei leader conservatori, che chi vince le elezioni ha l’onore di fare il servitore dello Stato, non il padrone dello Stato (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).
Questo è il sistema di potere che sta crollando in questi mesi. E mi rivolgo al Presidente Berlusconi, che con il consueto garbo istituzionale, come al solito, segue questo dibattito in televisione, ed entrerà soltanto per ascoltare le parole rassicuranti del suo capogruppo, degli altri non ce la fa (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).
Presidente Berlusconi, nel 1994, e per molti anni, sul palco eravate lei, Fini e Casini, si chieda perché su quel palco è rimasto da solo (Commenti dei deputati del gruppo Popolo della Libertà). Si chieda perché chi ha in mente un centrodestra normale, un centrodestra europeo, a un certo punto, per forza, deve rinunciare a lavorare con lei. Si chieda, onorevole Berlusconi, che drammatica prova di debolezza, da fine corsa è non rispondere politicamente alle critiche, come fanno i veri leader, ma rispondere soltanto con l’arroganza del padrone che caccia chi disubbidisce, mostrando dei muscoli che non ha più (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Italia dei Valori e di deputati del gruppo Unione di Centro).
Il paradosso è che questi argomenti assorbono tutto il nostro tempo. Presidente Berlusconi, trovi un minuto per occuparsi dei problemi di quegli italiani che vi hanno votato, i quali vedono, invece, che la vostra agenda e tutte le vostre energie sono impegnate in altro, sin dall’inizio della legislatura: lodo Alfano, legittimo impedimento, processo breve, intercettazioni, tutte cose che riguardano voi e non il vostro popolo.
Il vostro popolo vi chiede dove sono finite quelle riforme promesse e tragicamente mancate, dove è finita la riforma del fisco con due aliquote, dove è finita la riforma della giustizia, quella degli ammortizzatori sociali, quella delle professioni, quella dell’articolo 41 della Costituzione, quella relativa al taglio dell’IRAP. Sono quei fallimenti che vi portano ad aver paura della gente. Avete paura di andare alla cerimonia del 2 agosto (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Commenti dei deputati del gruppo Popolo della Libertà). Presidente Berlusconi, perché non torna a L’Aquila con quel seguito di telecamere compiacenti? Perché non torna adesso a L’Aquila? (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).
L’astensione del nuovo gruppo Futuro e Libertà. Per L’Italia è un dato politico rilevantissimo. La maggioranza, di cui ha parlato l’onorevole Reguzzoni, uscita dalle elezioni non c’è più. C’è una maggioranza residuale che dovrà conquistarsi la sopravvivenza volta per volta, con le astensioni sui singoli emendamenti. Ne abbiamo avuto prova oggi nella parte nobile con l’intervento dell’onorevole Della Vedova e nella parte meno nobile con quanto avvenuto fuori dall’Aula. È iniziata la seconda parte della legislatura. Sarà tutta diversa. Non sappiamo quanto durerà ma, onorevole Berlusconi, non pensi di spaventare tutti minacciando le elezioni. Ridotti come siete, a brandelli, le perdereste (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Commenti dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania). Si ricordi, Presidente Berlusconi, che lei può dare le dimissioni. Il Presidente del Consiglio può dare le dimissioni e il giorno in cui lei lo farà sarà il giorno della sua resa e della nostra vittoria. Ma un minuto dopo le sue dimissioni lei uscirà di scena e la parola passerà al Capo dello Stato e al Parlamento (Commenti dei deputati del gruppo Popolo della Libertà). Noi, che sappiamo che sarebbe folle tornare a votare per la terza volta con questa legge elettorale, questa "porcata" come l’avete chiamata, faremo ogni battaglia (Commenti dei deputati del gruppo Popolo della Libertà)...
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, vi prego!
DARIO FRANCESCHINI. Sono nervosi, signor Presidente, li lasci stare. Faremo ogni battaglia per tornare a votare con una legge diversa perché il nostro obiettivo è riconsegnare l’Italia ad un confronto normale e civile, con due schieramenti che conoscono la durezza dello scontro politico, ma che insieme sanno difendere le regole, il rigore e il rispetto della legge.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
DARIO FRANCESCHINI. È una battaglia giusta e noi la faremo fino in fondo (Prolungati applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori - Congratulazioni - Dai banchi dei deputati del gruppo Italia dei Valori si grida: Elezioni, elezioni!).
La sinistra non tiene il passo di Fini di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 08.08.2010)
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei poteri.
Agli italiani la legalità non interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità, sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata) di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di scendere nei piani bassi della legalità.
L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar d’altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato. Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà ricostituirsi su basi differenti.
In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d’interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate.
Colpire Boffo per educarne cento
di Marco Politi (il fatto Quotidiano, 31 agosto 2010)
Un anno dopo, l’affare Boffo resta quello che era. Una storia torbida. Un atto di killeraggio di Vittorio Feltri ai danni del direttore di Avvenire. Una vittoria (forse di Pirro) di Berlusconi, che riuscì allora a silenziare il giornale dei vescovi e a intimidire la Cei, ma ha creato all’interno della Chiesa rancori insanabili di cui da un mese all’altro - quando sarà davvero in difficoltà - potranno chiedergli conto. Qualcuno dei suoi falchetti, come Giorgio Stracquadanio, pensa ancora di poter minacciare contro gli avversari politici (vedi Fini) il “metodo Boffo”, e non ha capito che la loro vendetta i prelati la gustano freddissima.
Noemi, D’Addario e la questione morale
LA STORIA ha un antefatto nella primavera del 2009 con le rivelazioni sui patetici show inscenati da “Papi” Berlusconi: Noemi, le ragazzotte a Villa Certosa, le escort che un qualsiasi faccendiere gli infila nel letto a Palazzo Grazioli per la modica cifra di mille euro. Non esiste nell’Occidente democratico leader di governo che sguazzi in un tale clima da basso impero. Azzurri e leghisti, abitualmente indomiti difensori dell’identità cristiana in Italia, fanno finta di niente e tacciano di moralismo chi osa protestare. Ma qualcosa non torna nel disegno berlusconiano di negare rabbiosamente la realtà. Gli viene a mancare d’improvviso l’alleanza con la gerarchia ecclesiastica.
Pressato dal disagio della base cattolica moderata, il giornale dei vescovi Avvenire - generalmente benevolo (problemi degli immigrati a parte) con il centrodestra, com’è desiderio del segretario di Stato vaticano cardinale Bertone - comincia a criticare il Cavaliere. Il 5 maggio un editoriale di Avvenire chiede al premier “sobrietà”, perché (come ribadisce in queste settimane Famiglia Cristiana) la “stoffa umana di un leader, il suo stile e i valori di cui riempie concretamente la sua vita non sono indifferenti, non possono esserlo”. È uno schiaffo sanguinoso. Ma il commento non è firmato dal direttore del giornale. Berlusconi spera ancora in una tregua.
Invece, a piccole dosi, il direttore Boffo inizia a dare voce alle critiche dei lettori, commentando con postille sempre più pungenti. Finché il 25 luglio Boffo prende di petto Berlusconi e lo accusa di “non avere fatto chiarezza” sul puttanaio delle seratine a Palazzo Grazioli. Lo smaschera sul caso D’Addario.“La vicenda-chiosa Boffo - non solo non ci convince ma, per quanto ci è dato di capire, continua a piacere poco a larga parte del Paese reale”.
Berlusconi è furibondo. Pressato all’interno, deriso all’estero, decide di partire con una campagna d’autunno a tout azimut contro i suoi avversari. Manda Feltri alla direzione del Giornale. Boffo è il primo della lista. Il 28 agosto il Giornale esce agitando una presunta “nota informativa” (desunta, sembra di capire, da fascicoli giudiziari o di polizia) secondo cui Boffo “noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni” ha tentato di intimidire una signora di Terni a causa di una relazione con il marito.
Il fango e le dimissioni
LA “NOTA” è un falso. Non esiste in nessun fascicolo istituzionale. Il ministro Maroni nega pubblicamente l’esistenza di qualcosa del genere e qualsiasi documentazione di Stato sulla vita privata di Boffo. Berlusconi fa finta di dissociarsi. Salta l’incontro tra il premier e il cardinal Bertone previsto a L’Aquila per la Perdonanza. Ma il pestaggio del Giornale è sistematico. Cinico. Senza quartiere. Il 3 settembre Boffo si dimette. Mesi dopo Feltri dovrà ammettere pubblicamente di avere usato un falso. Ma lo attende ancora un procedimento dinanzi all’Ordine nazionale dei giornalisti. Sulla scena politica la lezione è chiara. Con la potenza di fuoco dei media “di famiglia” Berlusconi può rovesciare fuoco e fango su chiunque.
La pace: “Che piacere rivederla”
MA QUALCOSA non torna sul versante della Chiesa. Boffo non ha mai chiarito pubblicamente perché il Tribunale di Terni lo abbia condannato nel 2004 a una ammenda penale di 516 euro per “molestie” partite da un suo cellulare. Ma soprattutto non si è mai capito perché le massime autorità ecclesiastiche abbiano opposto resistenza all’aggressione brutale del fronte berlusconiano soltanto per un pugno di giorni. È intervenuto a difesa di Boffo il cardinale Bagnasco, esprimendo “disgusto” per il killeraggio. È intervenuta la Cei. È intervenuto il cardinale Bertone. Si è mosso il Papa. Il 3 settembre 2009 tutto era già finito. Boffo si dimetteva e spariva nel nulla. Il 26 settembre, partendo per Praga, Benedetto XVI incontrava a Ciampino Berlusconi e lo salutava come se niente fosse con un “che piacere rivederla”.
Non è l’unica strana incongruenza. Mentre già era partita l’aggressione a Boffo, il direttore dell’Osservatore Romano criticava in un’intervista l’Avvenire per le sue denunce contro la politica governativa sull’immigrazione e sottolineava che i rapporti tra Santa Sede e governo erano eccellenti. Quanto al falso dossier, si è poi saputo che era stato confezionato nel mondo cattolico. È stato Giuseppe De Rita, profondo conoscitore del mondo cattolico, a dichiarare al Fatto che la gerarchia ecclesiastica “non voleva lo scontro”. Dunque ha ingoiato l’aggressione. Un collaboratore del cardinale Ruini, che ha battuto ogni corridoio dei Palazzi ecclesiastici, racconta qualcosa di più: “La gerarchia temeva che si scatenasse contro la Chiesa una campagna su scandali sessuali condotta senza esclusione di colpi”.
Il “metodo” e il pestaggio mediatico
VITTIMA di “violenza”, come scrisse nella sua lettera di dimissioni, Dino Boffo da allora ha vissuto ritiratissimo. Ha superato una forte depressione, ha rinunciato a un corso che teneva all’Università Cattolica, è rimasto però nel Comitato permanente dell’Istituto Toniolo, l’organismo che gestisce la Cattolica, e inoltre partecipa ancora al Progetto culturale Cei. Da poco ha ricominciato a riprendersi. È andato a Malta a studiare l’inglese, ma ancora non fa nuove scelte professionali. Il “Metodo Boffo” è diventato sinonimo di pestaggio mediatico. Ma se le responsabilità di Berlusconi e Feltri sono chiare, resta la domanda: quando la Chiesa vorrà ribellarsi a questo clima di piccoli Neroni.