Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).
Sovranità e Sacerdotalità - universali. VIRGILIO, DANTE ... E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH: DIO è AMORE ... in ‘volgare’ - E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMI-COMICHE”!
Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”, c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!!
L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro" - lo Spirito Santo.
Divina Commedia: Inferno, Canto II.
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
3 da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
6che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
9 qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
12 prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
15 secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
18 ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
21 ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
24 u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
27 di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
30 ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono:
33 me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
36 Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
39 sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
42 che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
45 «l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
48 come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
51 nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò BEATA e BELLA,
54 tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
57 con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
60 e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
63 sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
66 per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata,
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
69 l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son BEATRICE che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio:
72 amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
75 Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
78 di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
81 più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
84 de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
87 "perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
90 de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
93 né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
96 sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
99 di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
102 che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
105 ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
108 su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
111 com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
114 ch’onora te e quei ch’udito l’hanno".
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse;
117 per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse;
d’inanzi a quella fiera ti levai
120 che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
123 perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
126 e ’l mio parlar tanto ben ti promette?»
Quali fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
132 ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
135 a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
138 ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
142 intrai per lo cammino alto e silvestro.
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze (sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, cfr. F. La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”, www.ildialogo.org/filosofia, 08.07.2005).
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!!
Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"!
E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
La domanda di Dante e
la risposta e la sollecitazione di Beatrice ad
uscire
dallo stato di minorità.
Purgatorio, XXXIII, vv. 25-60:
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
27 che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: “Madonna, mia bisogna
30 voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono".
Ed ella [Beatrice] a me: "Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
33 sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
36 che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
39 per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
42 secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
45 con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
48 perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade [Laiades, Edipo, figlio di Laio],
che solveranno questo enigma forte
51 sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
54 del viver ch’è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
57 ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
60 che solo a l’uso suo la creò santa.
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’ , al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio), il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”).
Io non Enëa, io non Paulo sono. Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!! Per tornare a casa, alla casa del "Padre Nostro", l’Amore - lo Spirito Santo.
Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Italo Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma! Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria-Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W o ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Mohammed Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
*
Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?! Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
Se anche parlerò le lingue degli uomini e degli angeli, e non avrò l’Amore (Agape - Charitas), sarò simile ad echeggiante bronzo.... cfr., sul sito e in rete:
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di Fachinelli.
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI".
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO"...
Lupi, pecore, pastori?! Un NO per il REFERENDUM.
25 GIUGNO: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza ...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” ["charitas"] e “Mammona” ["Deus caritas est", 2006] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ... e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM [1285-1347]
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Dante, kolossal del muto
La vita del poeta in una pellicola recuperata del 1921
«Diventò strumento di propaganda per il fascismo»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 25.05.2016)
«Nel primo ventennio del ‘900, il cinema diventa uno strumento di autorappresentazione storica da parte di molte nazioni. Penso alla Russia da poco comunista, per esempio. O a Nascita di una nazione di David Wark Griffith, del 1915. Per l’Italia il film La mirabile visione ( 1921) ebbe un ruolo importantissimo in Italia perché raccontava la vita di un simbolo nazionale come Dante. Addirittura, dopo il 1926, diventò col fascismo uno “strumento di propaganda spirituale e nazionale”, come scrisse l’allora ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele».
Lo sceneggiatore e regista Stefano Rulli dal 2012 presiede il Centro sperimentale di cinematografia (Csc), suddiviso nella Scuola nazionale di cinema e nella Cineteca nazionale, uno degli archivi audiovisivi più importanti del mondo. Proprio il Csc-Cineteca nazionale è protagonista, con il Cnc-Archives Françaises du Cinema, di un recupero storico-culturale che verrà presentato sabato nell’ambito dell’evento «Dante posticipato» all’università di Pisa ideato da Marco Santagata.
Si tratta del film kolossal del muto La mirabile visione, due ore di grande cinema del tempo, disperso da decenni nella sua integrità. Regia, scene e costumi sono di Caramba, alias Luigi Sapelli, scenografo, costumista e illustratore che dal 1921 al 1936 fu direttore degli allestimenti scenici alla Scala di Milano. La fotografia è di Carlo Montuori (che nel 1948 firmò le immagini di Ladri di biciclette per Vittorio De Sica). La sceneggiatura («iconografia», come si diceva ai tempi) è di Fausto Salvatori, poeta e librettista (suoi i versi de «L’inno a Roma» di Giacomo Puccini). Un gruppo di eccellente livello tecnico e culturale, ben sperimentato: l’anno precedente aveva già firmato un grande successo popolare e di cassetta, I Borgia , del 1920.
La recitazione svela gli influssi stilistici dell’epoca (sicuramente una gestualità legata al melodramma e al teatro di prosa di quel periodo). Ma l’insieme, spiega Rulli, «è di forte impatto narrativo, fascino e modernità. La fotografia è pregevolissima, la composizione dell’immagine è efficace così come innovativo è il modo di muovere gli attori. Gioacchino Volpe, in una sua nota, lodò la cura e la precisione della ricostruzione storica».
Il film è suddiviso in due parti. Una Vita Dantis, con i principali episodi della sua travagliata esistenza (l’attività politica a Firenze, l’esilio, Bonifacio VIII, l’ospitalità di Cangrande della Scala). E poi Visioni di vita e di poesia: rappresentazioni della Vita Nova, gli episodi del Conte Ugolino e di Paolo e Francesca da La Divina Commedia. Il tutto con ricchezza di costumi, di ambientazioni, di massa ben orchestrate.. La ricostruzione della pellicola, girata durante le manifestazioni per il sesto centenario della morte del poeta, è a sua volta una straordinaria storia. Il film è stato restaurato in digitale a cura del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée - Parigi / Bois d’Arcy.
Tutto è partito dalla scoperta di due diverse copie d’epoca: una della versione originale italiana, conservata negli archivi della Cineteca Nazionale, e l’altra, legata alla versione francese distribuita da Les Films André Ghilbert, e conservata nel fondo depositato al Cnc da GaumontPathé Archives. Le due copie, entrambe incomplete, sono subito apparse complementari ed ecco la versione italiana che verrà presentata sabato prossimo. Mancava un solo episodio, fortunosamente rintracciato pochi giorni fa. L’avventura ha permesso di approntare l’attuale versione: lo studio e la ricostruzione sono stati possibili anche grazie a un raro libretto d’epoca sul film, un pezzo unico, conservato dalla Biblioteca «Luigi Chiarini» del Csc di Roma, che registra la scansione narrativa e le sequenze fotografiche.
Cosa accadrà della pellicola? Dice Rulli: «Trattandosi di una ricostruzione nata grazie a due Paesi, dovremo studiare gli accordi. Ma spero che questo magnifico pezzo di storia del cinema italiano possa essere distribuito soprattutto nelle scuole come materia di studio dell’arte dei nostri tempi».
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 30 marzo 2016)
E’ quasi un atto dovuto: si comincia con Finnegans Wake, il “libro impossibile” che James Joyce concepisce nella primavera del 1923, e subito ci si ritrova a parlare di altri libri. Composto in una lingua che è la somma - o forse la differenza, il resto - di tutte le altre lingue, l’estremo capolavoro del grande irlandese ha fama di testo intraducibile, nonostante Joyce stesso ne abbia tempestivamente rielaborato in italiano alcuni brani. E italiana è la versione parziale realizzata da Luigi Schenoni per Mondadori tra il 1982 e il 2011, e che ora verrà completata da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone attraverso un progetto innovativo, nel quale saranno coinvolti anche gli utenti dei social network. Nel frattempo, a Macerata, la raffinatissima Giometti & Antonello ripropone i frammenti dello stesso Finnegans Wake volti in italiano da J. Rodolfo Wilcock nel lontano 1961 (pagine 142, euro 16).
Allestita dallo specialista Edoardo Camurri, la pubblicazione è completata da alcuni rari scritti joyciani dell’italo-argentino Wilcock e da un caposaldo della critica su Finnegans Wake, il saggio “Dante ... Bruno. Vico ... Joyce” nel quale, già nel 1929, Samuel Beckett metteva in guardia il lettore: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per essere letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Oscuro? Eppure, grazie alla scelta operata dall’italo-argentino Wilcock, l’impalcatura di quello che Joyce definiva work in progress, “lavoro in corso”, appare chiara, chiarissima. «La veglia di Finnegan è il sogno dell’umanità, presente e passata - spiega Wilcock -. Tutto ciò che in essa si legge è un sogno: i personaggi, i vocaboli, che somigliano a quelli del linguaggio corrente soltanto nel senso, e spesso sono parole deformate, di doppio o triplice significato».
Come quelle che una madre inventa per il suo bambino in fasce, insomma. E che la Mutter-Sprache, la “lingua della madre”, sia anzitutto lingua del sogno, dalla quale affiorano «le immagini riflesse di una spiritualità rivolta decisamente alla metafisica», è la conclusione consegnata dal grande linguista viennese Leo Spitzer al delizioso e profondissimo Piccolo Puxi, curato e tradotto da Anna Maria Babbi e Massimo Salgaro per il Saggiatore (pagine XVIII+96, euro 16).
Si tratta di un saggio apparso originariamente nel 1927, mentre Joyce è affaccendato nella sua Veglia. Studioso di Rabelais oltre che dell’italiano colloquiale, Spitzer (di cui lo stesso Saggiatore riporta ora in libreria il classico Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, a cura di Lorenzo Renzi, pagine 482, euro 30) riordina gli appunti presi a partire dalla nascita del figlio Wolfgang, al quale la madre e tutta la cerchia domestica attribuiscono presto l’appellativo di Puxi, a sua volta deformazione dello shakespeariano Puck. La ridda di invenzioni e variazioni di cui il volumetto dà conto non è diversa, in sostanza, da quella che si può riscontrare in ogni casa, solo che questa volta il pater familias ha le competenze giuste per rintracciare genealogie e prospettare ipotesi.
La principale delle quali è, appunto, quella per cui la lingua è un organismo vivo e affettivo, che non smette di svilupparsi e appassionarsi neppure nel sonno. E non è casuale che a Joyce e al suo maestro riconosciuto, il Dante della Commediae prima ancora del De vulgari eloquentia, faccia spesso riferimento Luca Salza nel suo Il vortice dei linguaggi (Mesogea, pagine 160, euro 12). Meticcia fin dalle premesse, condotta com’è da uno studioso italiano attivo in Francia, questa riflessione su “letteratura e migrazione infinita” ha, tra gli altri, il merito di far reagire l’opera di autori come Vico e Gadda con le istanze tipiche della nostra contemporaneità: la dimensione multiculturale, la necessità e i limiti dell’accoglienza, la ricomposizione di un “Tutto-Mondo” - è la felice espressione del franco-martinicano Édouard Glissant - comunque incommensurabile rispetto al mondo che abbiamo finora conosciuto.
Salza torna a ragionare di lingua materna e di lingua bambina, facendo propria l’affermazione per cui Finnegans Wake ha il potere di trasformare qualunque lettore in un “straniero”. Sarà per questo, osserva, che a Parigi il Jardin James Joyce sta a due passi dalla Biblioteca nazionale ed è molto frequentato dagli immigrati. Che è un modo elegante per ricordarci come, se si vogliono comprendere le avanguardie del Tutto-Mondo, occorra guardare alla letteratura d’avanguardia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Dante Alighieri condannato 700 anni fa? M5s: “Il Comune di Firenze lo riabiliti”
La sentenza, datata 1302, era stata pronunciata durante la "guerra" tra guelfi e ghibellini: il poeta fu esiliato. La vicesindaco: "Non è necessario, stiamo organizzando il 750esimo per celebrare il Vate". La consigliera dei Cinque Stelle Noferi: "Amministrazione irrispettosa e arrogante"
“Riabilitare ufficialmente Dante Alighieri, mettere fine a un’ingiustizia secolare”. Lo chiede la consigliera comunale del Movimento Cinque Stelle a Firenze, Silvia Noferi. Il M5s chiede al Comune di Firenze la riabilitazione ufficiale del Vate, con l’annullamento della sentenza del 27 gennaio 1302 che, durante la “guerra” tra guelfi e ghibellini, condannò il poeta e tre suoi compagni al bando dalla Toscana per due anni, alla distruzione e alla confisca dei beni, all’esclusione a vita da ogni pubblica carica e all’iscrizione dei loro nomi nei registri comunali come falsari.
La richiesta dei Cinque Stelle giunge a 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri. Già nel 2008 il consiglio comunale approvò una mozione per “la riabilitazione ufficiale della figura del poeta” ma - sottolinea Noferi - “a distanza di quasi sette anni ancora nessun documento ufficiale è stato varato”.
Ma dall’altra parte Palazzo Vecchio ritiene superflua una riabilitazione formale di Dante da parte di Palazzo Vecchio. Cristina Giachi, vicesindaco con delega a Educazione, Università e Ricerca, assicura: “Tutti ormai riconoscono il valore del Sommo Poeta e non sono necessarie riabilitazioni ufficiali, tanto più che la città di Firenze sta organizzando le celebrazioni per l’anniversario dei 750 anni dalla nascita”.
Ma Silvia Noferi non apprezza: “Non emettere atti ufficiali per rimediare a quanto ingiustamente comminato vuol dire tenersi fuori dalla storia, quella fatta da pochi uomini e poche parole ma da grandi ideali. Abbiamo ripresentato un’ulteriore mozione per la riabilitazione di Dante Alighieri e attendiamo l’abituale bocciatura per dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanta poco amore per la cultura si nasconda in realtà in Palazzo Vecchio”. M5S controreplica: “Se gli atti ufficiali non servono a nulla - sostiene Noferi -, sarebbe da chiedersi come mai il Vaticano nel 1992, dopo solo 359 anni, ha riabilitato Galileo Galilei. Tutti sappiamo quanto sia difficile per la Chiesa ammettere errori e persecuzioni di idee divergenti anche se molto lontane nel tempo e vedere che il Comune di Firenze riesce a perseverare nel suo comportamento irrispettoso e arrogante verso Dante Alighieri, è inverosimile”.
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Pregare lo Spirito per «superare facili accomodamenti mondani»
di Andrea Tornielli (La Stampa, Vatican Insider, 11/01/2015)
Il Figlio di Dio «lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente». Dopo aver celebrato i battesimi nella Sistina, Francesco ha recitato l’Angelus e ha invitato i fedeli presenti in piazza San Pietro a pregare lo Spirito Santo, il «grande dimenticato» nelle orazioni dei cristiani, e a ricordare «con gioia» la data del proprio battesimo.
«Nel momento in cui Giovanni Battista conferisce il battesimo a Gesù, il cielo si apre. È così finito il tempo dei “cieli chiusi”, che stanno ad indicare la separazione tra Dio e l’uomo, conseguenza del peccato», ha detto Francesco. «Così la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l’amore e l’infinita misericordia. Lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile».
Dopo aver ricordato che la discesa dello Spirito Santo, «consente a Cristo, il Consacrato del Signore, di inaugurare la sua missione salvifica per tutti noi», Papa Bergoglio ha aggiunto a braccio: «Lo Spirito Santo, il grande dimenticato nelle nostre preghiere: noi spesso preghiamo Gesù, preghiamo il Padre, nel Padre Nostro, ma non tanto frequentemente preghiamo lo Spirito Santo. È il dimenticato e abbiamo bisogno di chiedere il suo aiuto, la sua fortezza, la sua ispirazione...».
«Porre sotto l’azione dello Spirito Santo la nostra vita di cristiani e la missione, che tutti abbiamo ricevuto in virtù del Battesimo - ha continuato Francesco - significa ritrovare coraggio apostolico necessario per superare facili accomodamenti mondani. Un cristiano e una comunità “sordi” alla voce dello Spirito Santo, che spinge a portare il Vangelo agli estremi confini della terra e della società, diventano anche un cristiano e una comunità “muti” che non parlano e non evangelizzano».
«Ricordatevi questo: pregare spesso lo Spirito Santo perché ci aiuti, ci dia la forza, l’ispirazione per andare avanti», ha ribadito Francesco. Dopo l’Angelus, il Papa ha chiesto ai fedeli dello Sri Lanka e delle Filippine che sono a Roma, di pregare per lui, alla vigilia del viaggio che da domani sera compirà in Asia. E ha invitato tutti i presenti a cercare «la data del battesimo, per ricordare con gioia» quel giorno.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
— Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
DANTE LETTO NELLE PIAZZE PARLA ALLA GENTE
di DANIELE PICCINI (Avvenire/Agorà, 17.04.2008)
In giro per l’Italia si sta rianimando l’uso delle «lecturae Dantis», dopo la sistematica e completa immersione di Vittorio Sermonti di qualche anno fa e dopo la popolatissima performance di piazza e di teleschermo di Roberto Benigni. Proprio l’attore toscano, per l’effetto di schiacciamento che i grandi media inducono, diviene un punto di partenza interessante e insieme contrastivo. Il pubblico più largo e generico è suggestionato a pensare che l’unica «lectura» possibile sia di quel tipo. Una messa in scena appassionata, magari con divagazioni attualizzanti e satiriche, e con la mediazione necessaria di un attore, di un «performer» appunto. Ma la storia, come sempre, è più lunga e complessa. Basti pensare che la prima «lectura Dantis» della storia venne tenuta da Giovanni Boccaccio a Firenze nella chiesa di Santo Stefano di Badia nel 1373.
Anziano e malandato, in una sessantina di lezioni pubbliche, Boccaccio arrivò a commentare circa la metà della prima cantica. In una chiesa, si diceva. Quello che Dante chiama nel «Paradiso» «sacrato poema» e ancora il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» può essere meditato, ’ruminato’ e letto in un luogo per l’appunto sacro: la parola umana, umana al quadrato grazie alla tecnica poetica, aspira tuttavia, nell’altissima pretesa della Commedia, ad essere parola di verità, con l’autore autopromosso a «scriba Dei». Così a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, si è promosso un ciclo di quattro letture, intitolato «Comincia la commedia», proprio nella cattedrale romanica del paese: analisi e commento del primo canto di ognuna delle tre cantiche affidati a un dantista e a seguire lettura integrale del testo da parte di un attore (con la serata finale del 18 aprile dedicata alla versione in dialetto locale dell’«Inferno»: la Commedia è stata ’reinventata’ non solo in innumerevoli lingue straniere ma in tanti idiomi dialettali della penisola). A Milano poi, all’Università Statale, è ancora in corso la nuova edizione degli «Esperimenti danteschi», quest’anno dedicata all’«Inferno», con la presenza di prestigiosi dantisti italiani e stranieri. Che cosa suggeriscono queste «lecturae» rinate? Che la «Commedia» è stata letta per secoli nei modi classici della lectio accademica. E che Benigni è un felice episodio di una lunga trafila. E poi ci ricordano il potere ’salutare’ (come avrebbe detto Luzi) del poema: non solo in senso religioso, ma in chiave di pienezza della lingua, messa a frutto in tutta la sua efficacia ed economicità.
La potente scaturigine dantesca richiama all’origine, alle fonti di una parola armonizzata per «legame musaico» e per ciò stesso sottratta a ogni usura, consumo, deprivazione di energia. Parla perciò alla comunità civile. E a volerla e saperla ascoltare, parla anche ai dispersi poeti della tarda modernità, non come un bene di rifugio, consolatorio, ma come una spinta a riconsiderare i fondamenti del loro dire, perché possa nuovamente risuonare (anche attraverso una riforma tecnica e metrica) pubblico e comunitario.
il discorso di Benedetto XVI
«I giovani da sempre portatori di spinte evangeliche e costruttori di una convivenza gioiosa nelle città»
Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI durante la veglia di preghiera che si è tenuta nell’Aula Paolo VI, in occasione della VI Giornata europea degli universitari. (Avvenire, 02.03.2008).
Cari giovani universitari! Al termine di questa veglia mariana, con grande gioia rivolgo il mio saluto a tutti voi, a quanti siete qui presenti e a quanti partecipate alla preghiera mediante i collegamenti via satellite. Saluto con riconoscenza i venerati cardinali e vescovi, in particolare quelli che hanno presieduto la recita del Rosario nelle sedi collegate: Aparecida in Brasile, Avignone in Francia, Bucarest in Romania, Città del Messico in Messico, L’Avana a Cuba, Loja in Ecuador, Minsk in Bielorussia, Napoli in Italia, Toledo in Spagna e Washington negli Stati Uniti d’America.
Cinque sedi in Europa e cinque nelle Americhe. Infatti questa iniziativa ha per tema: « L’Europa e le Americhe insieme per costruire la civiltà dell’amore ». E proprio su questo tema si è svolto in questi giorni presso l’Università Gregoriana un convegno, ai cui partecipanti rivolgo un cordiale saluto. È felice la scelta di evidenziare di volta in volta il rapporto tra l’Europa e un altro continente, in una prospettiva di speranza. Due anni fa Europa e Africa; l’anno scorso Europa e Asia; quest’anno Europa e America. Il cristianesimo costituisce un legame forte e profondo tra il cosiddetto vecchio continente e quello che è stato chiamato il «nuovo mondo».
Basta pensare al posto fondamentale che occupano la Sacra Scrittura e la Liturgia cristiana nella cultura e nell’arte dei popoli europei e di quelli americani. Purtroppo però la cosiddetta «civiltà occidentale» ha anche in parte tradito la sua ispirazione evangelica. Si impone pertanto un’onesta e sincera riflessione, un esame di coscienza. Occorre discernere tra ciò che costruisce la «civiltà dell’amore», secondo il disegno di Dio rivelato in Gesù Cristo, e ciò che invece ad essa si oppone.
Mi rivolgo ora a voi, cari giovani. I giovani sono sempre stati, nella storia dell’Europa e delle Americhe, portatori di spinte evangeliche.
Pensiamo a giovani come san Benedetto da Norcia, san Francesco d’Assisi e il beato Karl Leisner, in Europa; come san Martín de Porres, santa Rosa da Lima e la beata Kateri Tekakwitha, in America. Giovani costruttori della civiltà dell’amore! Oggi, voi, giovani europei e americani, Iddio vi chiama a cooperare, insieme con i vostri coetanei del M mondo intero, perché la linfa del Vangelo rinnovi la civiltà di questi due continenti e di tutta l’umanità. Le grandi città europee e americane sono sempre più cosmopolite, ma spesso manca in esse questa linfa, capace di far sì che le differenze non siano motivo di divisione o di conflitto, bensì di arricchimento reciproco.
La civiltà dell’amore è «convivialità», cioè convivenza rispettosa, pacifica e gioiosa delle differenze in nome di un progetto comune, che il beato Papa Giovanni XXIII fondava sopra i quattro pilastri dell’amore, della verità, della libertà e della giustizia. Ecco, cari amici, la consegna che oggi vi affido: siate discepoli e testimoni del Vangelo, perché il Vangelo è il buon seme del Regno di Dio, cioè della civiltà dell’amore! Siate costruttori di pace e di unità! Segno di quest’unità cattolica, cioè universale e integra nei contenuti della fede cristiana che tutti ci lega, è anche l’iniziativa di consegnare a ciascuno di voi il testo dell’enciclica Spe salvi su un cd in cinque lingue. La Vergine Maria vegli su voi, sulle vostre famiglie e su tutti i vostri cari.
Vorrei ora salutare nelle diverse lingue quanti sono uniti a noi dalle altre città attraverso i collegamenti radiotelevisivi ( A questo punto il Papa rivolge alcune parole ai giovani collegati via satellite in spagnolo, inglese, francese, portoghese, bielorusso e romeno).
E infine saluto voi, che siete nel Duomo di Napoli! La vostra città e l’Italia intera hanno bisogno di ritrovare il gusto dell’impegno condiviso per una società più giusta e solidale.
Siate di esempio anche in questo, nutrendovi di preghiera e lasciandovi guidare dalla luce e dalla forza del Vangelo. Ringrazio il cardinale Ruini e monsignor Leuzzi e quanti hanno collaborato all’organizzazione di questo incontro. Ringrazio il coro e l’orchestra che hanno sostenuto la nostra preghiera, come pure il Centro televisivo vaticano, la Radio Vaticana e Telespazio per i collegamenti. A voi, cari giovani, auguro un sereno e proficuo lavoro e una buona Pasqua, e a tutti imparto di cuore la benedizione apostolica.
Benedetto XVI