Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).
Sovranità e Sacerdotalità - universali. VIRGILIO, DANTE ... E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH: DIO è AMORE ... in ‘volgare’ - E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMI-COMICHE”!
Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”, c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!!
L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro" - lo Spirito Santo.
Divina Commedia: Inferno, Canto II.
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
3 da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
6che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
9 qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
12 prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
15 secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
18 ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
21 ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
24 u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
27 di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
30 ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono:
33 me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
36 Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
39 sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
42 che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
45 «l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
48 come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
51 nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò BEATA e BELLA,
54 tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
57 con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
60 e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
63 sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
66 per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata,
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
69 l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son BEATRICE che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio:
72 amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
75 Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
78 di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
81 più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
84 de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
87 "perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
90 de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
93 né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
96 sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
99 di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
102 che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
105 ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
108 su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
111 com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
114 ch’onora te e quei ch’udito l’hanno".
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse;
117 per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse;
d’inanzi a quella fiera ti levai
120 che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
123 perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
126 e ’l mio parlar tanto ben ti promette?»
Quali fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
132 ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
135 a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
138 ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
142 intrai per lo cammino alto e silvestro.
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze (sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, cfr. F. La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”, www.ildialogo.org/filosofia, 08.07.2005).
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!!
Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"!
E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
La domanda di Dante e
la risposta e la sollecitazione di Beatrice ad
uscire
dallo stato di minorità.
Purgatorio, XXXIII, vv. 25-60:
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
27 che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: “Madonna, mia bisogna
30 voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono".
Ed ella [Beatrice] a me: "Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
33 sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
36 che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
39 per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
42 secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
45 con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
48 perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade [Laiades, Edipo, figlio di Laio],
che solveranno questo enigma forte
51 sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
54 del viver ch’è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
57 ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
60 che solo a l’uso suo la creò santa.
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’ , al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio), il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”).
Io non Enëa, io non Paulo sono. Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!! Per tornare a casa, alla casa del "Padre Nostro", l’Amore - lo Spirito Santo.
Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Italo Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma! Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria-Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W o ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Mohammed Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
*
Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?! Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
Se anche parlerò le lingue degli uomini e degli angeli, e non avrò l’Amore (Agape - Charitas), sarò simile ad echeggiante bronzo.... cfr., sul sito e in rete:
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di Fachinelli.
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI".
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO"...
Lupi, pecore, pastori?! Un NO per il REFERENDUM.
25 GIUGNO: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza ...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” ["charitas"] e “Mammona” ["Deus caritas est", 2006] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ... e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
“Il Sommo italiano” di Fulvio Conti*
Prof. Fulvio Conti, Lei è autore del libro Il Sommo italiano edito da Carocci: cosa rappresenta, per l’identità del nostro Paese, il Divin Poeta? *
Per rispondere a questa domanda basta guardare a cosa si sta preparando in Italia per celebrare nel 2021 il settecentesimo anniversario della scomparsa del poeta. Ci sarà un’autentica alluvione d’iniziative dal taglio più diverso, da quelle più squisitamente culturali a quelle pensate per il largo pubblico: dirette televisive con la recitazione di canti danteschi, letture in piazza della Divina Commedia, film, spettacoli, performance di varia natura. E tutto per un poeta vissuto a cavallo fra Duecento e Trecento.
Niente di simile si è visto in occasione dei recenti centenari di Leonardo o Raffaello, per fare solo un paio di esempi. Dante è parte essenziale della nostra identità nazionale, tutti conoscono a memoria almeno qualcuno dei suoi versi più celebri, li hanno sentiti recitare, magari storpiati, dai genitori o dai nonni. E in quei versi sentono di trovare ancora oggi qualcosa che parla alle loro coscienze, che le fa vibrare di forti passioni: orgoglio, coraggio, rabbia, indignazione. E poi Dante è universalmente riconosciuto come simbolo d’italianità, vorrei dire come simbolo della parte migliore di ciò che significa sentirsi italiani.
Così, quando il 25 marzo del 2020 è andato in scena il numero zero del Dantedì, nel pieno della prima ondata della pandemia, con i camion dell’esercito che trasportavano decine e decine di vittime, per molti è venuto naturale rivolgersi al Sommo Poeta, recitando i suoi canti da un balcone all’altro. E cercando ancora una volta in lui quel legame identitario che serviva per mantenere unito e coeso il Paese impegnato nello sforzo supremo della lotta al Covid-19. Non mi sembra che ci siano state esperienze paragonabili in altri paesi: gli inglesi, i tedeschi o gli spagnoli non hanno fatto appello a Shakespeare, Goethe o Cervantes per cercarvi ciò che gli italiani hanno chiesto a Dante.
In che modo Dante ha incarnato la passionalità e la forte contrapposizione politica che caratterizzano la storia del nostro paese?
Durante la sua stessa esistenza Dante è stato uomo di parte, ha partecipato alle lotte politiche del suo tempo, ha persino impugnato le armi nella battaglia di Campaldino del 1289. Ha lasciato di sé l’immagine di un intellettuale impegnato, disposto a ricoprire incarichi politici nella sua Firenze, pronto a prendere posizione nelle disfide che caratterizzavano la vita cittadina. E questa immagine di scrittore pugnace, pronto all’invettiva sferzante, attraverso la sua opera letteraria è giunta fino a noi.
Fin dal primo Ottocento Dante, scalzando ogni altro riferimento identitario, è assurto a simbolo principe dell’idea di nazione che si andava formando intorno al collante della lingua italiana. E per un certo periodo, diciamo almeno fino al 1848, ha rappresentato un polo di attrazione ecumenico, capace di mettere d’accordo liberali e democratici, laici e cattolici, unitari e federalisti.
Poi, con il passo indietro di Pio IX e l’epilogo delle battaglie risorgimentali che ha visto lo Stato della Chiesa sul fronte opposto rispetto a quello patriottico, il poeta è tornato a interpretare il «ghibellin fuggiasco» di foscoliana memoria. Gli esponenti della sinistra laica e anticlericale lo hanno brandito come emblema della lotta per il completamento dell’unità d’Italia con Roma capitale e, dopo Porta Pia, come simbolo dello Stato laico che non doveva cedere di fronte alle pretese d’ingerenza della Chiesa. I monumenti a lui dedicati in varie città d’Italia - sui quali mi soffermo in alcuni capitoli del libro - finirono con l’assumere lo stesso significato di quelli a Giordano Bruno o a Savonarola. Esprimevano un connubio di italianità e di laicità. I cattolici tornarono a impossessarsi di Dante durante la prima guerra mondiale, quando si compì del resto la nazionalizzazione delle masse cattoliche italiane. E soprattutto lo fecero in occasione del centenario del 1921, con la creazione di una miriade di comitati, la straordinaria mobilitazione di conferenzieri di grido (da padre Semeria a Filippo Crispolti, dall’ex presidente dell’Opera dei Congressi Giovanni Grosoli a Egilberto Martire), e in special modo con la celebre enciclica In praeclara summorum di papa Benedetto XV.
Sempre nel 1921 Dante fu issato sui vessilli dei fascisti e di D’Annunzio, costringendo i comunisti raccolti intorno alla rivista «L’Ordine nuovo» di Gramsci a denunciare le «deformazioni ideologiche» che si facevano del poeta e a scrivere, con scarsa consapevolezza dei sentimenti che scuotevano l’opinione pubblica: «Dante è in esilio, è morto». E non è privo di significato che nell’aprile 1945, quando la Repubblica di Salò era prossima al crollo, Alessandro Pavolini, uno dei gerarchi rimasti più fedeli al duce, abbia addirittura coltivato l’idea folle di dissotterrare le ossa di Dante per portarle nel «Ridotto alpino repubblicano» della Valtellina e farne il nume tutelare dell’estremo sacrificio delle camicie nere.
Questi eccessi di strumentalizzazione politica si sarebbero attenuati nel secondo dopoguerra, senza peraltro mai far del tutto cessare l’idea di utilizzare Dante, come documento nell’ultimo capitolo del libro, per veicolare messaggi ideali fra i più diversi (come riferimento di coesione nazionale nella lotta contro il terrorismo o come testimonial della lotta per la difesa dell’ambiente e contro i treni ad alta velocità).
Che nesso esiste tra le declinazioni che il mito di Dante ha avuto dal Settecento a oggi e l’evoluzione del sentimento patriottico italiano?
Sul finire del Settecento Dante venne anzitutto riscoperto come grande poeta, degno di stare sullo stesso gradino in cui si trovavano Petrarca, Ariosto e Tasso, contrariamente a quanto aveva sostenuto la critica nei secoli passati che ne aveva messo in discussione le qualità poetiche. Contemporaneamente cominciò la popolarizzazione del culto dantesco che ebbe un suo momento rivelatore nel 1798, quando Vincenzo Monti, inviato dalla Repubblica Cisalpina come commissario della provincia di Romagna, s’incaricò di promuovere un pubblico omaggio a Dante. In tale occasione egli fu dichiarato cittadino di Ravenna e la Commedia portata in trionfo fino al sepolcro, dove il busto del poeta fu incoronato d’alloro. Monti tenne la propria orazione di fronte alla folla plaudente, rivendicando i meriti di Dante come creatore della lingua italiana e proponendo arditi accostamenti fra la sua biografia e quella del poeta. Quella cerimonia segnò l’inizio, di fatto, delle celebrazioni del poeta come padre della patria.
Da allora il culto di Dante come simbolo patriottico non ha conosciuto soluzione di continuità. È cresciuto in modo esponenziale durante il Risorgimento e l’età liberale, al punto che il fascismo si è limitato di fatto a dare definitiva consacrazione al mito del poeta che era stato costruito in precedenza. La cesura - è questa la tesi che sostengo nel libro - si è prodotta dopo la caduta del fascismo, quando si è continuato a guardare a Dante come supremo simbolo della patria, ma senza quella connotazione di esasperato nazionalismo che gli si era attribuito nel secolo precedente. Anzi, cercando finalmente di proporre il poeta come simbolo universale, come un orgoglio italiano conosciuto, tradotto e amato in tutto il mondo.
Quale immagine avevano di Dante i romantici?
Agli occhi dei romantici Dante incarnò il poeta civile, il politico militante, l’intellettuale engagé che aveva pagato con l’esilio la difesa ad oltranza dei propri ideali. Era un modello che si prestava a un immediato riuso e consumo, nel quale molti letterati e patrioti italiani di primo Ottocento, specie sul coté neoghibellino, non faticarono a riconoscersi: da Foscolo a Mazzini, da Leopardi a Settembrini. Furono loro, più di altri, a contribuire alla costruzione del mito di Dante come profetico anticipatore di quell’Italia che si accingeva a risorgere, e a stabilire una stretta correlazione fra esemplarità di vita ed esemplarità di poesia.
Foscolo in particolare, dopo aver consegnato Dante ai versi immortali dei Sepolcri, si applicò in maniera sistematica allo studio e all’interpretazione del poeta fiorentino negli anni da lui trascorsi in Inghilterra, fra il 1816 e il 1827.
In alcuni importanti scritti del periodo inglese Foscolo finì col dettare le coordinate di un’interpretazione laicista e anti-neoguelfa di Dante che in lui avrebbe sempre riconosciuto l’autentico capostipite. Ma soprattutto egli fece sì che l’identità profetica di Dante e la sua istanza di riforma spirituale della Chiesa si configurassero come riferimento valoriale di alcune correnti politiche e culturali che proprio in quel periodo stavano cominciando la battaglia per l’unità nazionale. Non è un caso che il primo testo letterario scritto da Mazzini, appena ventiduenne, s’intitolasse Dell’amor patrio di Dante. Inviato all’«Antologia» di Vieusseux e rimasto inedito, fu conservato da Tommaseo e da lui pubblicato anonimo nel 1837 nella rivista torinese «Il Subalpino».
Un contributo assai rilevante all’irradiamento del culto dantesco venne poi da alcuni autori le cui opere ebbero vasta circolazione al di là dei ristretti cenacoli intellettuali e incontrarono il gradimento di un pubblico più largo. -Mi riferisco in primo luogo a Madame de Staël e a lord Byron. Nel suo Corinne ou l’Italie pubblicato nel 1807 Madame de Staël celebrò Dante come «l’Omero dei tempi moderni, poeta sacro dei nostri misteri religiosi, eroe del pensiero». Quanto a Byron fu l’autore di un poemetto, The Prophecy of Dante, che egli cominciò a comporre nel giugno 1819, pochi giorni dopo il suo arrivo a Ravenna dove avrebbe soggiornato per oltre due anni. Pubblicato nel 1821, fu subito tradotto in italiano e poi ristampato o parafrasato più volte, divenendo un testo di culto per la generazione risorgimentale e un’opera paradigmatica dell’uso politico che essa fece di Dante.
Quali celebrazioni accompagnarono il sesto centenario della nascita di Dante nel 1865?
Quella andata in scena nel 1865 a Firenze, da pochi mesi scelta come nuova capitale, fu la prima grande festa nazionale del Regno. Il momento clou fu l’inaugurazione del monumento a Dante di Enrico Pazzi in piazza Santa Croce che avvenne il 14 maggio alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La cerimonia fu quanto mai solenne e si stima che vi assistettero circa trentamila persone. Fu preceduta da un imponente corteo che si snodò per le vie cittadine, al quale parteciparono i rappresentanti di centinaia di municipi, consigli provinciali, accademie e scuole di vario genere, società operaie di mutuo soccorso. I labari delle città di Venezia e Roma sfilarono listati a lutto per sottolineare che esse erano «irredente», non facevano ancora parte del giovane Stato italiano. Ci furono poi spettacoli teatrali e musicali, declamazioni poetiche, regate e cuccagne in Arno, divertimenti equestri alle Cascine, una tombola in piazza dell’Indipendenza a beneficio degli asili di carità e la sera luminarie ed esecuzioni di canti e cori. Insomma, una festa popolare da tutti i punti di vista.
Ma iniziative e festeggiamenti analoghi si ebbero in varie città italiane, a cominciare da Ravenna, dove proprio nel 1865, durante i lavori di risistemazione dell’area adiacente alla tomba, fu rinvenuta in modo fortuito una cassetta con i resti mortali di Dante. La notizia dell’eccezionale ritrovamento fece il giro del mondo e trasformò ancor di più il sepolcro ravennate nella meta di veri e propri pellegrinaggi, che conferirono al culto dantesco un’aura di religiosa sacralità. Sempre nel 1865 furono inaugurati busti, targhe e statue un po’ ovunque. Particolarmente importanti furono i monumenti inaugurati in due città venete che si trovavano ancora sotto il dominio austriaco: quello di Verona, nella centralissima piazza dei Signori, e quello del Prato della Valle a Padova. Il primo, per timore di proteste e rappresaglie, fu scoperto in orario insolito, all’alba del 14 maggio 1865.
Come si espresse la “dantomania” dell’età liberale?
La “dantomania” dell’età liberale si espresse in linea di sostanziale continuità con i festeggiamenti del 1865. Ormai il mito del poeta profeta della patria era costruito: nei decenni compresi fra l’Unità e la Grande guerra si trattò di consolidarlo anche attraverso la creazione di specifiche istituzioni e associazioni, come le società e le cattedre dantesche, le «Lecturae Dantis», le sale Dante, e così via. Dante e Alighiero furono tra i nomi più gettonati per i nuovi nati, e si progettarono iniziative editoriali destinate sia ai bibliofili e ai collezionisti (come la Divina Commedia in miniatura, il famoso «Dantino»), sia al consumo popolare (come le scatole di fiammiferi con le illustrazioni di Gustave Doré o alcune raccolte di cartoline).
Altre statue di Dante andarono a ornare alcune città italiane, fra le quali Mantova, Napoli e soprattutto Trento, all’epoca ancora sotto dominio austriaco. Il monumento inaugurato a Trento nel 1896 divenne uno dei simboli del movimento irredentista, che fece di Dante la propria icona e scelse la tomba di Ravenna come luogo dove mettere in scena cerimonie di alto valore emotivo e propagandistico.
Nel libro racconto alcuni di questi veri e propri pellegrinaggi politici, che talvolta dettero luogo a inattesi conflitti fra nazionalisti e repubblicani, con questi ultimi convinti estimatori di Dante ma fieramente avversi all’uso che se ne voleva fare in chiave di sostegno alla monarchia sabauda. Finché cominciarono a levarsi, da sponde diverse, le prime voci critiche sul «monoteismo dantesco» che aveva travolto la cultura e la politica italiane: da un lato, per esempio, Benedetto Croce, dall’altro Marinetti, che arrivò a definire la Divina Commedia «un immondo verminaio di glossatori».
All’inizio del Novecento furono prodotte anche le prime opere cinematografiche tratte dalla Commedia. L’Inferno del 1911, costato due anni di lavoro e la cifra enorme per l’epoca di centomila lire, fu il primo lungometraggio del cinema italiano.
Quale culto riservò a Dante l’Italia fascista?
Ho già detto che il fascismo, dopo il successo delle celebrazioni dantesche del 1921, non dovette inventare niente di particolare per fare del poeta uno dei simboli del nazionalismo italiano. Certo, fin dalla «marcia» su Ravenna nel 1921 degli squadristi di Bologna e Ferrara, guidati da Grandi e Balbo, fu subito chiaro che il futuro regime avrebbe racchiuso l’autore della Commedia nel recinto dei propri riferimenti imprescindibili.
Da qui la decisione da parte di Mussolini di istituire una speciale festa in onore di Dante, la «Sagra dantesca», prescrivendo annuali pellegrinaggi alla tomba del poeta in occasione della ricorrenza della morte, il 14 settembre. Oppure si pensi a omaggi architettonici, come la Tribuna dantesca della Biblioteca Nazionale di Firenze inaugurata nel 1929, oppure il visionario progetto del Danteum, una specie di tempio dedicato al culto di Dante che gli architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, esponenti di punta del movimento razionalista, cercarono di realizzare senza successo nella zona dei Fori Imperiali, di fronte alla basilica di Massenzio.
Al periodo fra le due guerre risale anche una nuova ricognizione, dopo quella del 1865, delle spoglie mortali di Dante. A eseguirla furono chiamati due fra i maggiori antropologi dell’epoca: il professor Giuseppe Sergi dell’Università di Roma e il professor Fabio Frassetto dell’Università di Bologna, i quali fra le altre cose, portando un contributo alle teorie razziali del regime, arrivarono alla conclusione che Dante poteva dirsi «italiano di sangue e di stirpe».
Come è mutato oggi, nell’era di Internet e della globalizzazione, il sentimento nazionale nei confronti del suo maggior poeta?
Anche a questa domanda ho in parte già risposto. Gli italiani di ogni età continuano ad adorare Dante, a riconoscersi in lui e nei suoi versi, a trovare nel poeta un riferimento etico e spirituale di incredibile attualità. È qualcosa che ha pochissimi riscontri con altri autori e in altri contesti nazionali. Ma ciò che appare entusiasmante - e a me è sembrato interessante da studiare e da raccontare - è il successo travolgente che Dante ha incontrato negli ultimi decenni in ogni parte del mondo. È ormai diventato un’icona pop, un brand di immediata riconoscibilità che funziona ovunque. Da qui l’uso nel cinema, nella pubblicità, nei fumetti, nelle più svariate rappresentazioni artistiche, dal Giappone alle Americhe. E le innumerevoli iniziative previste in tutto il mondo in questo 2021, nonostante il dramma della pandemia, ce ne offrono diretta conferma.
Fulvio Conti insegna Storia contemporanea presso l’Università di Firenze, dove presiede la Scuola di Scienze Politiche «Cesare Alfieri». Membro del Consiglio universitario nazionale, è stato professeur invité in varie università francesi, fra cui le parigine ENS, EHESS, Sciences Po. Coordina (con M. Ridolfi) la direzione della rivista Memoria e Ricerca e fa parte del comitato di direzione di Archivio storico italiano.
Fra i suoi libri recenti: La politica nell’età contemporanea. I nuovi indirizzi della ricerca storica (a cura con M. Baioni, Carocci 2017); Italia immaginata. Sentimenti, memorie e politica fra Otto e Novecento (Pacini 2017); I fratelli e i profani. La massoneria nello spazio pubblico (Pacini, 2020).
* Fonte: LETTURE.org
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO.
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle.
"Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?", la risposta del Vaticano è: "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale: "È valido il Battesimo conferito con la formula: ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica : il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare « rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa ».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come « custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
« Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio ».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. « Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II ».
Inoltre osserva : « I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare.... ». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità « non solo ideale di magistero » che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, « entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti ») hanno intravisto nel Vaticano II come « il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870 ».
Di qui la riflessione finale: « In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo ».
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Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
DANTE È IL FARMACO
di Emiliano Antonino Morrone *
Buongiorno per tutto il giorno. Più o meno il tempo del nuovo coronavirus si può al momento riassumere con i seguenti elementi: pubblicità gratuita di pizza e pasta; auspici vari; ironia (non solo su "chillu ’e Castiellu") e satira; curve di contagio e relativi aggiornamenti (intanto del prof. Francesco Aiello); i dati dati da Borrelli e le attese dichiarazioni del professor Brusaferro; le dirette di Conte e il dibattito su "mago" Casalino; previsioni; le acute riflessioni di Andrea Colombo e Alfonso Maurizio Iacono; lo stato di avanzamento dei vaccini; la tensione parlamentare di Ciccio Sapia; i filmati di Scanzi e il travaglio di Travaglio; la scomparsa di Majorana-Bellantoni; il prezioso Overlook di Pablo; Sergio (dei Servizi) che cita Borges; Biagio (Simonetta) su Cina e resto del mondo; Giletti che diventa Gillette; Cacciari adirato e la nuova "Krisis"; le "strofe" piatte di Angela Dorothea Merkel; i moniti di Gratteri; il vangelo secondo Draghi; la bella letteratura social di Alfonso B.; i caffè intercontinentali di Franco Laratta; le bordate fisse di Carchidi e polemiche universali sulla didattica a distanza.
Con mia figlia Emiliana ho rivisto tutto "Harry Potter" e quasi per intero "Il Signore degli Anelli", che non è Gerardo Mario. Mi sono allora chiesto perché non esista un film completo sulla "Divina Commedia" di Dante, di cui l’anno prossimo ricorrerà - non so come - il 700 anniversario dalla morte.
L’unica risposta possibile è che Dante sia ancora incompreso dagli stessi italiani, pure perché a scuola si studia pappagallescamente, come mi ha suggerito mia moglie Giuliana, la quale ne sa molto più di me. Alla "grande stampa" Dante interessa poco, fa più notizia la ministra Azzolina, in linea con la "tradizione" trasversale anti-gentiliana. Eppure Dante è un farmaco potentissimo, capace di sconfiggere il più pericoloso dei virus: la ciotìa. Sul punto converrebbe senz’altro il mio severissimo, amato cugino Luigi Morrone.
Luigi Morrone L’Italia se n’è strasbattuta del 750° anniversario della nascita di Dante (2015). Il 2° millennio dalla morte di Ovidio e di Livio (2017) è stato ricordato solo a Sulmona e a Padova, come se si trattasse di glorie locali. -E ora, in quarantena, vuoi che pensino a Dante? Gli inglesi hanno organizzato 3 anni di continue manifestazioni per "legare" il 450° anniversario della nascita di Shakespeare con il 500° della morte (dal 2014 al 2016). Si vuole estirpare la nostra memoria di popolo.
*Fonte: Facebook, 08.04.2020.
Lo psicologo: “Nella Divina Commedia c’è la storia di tutti”
Widmann: "Narra l’abisso dell’inconscio, il Regno dell’Io e la Sfera del Sé"
di Rachele Bombace ("Agenzia DIRE", 25/03/2020)
ROMA - “La Divina Commedia è la descrizione più completa del percorso di individuazione. Dietro la narrazione fittizia dell’anima di un viandante che compie una redenzione spirituale, un viaggio nell’aldilà, in realtà c’è il percorso di un’anima in evoluzione e di un viaggio nell’inconscio (aldilà della coscienza). È un viaggio trasmutativo, in cui il protagonista parte da situazioni infere, buie, cupe, travagliate e sofferte, per approdare a situazioni metaforicamente paradisiache, di leggerezza, luce e visione cosmica. Lo stesso Dante, durante la stesura della Divina Commedia, subirà una profonda trasformazione personale”. A parlarne all’Agenzia Dire, in occasione della prima edizione del Dantedi’, è Claudio Widmann, analista junghiano di Ravenna e autore del libro ‘La Commedia di Dante come percorso di vita’, di cui si attende la pubblicazione dalla casa editrice Magi.
“Il sommo poeta decise di scrivere la Divina Commedia nel corso dell’elaborazione del lutto per la morte di Beatrice. La svolta esistenziale arriva non tanto dall’esilio, ma dalla sua prima condanna a morte. In quel momento comincia a revisionare la sua vita, le sue concezioni, e scrive questa grande narrazione simbolica che si sviluppa parallelamente al suo percorso esistenziale e interiore. È quantomeno singolare, e per certi versi commovente, che nell’estate del 1321 lui porti a termine la Divina Commedia, in cui si rispecchia la sua evoluzione di vita, e poi nel settembre del 1321 muoia. Come se la scrittura della Divina Commedia fosse la narrazione della sua evoluzione interiore- sottolinea lo studioso- e, arrivando a compimento il libro, termina anche la sua vita”. (DIRE)
Roma, 25 mar. - La Divina Commedia è una grande narrazione simbolica. “Non racconta solo l’esperienza trasformativa di Dante. Ha la capacità di raccontare l’esperienza trasformativa di ciascuno di noi. La condanna a morte ha rappresentato per il poeta un’enorme esperienza di smarrimento- continua l’analista junghiano- ma tutti noi viviamo esperienze di smarrimento, anche molto acute, che possono rappresentare però dei momenti di svolta”.
Dopo lo smarrimento, Dante fa i conti con le spinte interne, quali l’inedia, l’indolenza, il non prendere posizione, il temporeggiare, la voglia di vendetta, i desideri bellicosi e aggressivi, l’imbroglio e il tradimento (soprattutto quello di noi stessi). “Sono stati animo ben descritti nel Cerchio degli ignavi- ricorda Widmann- e, proprio come Dante, anche noi abbiamo conosciuto momenti in cui ci saremmo lasciati cadere in quelle spinte ostili che rischiano di renderci mostruosi”.
Nell’Inferno il poeta si confronta con una dimensione in cui rischia di essere trascinato, sommerso e travolto in modo inconsapevole dalle varie spinte interne. “Il viaggio nell’Inferno è un viaggio nell’abisso dell’inconscio, è un viaggio doloroso, dove le cose ci possiedono senza che neanche ce ne rendiamo conto. Nell’Inferno Dante opera un capovolgimento- spiega l’analista- si rovescia fisicamente e simbolicamente, cambia prospettiva. Da quel momento la discesa diventa la salita sul Monte Purgatorio. Si confronta di nuovo con il narcisismo, l’invidia, la distruttività, l’indolenza, la passività, la dipendenza, ma in una forma più consapevole- precisa lo studioso- perché lo fa con gli strumenti dell’Io. In questo senso il Purgatorio è il regno della verticalità dell’Io, è la dimensione psichica dove l’Io ha il governo sulle cose interiori”.
Se nell’Inferno l’autore avverte una sofferenza molto acuta, “nel Purgatorio mette maggiormente in risalto la fatica, perché è maggiore lo sforzo richiesto all’Io nel gestire con consapevolezza i contrasti interni”. Con la conoscenza e la coscienza, “Dante apprende a rifuggire da qualunque unilateralità, sia quella della generosità che dell’egoismo ad esempio”. In questa concezone, quindi, il Purgatorio “è una grande celebrazione delle antinomie, nel quale Dante cerca di tenere insieme aspetti contraddittori tra di loro, come la tenerezza e la fermezza, l’ira mala e l’ira sana”.
Dante evolve. “Dopo che l’Io ha imparato la solidità, a non essere trascinato dalle pulsioni, a non essere unilaterale, ad andare oltre le proprie preferenze e le proprie inclinazioni, il poeta sale nei cieli.
Il Paradiso è la sfera del Sé - continua Widmann - se da un lato i cieli sono sferici, dall’altro Dante accede a quelle dimensioni della psiche di maggiore rotondità, in cui le cose sono più smussate, integrate e levigate. La sfera non ha spigoli, né alto né basso, è il luogo dove non ci sono alternanze, è il luogo della completezza”. A differenza dell’immagine stereotipata ed edulcorata che “abbiamo del Paradiso dove tutto è luce, bontà, felicità, bellezza e perfezione- precisa lo psicoanalista di Ravenna- Dante descrive un Paradiso come completezza, che accoglie anche quegli spiriti che sono venuti meno ai loro voti. Un cielo più sopra ci sono gli spiriti che hanno realizzato grandi cose proprio attraverso i loro aspetti ombra. Come il desiderio di fama che fa parlare Giustiniano nel Cielo di Mercurio”. C’è pure Cunizza da Romano, “che ha avuto diversi mariti e amanti- racconta Widmann- ma a differenza di Francesca (dell’Inferno) non si è avviluppata dentro la passione amorosa. Quella passionalità è diventata il gradino per accedere a forme d’amore più spiritualizzato, filantropico, elevato e meno passionale. Forme più raffinate di una stessa pulsione”.
Il Paradiso, per Dante, è un’esperienza “difficilissima - chiarisce lo psicoanalista - tanto che ne ha appena un’intuizione della completezza più piena che si possa immaginare. Una sensazione che ogni tanto c’è data di vivere quando facciamo esperienza dei più puri stati d’animo, quelli che la psicologia raccoglie sotto il termine di ‘pick experience’, ovvero di esperienze di picco: il raggiungere le prestazioni migliori, le intuizioni più limpide o gli stati d’animo non contaminati. Sono quei vissuti che spesso identifichiamo come una beatitudine metaforicamente paradisiaca”.
Ricostruendo allora il percorso simbolico della Divina Commedia, si può vedere che queste esperienze “sono caratteristiche dei momenti in cui la coscienza dell’Io si connette e si interfaccia con il fondo archetipico della psiche. La piccola coscienza dell’Io entra in contatto con l’enormità inconscia degli archetipi, ed è lì che a volte viviamo i momenti di grazia, le intuizioni più lucide e acute” Ma essere sfera non è facile.
“L’individuazione non può essere scambiata con uno stato d’animo più o meno beante - sottolinea Widmann - l’individuazione è un particolare regime dell’assetto interattivo tra l’inconscio e la coscienza. In questo senso lo stato di beatitudine dura un attimo, però produce una riorganizzazione permanente dell’assetto interiore, che ci costringe costantemente a cercare un’interazione soddisfacente tra le due parti antinomiche. Il Paradiso è un’esperienza che si può portare dietro aspetti di sofferenza dell’Inferno”. Alla sofferenza dell’Inferno segue la fatica del Purgatorio e si arriva alla spontaneità del Paradiso: “Qui l’Io non deve fare forza nel portare avanti le cose perché ha imparato a raccordarsi con la dimensione inconscia (del sé). Una delle caratteristiche delle ‘pick experience’ è proprio che le cose vengono spontaneamente- conclude Widmann- Dante non fa fatica a salire tutti i cieli”.
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM [1285-1347]
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Dante, kolossal del muto
La vita del poeta in una pellicola recuperata del 1921
«Diventò strumento di propaganda per il fascismo»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 25.05.2016)
«Nel primo ventennio del ‘900, il cinema diventa uno strumento di autorappresentazione storica da parte di molte nazioni. Penso alla Russia da poco comunista, per esempio. O a Nascita di una nazione di David Wark Griffith, del 1915. Per l’Italia il film La mirabile visione ( 1921) ebbe un ruolo importantissimo in Italia perché raccontava la vita di un simbolo nazionale come Dante. Addirittura, dopo il 1926, diventò col fascismo uno “strumento di propaganda spirituale e nazionale”, come scrisse l’allora ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele».
Lo sceneggiatore e regista Stefano Rulli dal 2012 presiede il Centro sperimentale di cinematografia (Csc), suddiviso nella Scuola nazionale di cinema e nella Cineteca nazionale, uno degli archivi audiovisivi più importanti del mondo. Proprio il Csc-Cineteca nazionale è protagonista, con il Cnc-Archives Françaises du Cinema, di un recupero storico-culturale che verrà presentato sabato nell’ambito dell’evento «Dante posticipato» all’università di Pisa ideato da Marco Santagata.
Si tratta del film kolossal del muto La mirabile visione, due ore di grande cinema del tempo, disperso da decenni nella sua integrità. Regia, scene e costumi sono di Caramba, alias Luigi Sapelli, scenografo, costumista e illustratore che dal 1921 al 1936 fu direttore degli allestimenti scenici alla Scala di Milano. La fotografia è di Carlo Montuori (che nel 1948 firmò le immagini di Ladri di biciclette per Vittorio De Sica). La sceneggiatura («iconografia», come si diceva ai tempi) è di Fausto Salvatori, poeta e librettista (suoi i versi de «L’inno a Roma» di Giacomo Puccini). Un gruppo di eccellente livello tecnico e culturale, ben sperimentato: l’anno precedente aveva già firmato un grande successo popolare e di cassetta, I Borgia , del 1920.
La recitazione svela gli influssi stilistici dell’epoca (sicuramente una gestualità legata al melodramma e al teatro di prosa di quel periodo). Ma l’insieme, spiega Rulli, «è di forte impatto narrativo, fascino e modernità. La fotografia è pregevolissima, la composizione dell’immagine è efficace così come innovativo è il modo di muovere gli attori. Gioacchino Volpe, in una sua nota, lodò la cura e la precisione della ricostruzione storica».
Il film è suddiviso in due parti. Una Vita Dantis, con i principali episodi della sua travagliata esistenza (l’attività politica a Firenze, l’esilio, Bonifacio VIII, l’ospitalità di Cangrande della Scala). E poi Visioni di vita e di poesia: rappresentazioni della Vita Nova, gli episodi del Conte Ugolino e di Paolo e Francesca da La Divina Commedia. Il tutto con ricchezza di costumi, di ambientazioni, di massa ben orchestrate.. La ricostruzione della pellicola, girata durante le manifestazioni per il sesto centenario della morte del poeta, è a sua volta una straordinaria storia. Il film è stato restaurato in digitale a cura del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée - Parigi / Bois d’Arcy.
Tutto è partito dalla scoperta di due diverse copie d’epoca: una della versione originale italiana, conservata negli archivi della Cineteca Nazionale, e l’altra, legata alla versione francese distribuita da Les Films André Ghilbert, e conservata nel fondo depositato al Cnc da GaumontPathé Archives. Le due copie, entrambe incomplete, sono subito apparse complementari ed ecco la versione italiana che verrà presentata sabato prossimo. Mancava un solo episodio, fortunosamente rintracciato pochi giorni fa. L’avventura ha permesso di approntare l’attuale versione: lo studio e la ricostruzione sono stati possibili anche grazie a un raro libretto d’epoca sul film, un pezzo unico, conservato dalla Biblioteca «Luigi Chiarini» del Csc di Roma, che registra la scansione narrativa e le sequenze fotografiche.
Cosa accadrà della pellicola? Dice Rulli: «Trattandosi di una ricostruzione nata grazie a due Paesi, dovremo studiare gli accordi. Ma spero che questo magnifico pezzo di storia del cinema italiano possa essere distribuito soprattutto nelle scuole come materia di studio dell’arte dei nostri tempi».
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 30 marzo 2016)
E’ quasi un atto dovuto: si comincia con Finnegans Wake, il “libro impossibile” che James Joyce concepisce nella primavera del 1923, e subito ci si ritrova a parlare di altri libri. Composto in una lingua che è la somma - o forse la differenza, il resto - di tutte le altre lingue, l’estremo capolavoro del grande irlandese ha fama di testo intraducibile, nonostante Joyce stesso ne abbia tempestivamente rielaborato in italiano alcuni brani. E italiana è la versione parziale realizzata da Luigi Schenoni per Mondadori tra il 1982 e il 2011, e che ora verrà completata da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone attraverso un progetto innovativo, nel quale saranno coinvolti anche gli utenti dei social network. Nel frattempo, a Macerata, la raffinatissima Giometti & Antonello ripropone i frammenti dello stesso Finnegans Wake volti in italiano da J. Rodolfo Wilcock nel lontano 1961 (pagine 142, euro 16).
Allestita dallo specialista Edoardo Camurri, la pubblicazione è completata da alcuni rari scritti joyciani dell’italo-argentino Wilcock e da un caposaldo della critica su Finnegans Wake, il saggio “Dante ... Bruno. Vico ... Joyce” nel quale, già nel 1929, Samuel Beckett metteva in guardia il lettore: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per essere letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Oscuro? Eppure, grazie alla scelta operata dall’italo-argentino Wilcock, l’impalcatura di quello che Joyce definiva work in progress, “lavoro in corso”, appare chiara, chiarissima. «La veglia di Finnegan è il sogno dell’umanità, presente e passata - spiega Wilcock -. Tutto ciò che in essa si legge è un sogno: i personaggi, i vocaboli, che somigliano a quelli del linguaggio corrente soltanto nel senso, e spesso sono parole deformate, di doppio o triplice significato».
Come quelle che una madre inventa per il suo bambino in fasce, insomma. E che la Mutter-Sprache, la “lingua della madre”, sia anzitutto lingua del sogno, dalla quale affiorano «le immagini riflesse di una spiritualità rivolta decisamente alla metafisica», è la conclusione consegnata dal grande linguista viennese Leo Spitzer al delizioso e profondissimo Piccolo Puxi, curato e tradotto da Anna Maria Babbi e Massimo Salgaro per il Saggiatore (pagine XVIII+96, euro 16).
Si tratta di un saggio apparso originariamente nel 1927, mentre Joyce è affaccendato nella sua Veglia. Studioso di Rabelais oltre che dell’italiano colloquiale, Spitzer (di cui lo stesso Saggiatore riporta ora in libreria il classico Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, a cura di Lorenzo Renzi, pagine 482, euro 30) riordina gli appunti presi a partire dalla nascita del figlio Wolfgang, al quale la madre e tutta la cerchia domestica attribuiscono presto l’appellativo di Puxi, a sua volta deformazione dello shakespeariano Puck. La ridda di invenzioni e variazioni di cui il volumetto dà conto non è diversa, in sostanza, da quella che si può riscontrare in ogni casa, solo che questa volta il pater familias ha le competenze giuste per rintracciare genealogie e prospettare ipotesi.
La principale delle quali è, appunto, quella per cui la lingua è un organismo vivo e affettivo, che non smette di svilupparsi e appassionarsi neppure nel sonno. E non è casuale che a Joyce e al suo maestro riconosciuto, il Dante della Commediae prima ancora del De vulgari eloquentia, faccia spesso riferimento Luca Salza nel suo Il vortice dei linguaggi (Mesogea, pagine 160, euro 12). Meticcia fin dalle premesse, condotta com’è da uno studioso italiano attivo in Francia, questa riflessione su “letteratura e migrazione infinita” ha, tra gli altri, il merito di far reagire l’opera di autori come Vico e Gadda con le istanze tipiche della nostra contemporaneità: la dimensione multiculturale, la necessità e i limiti dell’accoglienza, la ricomposizione di un “Tutto-Mondo” - è la felice espressione del franco-martinicano Édouard Glissant - comunque incommensurabile rispetto al mondo che abbiamo finora conosciuto.
Salza torna a ragionare di lingua materna e di lingua bambina, facendo propria l’affermazione per cui Finnegans Wake ha il potere di trasformare qualunque lettore in un “straniero”. Sarà per questo, osserva, che a Parigi il Jardin James Joyce sta a due passi dalla Biblioteca nazionale ed è molto frequentato dagli immigrati. Che è un modo elegante per ricordarci come, se si vogliono comprendere le avanguardie del Tutto-Mondo, occorra guardare alla letteratura d’avanguardia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Dante Alighieri condannato 700 anni fa? M5s: “Il Comune di Firenze lo riabiliti”
La sentenza, datata 1302, era stata pronunciata durante la "guerra" tra guelfi e ghibellini: il poeta fu esiliato. La vicesindaco: "Non è necessario, stiamo organizzando il 750esimo per celebrare il Vate". La consigliera dei Cinque Stelle Noferi: "Amministrazione irrispettosa e arrogante"
“Riabilitare ufficialmente Dante Alighieri, mettere fine a un’ingiustizia secolare”. Lo chiede la consigliera comunale del Movimento Cinque Stelle a Firenze, Silvia Noferi. Il M5s chiede al Comune di Firenze la riabilitazione ufficiale del Vate, con l’annullamento della sentenza del 27 gennaio 1302 che, durante la “guerra” tra guelfi e ghibellini, condannò il poeta e tre suoi compagni al bando dalla Toscana per due anni, alla distruzione e alla confisca dei beni, all’esclusione a vita da ogni pubblica carica e all’iscrizione dei loro nomi nei registri comunali come falsari.
La richiesta dei Cinque Stelle giunge a 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri. Già nel 2008 il consiglio comunale approvò una mozione per “la riabilitazione ufficiale della figura del poeta” ma - sottolinea Noferi - “a distanza di quasi sette anni ancora nessun documento ufficiale è stato varato”.
Ma dall’altra parte Palazzo Vecchio ritiene superflua una riabilitazione formale di Dante da parte di Palazzo Vecchio. Cristina Giachi, vicesindaco con delega a Educazione, Università e Ricerca, assicura: “Tutti ormai riconoscono il valore del Sommo Poeta e non sono necessarie riabilitazioni ufficiali, tanto più che la città di Firenze sta organizzando le celebrazioni per l’anniversario dei 750 anni dalla nascita”.
Ma Silvia Noferi non apprezza: “Non emettere atti ufficiali per rimediare a quanto ingiustamente comminato vuol dire tenersi fuori dalla storia, quella fatta da pochi uomini e poche parole ma da grandi ideali. Abbiamo ripresentato un’ulteriore mozione per la riabilitazione di Dante Alighieri e attendiamo l’abituale bocciatura per dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanta poco amore per la cultura si nasconda in realtà in Palazzo Vecchio”. M5S controreplica: “Se gli atti ufficiali non servono a nulla - sostiene Noferi -, sarebbe da chiedersi come mai il Vaticano nel 1992, dopo solo 359 anni, ha riabilitato Galileo Galilei. Tutti sappiamo quanto sia difficile per la Chiesa ammettere errori e persecuzioni di idee divergenti anche se molto lontane nel tempo e vedere che il Comune di Firenze riesce a perseverare nel suo comportamento irrispettoso e arrogante verso Dante Alighieri, è inverosimile”.
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Pregare lo Spirito per «superare facili accomodamenti mondani»
di Andrea Tornielli (La Stampa, Vatican Insider, 11/01/2015)
Il Figlio di Dio «lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente». Dopo aver celebrato i battesimi nella Sistina, Francesco ha recitato l’Angelus e ha invitato i fedeli presenti in piazza San Pietro a pregare lo Spirito Santo, il «grande dimenticato» nelle orazioni dei cristiani, e a ricordare «con gioia» la data del proprio battesimo.
«Nel momento in cui Giovanni Battista conferisce il battesimo a Gesù, il cielo si apre. È così finito il tempo dei “cieli chiusi”, che stanno ad indicare la separazione tra Dio e l’uomo, conseguenza del peccato», ha detto Francesco. «Così la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l’amore e l’infinita misericordia. Lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile».
Dopo aver ricordato che la discesa dello Spirito Santo, «consente a Cristo, il Consacrato del Signore, di inaugurare la sua missione salvifica per tutti noi», Papa Bergoglio ha aggiunto a braccio: «Lo Spirito Santo, il grande dimenticato nelle nostre preghiere: noi spesso preghiamo Gesù, preghiamo il Padre, nel Padre Nostro, ma non tanto frequentemente preghiamo lo Spirito Santo. È il dimenticato e abbiamo bisogno di chiedere il suo aiuto, la sua fortezza, la sua ispirazione...».
«Porre sotto l’azione dello Spirito Santo la nostra vita di cristiani e la missione, che tutti abbiamo ricevuto in virtù del Battesimo - ha continuato Francesco - significa ritrovare coraggio apostolico necessario per superare facili accomodamenti mondani. Un cristiano e una comunità “sordi” alla voce dello Spirito Santo, che spinge a portare il Vangelo agli estremi confini della terra e della società, diventano anche un cristiano e una comunità “muti” che non parlano e non evangelizzano».
«Ricordatevi questo: pregare spesso lo Spirito Santo perché ci aiuti, ci dia la forza, l’ispirazione per andare avanti», ha ribadito Francesco. Dopo l’Angelus, il Papa ha chiesto ai fedeli dello Sri Lanka e delle Filippine che sono a Roma, di pregare per lui, alla vigilia del viaggio che da domani sera compirà in Asia. E ha invitato tutti i presenti a cercare «la data del battesimo, per ricordare con gioia» quel giorno.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
— Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
DANTE LETTO NELLE PIAZZE PARLA ALLA GENTE
di DANIELE PICCINI (Avvenire/Agorà, 17.04.2008)
In giro per l’Italia si sta rianimando l’uso delle «lecturae Dantis», dopo la sistematica e completa immersione di Vittorio Sermonti di qualche anno fa e dopo la popolatissima performance di piazza e di teleschermo di Roberto Benigni. Proprio l’attore toscano, per l’effetto di schiacciamento che i grandi media inducono, diviene un punto di partenza interessante e insieme contrastivo. Il pubblico più largo e generico è suggestionato a pensare che l’unica «lectura» possibile sia di quel tipo. Una messa in scena appassionata, magari con divagazioni attualizzanti e satiriche, e con la mediazione necessaria di un attore, di un «performer» appunto. Ma la storia, come sempre, è più lunga e complessa. Basti pensare che la prima «lectura Dantis» della storia venne tenuta da Giovanni Boccaccio a Firenze nella chiesa di Santo Stefano di Badia nel 1373.
Anziano e malandato, in una sessantina di lezioni pubbliche, Boccaccio arrivò a commentare circa la metà della prima cantica. In una chiesa, si diceva. Quello che Dante chiama nel «Paradiso» «sacrato poema» e ancora il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» può essere meditato, ’ruminato’ e letto in un luogo per l’appunto sacro: la parola umana, umana al quadrato grazie alla tecnica poetica, aspira tuttavia, nell’altissima pretesa della Commedia, ad essere parola di verità, con l’autore autopromosso a «scriba Dei». Così a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, si è promosso un ciclo di quattro letture, intitolato «Comincia la commedia», proprio nella cattedrale romanica del paese: analisi e commento del primo canto di ognuna delle tre cantiche affidati a un dantista e a seguire lettura integrale del testo da parte di un attore (con la serata finale del 18 aprile dedicata alla versione in dialetto locale dell’«Inferno»: la Commedia è stata ’reinventata’ non solo in innumerevoli lingue straniere ma in tanti idiomi dialettali della penisola). A Milano poi, all’Università Statale, è ancora in corso la nuova edizione degli «Esperimenti danteschi», quest’anno dedicata all’«Inferno», con la presenza di prestigiosi dantisti italiani e stranieri. Che cosa suggeriscono queste «lecturae» rinate? Che la «Commedia» è stata letta per secoli nei modi classici della lectio accademica. E che Benigni è un felice episodio di una lunga trafila. E poi ci ricordano il potere ’salutare’ (come avrebbe detto Luzi) del poema: non solo in senso religioso, ma in chiave di pienezza della lingua, messa a frutto in tutta la sua efficacia ed economicità.
La potente scaturigine dantesca richiama all’origine, alle fonti di una parola armonizzata per «legame musaico» e per ciò stesso sottratta a ogni usura, consumo, deprivazione di energia. Parla perciò alla comunità civile. E a volerla e saperla ascoltare, parla anche ai dispersi poeti della tarda modernità, non come un bene di rifugio, consolatorio, ma come una spinta a riconsiderare i fondamenti del loro dire, perché possa nuovamente risuonare (anche attraverso una riforma tecnica e metrica) pubblico e comunitario.
il discorso di Benedetto XVI
«I giovani da sempre portatori di spinte evangeliche e costruttori di una convivenza gioiosa nelle città»
Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI durante la veglia di preghiera che si è tenuta nell’Aula Paolo VI, in occasione della VI Giornata europea degli universitari. (Avvenire, 02.03.2008).
Cari giovani universitari! Al termine di questa veglia mariana, con grande gioia rivolgo il mio saluto a tutti voi, a quanti siete qui presenti e a quanti partecipate alla preghiera mediante i collegamenti via satellite. Saluto con riconoscenza i venerati cardinali e vescovi, in particolare quelli che hanno presieduto la recita del Rosario nelle sedi collegate: Aparecida in Brasile, Avignone in Francia, Bucarest in Romania, Città del Messico in Messico, L’Avana a Cuba, Loja in Ecuador, Minsk in Bielorussia, Napoli in Italia, Toledo in Spagna e Washington negli Stati Uniti d’America.
Cinque sedi in Europa e cinque nelle Americhe. Infatti questa iniziativa ha per tema: « L’Europa e le Americhe insieme per costruire la civiltà dell’amore ». E proprio su questo tema si è svolto in questi giorni presso l’Università Gregoriana un convegno, ai cui partecipanti rivolgo un cordiale saluto. È felice la scelta di evidenziare di volta in volta il rapporto tra l’Europa e un altro continente, in una prospettiva di speranza. Due anni fa Europa e Africa; l’anno scorso Europa e Asia; quest’anno Europa e America. Il cristianesimo costituisce un legame forte e profondo tra il cosiddetto vecchio continente e quello che è stato chiamato il «nuovo mondo».
Basta pensare al posto fondamentale che occupano la Sacra Scrittura e la Liturgia cristiana nella cultura e nell’arte dei popoli europei e di quelli americani. Purtroppo però la cosiddetta «civiltà occidentale» ha anche in parte tradito la sua ispirazione evangelica. Si impone pertanto un’onesta e sincera riflessione, un esame di coscienza. Occorre discernere tra ciò che costruisce la «civiltà dell’amore», secondo il disegno di Dio rivelato in Gesù Cristo, e ciò che invece ad essa si oppone.
Mi rivolgo ora a voi, cari giovani. I giovani sono sempre stati, nella storia dell’Europa e delle Americhe, portatori di spinte evangeliche.
Pensiamo a giovani come san Benedetto da Norcia, san Francesco d’Assisi e il beato Karl Leisner, in Europa; come san Martín de Porres, santa Rosa da Lima e la beata Kateri Tekakwitha, in America. Giovani costruttori della civiltà dell’amore! Oggi, voi, giovani europei e americani, Iddio vi chiama a cooperare, insieme con i vostri coetanei del M mondo intero, perché la linfa del Vangelo rinnovi la civiltà di questi due continenti e di tutta l’umanità. Le grandi città europee e americane sono sempre più cosmopolite, ma spesso manca in esse questa linfa, capace di far sì che le differenze non siano motivo di divisione o di conflitto, bensì di arricchimento reciproco.
La civiltà dell’amore è «convivialità», cioè convivenza rispettosa, pacifica e gioiosa delle differenze in nome di un progetto comune, che il beato Papa Giovanni XXIII fondava sopra i quattro pilastri dell’amore, della verità, della libertà e della giustizia. Ecco, cari amici, la consegna che oggi vi affido: siate discepoli e testimoni del Vangelo, perché il Vangelo è il buon seme del Regno di Dio, cioè della civiltà dell’amore! Siate costruttori di pace e di unità! Segno di quest’unità cattolica, cioè universale e integra nei contenuti della fede cristiana che tutti ci lega, è anche l’iniziativa di consegnare a ciascuno di voi il testo dell’enciclica Spe salvi su un cd in cinque lingue. La Vergine Maria vegli su voi, sulle vostre famiglie e su tutti i vostri cari.
Vorrei ora salutare nelle diverse lingue quanti sono uniti a noi dalle altre città attraverso i collegamenti radiotelevisivi ( A questo punto il Papa rivolge alcune parole ai giovani collegati via satellite in spagnolo, inglese, francese, portoghese, bielorusso e romeno).
E infine saluto voi, che siete nel Duomo di Napoli! La vostra città e l’Italia intera hanno bisogno di ritrovare il gusto dell’impegno condiviso per una società più giusta e solidale.
Siate di esempio anche in questo, nutrendovi di preghiera e lasciandovi guidare dalla luce e dalla forza del Vangelo. Ringrazio il cardinale Ruini e monsignor Leuzzi e quanti hanno collaborato all’organizzazione di questo incontro. Ringrazio il coro e l’orchestra che hanno sostenuto la nostra preghiera, come pure il Centro televisivo vaticano, la Radio Vaticana e Telespazio per i collegamenti. A voi, cari giovani, auguro un sereno e proficuo lavoro e una buona Pasqua, e a tutti imparto di cuore la benedizione apostolica.
Benedetto XVI