Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO*
di Federico La Sala
I
Verso l’Eden. - Tra il 1304 e il 1308 Dante scrive, più o meno contemporaneamente al Convivio, il De vulgari eloquentia**: lo scopo di quest’opera, come dell’altra, entrambe lasciate incompiute, è pur nella differenza lo stesso, pedagogico e “illuministico”. Quello del Convivio - la prima opera in volgare in Italia in cui sotto forma di commento a canzoni “sì d’amore che di virtù materiate” si affrontano complessi problemi dottrinali (configurazione dei cieli, scienze del trivio e del quadrivio, nobiltà, Impero) - è imbandire un banchetto di sapienza per tutti coloro che non conoscono il latino (“volgari e non letterati”) e che non possono saziare l’umano desiderio di sapere perché impediti o dalla “cura familiare e civile” o dal vivere in un luogo “da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano”. Quello del De vulgari eloquentia è “illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze” e “giovare alla lingua della gente illetterata” (I, i, l).
Proposito primo di tale opera, essendo scritta in latino e destinata pertanto ai “letterati” (a quelli che conoscono il latino), è, però, “insegnare la teoria dell’eloquenza volgare” (I, xix, 2). Cosa che per Dante significa non solo indicare la via e il modo per elaborare “da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli” quel volgare italiano che è “cosi nobile, cosi limpido cosi perfetto e cosi urbano come mostrano”(I, xvii, 3), Cino da Pistoia e il suo amico (Dante stesso), ma anche e soprattutto “chi riteniamo degno di usarlo, e per quali materie, e, come, nonché dove, e quando, e a chi vada rivolto” (I, xix, 2). Cioè, semplicemente, la trattazione dell’eloquenza volgare vuol essere al contempo una trattazione dell’intellettuale volgare.
Col De vulgari eloquentia ai “letterati” italiani (in particolare a quelli che sono o vogliono essere “versificatori in volgare”, perché - nonostante “il volgare illustre italiano può legittimamente manifestarsi sia in prosa che in versi” - “il volgare che è stato organizzato in poesia sembra rimanere come modello ai prosatori, e non viceversa») Dante vuole indicare decisamente quale spazio si è aperto, e, quali prospettive e quali compiti si vengono a porre nella realtà del tempo; e, ancora, come tutto questo ruoti intorno al nodo dell’eloquenza volgare. Ciò che egli propone, di fronte alle vaste ed eccezionali trasformazioni della realtà contemporanea, - si tenga presente che tra il secolo XI e il XIII “nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante”, che “nuovi mestieri nascono e si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza” (1); e, che, ad es., la popolazione di Firenze, “di appena 6000 abitanti nella prima metà del secolo XII, saliva nel 1300 a molto di più di 30.000, e, pochi decenni dopo, a quasi 100.000”(2), - non è una prospettiva né un compito affatto semplice: cambiare registro linguistico e forgiarne uno nuovo e più degno.
Abbandonare il latino (“usato sole”) che ormai dà “lo suo beneficio a pochi” e mettersi al lavoro dentro quel processo già in atto di formazione della lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre - la lingua che sarà, scrive Dante nel Convivio, “luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritate” - comporta tanto impegno quanto una radicale trasformazione della figura del dotto, richiede innanzi tutto uomini capaci di essere all’altezza della situazione, di schierarsi a fianco di quanto sta emergendo nella realtà politica e sociale italiana: “ognuno - scrive Dante - affronti con cautela e discernimento ciò di cui parliamo [...] è qui che sta l’impresa e la fatica, perché non è cosa che possa darsi senza vigore d’ingegno e assidua frequentazione della tecnica e possesso della cultura [...]. E allora resti dimostrata e svergognata la stoltezza di coloro che, privi di capacità tecnica e di cultura, fidando nel solo ingegno, si precipitano sui sommi temi che vanno cantati in forma somma; e la smettano con una simile presuntuosità e, se la natura o la fannullaggine li ha fatti oche, non pretendano di imitare l’aquila che si slancia verso gli astri” (Il, iv, 9-11).
Nel momento storico in cui viene a sgretolarsi la realtà economica e sociale del mondo feudale e si va invece consolidando fortemente la realtà delle città, e lo stesso volgare si sta evolvendo in modo vertiginoso, Dante giunge a percepire in tutta la sua importanza quel processo che sta portando gli individui a essere sempre più dominati da astrazioni e sempre più bisognosi (“quest’arte dell’eloquenza volgare è necessaria a tutti - tant’è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura”) della lingua di secondo grado (“definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono grammatica. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri popoli, non tutti però”), - cioè di un volgare regulato, - e sollecita i dotti a farsi carico di tale problema, perché, se è vero che l’arte dell’eloquenza “è necessaria a tutti”, è altrettanto vero che “sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo” (I, i). E, in questo, li sollecita a muoversi nella direzione sua e di Cino da Pistoia, perché essi hanno conseguito ottimi risultati nello sforzo di elaborazione della lingua regulata, e li hanno conseguiti proprio perché nel loro fare poetico “mostrano di appoggiarsi maggiormente alla grammatica che è comune a tutti” (I, x, 2), vale a dire a quella “ben determinata forma di linguaggio” che “in una con la prima anima fu creata da Dio” (I, vi, 4) e che fu propria a tutti gli uomini fino alla costruzione della torre di Babele (3).
Le ragioni del programma e della proposta politico-culturale esposte nel De vulgari eloquentia sono da ritrovare nella scoperta che Dante fa nella realtà storico sociale del tempo - e per di più nel giardino dell’Impero, in Italia - di una tensione ontologica verso l’Universale, e nella consapevolezza che egli mostra della necessità di collocarsi in questo spazio se si vuole cogliere quella tensione stessa e regolarla. Infatti l’ipotesi-guida nella ricerca dell’oggetto, della lingua illustre tra i vari volgari, e, insieme, nell’opera “di sradicamento o di estirpazione che dir si voglia” di “cespuglia aggrovigliati e rovi” per la selva italica (I, xi, 2) è il punto di vista logico e politico dell’Universalità o, come egli la chiama, della curialità: “la curialità non è altro che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza viene chiamato curiale» (I, xviii, 4). Ed è questo punto di vista che, sollecitando - una volta che dall’indagine spedita e “spietata” delle principali varietà di volgari non si è salvato alcuno, né regionale né municipale alla destra come alla sinistra del “giogo dell’Appennino”; chi si è salvato sono solo alcuni poeti “che si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo nelle loro canzoni, i vocaboli più degni della curia” (I, xii, 8), che si sono sforzati “di distaccarsi dal volgare materno e di tendere a quello curiale” (I, xiv, 7) - a proseguire la ricerca con strumenti più adeguati, diviene l’oggetto da cui partire, il punto di partenza stesso: “Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d’Italia e non abbiamo trovato la pantera che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali, sicché, applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” (I, xvi, 1).
Per catturare finalmente la pantera (la lingua illustre) “che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” sono necessari, dunque, mezzi più razionali. Tra questi lo strumento più idoneo è il principio che “in ogni genere di cose ce ne deve essere una in base alla quale paragoniamo e soppesiamo tutte le altre che appartengono a quel genere, e ne ricaviamo l’unità di misura”, o, detto altrimenti, potendosi tale principio applicare “a qualsiasi predicamento, anche alla sostanza”, “ogni cosa insomma è misurabile, in quanto fa parte di un genere, in base a ciò che vi è di più semplice in quel dato genere”. “Perciò nelle nostre azioni, nella misura in cui si dividono in specie, occorre trovare - prosegue Dante - l’elemento specifico sul quale anch’esse vengono misurate”. E dopo aver declinato tale principio - «in quanto operiamo in assoluto come uomini, c’è la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale infatti giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini di una città, c’è la legge, secondo la quale un cittadino è definito buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini dell’Italia, ci sono alcuni semplicissimi tratti, di abitudini e di modi di vestire e di lingua, che permettono di soppesar e misurare le azioni degli Italiani. Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli Italiani non sono specifiche di nessuna città d’Italia, bensì comune a tutte; e fra queste si può a questo punto individuare quel volgare di cui sopra andavamo in caccia, che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna. E tuttavia può spargere il suo profumo più in una città che in un’altra, come la sostanza semplicissima, Dio, dà sentore di sé più nell’uomo che nella bestia, più nell’animale che nella pianta, più in questa che nel minerale...” - così conclude: “Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati” (I, xvi, 2-6).
In un’epoca in cui profonde trasformazioni hanno dato luogo a nuove realtà sociali e molteplici spinte sollecitano a ristrutturare le vecchie forme di potere, Dante mostra di essere bene attento a quel movimento che agli albori aveva già fatto dire a Eraclito che “è necessario che coloro che parlano adoperando la mente si basino su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge, ed in modo ancora più saldo. Tutte le leggi umane infatti traggono alimento dall’unica legge divina: giacché essa domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza per di più” (4), e che nel futuro invece porterà Hegel ad affermare - in riferimento a quell’evento cruciale che fu la Rivoluzione Francese, per esser divenuta la società borghese Soggetto politico - che “all’improvviso, il pensiero, il concetto del diritto, si fece valere e il vecchio edifico di iniquità non gli poté resistere. Allora, nel pensiero del Diritto, si costruì una costituzione, mentre ormai tutto doveva poggiare su questa base. Da quando il sole ruota nel firmamento, e i pianeti intorno a lui, non si era mai visto l’uomo mettersi con la testa in basso, cioè fondarsi sull’Idea e costruire la realtà partendo da essa [...]. Questa dunque è un’alba stupenda. Tutti gli esseri hanno celebrato questo tempo. Allora regnava una sublime emozione, l’entusiasmo dello spirito ha fatto fremere il mondo, come se, solo allora, si fosse arrivati alla vera conciliazione del divino col mondo”(5). E altrettanto mostra che la cattura della lingua - pantera - nel momento stesso in cui in Italia dai vari volgari sta emergendo il volgare curiale - e questo sta emergendo come un al di là degli stessi volgari - è possibile solo partendo dall’ Universale, cioè involandosi nella regione nebulosa del mondo religioso ed eguagliando il rapporto tra Volgare e volgari con il rapporto Dio e mondo.
L’orizzonte ideologico entro cui Dante si muove (6) rende nel contempo forte, perché gli permette di intuire e cogliere il legame che corre tra processi sociologici e politici e religione, e, debole, perché gli impedisce di cogliere quale realtà sollecita a tale connessione. Egli comprende misticamente che il vincolo sociale come il vincolo linguistico tra gli uomini va ponendosi e sviluppando come oltremondano, cioè che il vincolo stesso - l’unità linguistica e sociale - va acquistando un’esistenza propria e indipendente, e che bisogna collocarsi decisamente su questo piano, il piano dell’Universale; e ne trae tutte le conseguenze, coerentemente.
Il suo punto di vista, non a caso, gli consente di elaborare un modello di lingua e di intellettuale di grande densità ideologica e politica. Gli attributi (illustre, cardinale, regale e curiale) della lingua più decorosa d’Italia, infatti, non dicono solo l’intrinseca qualità della lingua illustre, ma delineano anche i tratti della figura del nuovo dotto: “quando usiamo il termine illustre, intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare [...] Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l’onore e la gloria [...] Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio [...]. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui ciò,è si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro il cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge [...] così l’intero gregge dei volgari municipali si volge e rivolge, si muove e si arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? [...]. Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve abitare necessariamente nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di un cosi nobile inquilino [...]. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale [...] poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli italiani [...]. Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli italiani sembra una burla, dato che siamo privi di una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata - come quella del re di Germania - tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, cosi le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa» (I, xvii-xviii).
La proposta di Dante non vuole essere affatto né semplicemente poetica né politicamente ambigua. Con la sua opera egli vuole indicare non solo come sia possibile superare la natura “saussuriana” del segno linguistico - “fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio” (I, iii, 3) - e quale lavoro occorra per elaborare una lingua naturale-universale, ma anche e soprattutto come e quanto profondamente siano legati tra di loro nuova lingua e nuovo dotto, e, a quale grande funzione sono entrambi chiamati: “Questo volgare esige in verità persone che gli assomigliano, come avviene per tutti gli altri nostri atteggiamenti morali e modi di vestire: cosi la magnificenza esige persone capaci di grandi azioni, la porpora individui nobili; e allo stesso modo anche il volgare in questione cerca coloro che eccellono per ingegno e cultura, e disprezza tutti gli altri [...]. E dato che la lingua è lo strumento necessario di ciò che concepiamo non altrimenti che il cavallo lo è per il cavaliere, e ai migliori cavalieri convengono i migliori cavalli, come si è detto, alle concezioni più alte converrà la lingua migliore” (II, i, 5-8).
A ben vedere, la genialità di Dante non è inferiore a quella di Platone. Egli giunge a riscoprire quello stesso processo che in un’analoga congiuntura economica e sociale aveva indotto Platone ad attribuire ai filosofi - “poiché filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante, mentre coloro che non ci riescono, ma si perdono nella molteplicità del variabile non sono filosofi” - la funzione direttiva dello Stato (La Repubblica, VI, 484a). Cosi come è la filosofia, o, meglio, l’amore per la Sapienza (“Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quel che t’amò tanto / che uscì per te de la volgare schiera?” -Inf. II, 103-5) ad aprirgli la strada alla contemplazione de ”la gloria di colui che tutto move” - quella gloria che “per l’Universo penetra, e risplende / in una parte piu e meno altrove” (Par., I, 1-4) - e a fargli conseguire quell’alto magistero e quel potere che lo innalzano a guida e a giudice del suo tempo.
Fatto da vivo l’itinerarium in Deum e raggiunta “la felicità della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio (alla quale l’uomo non può elevarsi da sé senza il soccorso della luce divina) ed è raffigurata nel paradiso celeste”, egli è degno di indicare “la diritta via” per raggiungere “la felicità di questa vita” che è “raffigurata nel paradiso terrestre” (Monarchia, IlI, xv). Il De vulgari eloquentia, benché sia di poco precedente alla stesura della Commedia, s’iscrive entro questo orizzonte: vuoI essere un programma politico e culturale per la riconquista del Regno, non solo d’Italia - per l’instaurazione della monarchia temporale o, che è lo stesso, dell’Impero. La lingua d’Amore della Vita Nuova (XXIV, 3), divenuta lingua di Salvezza Amore e Virtù (Salus Venus e Virtus), nel De vulgari eloquentia vuol essere infatti - proprio perché ha reso possibile il recupero di quella “ben determinata forma di linguaggio” creata da Dio, di cui “farebbero uso tutti i parlanti nella loro lingua, se essa non fosse stata smembrata per colpa dell’umana presunzione” (I, vi, 4) - la restaurata lingua prebabelica (7).
L’orizzonte ideologico del tempo non può far vedere (né tanto meno nominare) a Dante come alle forze sociali emergenti il nuovo per cui essi lottano. Nel momento in cui la società borghese comincia a prendere coscienza di sé e lotta per i propri obiettivi, non può farlo se non con gli strumenti a disposizione, come attesta questo documento del 1257:
Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...] (8).
Alla luce di questo atto di manomissione (9) molte cose si fanno più chiare. Il progetto di una restaurata lingua prebabelica, la collocazione del simbolo dell’Impero nel paradiso terrestre, la connessa profezia di Beatrice sul rapporto Chiesa e Impero (“Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch’ io veggio certamente, e però il narro, / a dame tempo già stelle propinque, / secure d’ogni intoppo e d’ ogni sbarro, / nel quale un cinquecento dieci e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” - Purg. XXXIII, 37-45), cosi come l’accostamento di fede-moneta che San Pietro fa nell’esaminare Dante - ”indi soggiunse: Assai bene è trascorsa / d’ esta moneta già la lega e il peso; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa. / Ond’io: sì, l’ho, sì lucida e sì tonda / che nel suo conio nulla mi s’inforsa» (Par., XXIV, 83-7) - appaiono meno metaforici e simbolici di quanto sembrino. Esprimono la connessione tra orizzonte ideologico e processi socio-politici propri del tempo, e insieme indicano la profonda complementarità che si va instaurando tra nascente capitalismo e Cristianesimo, tra processi economico-politici e religione. Dante come le nuove forze sociali del tempo lottano si per la riconquista del paradiso terrestre, ma lottano soprattutto - non sanno di farlo, ma lo fanno - per il paradiso politico della società borghese, di cui essi sono già espressione.
In un’epoca in cui la Chiesa ha ancora un enorme potere politico e ideologico (specie in Italia), in un’epoca in cui le città affrancano “pagando in danaro” i servi della gleba (10) dai loro padroni e si pongono esse stesse come paradiso, Dante - pur tra le molteplici mediazioni della sua coscienza - coglie tutta la portata del nuovo e si colloca decisamente su tale terreno: in ciò sono la sua forza, il suo genio e il suo dramma.
Chi per primo si scoprì e si pose come persona dell’Universale - mostrandosi profeta di quel processo che porterà Hegel a concepire “l’elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”, l’Assoluto come Spirito (11) - non poteva non avere altra sorte che quella di andare “peregrino, quasi mendicando”, per l’Italia, a mostrare contro sua voglia “la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato essere imputata” (Convivio).
Lo stesso De vulgari eloquentia non doveva avere migliore sorte: smarrito, e recuperato agli inizi del ‘500, fu continuamente frainteso fino a Manzoni. Del resto il tortuoso e intricato percorso socio-politico che la realtà italiana doveva fare per giungere al suo paradiso politico non permise altrimenti. Ancora nel 1816 nella Lettera semiseria di Crisostomo, Giovanni Berchet, riecheggiando (e a destra, per cosi dire) Dante, scriveva: “E se noi non possediamo una comune patria politica [...] chi ci vieta di crearci intanto, a conforto delle umane sciagure, una patria letteraria comune?”.
Solo Gramsci intuirà che “il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della lingua’” (12). E non a caso, la sua ottica ancora e in parte democratico-borghese lo induce a concepire i propri problemi all’interno del paradigma elaborato da Dante e al fondo di tutta la cultura moderna. Come non a caso - nel momento stesso che la configurazione imperniata su Dio (Universale), Intellettuale, Lingua e Politica, è andata disarticolandosi ed è stata messa in crisi - è possibile rendersi conto oggi di quanto moderna fosse la ‘visione’ di Dante.
II
Un paradigma per i posteri. - Con la Monarchia***, “opera ardua e superiore” alle sue forze, pur non confidando nelle sue capacità “quanto nella luce di quel Dispensatore che dà a tutti abbondantemente e non lo rinfaccia mai” e tuttavia includendosi tra gli uomini “che la natura superiore ha reso inclini all’amore della verità”, Dante vuole consegnare al futuro - ai “posteri, perché la posterità possa servirsi del frutto” delle sue fatiche (I, i) - il suo ideale e il suo testamento teologico-politico. Con esso, convinto che “la conoscenza della Monarchia Universale [temporalis Monarchie] è particolarmente utile, ma pochissimo nota e da nessuno ricercata perché non offre un guadagno immediato”(l, i), due contributi decisivi e fondamentali vuole offrire: sottrarre all’oscurità e alla confusione il problema appunto della monarchia enelcontempo- sempre “sorretto dal braccio di Colui che ci liberò col suo sangue dal potere delle tenebre” - scacciare “dal campo, in faccia al mondo, l’empio e il bugiardo” (III, i), in particolare (“essenzialmente tre categorie di persone ”si accaniscono contro la verità “a cui vogliamo arrivare”) il sommo Pontefice (è la prima delle tre, le altre due sono quelli “la cui ostinata cupidigia ha spento il lume della ragione” - cioè quelli che strumentalmente e per i loro guadagni sostengono le tesi ierocratiche - e i decretalisti, cioè quelli che si basano “caparbiamente” solo sugli atti della Curia pontificia, le Decretali appunto) che si «oppone forse per zelo delle chiavi» (III, iii).
Con audacia straordinaria, l’audacia di un laico che ha fatto grazie al suo amore per la Sapienza (Beatrice) l’itinerarium in Deum, e, dall’interno della Chiesa, Dante specie nel III libro impugna e mette in radicale discussione i capisaldi di quella dottrina ierocratica che da Bonifacio VIII era stata formulata nel modo più esplicito e tracotante, che nella “Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale”; che “ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale” e che “una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale”; e, infine, di enorme rilevanza, che, “se erra il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini” e che “chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio si oppone ai comandi di Dio, a meno che non pretenda, come Manichei, che ci sono due principii”(13).
Contro ogni pretesa ierocratica (senza essere per questo partigiano dell’imperatore) come contro le pretese ghibelline e realistiche, e contro la secolare concezione che voleva in contraddizione la vita terrena e la vita celeste, Dante lotta strenuamente e da cristiano (senza essere per questo partigiano del papa) per rivendicare e fondare “in un difficile ed arduo equilibrio, il nuovo senso dell’autonomia mondana dell’ordine politico e la fedeltà ad una visione assolutamente spirituale e religiosa della storia umana consegnata ai due ‘ideali’ dell’unico Impero e dell’unica Chiesa» (14).
Troppo spesso, dimenticando tutto questo, e, portando all’assoluto particolari estratti da vari contesti, si è finito con l’appiattire la posizione di Dante nell’orbita del mondo medievale - a quella di un uomo nostalgico del passato e reazionario o a un ghibellino tout court - annullandone cosi la specificità (guelfo bianco), che è quella di muoversi con grande lucidità e per equilibrio instabile dentro il suo orizzonte logico-storico, verso il moderno.
Il suo progetto politico (da non dimenticare, teologico), senza far violenza, anzi schierandosi a fianco, al nuovo emergente ed emerso nella realtà sociale - nella profonda convinzione morale (ma con forte valenza ontologica) e religiosa che “l’esser uno è la radice dell’esser buono, mentre la molteplicità è invece la radice dell’esser male”, che «peccare non è altro che disprezzare l’uno per tendere al molteplice»(I, xv) - è quello di ripristinare e salvaguardare il nesso onto-teo-logico tra particolare e Universale, e di conservare tale nesso nel suo fondamento, Dio stesso.
Nel momento in cui in Europa nascono e si affermano unità cittadine e nazionali autonome, sovrane nel loro territorio, Dante non prospetta affatto una restaurazione pura e semplice dell’Impero. La sua posizione, teologica e razionale insieme, è molto più articolata e complessa. Egli nel porre con grande e vera originalità il fondamento della società umana nel diritto e nel postulare l’identità di questo con la volontà divina ((“siccome in Dio la volontà e la cosa voluta si identificano, ne consegue ulteriormente che la volontà divina è lo stesso diritto, e ancora, che, nel mondo, il diritto non è altro che un’immagine della volontà divina”, II, ii), con l’idea di monarchia temporale vuole ripristinare, salvare e custodire proprio l’unità onto-teo-logica tra Universale e particolare, senza sopprimerne la differenza ma difendendola.
Per Dante, infatti, le nazioni, i regni e le città, avendo caratteristiche proprie, “devono essere regolate da leggi diverse” (I, xiv), ma, affinché non restino nel loro isolamento e possano realizzare le aspirazioni universali, quelle comuni a tutto il genere umano, devono essere rette e guidate da uno solo, dal Monarca “secondo una regola universale” (I, xiv) alla pace, alla libertà e alla giustizia.
Nel coniugare aristotelismo e teologia, ciò che anima Dante - quest’uomo che dice di sé: “sono quel che sono non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e ‘lo zelo della sua casa mi divora’” (Epistola XI) - è una tensione inaudita: all’interno dell’orizzonte cristiano e di una realtà piena di lacerazioni e contrasti enormi, con la sua idea di Monarchia vuol indicare il modo per porre e mantenere le innumerevoli molteplicità, che sempre più nascono e premono nel tessuto sociale dell’Europa del ’300, sulla diritta via. Riconquistare il paradiso terrestre è l’obiettivo che egli pone - in sintonia con le più avanzate forze sociali economiche e politiche contemporanee - all’umanità del suo tempo. È in questo obiettivo che la teoria dei due poteri trova la sua necessità e la sua funzione, storico-politica e salvifica insieme; “se l’uomo fosse rimasto nello stato di innocenza in cui fu creato da Dio”, di questi due poteri (papa e imperatore) l’umanità non “avrebbe avuto bisogno; questi poteri sono dunque rimedi contro l’infermità ! derivata dal peccato» (III, iv).
Con lucidità e coerenza egli sviluppa la sua argomentazione. Premesso che “la Monarchia temporale, detta anche ‘Impero’, è fra le istituzioni che si trovano in una prospettiva temporale, l’unico principato - superiore a tutti gli altri principati nel tempo” e, prima di affrontarne i tre nodi ritenuti cruciali - “se l’istituzione sia necessaria al benessere del mondo”; “se il popolo romano si sia assunto a buon diritto la funzione di Monarca”; “se l’autorità del monarca dipenda direttamente da Dio o da qualcun altro vicario o ministro di Dio” (I, ii) - definisce ambito, finalità e modi della ricerca:
a) “l’argomento in esame è di carattere politico, ed anzi riguarda la fonte e il principio di ogni retto ordinamento politico”;
b) la politica, al contrario delle realtà “matematiche, fisiche e divine” che non sono in nostro potere e che “possono essere per noi soltanto oggetto di speculazione e non di attività pratica”, dipende da noi e, come tale, “risponde a finalità innanzitutto pratiche” (e interne allo stesso ambito della ricerca);
c) “la presente trattazione è sostanzialmente una ricerca sillogistica”, cioè impostata in modo ipotetico deduttivo (“è necessario, in ogni ricerca sillogistica, aver preliminare cognizione di un principio a cui poter ricorrere deduttivamente a sostegno di tutte le proposizioni successive”).
E chiarita questa mobile e circolare connessione metodologica - “dato che nella pratica principio e causa di ogni azione è il fine ultimo che spinge l’agente ad operare, ne viene di conseguenza che il motivo di tutte le azioni che convergono al raggiungimento di un fine, sia rintracciato dallo stesso fine [...]. Perciò, se vi è qualcosa che costituisce il fine dell’universale consorzio umano, questo sarà il principio su cui tutte le nostre successive argomentazioni fonderanno la propria validità” (I, ii) - si muove a determinare il “principio direttivo” della ricerca.
Per Dante, sulla scorta del commento di Averroè al De Anima di Aristotele, la potenza specifica dell’intera umanità è “l’essere capace di apprendere per mezzo dell’intelletto possibile, capacità che invero non compete a nessun altro che all’uomo, né al di sopra né al di sotto di lui” (I, ii): e il singolo non può attuare la sua potenza specifica se non e solo insieme con tutto il genere umano (“altrimenti bisognerebbe ammettere una potenza separata, il che è impossibile”).
Per questo il fine (“quel fine, migliore di tutti gli altri, per il quale l’eterno Dio dà l’esistenza a tutto il genere umano, servendosi della sua arte, che è la natura”) di tutta l’umana società così come “l’attività specifica del genere umano, preso nella sua totalità, consiste nell’attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo nella direzione della speculazione, in secondo luogo, per estensione, nella direzione dell’attività pratica in funzione del1a speculazione” (I, iv).
Ciò che egli postula, entro il suo orizzonte teologico razionale, è una circolarità che si pone e vuole essere, in teoria e in pratica (o, meglio, in potenza e in atto), unitariamente e articolatamente onto-teo-logica: “La potenza intellettiva di cui parlo non è rivolta soltanto alle forme universali o specie, ma anche, per estensione, alle forme particolari, per cui si suol dire che l’intelletto speculativo diventa, per estensione, pratico, ed il suo fine è l’agire e il fare. E mi riferisco all’agire che è regolato dall’esperienza politica, e al fare che è regolato dall’arte: l’uno e l’altro sono strumento della speculazione, che è il fine più alto per il quale la Prima Bontà ha dato l’esistenza al genere umano” (I, iii).
Ora se “l’intento di Dio è che ogni cosa creata sia simile a Lui, nei limiti, s’intende, delle possibilità della propria natura”, è evidente che “il genere umano raggiunge la perfezione quando attua tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura” (I, viii). E poiché “Dio è la sola vera unità”, l’umanità perviene al grado massimo di somiglianza con Dio quando raggiunge il suo più alto grado di unità. E dal momento che “l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le incorruttibili” e, quindi, “partecipa dell’una e dell’altra natura” (III, xv), risulta evidente tanto la necessità che l’uomo “sia ordinato a due fini ultimi, ad uno in quanto corruttibile, all’altro in quanto incorruttibile)) (III, xv) tanto che questi due fini come le due guide abbiano il loro fondamento in Dio.
Questa è la diritta via che Dante indica: il genere umano può attuare tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura, solo movendosi all’interno e a partire dall’Identità e insieme salvando e rispettando la Differenza. E questo è l’orizzonte entro cui egli stesso si muove con estrema lucidità, e che gli permette di combattere la sua battaglia con strenua intransigenza logica e morale senza essere né partigiano dell’imperatore né del papa né tanto meno un eretico:
Due fini pertanto l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio - a cui le capacità proprie dell’uomo non possono elevarsi da sé senza l’aiuto della luce divina - ed è raffigurata nel Paradiso celeste. A queste beatitudini, come a termini diversi, bisogna giungere con mezzi diversi. Infatti arriviamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo effettivamente operando secondo le virtù morali e intellettuali; arriviamo invece alla seconda per mezzo degli ammaestramenti dello spirito, che trascendono l’umana ragione, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità [et karitatem]. Queste mete, e i mezzi per raggiungerle, ci sono state indicate rispettivamente dalla ragione umana, che i filosofi ci hanno reso interamente palese, e dallo Spirito Santo, il quale, per mezzo dei profeti e degli agiografi nonché per mezzo di Gesù Cristo, figlio di Dio a Lui coetaneo e dei suoi discepoli, ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria (III, xv).
Per questo, dato che, “quando più elementi sono ordinati ad un unico fine, è necessario che uno di essi diriga e gli altri siano diretti” (I, v) - a riguardo dello specifico ordinarsi del genere umano “bisogna sapere che il fondamento primo della nostra libertà è la libertà d’arbitrio, che molti hanno sulle labbra, ma pochi comprendono” (I, xii), e, nello stesso tempo, che la cupidigia umana “farebbe dimenticare mete e mezzi se gli uomini, come cavalli erranti in preda alla loro bestialità, non fossero raffrenati nel loro cammino terreno ‘con la briglia e il morso’” - l’uomo ha “bisogno di due guide in vista del suo duplice fine: il sommo Pontefice, che, seguendo le verità rivelate, [guidi] il genere umano alla vita eterna e l’Imperatore che, seguendo invece gli insegnamenti della filosofia, lo [indirizzi] alla felicità temporale. E siccome - prosegue Dante - a questo porto della felicità terrena, nessuno o pochi - e questi con estrema difficoltà - possono giungere se il genere umano, calmati i tempestosi allettamenti della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, ecco che questo è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che si chiama Principe Romano: far sì, cioè, che in questa aiuola dei mortali si viva in pace e in libertà” (III, xv).
L’Imperatore, però, per poter “applicare utilmente gli insegnamenti della libertà e della pace in modo adatto ai luoghi e ai tempi” - dato che “l’ordinamento di questo mondo è in rapporto con la rotazione dei cieli”, - è necessario che “sia ordinato da Colui che vede direttamente la totale disposizione dei Cieli”; e “questi può essere soltanto Colui che l’ha preordinata”, Dio stesso: “solo Dio elegge, solo Dio conferma”. Cioè, “l’autorità del Monarca temporale deriva, senza alcun intermediario, dalla Fonte stessa di ogni autorità”.
E, per evitare ogni ulteriore equivoco a riguardo, Dante spiega e conclude: questa soluzione non va “interpretata così alla lettera da escludere assolutamente che il Principe Romano soggiaccia in qualcosa al Sommo Pontefice, perché questa nostra felicità terrena è ordinata in certo qual modo in funzione della felicità eterna. Cesare usi dunque verso Pietro quella riverenza che il figlio primogenito deve al padre, affinché irraggiato dalla luce della grazia paterna, illumini con maggiore efficacia il mondo al quale è stato preposto da Quello che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali” (III, xv).
Per Dante questa è la via: i due poteri - l’uno e l’altro indispensabile per porre rimedio all’infermità derivata dal peccato - devono cooperare in modo unitario ma distinto e in consonanza con la volontà divina, da cui deriva la loro stessa autorità; solo così essi possono contribuire a ristabilire il giusto rapporto dell’uomo con Dio e a riconquistare ciò che è stato perduto, il paradiso terrestre innanzitutto e, con esso, il paradiso celeste. Ed è questo l’orizzonte che gli permette non solo di postulare la distinzione e l’autonomia dell’agire politico dalla dimensione spirituale, ma soprattutto di restituire al presente un valore di temporalità salvifica, o, che è lo stesso, di coniugare in modo attivo e articolato - contro una tradizione negativa e (tendenzialmente) dualistica - il tempo con l’Eternità e il particolare con l’Universale.
La soluzione dantesca, anche se può apparire poco rigorosa e instabile, è tuttavia una soluzione ancora oggi “praticamente viva e operante; il che dimostra che, se Dante loico è in difetto, il politico aveva intuito felice» (15). Anzi, alla luce di quanto è emerso, si può dire che Dante è “alle soglie di un’odissea culturale altamente segnata da un Machìavelli, da un Guicciardini, da un Vico, da un Gramsci - l’avo della riflessione politica in Italia” (16).
Inoltre, il sogno di un’aiuola dei mortali dove si potesse vivere secondo giustizia in pace e in libertà era sì impraticabile e utopistico per il suo tempo, ma non per questo fu abbandonato o trascurato; dopo aver attraversato secoli ed essere stato l’asse portante dell’ideologia borghese, non ha forse attraversato e attraversa ancora il nostro presente? Non è stato ed è forse anche il nostro massimo sogno?
E, in questa prospettiva, oggi, il nostro problema più complesso - in un orizzonte segnata dalla ‘morte di Dio’ e insieme dall’esplosione di innumerabili identità - non è forse lo stesso affrontato da Dante, quello della costruibilità di un nesso tra particolare e generale? E, ancora, se per questo nodo passa la nostra stessa “possibilità di mantenere la problematica ereditata da Marx” (17), non è forse necessario tenere nel debito conto che Marx è “il solo che citi Dante come momento cardine del calendario per lui pensabile”?(18).
NOTE:
* Per non dimenticare la lezione di Dante, ripropongo qui un piccolo lavoro del 1982. Esso è stato pubblicato in Èuresis, Notizie e scritti di varia indole del Liceo classico “M.Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Boccia editore, Salerno 1988.
I
** Per il De vulgari eloquentia è stato utilizzato il testo curato e tradotto da P.V. Mengaldo, in Dante Alighieri, Opere Minori a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, V, 2, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979. Dei passi citati sono stati dati in parentesi il libro, il capitolo e il capoverso.
1. J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, p. 59.
2. G. Luzzatto, Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966, p. 447.
3. Sui problemi connessi alla “forma di linguaggio” (forma locutionis), cfr. il prezioso contributo di M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Libreria Commissionaria Sansoni, 1981, specie le pp. 46-52.
4. Eraclito: fr. 114. Cfr. I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1981, p. 219.
5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia, Firenze, La Nuova Italia, 1966, IV, pp. 204-5.
6. Su questo, precisazioni importanti sono in M. Corti, op. cit., pp. 9-31.
7. A riguardo, cfr. M. Picone, Vita Nuova e tradizione romanza, Padova, Liviana editrice, 1979, specie pp. 14 ss.; e, ancora, M. Corti, op. cit., pp. 70 ss.
8. Per il testo originale, in latino, cfr. P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano, ISPI, 1939, pp. 45-7; la traduzione qui riportata è ripresa da F. Gaeta - G. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1978, I, pp. 214-5.
9. Si è preferito riportare l’Atto del Comune di Bologna, sia perché è uno dei primi di questo genere (quelli di Firenze saranno di alcuni anni dopo, a partire dal 1289) sia perché estremamente esemplare dal punto di vista ideologico. Per gli Atti fiorentini di affrancazione, cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 58 e ss.
10. Al primo posto, in ordine di tempo, di questo processo di affrancamento dei servi della gleba sono Bologna e Firenze, ma presto e a ruota seguono Siena, Lucca, Pisa, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Ravenna, Pistoia, Vercelli, Genova (cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 21-55.).
11. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, “Prefazione”, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 19.
12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, III, p. 2350.
II.
*** Per la Monarchia (non De Monarchia, titolo estraneo alla tradizione manoscritta) è stata utilizzata la traduzione condotta sul testo dell’edizione nazionale da L. Adamo, cfr. Dante Alighieri, Tutte le opere, a c. di L. Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 247-316. Dei passi citati si sono dati in parentesi il libro e il capitolo.
13. Le citazioni sono riprese dalla bolla Unam Sanctam data da Bonifacio VIII in Laterano nel novembre 1302; cfr. Gaeta - Villani, Documenti e testimonianze, cit., I, pp. 242-4.
14. C. Vasoli, La Filosofia Medievale, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 409.
15. S. A. Chimenz, Dante, in “Letteratura Italiana. I Maggiori”, Milano, Marzorati, I, p. 45.
16. P. Renucci, La cultura, in “Storia d’Italia”, Torino, Einaudi, 1974, 2/II, p. 1178.
17. P. A. ROVATTI, Contro la separazione, in “aut aut”, 186, Firenze, La Nuova Italia, 1981.
18. Ph. Sollers, Io e Dante, in “Spirali», 30, 1981.
* http://www.ildialogo.org/filosofia/danteorigini08072005.htm
Su Dante, si cfr.:
Su Bacone, si cfr.:
Testi:
A. LA CARITA’ O IL RETTO AMORE
Monarchia, I. 11:
[...] ora il Monarca non ha più nulla da desiderare, poiché la sua giurisdizione è limitata soltanto dall’oceano (il che non si verifica per gli altri prìncipi i cui dominii confinano con altri dominii, come, per es., quello del re di Castiglia, che confina con quello del re di Aragona); quindi il Monarca, tra tutti gli uomini, è il soggetto di giustizia più esente da ogni cupidigia.
Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola sia, offusca l’abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più forte e più illuminato. Perciò, la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo di giustizia. Che poi il retto amore produca tali effetti si può dedurre dal fatto che la cupidigia, spregiando il Bene supremo degli uomini, cerca altri beni, mentre la carità, spregiando tutti gli altri beni, cerca Dio e l’uomo, e di conseguenza il vero bene dell’uomo.
E siccome, fra tutti i beni dell’uomo, grandissimo è quello di vivere in pace, come si è detto sopra, e questo bene si raggiunge principalmente ed essenzialmente attraverso la giustizia, questa riceverà grandissimo vigore dalla carità, e tanto più quanto più quest’ultima sarà intensa. Che poi nel monarca debba trovarsi in sommo grado il retto amore degli uomini si dimostra nel modo seguente: ogni oggetto amabile è tanto più amato quanto più è vicino a chi l’ama; ora gli uomini sono più vicini al monarca che agli altri principi; quindi essi sono o debbono essere amati dal monarca più che da ogni altro.
La premessa maggiore è evidente se si considera la natura degli agenti e dei pazienti; la minore è dimostrata dal fatto che agli altri prìncipi gli uomini sono vicini solo in parte, al monarca invece nella loro totalità. Si aggiunga che gli uomini si avvicinano agli altri prìncipi attraverso il monarca e non viceversa, e quindi la cura del monarca verso tutti gli uomini è originaria ed immediata, mentre quella degli altri prìncipi passa attraverso la mediazione del monarca in quanto deriva dalla sua cura suprema. Inoltre, quanto più una causa è universale, tanto più è causa (la causa inferiore infatti non è causa se non in forza di quella superiore, come risulta dal libro «Delle cause»), e quanto più una causa è causa, tanto più ama il suo effetto, poiché tale amore è conseguenza diretta dell’essere causa; ora, il monarca è, tra gli uomini, la causa più universale del loro ben vivere (mentre gli altri prìncipi sono causa attraverso la mediazione del monarca, come si è detto); quindi il monarca ama il bene degli uomini più di ogni altro.
[Per il secondo punto], chi potrebbe mettere in dubbio che il monarca abbia il massimo potere per attuare la giustizia se non colui che non intende che cosa significhi quel nome? Se egli infatti è effettivamente monarca, non può avere nemici. E così è stata sufficientemente dimostrata la premessa minore del sillogismo principale, e pertanto è certa la conclusione che la monarchia è necessaria per un perfetto ordinamento del mondo. (trad. di Pio Gaja)
- - -
[...] 12. Sed Monarcha non habet quod possit optare: sua nanque iurisdictio terminatur Occeano solum: quod non contingit principibus aliis, quorum principatus ad alios terminantur, ut puta regis Castelle ad illum qui regis Aragonum. Ex quo sequitur quod Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum.
13. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest.
14. Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberi potest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere - ut supra dicebatur - et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius.
15. Et quod Monarche maxime hominum recta dilectio inesse debeat, patet sic: omne diligibile tanto magis diligitur quanto propinquius est diligenti; sed homines propinquius Monarche sunt quam aliis principibus: ergo ab eo maxime diliguntur vel diligi debent. Prima manifesta est, si natura passivorum et activorum consideretur; secunda per hoc apparet: quia principibus aliis homines non appropinquant nisi in parte, Monarche vero secundum totum.
16. Et rursus: principibus aliis appropinquant per Monarcham et non e converso; et sic per prius et immediate Monarche inest cura de omnibus, aliis autem principibus per Monarcham, eo quod cura ipsorum a cura illa supprema descendit.
17. Preterea, quanto causa est universalior, tanto magis habet rationem cause, quia inferior non est causa nisi per superiorem, ut patet ex hiis que De causis; et quanto causa magis est causa, tanto magis effectum diligit, cum dilectio talis assequatur causam per se.
18. Cum igitur Monarcha sit universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant, quia principes alii per illum, ut dictum est, consequens est quod bonum hominum ab eo maxime diligatur.
19. Quod autem Monarcha potissime se habeat ad operationem iustitie, quis dubitat nisi qui vocem hanc non intelligit, cum, si Monarcha est, hostes habere non possit?
20. Satis igitur declarata subassumpta principalis, quia conclusio certa est: scilicet quod ad optimam dispositionem mundi necesse est Monarchiam esse.
B. IL SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS"
Monarchia (III. 11):
Gli avversari portano poi un argomento di ragione.
Utilizzando infatti un principio del decimo libro della Metafisica, essi argomentano così:
tutti gli esseri appartenenti ad uno stesso genere si riconducono ad uno, che è misura di tutti gli altri inclusi in quel genere;
ora tutti gli uomini appartengono allo stesso genere;
quindi vanno ricondotti ad uno come misura di tutti quanti.
Se questa conclusione è vera, il Sommo Pontefice e l’Imperatore, essendo uomini, vanno ricondotti ad un solo uomo. Ma poiché non è possibile ricondurre il Papa ad altri, resta che l’Imperatore, insieme a tutti gli altri uomini, deve essere ricondotto al Papa come misura e regola; e così anche con questo ragionamento arrivano alla conclusione da essi voluta.
Per confutare tale ragionamento, ammetto come vera la loro affermazione che «tutti gli esseri appartenenti allo stesso genere debbono ricondursi ad un essere di quel genere, che, nell’ambito di questo, costituisce la misura»; come pure è vera l’affermazione che tutti gli uomini appartengono ad un medesimo genere; ed è vera altresì la conclusione ricavata da tale premessa, che cioè tutti gli uomini vanno ricondotti ad un’unica misura nell’ambito del loro genere. Ma quando da questa conclusione essi inferiscono la conseguenza applicativa nei confronti del Papa e dell’Imperatore, incorrono nella fallacia dell’accidente [40].
Per afferrare bene questo bisogna tener presente che una cosa è essere uomo e un’altra essere Papa, come d’altra parte una cosa è essere uomo e un’altra essere Imperatore, così come una cosa è essere uomo e un’altra essere padre e signore.
L’uomo infatti è quello che è per la sua forma sostanziale, in forza della quale rientra in una specie e in un genere, ed è posto nella categoria della sostanza; il padre invece è tale per una forma accidentale che è la relazione, per la quale rientra in una specie e in un genere particolari, ed è posto nella categoria dell’«ad aliquid», cioè della «relazione». Se così non fosse, tutto si ricondurrebbe - ma ciò è falso - alla categoria della sostanza, dal momento che nessuna forma accidentale può sussistere per se stessa senza il supporto di una sostanza sussistente.
Pertanto Papa e Imperatore essendo ciò che sono in forza di certe relazioni (quelle appunto dell’autorità papale e dell’autorità imperiale, la prima delle quali rientra nell’ambito della paternità e l’altra nell’ambito del dominio), è chiaro che Papa e Imperatore, in quanto tali, devono essere posti nella categoria della relazione e quindi essere ricondotti ad un elemento rientrante in tale categoria. Quindi affermo che altra è la misura cui debbono essere ricondotti in quanto uomini, ed altra in quanto Papa e Imperatore.
Infatti, in quanto uomini, vanno ricondotti all’uomo perfetto (che è misura di tutti gli altri e, per così dire, loro modello ideale, chiunque esso sia), come a quello che è sommamente uno nel suo genere, come si può rilevare dai capitoli finali dell’Etica a Nicomaco. Invece, in quanto sono termini di relazione, allora, com’è evidente, o vanno ricondotti l’uno all’altro (se l’uno è subalterno all’altro o se sono accomunati nella specie per la natura della relazione), oppure ad un terzo elemento come alla loro comune unità.
Ora, non si può affermare che uno sia subalterno all’altro, poiché, in tale caso, l’uno si predicherebbe dell’altro, il che è falso (noi infatti non diciamo che l’Imperatore è Papa e nemmeno viceversa); e neppure si può affermare che siano accomunati nella specie, in quanto l’essenza formale di Papa è diversa da quella di Imperatore in quanto tale. Quindi si riconducono a qualcos’altro, in cui devono trovare la loro unità.
A questo proposito bisogna tener presente che i soggetti delle relazioni stanno tra di loro come le rispettive relazioni. Ora quelle particolari relazioni d’autorità che sono il Papato e l’Impero vanno ricondotte ad una [suprema] relazione d’autorità, da cui quelle discendono con le loro determinazioni particolari; quindi i soggetti di quelle relazioni, cioè il Papa e l’Imperatore, andranno anch’essi ricondotti a qualche soggetto unitario che realizzi la relazione d’autorità nella sua essenza formale, al di fuori di ogni determinazione particolare.
E questo soggetto unitario sarà o Dio stesso, in cui tutte le relazioni particolari trovano la loro unificazione assoluta, oppure una qualche sostanza inferiore a Dio, nella quale la relazione d’autorità, che proviene da quella relazione assoluta, si particolarizza attraverso una differenziazione nel grado d’autorità. E così diventa chiaro che Papa e Imperatore, in quanto uomini, vanno ricondotti ad un elemento comune, mentre, in quanto formalmente Papa e Imperatore, ad un elemento comune diverso. Attraverso questa distinzione si risponde all’argomento di ragione [portato dagli avversari].
MONARCHIA, III. 11:
Ratione vero sic arguunt. Summunt etenim sibi principium de decimo Prime phylosophie dicentes: omnia que sunt unius generis reducuntur ad unum, quod est mensura omnium que sub illo genere sunt; sed omnes homines sunt unius generis: ergo debent reduci ad unum, tanquam ad mensuram omnium eorum.
Et cum summus Antistes et Imperator sint homines, si conclusio illa est vera, oportet quod reducantur ad unum hominem. Et cum Papa non sit reducendus ad alium, relinquitur quod Imperator cum omnibus aliis sit reducendus ad ipsum, tanquam ad mensuram et regulam: propter quod sequitur etiam idem quod volunt.
Ad hanc rationem solvendam dico quod, cum dicunt «Ea que sunt unius generis oportet reduci ad aliquod unum de illo genere, quod est metrum in ipso», verum dicunt. Et similiter verum dicunt dicentes quod omnes homines sunt unius generis; et similiter verum concludunt cum inferunt ex hiis omnes homines esse reducendos ad unum metrum in suo genere.
Sed cum ex hac conclusione subinferunt de Papa et Imperatore, falluntur «secundum accidens». Ad cuius evidentiam sciendum quod aliud est esse hominem et aliud est esse Papam; et eodem modo aliud est esse hominem, aliud esse Imperatorem, sicut aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum.
Homo enim est id quod est per formam substantialem, per quam sortitur spetiem et genus, et per quam reponitur sub predicamento substantie; pater vero est id quod est per formam accidentalem, que est relatio per quam sortitur spetiem quandam et genus, et reponitur sub genere «ad aliquid», sive «relationis». Aliter omnia reducerentur ad predicamentum substantie, cum nulla forma accidentalis per se subsistat absque ypostasi substantie subsistentis: quod est falsum.
Cum ergo Papa et Imperator sint id quod sunt per quasdam relationes, quia per Papatum et per Imperiatum, que relationes sunt altera sub ambitu paternitatis et altera sub ambitu dominationis, manifestum est quod Papa et Imperator, in quantum huiusmodi, habent reponi sub predicamento relationis, et per consequens reduci ad aliquod existens sub illo genere.
Unde dico quod alia est mensura ad quam habent reduci prout sunt homines, et alia prout sunt et Papa et Imperator Nam, prout sunt homines, habent reduci ad optimum hominem, qui est mensura omnium aliorum, et ydea ut dicam quisquis ille sit ad existentem maxime unum in genere suo: ut haberi potest ex ultimis ad Nicomacum. In quantum vero sunt relativa quedam, ut patet, reducenda sunt vel ad invicem, si alterum subalternatur alteri vel in spetie comunicant per naturam relationis, vel ad aliquod tertium, ad quod reducantur tanquam ad comunem unitatem.
Sed non potest dici quod alterum subalternetur alteri, quia sic alterum de altero predicaretur: quod est falsum; non enim dicimus «Imperator est Papa», nec e converso. Nec potest dici quod comunicent in spetie, cum alia sit ratio Pape, alia Imperatoris, in quantum huiusmodi: ergo reducuntur ad aliquid in quo habent uniri.
Propter quod sciendum quod, sicut se habet relatio ad relationem, sic relativum ad relativum. Si ergo Papatus et Imperiatus, cum sint relationes superpositionis, habeant reduci ad respectum superpositionis, a quo respectu cum suis differentialibus descendunt, Papa et Imperator, cum sint relativa, reduci habebunt ad aliquod unum in quo reperiatur ipse respectus superpositionis absque differentialibus aliis.
Et hoc erit vel ipse Deus, in quo respectus omnis universaliter unitur, vel aliqua substantia Deo inferior, in qua respectus superpositionis per differentiam superpositionis a simplici respectu descendens particuletur. Et sic patet quod Papa et Imperator, in quantum homines, habent reduci ad unum; in quantum vero Papa et Imperator, ad aliud: et per hoc patet ad rationem.
NOTA [40]. Il sofisma della fallacia accidentis si ha quando ciò che si dice di un soggetto si fa valere anche per il suo accidente (o viceversa), mentre non necessariamente vale per questo, in quanto sostanza e accidente non sono identici nella loro essenza formale, pur riferendosi allo stesso soggetto. Aristotele fa questo esempio: A è uomo; ora B è diverso da A; quindi B non è uomo, ove la diversità nelle proprietà accidentali individuali (es. uno è biondo, l’altro è bruno) viene erroneamente trasferita alla loro essenza specifica, che invece è identica.
Dante prospetta diffusamente il caso inverso di un’identità essenziale (papa e imperatore in quanto uomini sono identici nella specie) che si vorrebbe trasferire ai loro rispettivi accidenti quali sono le funzioni di papa e imperatore, che invece sono relationes diverse e specificamente contrarie, e quindi non mediabili e non riducibili ad unum o riferibili ad una stessa sostanza, per cui chi li identifica o li assoggetta l’uno all’altro va contro la legge di non-contraddizione e cade nella fallacia accidentis. (traduzione e nota di Pio Gaja)
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO
Federico La Sala
"DUE SOLI", A #GLORIA E A #MEMORIA DI #DANTE, UN "#ALBERO" SEMPRE VERDE DEL #PIANETATERRA:
#ENIGMISTICA #CRUCIVERBA, #FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA #POLITICA.
Una breve nota alla parte iniziale del primo capoverso del Libro Primo del capitolo I della #Monarchia di #Dante Alighieri:
RILEGGENDO #OGGI QUESTE CHIARISSIME PAROLE DI AVVIO DEL "DISCORSO" E, CONTEMPORANEAMENTE, GUARDANDO DAL #TEMPO IN CUI è stata scritta l’Opera, appunto, la #Monarchia, non c’è che da riferire allo stesso Autore , cioè #DanteAlighieri, la "visione profetica" incorporata nella citazione dei versi ripresi dal testo biblico: "Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, /che darà frutto a suo tempo /e le sue foglie non cadranno mai; / riusciranno tutte le sue opere" (Salmi, 1.3); RINGRAZIARLO E, POSSIBILMENTE, CERCARE DI CAPIRE MEGLIO LA SUA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA, SINTETIZZABILE NELLA #FORMULA PARADIGMATICA DEI "#DUE SOLI".
***
"DUE SOLI" IN #TERRA, E UN SOLO #SOLE IN CIELO: "#TRE SOLI". #GENERE UMANO: "I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE"! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO .
Dante Alighieri condannato 700 anni fa? M5s: “Il Comune di Firenze lo riabiliti”
La sentenza, datata 1302, era stata pronunciata durante la "guerra" tra guelfi e ghibellini: il poeta fu esiliato. La vicesindaco: "Non è necessario, stiamo organizzando il 750esimo per celebrare il Vate". La consigliera dei Cinque Stelle Noferi: "Amministrazione irrispettosa e arrogante"
“Riabilitare ufficialmente Dante Alighieri, mettere fine a un’ingiustizia secolare”. Lo chiede la consigliera comunale del Movimento Cinque Stelle a Firenze, Silvia Noferi. Il M5s chiede al Comune di Firenze la riabilitazione ufficiale del Vate, con l’annullamento della sentenza del 27 gennaio 1302 che, durante la “guerra” tra guelfi e ghibellini, condannò il poeta e tre suoi compagni al bando dalla Toscana per due anni, alla distruzione e alla confisca dei beni, all’esclusione a vita da ogni pubblica carica e all’iscrizione dei loro nomi nei registri comunali come falsari.
La richiesta dei Cinque Stelle giunge a 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri. Già nel 2008 il consiglio comunale approvò una mozione per “la riabilitazione ufficiale della figura del poeta” ma - sottolinea Noferi - “a distanza di quasi sette anni ancora nessun documento ufficiale è stato varato”.
Ma dall’altra parte Palazzo Vecchio ritiene superflua una riabilitazione formale di Dante da parte di Palazzo Vecchio. Cristina Giachi, vicesindaco con delega a Educazione, Università e Ricerca, assicura: “Tutti ormai riconoscono il valore del Sommo Poeta e non sono necessarie riabilitazioni ufficiali, tanto più che la città di Firenze sta organizzando le celebrazioni per l’anniversario dei 750 anni dalla nascita”.
Ma Silvia Noferi non apprezza: “Non emettere atti ufficiali per rimediare a quanto ingiustamente comminato vuol dire tenersi fuori dalla storia, quella fatta da pochi uomini e poche parole ma da grandi ideali. Abbiamo ripresentato un’ulteriore mozione per la riabilitazione di Dante Alighieri e attendiamo l’abituale bocciatura per dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanta poco amore per la cultura si nasconda in realtà in Palazzo Vecchio”. M5S controreplica: “Se gli atti ufficiali non servono a nulla - sostiene Noferi -, sarebbe da chiedersi come mai il Vaticano nel 1992, dopo solo 359 anni, ha riabilitato Galileo Galilei. Tutti sappiamo quanto sia difficile per la Chiesa ammettere errori e persecuzioni di idee divergenti anche se molto lontane nel tempo e vedere che il Comune di Firenze riesce a perseverare nel suo comportamento irrispettoso e arrogante verso Dante Alighieri, è inverosimile”.
FEDERICO II, DANTE, E LA DISTRUZIONE DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA"*
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth.
Le raccolte di leggi cominciarono a farsi più frequenti: la piccola ma importante raccolta del normanno Ruggero II aveva segnato un inizio. Contemporanea quasi alla grande codificazione fridericiana del diritto pubblico e amministrativo, venne alla luce la raccolta dei Decretali, cominciata da Innocenzo III e pubblicata da Gregorio IX nel 1234 e "lasciando da parte il superfluo", "secondo l’esempio di Giustiniano".
È strano che in quel tempo che aspettava quasi da un momento all’altro giudizio universale e fine del mondo, sbocciasse ovunque lo studio del diritto, quasi che la conoscenza delle leggi potesse stornare appunto il giudizio universale; e che in quel secolo, che come nessun altro guardava alla pienenezza dei tempi, vedesse giungere a compimento l’aspirazione di un millennio: la iustitia. Ma di tutto il lavoro dei giuristi soltanto un’opera, come sempre accade, portò a una rottura decisiva: il Liber augustalis di Federico II. Nel quale confluirono e costituirono un tutto determinate premesse: al punto che nel codíce siculo la giustizia stessa celebrava la sua apoteosi. In forza della dignità imperiale e del suo ufficio di giudice supremo, Federico II si pose a capo, in veste dí realizzatore, del secolare movimento tendente alla giustizia, allo scopo di fondare, grazie ad esso, lo stato laico: il quale, pur senza la spiritualità ecclesiastica, sarebbe stato tuttavia una creazione permeata di forze spirituali" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988).
* Federico La Sala
Scoperte filologiche
La nuova alba dell’italiano
Nello Bertoletti ha scoperto e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini
Datato 1239, in dialetto settentrionale, con ogni probabilità piemonese
di Claudio Giunta (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.02.2015)
«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
Sappiamo intanto che la cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente creduta» ai tempi di De Sanctis, e che non ci sono ragioni per attribuire a Cielo (non Ciullo) d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero da Siena, il ruolo dell’iniziatore. Sappiamo che esistono testi in versi di argomento religioso-devozionale che risalgono all’ultimo quarto del dodicesimo secolo o al primo quarto del tredicesimo (e uno di questi testi, per quanto atipico, è poi il Cantico delle creature di san Francesco).
Ma sappiamo anche che le strade della poesia profana furono meno lineari di quanto s’immaginasse non solo sino a De Sanctis ma sino a una quindicina d’anni fa, perché i filologi hanno trovato, frattanto, testi poetici databili agli ultimi decenni del secolo XII o ai primi del XIII in aree eccentriche rispetto a quelle in cui nasce e si sviluppa, nel secondo quarto del Duecento, la tradizione cosiddetta “siciliana”: si tratta, precisamente, della canzone Quando eu stava scoperta da Alfredo Stussi in un’antica pergamena ravennate, e del frammento piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela (2005).
Ora il quadro cambia di nuovo, e non per un dettaglio, perché Nello Bertoletti ha scoperto (non in un archivio ma tra le carte di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana) e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini che comincia così:
Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
chìa mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po’ la note fox veiota.
Ovvero, nella traduzione offerta dallo stesso Bertoletti: «Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte». Il testo prosegue per altre quattro stanze, nelle quali l’io poetico, dopo aver invocato Dio, si rivolge a un «Bè conpagnó», cioè a un «Bel compagno», invitandolo a svegliarsi, perché l’alba si avvicina.
Alba è appunto il nome del genere poetico a cui questo testo appartiene, genere (o piuttosto motivo) diffuso in molte letterature, ma da un lato poco o nulla presente in quella italiana (giusto qualche traccia nel Duecento, nei cosiddetti Memoriali bolognesi), dall’altro invece vitalissimo fra i trovatori, cioè tra quei poeti che vissero nella Francia meridionale, e successivamente anche nell’Italia del nord, tra la fine del secolo XI e la fine del secolo XIII.
Ebbene, quali sono i motivi d’interesse di questa inedita alba? Molti, a cominciare dall’epoca in cui è stata scritta. Al centro della medesima carta sulla quale è trascritto il testo si legge infatti una data, «Millesimo Ducentesimo Trigesimo nono», cioè 1239: e Bertoletti mostra in maniera molto convincente (confortato anche dalla perizia paleografica di Antonio Ciaralli) che questa data è stata vergata in un momento successivo alla trascrizione di Aiuta De’: il 1239 rappresenta dunque un sicuro termine ante quem per la composizione e la copia del nostro testo, che sarà pertanto almeno sincrono rispetto alle poesie che in quegli anni venivano composte, molti chilometri più a sud, alla corte di Federico II.
Un altro motivo d’interesse è la pertinenza geografica del testo. I quattro versi citati sono difficili da capire perché non sono scritti nel limpido toscano, o nel siciliano toscanizzato, dei grandi poeti del Duecento che si leggono a scuola, ma in un dialetto settentrionale. Ora, buona parte degli sforzi di Bertoletti sono appunto rivolti a precisare di quale dialetto settentrionale si tratti, e al termine di un’analisi davvero esemplare per ampiezza e rigore Bertoletti conclude che l’origine del testo va ricondotta con ogni probabilità al Piemonte, e forse al Piemonte meridionale, cioè a un’area compresa «tra l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato».
Dato interessantissimo: da un lato perché di poesia scritta in un volgare assegnabile al basso Piemonte non s’era mai scoperta traccia sino ad ora; e dall’altro perché il basso Piemonte non era però, nel primo Duecento, una regione in cui mancassero i poeti: solo che scrivevano e cantavano non nel volgare locale bensì in lingua occitana.
Col che veniamo al terzo (e forse maggiore) motivo d’interesse della scoperta di Bertoletti. Aiuta De’ non è un testo originale bensì la traduzione di una celebre alba del trovatore Giraut de Borneil, quello che Dante nel De vulgari eloquentia indica come esemplare della «poesia della rettitudine». L’alba di Giraut ha però un incipit diverso, comincia infatti Reis glorios, verays lums e clardatz (dove il Re glorioso è appunto Dio), né - come Bertoletti documenta minuziosamente nel suo commento - è questa l’unica licenza che il traduttore piemontese si prende nei confronti del suo testo-modello. Ma dimostrato che, comunque, di traduzione si tratta, il fuoco della ricerca si concentra appunto sul testo-modello e sulla sua folta tradizione manoscritta: a quale ramo di questa tradizione apparteneva il manoscritto che il poeta-traduttore piemontese aveva di fronte a sé, ovvero quale “versione” di Reis glorios leggeva costui?
Ed ecco l’ultima sorpresa: perché la tradizione a cui mostra di attingere il nostro poeta-traduttore è la stessa a cui attingerà il canzoniere (assai più tardo) che i provenzalisti conoscono come «T», canzoniere cruciale anche per la letteratura italiana perché fu probabilmente attraverso un manoscritto simile a «T» che Giacomo da Lentini e gli altri siciliani fecero conoscenza con la poesia trobadorica. Non solo: è anche la medesima tradizione alla quale attinse l’anonimo copista siciliano di un altro manoscritto latore di Reis glorios, oggi conservato a Monaco di Baviera.
La conclusione di Bertoletti è sobria (com’è sobrio, misuratissimo, tutto questo suo splendido lavoro), ma darà certo materia di riflessione agli specialisti: «avremmo quindi la traccia concreta della trasmissione di un testo trobadorico [Reis glorios] dalla Provenza alla Sicilia attraverso una mediazione italiana nordoccidentale (piemontese), anziché veneta».
*
Nello Bertoletti, Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil , con una nota paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura. Il volume è acquistabile direttamente dall’editore sul sito www.storiaeletteratura.it
Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa
di Claudio Gallo (La Stampa, 16 dicembre 2013)
«Immagina che non ci sia nessun paradiso, provaci, non è poi così difficile, immagina che non ci sia nessun inferno sotto di noi». Così cantava John Lennon nel 1971, con la sua Imagine, proponendo di abolire il paradiso mentre, per l’ineludibile dialettica delle cose, ne proponeva una nuova versione. Si può vivere senza un altrove? Sembrerebbe di no, perché, anche nelle menti più scettiche, l’idea o l’immagine emerge puntualmente dal pozzo tenebroso da cui sorge la coscienza. Non ci credo, ma lo immagino.
Gli antichi, che vedevano il mondo con occhi diversi dai nostri, non si ponevano il problema della sua esistenza ma s’interrogavano sul dove. Una raffinata scienza cartografica si sviluppò lungo i secoli per indicare dove il paradiso terrestre fosse situato. Una «scienza» cangiante che si è prefissata l’obiettivo di spiegare l’inspiegabile e che è riuscita a sopravvivere anche all’era delle misurazioni esatte.
Segue il suo percorso affascinante, che è allo stesso tempo una mappa della nostra mente, lo storico Alessandro Scafi, docente al Warburg Institute di Londra, nel suo Maps of Paradise, appena pubblicato in Gran Bretagna (dalla British Library) e in Nord America (dalla University of Chicago Press) e in attesa di traduzione italiana. Il libro traccia la storia della cartografia di una specifica forma di paradiso: il Giardino dell’Eden descritto nel libro della Genesi . Il termine usato nella versione ebraica è «Gan Eden», Giardino dell’Eden.
La parola persiana da cui deriva il termine paradiso adottato nelle versioni greche e latine della Genesi , «pairi-daeza», indicava all’inizio (nell’epoca achemenide, tra il ’600 e il ’300 a.C.) uno spazio chiuso da un muro. Quando i traduttori greci e latini dell’originale ebraico scelsero il termine paradiso trasformarono il luogo perfetto di Adamo ed Eva in un giardino recintato. È interessante che per tutta l’antichità l’ideale di perfezione fosse rigorosamente uno spazio finito. L’idea di un infinito illimitato, che a un filosofo greco avrebbe fatto orrore, è un dono della modernità, con le sue dimensioni disumane. Il paradiso socialista, di cui Marx profetizzava l’avvento sulla terra, nasceva proprio dalla negazione dell’accumulazione illimitata delle ricchezze per tornare al limite naturale del rapporto umano. Ciò che i greci chiamavano «metron» e mettevano alla base di ogni convivenza sociale.
Dall’inizio dell’era cristiana fino al Rinascimento le mappe del mondo situavano il Paradiso a Oriente perché così era indicato in alcune traduzioni della Genesi . «Infatti, in molte mappe medievali - ha spiegato Scafi presentando il libro all’Istituto italiano di cultura di Londra - il paradiso è localizzato a Est. Le moderne misurazioni geografiche non rappresentano che luoghi. Ma prima del Rinascimento, prima della riscoperta della geografia tolemaica, prima dell’uso di longitudine e latitudine, le mappe del mondo erano narrazioni storiche piuttosto che rappresentazioni geografiche».
Niente di più distante da Google Maps delle mappe medievali (anche se Google Earth ha cominciato a inserire una dimensione storica). Nelle antiche carte si compendiava la storia del mondo: il dramma dell’umanità si rivelava attraverso la geografia. Si poteva vedere il mondo di ieri ma anche il mondo di domani che, coincidendo con la fine dei tempi, era al di fuori del tempo e dello spazio: uno stato rappresentabile ma non pensabile.
«In Armenia - ha detto Scafi, illustrando il mappamondo di Hereford - vediamo l’Arca di Noè, in Mesopotamia la Torre di Babele, tra il Sinai e il Mar Rosso l’esodo del popolo d’Israele; a Gerusalemme la crocifissione di Gesù Cristo; a Creta il labirinto di Minosse; in Asia il Vello d’oro degli Argonauti. Nel Medioevo si credeva che lo spazio fosse inestricabilmente legato al tempo, una cosa tornata ovvia agli occhi dei fisici del ’900».
Il paradiso terrestre in quelle mappe è fissato nel momento topico in cui Adamo ed Eva commisero il peccato originale, come la finestra di un’altra dimensione affacciata sul presente. Così il giardino dell’Eden esiste e non esiste allo stesso tempo, è geograficamente localizzabile sulla terra ma rimane inaccessibile. Un luogo che è contemporaneamente dentro e fuori del mondo, sulla terra ma non della terra. Lo spazio diventa una semplice convenzione: mentre i cristiani medievali immaginavano un paradiso a Oriente, i loro contemporanei buddisti guardavano al paradiso d’Occidente.
Profondi cambiamenti nella teologia e nella cartografia hanno poi trasformato la visione medievale di un giardino ancora esistente in un Oriente misterioso nell’idea moderna di un paradiso perduto, i cui resti sono stati identificati con precisione in vari luoghi del mondo conosciuto. Nei modi più vari e ingegnosi cartografi e teologi hanno tentato per due millenni di situare il loro paradiso.
Nessuno più di Dante ha cercato di spiegare perché il paradiso non si può spiegare: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende / perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire»
LA MAPPA
Ecco i luoghi del Paradiso terrestre
di Roberto Beretta (Avvenire, 3 giugno 2012)
Che bel posto! È un paradiso... Tra il deserto e il Polo Nord, Gerusalemme e Bristol, ci sono almeno una ventina di luoghi al mondo che potrebbero sostenere la nomea letteralmente parlando; nel senso che sono stati identificati come ubicazione geografica del paradiso. Terrestre, sì; però sempre tale. Ma come: non si trattava, per l’Eden, di un luogo mitico, simbolico, leggendario e dunque assolutamente impossibile da localizzare?
Beh, qualunque serio esegeta abbozzerebbe oggi un sorrisetto di compatimento alla richiesta di indicare sul mappamondo il paradiso terrestre; però è altrettanto vero che la storia è zeppa di appassionati che hanno tentato di farlo.
Ne produce ora un censimento l’atlante di Brook Wilensky-Lanford Il paradiso ritrovato. Sulle tracce del giardino dell’Eden (Edt, pp. 328, euro 20) - ma analoga impresa era confluita anni fa pure in una mostra internazionale e poi nel libro di Alessandro Scafi Il paradiso in terra (Bruno Mondadori). Ecco dunque un elenco di tentativi serissimi oppure folli, elaborati a tavolino con astrusi calcoli ovvero perseguiti sul campo in avventurose spedizioni, per scoprire dove è finito il paradiso perduto.
UN GIARDINO TRA I FIUMI
La prima responsabile di questa ricorrente ossessione è del resto la Genesi stessa; la quale, al capitolo 2 versetti 8-14, descrive con precisione le coordinate del luogo: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente... Un fiume usciva... di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro... Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate». Non è un caso dunque se la maggior parte degli Indiana Jones del paradiso terrestre si sia buttato sulle uniche indicazioni identificabili con sicurezza: quelle del Tigri e dell’Eufrate.
Intorno alla Mesopotamia ruotano infatti le più numerose ipotesi di localizzazione dell’Eden: da quella di Calvino, che nel suo commentario biblico incluse una mappa in cui l’Eden era collocato «a est di Babilonia», alle ben più recenti dell’egittologo David Rohl (1995; per lui il primo paradiso è la valle del vulcano spento nonché sacro Sahand, a 10 chilometri da Tabriz) o del cacciatore di misteri Michael Sanders (2001: a suo avviso il paradiso sta sui monti dell’oriente turco, giusto dove nascono Tigri ed Eufrate). A Qurna del resto - città che però sta molto a valle, alla confluenza tra i due grandi fiumi iracheni - fino ai primi decenni del Novecento viveva un «Albero della conoscenza» assai apprezzato dai turisti.
DALL’INDIA ALLA CINA
Appunto un assirologo, il tedesco Friedrich Delitzsch, trovando all’inizio del Novecento sopra un sigillo babilonese una (presunta) raffigurazione di Adamo ed Eva, ritenne di aver «risolto» la questione dei 4 fiumi nella Genesi: i due meno noti sarebbero stati in realtà dei canali d’irrigazione. Geniale! Con un problema, però: chi li avrebbe scavati, quei canali, se l’Eden era abitato soltanto da Adamo ed Eva? Altri - primo tra tutti lo storico giudeo-latino Flavio Giuseppe - tentarono piuttosto l’identificazione dei due misteriosi corsi d’acqua con grandi fiumi più o meno vicini: il Pison sarebbe così il Gange, mentre il Ghicon coinciderebbe col Nilo (anche l’esploratore David Livingstone si diceva certo che l’Eden si trovasse alle sorgenti di tale fiume, che però lui allungava fino allo Zambia).
La Genesi era d’altronde chiara: il giardino si trovava «in oriente». L’Eden è in Asia, sosteneva appunto era nel VII secolo, di poco preceduto dal vescovo siriano Severiano: al quale sembrava teologicamente inappuntabile che l’uomo fosse nato laddove sorge anche il sole. In una carta geografica dell’VIII secolo, conservata alla Vaticana, il «paradisus» confina appunto con l’India. A Oriente, dunque; ma fino a giungere in Cina? Perché proprio questo sosteneva Tse Tsan Tai, l’uomo d’affari di Hong Kong che nel 1914 pubblicò la sua teoria secondo cui il luogo d’origine del primo rappresentante della nostra specie (ovviamente un cinese) era un’oasi nello sperduto deserto mongolo. Nella quale peraltro lui non era mai stato...
SUL MONTE O SOTTO I MARI
E se invece di guardarci intorno, dovessimo alzare gli occhi verso l’alto? Che il paradiso terrestre sia in cima a una montagna è pure un’ipotesi assai frequentata. Per esempio dal filosofo medievale Duns Scoto, ma anche dal poeta John Milton nel suo Paradise Lost, per non parlare del buon vecchio Dante che lo collocò in cima al monte del Purgatorio. Cristoforo Colombo, incrociando nel suo terzo viaggio le maestose foci dell’Orinoco, favoleggiò che quel flusso immane sgorgasse come latte da un alto seno della Terra, il medesimo che aveva albergato il primo paradiso; ma per principio si rifiutò di esplorarlo, in quanto Dio stesso nella Bibbia aveva esplicitamente proibito all’uomo di tornarvi. Secondo vari pareri, l’Eden doveva trovarsi in zona elevata anche per un altro semplice motivo: solo così avrebbe potuto sottrarsi al diluvio universale, che tutto aveva sommerso.
E infatti non mancano teorie che collocano la dimora dei progenitori sott’acqua: nel Mediterraneo, precisamente ad ovest di Creta (è l’opinione della stravagante e spiritista «chiesa» di Urantia), oppure nel Golfo Persico. Ingegnoso fu Archibald Henry Sayce, oxfordiano autore di una grammatica assira, quando nel 1882 mise la retromarcia ai 4 fiumi biblici: il testo della Scrittura intendeva in realtà riferirsi alla marea che periodicamente invadeva il Tigri e l’Eufrate e un paio di altri corsi vicini, risalendo dalla foce verso nord. Teoria ripresa e corretta un secolo più tardi dall’archeologo Juris Zarins, il quale poté però avvalersi anche delle foto riprese dal satellite.
LA TERRA DELLE ORIGINI
Ma non manca neppure chi ha fatto un ragionamento storico più che esegetico: se l’Eden è stato la culla del primo uomo, è dove si concretamente si rinvengono i resti degli ominidi che bisogna andare a cercarlo. Così nel 1896 l’antropologo Henry Seton-Karr, avendo scoperto molti utensili preistorici nel deserto della Somalia, non esitò ad annunciare di aver trovato pure l’ubicazione del Giardino della Genesi. In effetti la maggior parte dei paleo-antropologi oggi propende per l’origine della nostra specie nel continente nero; e tuttavia la Wilensky-Lanford nota che «quasi tutti coloro che cercavano l’Eden avevano trascurato l’Africa. Perché questo divario?». Forse per razzismo culturale, si risponde... In effetti nemmeno la valle etiopica di Awash - dove pure nel 1974 furono scoperti i resti di Lucy, il più antico ominide conosciuto - venne mai presa in seria considerazione come possibile dimora di Adamo ed Eva.
MEGLIO IL POLO NORD...
Restano infine le ipotesi più fantasiose. William Fairfiled Warren, professore universitario americano nonché pastore metodista, nel 1885 identificò con straordinario successo l’Eden nel Polo Nord, ovviamente in un’era geologica nella quale il pianeta doveva essere assai più caldo di oggi. Il connazionale e collega accademico George C. Allen fu pronto ad accodarsi, ma con un’importante precisazione: il Polo si muoveva sulla crosta terrestre e dunque al momento il primo paradiso si trovava più o meno nell’Ohio (qualcun altro, forse influenzato dalla natura dei luoghi, corresse: no, è nella valle di Santa Clara in California); sempre nell’Ohio, del resto, si trova anche Serpent Mound, un terrapieno a forma di rettile costruito dai nativi americani e che all’inizio del Novecento sembrò al reverendo battista americano Edmund Landon West un lampante segnale lasciato da Dio per indicare la località in cui aveva creato i nostri antenati...
...O LE SEYCHELLES?
Il generale inglese Charles Gordon identificò infine le caratteristiche del paradiso biblico con quelle dell’isola di Praslin, la maggiore delle Seychelles: abbondanza di serpenti, pianta del bene del male (l’albero del pane) nonché clima e paesaggio paradisiaci. Certamente si sbagliava, ma siamo sinceri: chi oggi avrebbe il coraggio di dirlo ai beati turisti che lì si godono il sole?
Roberto Beretta
Il sommo poeta e le sue opere
Sono in preparazione otto tomi Un corpus complesso e definitivo
Alighieri pensava alla grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza e della felicità
di Giulio Ferroni (l’Unità, 12.12.2013)
CENTENARI E RICORRENZE DI VARIO GENERE PORTANO ALLA RIBALTA SITUAZIONI DEL PASSATO, capolavori delle arti e della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nellombra: al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi, in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi, concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari, visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il «padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte (2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, che raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi collaterali a quelli danteschi.
Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo del VII (Fiore e Detti d’amore, opere di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero (pp. CLII-594, €.49,00).
PROSA MEDIEVALE
Tra le opere di Dante la Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna.
Questa edizione collega a un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un orizzonte tutto «medievale», la Monarchia ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani: in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico, questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente, che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il Paradiso.
All’ultimo canto del Paradiso, come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica ora un piccolo prezioso libretto, Dante al cospetto di Dio (Salerno editrice,2013,pp.92,€.7.90), che conduce il lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo, mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista “universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.
Con Aristotele, felici di sapere
di Gianluca Briguglia (Il Sole-24 Ore, 19 agosto 2012)
Chi è ancora abituato a pensare al medioevo filosofico come periodo oscuro e sostanzialmente unitario sarà forse stupito del titolo del convegno organizzato dalla Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale (Siepm), che raduna migliaia di studiosi di medievistica filosofica di tutto il mondo: «I piaceri della conoscenza» (direzione scientifica e organizzazione di Thomas Ricklin e Marc-Aeilko Aris, entrambi docenti alla Lmu di Monaco). Il tema è stato strategico nella ricerca degli ultimi due decenni, ma è ancora ricchissimo e promettente e anzi il convegno, che prevede decine di sessioni e centinaia di relatori, sembra avere tra i suoi obiettivi quello di rilanciare il dibattito e la ricerca su basi ancora più ampie.
Seguiamo qui solo una pista, che è stata il nucleo concettuale di una prima grande fase della ricerca storiografica recente. In che cosa consistono il vero piacere e la vera felicità per l’uomo? Si possono trasformare in una forma di vita? Se domande come queste sembrano perenni, le risposte sono storiche. «Il piacere è conseguenza della conoscenza come l’ombra del corpo». Lo scrive Averroè commentando la Metafisica di Aristotele (libro XII), e un gruppo di filosofi del XIII secolo, tra cui Boezio di Dacia (il cui pensiero è stato analizzato per esempio in Italia da Luca Bianchi e Gianfranco Fioravanti), o Giacomo da Pistoia (oggetto di alcuni bei lavori recenti di Irene Zavattero), lo prende sul serio.
Per costoro l’attività filosofica è la via per la felicità e la ragione è il suo campo proprio. Quella del filosofo è però una professione (è il medioevo che inventa le università, prima non c’erano), e l’affermazione che la vita filosofica è l’unica in grado di raggiungere la vera felicità può essere considerata come la presa di coscienza della forma di vita legata al lavoro effettuato alla Facoltà delle Arti (aspetto sul quale ha insistito a lungo Alain de Libera).
D’altra parte il decimo libro dell’Etica nicomachea di Aristotele sembra parlar chiaro: la vita del filosofo è quella che attualizza pienamente le potenzialità umane. Si è pienamente umani, in quanto si è filosofi: etica e conoscenza si intrecciano, felicità e attività intellettuale, come natura dell’uomo, sono legate. E il filosofo del XIII secolo è appunto il maestro delle Arti, il filosofo di professione riconosciuto da una corporazione, dotato di tecniche per indagare la verità, fornito di un sapere pubblico ma specialistico, di metodi scientifici.
L’immagine del filosofo dell’università - che può raggiungere in questa vita la propria felicità - e lo stile di vita del sapiente morigerato, e anzi quasi ascetico, si fondono allora insieme almeno per un momento dando vita a una nuova figura di intellettuale. Sono dunque in questione classi di domande e progetti di ricerca e vita filosofica molto complesse. Si tratta infatti per questi autori di comprendere come il desiderio di conoscere si strutturi in nuove teorie della conoscenza, quali siano gli oggetti del piacere intellettuale e come essi si incontrino con le facoltà umane o come l’intelletto umano possa incontrare, per sua natura, quello divino (copulatio è il termine che spesso troviamo a indicare quel tipo di unione). Ma si tratta anche di capire quale formazione, tecniche di lavoro e di verificazione della conoscenza siano necessarie e quale ruolo abbiano i filosofi nella ricerca e nel presidio sociale della verità. Dunque idee rilevanti e dal significato dirompente, perché lo spazio di questo nuovo filosofo delinea un modello etico, costruisce una gerarchia di valori che entra in conflitto con altri modelli etici, con altre aspirazioni e concettualizzazioni del piacere e della felicità.
L’attenzione degli storici all’impatto di questa riflessione sulla "felicità mentale" (per usare una fortunata, e variamente utilizzata, espressione di Maria Corti) in un momento preciso e strategico della storia intellettuale europea ha delineato un campo di indagine che si è via via ampliato ad altre fonti (si pensi al Convivio e alla Monarchia di Dante), a una più ampia cronologia (Abelardo e Giovanni di Salisbury avevano già tematizzato un nesso tra piacere e sapere) e alle diverse "durate" storiche del mondo mediterraneo (non solo quello musulmano, ma anche quello greco-bizantino ed ebraico).
Il modello di felicità filosofica di quel gruppo di aristotelici radicali non è dunque l’unico e forse neppure il più ardito (e rappresenta solo una piccola parte degli interessi del convegno di Freising). Ciò che colpisce è il rigore della domanda stessa sulla natura della conoscenza e sulla felicità che essa comporta. Il che significava per loro - e un po’ anche per noi - interrogarsi sulla natura stessa dell’umanità e dei suoi desideri. «Per natura tutti gli uomini desiderano conoscere», avvertiva Aristotele nella Metafisica; e Agostino, certo da una posizione diversa: «Tutti gli uomini vogliono essere felici».
Siepm 2012, Pleasures of knowledge. International congress of medieval philosophy, Freising (Germania), 20-25 agosto. www.lmu.de/siepm2012
Come è nato e si è diffuso il nostro idioma
E Dante creò una lingua meticcia
La fatica con cui lo leggiamo dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso
di Valerio Magrelli (la Repubblica, 16.05.2011)
Fra le tante eccezioni di cui gode l’Italia, terra delle eccezioni, quella della lingua non è certo fra le più marginali. Come un unico fiume millenario, la sua letteratura deriva infatti da una sola sorgente, rappresentata da un singolo testo fondatore: La Divina Commedia. (Prendiamo per buona quest’approssimazione, sorvolando sulla scuola siciliana, toscana, bolognese, come su un autore quale Cavalcanti, e proviamo a sviluppare la metafora). Dalla cima di quell’opera somma, un autentico Everest europeo, scaturisce la lingua che irriga la nostra poesia, la nostra prosa, il nostro teatro.
Ma in cosa consiste il segreto di un simile capolavoro? Direi in una capacità di concentrazione e immagazzinamento sillabico senza precedenti. Dante, cioè, procede a un inaudito stoccaggio del senso. La fatica con cui lo leggiamo, dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Per ricorrere a un’altra analogia, siamo di fronte a una sorta di congelamento: ogni verso della Commedia reca in sé, sprofondata nel freddo, una massa di senso quasi intollerabile. Cosa fare, allora? Bisognerà passare questi versi al micro-onde del commento: il processo di comprensione richiede cioè di tradurre il cibo dell’autore in un nuovo stato fisico.
Altrimenti detto, all’interno di quest’opera il commento equivale a un percorso di riconversione. Da qui la lentezza del procedere: è come se ogni verso fosse un nodo, un algoritmo, un’equazione da risolvere. Sotto questo aspetto, la lingua di Dante suona straniera, talmente straniera che in certo modo solo uno straniero ha saputo coglierne fino in fondo il segreto. Penso ovviamente al grande Ospi Mandel’stam, che ne affrontò la lettura usando la penna «come il martelletto del geologo». Mille immagini sgorgano dal suo saggio, tra cui questa osservazione illuminante: «Il commento è parte integrante della Commedia [...] la Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». Ma forse non è un caso che ad afferrare così bene la struttura dell’opera sia stato un poeta di un’altra lingua e di un’altra cultura, che amava sillabare Dante nei campi di prigionia, che usava Dante per resistere al silenzio della tirannia.
Ciò spiega quanto risulti profonda la sorgente della nostra letteratura, e aperta a chiunque voglia attingervi. Prodotta da quelle matrici latine, greche, provenzali, arabe, normanne che concorsero alla nascita del Dolce Stil Novo, la poesia, e dunque la lingua italiana, sorsero insomma meticce, e come tali sono pronte oggi a ricevere i lettori che giungono a noi da mondi lontani. È in questa prospettiva che va intesa la "funzione-Dante" descritta da un critico come Gianfranco Contini. Plurilinguismo, espressionismo, dinamicità, sono iscritti nel nostro testo fondatore come altrettante forme di accoglienza verso la parola dello straniero, l’ospite sacro venerato da Omero.
Se le parole non esistono
Quel linguista scettico che sfida Chomsky
Scrive saggi e tiene un blog dove critica le star della disciplina: si chiama Nunzio La Fauci e sostiene che non c’è un lessico prima e fuori dalla sintassi. Ecco le sue tesi
La lingua non è una combinazione di elementi già dati. È il tutto che dà senso alle singole parti
Da esperto ritiene presuntuoso l’intento tipico degli intellettuali italiani: rendere i parlanti migliori
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 06.05.2011)
«Le parole non esistono». Fosse avanzata da un mistico, un artista figurativo o un politico (di quelli che possono usare espressioni come: «Le chiacchiere stanno a zero»), l’ipotesi non susciterebbe clamore. Ma l’ha detto un linguista e allora si è costretti a guardare alla possibile inesistenza delle parole con altri occhi.
Il linguista si chiama Nunzio La Fauci, il suo nome e il suo cognome sembrano voler riassumere le due principali funzioni della cavità orale. La Fauci insegna all’Università di Zurigo. Ha appena scritto un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e ha raccolto i suoi saggi sotto un titolo, di perfetta ortodossia saussuriana e strutturale: Relazioni e differenze (Sellerio). Per divertirsi, osserva usi della lingua (e dei linguisti) in un blog raffinato e paradossale intitolato ad Apollonio Discolo, bel nome di un grammatico greco del II secolo d.C., con la cui dottrina La Fauci in realtà dissente.
I linguisti non amano i catastrofismi, in merito alla lingua. Smentiscono la morte del congiuntivo, ridimensionano l’allarme per l’invasione dell’inglese, impetrano misericordia verso coloro a cui sfuggono sgraziati «attimini» o deformi «piuttosto che». La Fauci fa di più. Quando l’ex calciatore Beppe Dossena ha usato il verbo «reazionare» nel commento di una telecronaca di calcio, su Repubblica se n’è occupata la rubrica «Lapsus», ricordando l’esistenza del verbo «reagire». Apollonio Discolo è insorto, non contro il calciatore ma contro il suo incauto critico, ricordando a quest’ultimo l’esistenza del verbo «sanzionare» (che sta a «sancire» esattamente come «reazionare» sta a «reagire»).
Attenzione, dice oggi il professore, «agli "errori" degli altri (e dei presunti incolti). Può capitare non solo che errori non siano ma anche che svelino cose più interessanti e gustose delle proposte di presunte correzioni». Apollonio Discolo ha poi aggiunto: «Amare l’espressione umana (come amare una persona) non è pretendere che sia conforme ai nostri desideri, alle nostre fisime, ai nostri gusti (peraltro mutevoli) ed è invece piegarsi con attenzione a comprendere (che non vuol dire necessariamente giustificare) anche le sue corbellerie (o, almeno, quelle che a noi paiono tali), eventualmente sorridendone. Magari accadrà infatti che un giorno diventeranno norma e parametro di buon gusto». Chi, oggi, penserebbe male dell’articolo "il"? Eppure: «inorridirono sicuramente certi nostri lontani antenati quando videro crescere nella loro lingua l’onda travolgente dell’illu destinato a diventare l’articolo determinativo romanzo».
Data la giusta dimensione e prospettiva storica agli errori dei presunti incolti, La Fauci si dedica agli errori dei presunti colti, a cui riserva furie staffilanti e ironie a volte criptate. Obiettivo polemico principale, la linguistica contemporanea, quella accademica e soprattutto quella più influenzata da Noam Chomsky. Il celebrato lingui-star americano ha il torto di rivestire di tecnicismi (esempio: «componente computazionale») le più tradizionali partizioni grammaticali, già dichiarate inservibili dal vecchio Saussure. Per Chomsky ogni parola ha una funzione grammaticale (sostantivo, verbo...), e funge da componente della frase, a cui preesiste.
Per La Fauci, seguendo Saussure, non c’è un lessico, prima e fuori da una sintassi. Chomsky vuole farci credere che la teoria linguistica abbia pressoché raggiunto la perfezione. La Fauci è agli antipodi dello scientismo, tanto che congeda il lettore del suo Relazioni e differenze con un’acre asserzione: «Il cammino verso la conoscenza della lingua e verso la conoscenza dell’uomo deve ancora essere intrapreso».
Si era aperto, quel libro, con un’indicazione di metodo: «rationabilius», «in modo più razionale». La parola viene dal De vulgari eloquentia, il trattato di Dante sull’identità linguistica italiana. In un saggio su questo stesso tema, tanto dibattuto quest’anno, La Fauci mostra come tale identità, linguistica e non linguistica, sia plurale: il carattere unitario sta nel collettivo e reciproco riconoscimento che i diversi italiani si danno l’un l’altro. Cercando l’«odorosa pantera» di un sistema nell’estrema varietà degli idiomi presenti in Italia, Dante capisce all’improvviso che non deve descriverla in un trattato ma mostrarne le movenze: e scrive la Commedia. La Fauci raccoglie la lezione e fa teoria dove molti linguisti si accontentano di osservare le pratiche, e spiegarle sulla base di presupposti indimostrati; ma dove gli stessi si appellano alla teoria, La Fauci privilegia invece la pratica. Il suo Relazioni e differenze è una sorta di varietà linguistico: ci sono capitoli per specialisti (come quello che memorabilmente si intitola "Paradossi della paratassi") e capitoli che andrebbero letti da chiunque si occupi di discipline umanistiche, come i novanta secchi paragrafi finali intitolati "Faccette di linguistica razionale". Non sono emoticon, quelle faccette: compongono il vastissimo poliedro che è la lingua, per La Fauci.
La lingua non è il gioco del Lego, non è cioè una combinatoria di elementi già dati, con i mattoncini dei fonemi che formano il mattone della parola e i mattoni delle parole che formano il muro della frase e la casa del discorso. Nella costruzione linguistica è il tutto (il contesto, la "sintassi" come disposizione degli elementi, la relazione) che dà senso alle singole parti.
In questo, il ritorno di La Fauci allo spirito originario dello strutturalismo è tanto radicale da risultare pressoché ereticale. Le parole non esistono perché quello che chiamiamo "parola" è l’esito finale (non l’inizio!) di un procedimento analitico, per capirlo basta pensare a quanta fatica facciamo a individuare le singole parole ascoltando parlare una lingua che non conosciamo. Nulla di ontologico, che abbia valore in sé, esiste nella lingua: tutto sorge dalla relazione, anzi da un processo di correlazione, perché la lingua è sempre nel suo farsi.
La linguistica razionale auspicata da La Fauci rifiuta il programma - classico per ogni intellettuale italiano - di rendere i parlanti migliori, perché lo ritiene presuntuoso; poi rifiuta anche il programma di rendere migliori almeno gli intellettuali, perché lo ritiene impossibile. Scettici sulla possibilità di capire, privi di ogni certezza, non possiamo però neppure essere sicuri che interrogarsi sia inutile. È per quello che continuiamo a farlo. «A me», annuncia Nunzio, «l’esperienza umana (e la scienza, che ne è parte importante) pare l’esperienza di un "sebbene", non quella di un "perché" o di un "affinché"». Alla fine quelle cose che non esistono e si chiamano parole, infatti, le sa scegliere molto bene.
L’esposizione
La prima sul pittore a settantadue anni da quella allestita agli Uffizi
Giotto. Il mito e l’anima
Venti i capolavori del maestro in mezzo a sculture, codici e tavole trecentesche
Roma celebra il rivoluzionario dell’arte che con Dante fondò l’identità nazionale
di Lauretta Colonnelli (Corriere della Sera 6.3.09)
Fu il protagonista della rivoluzione della pittura attorno all’anno 1300. Dopo di lui gli artisti hanno preso a guardare il mondo in modo moderno, imparando a narrare con le immagini, a introdurre nella pittura una dimensione affettiva, a rappresentare lo spazio in maniera tridimensionale, a riscoprire l’amore per la natura. L’originalità della mostra «Giotto e il Trecento», che si apre da oggi nel Complesso del Vittoriano a Roma, consiste proprio in questo: nel voler documentare con strumenti critici contemporanei e nella sua interezza il percorso figurativo del «più Sovrano Maestro stato in dipintura», delineando al tempo stesso le caratteristiche del contesto culturale da cui prese le mosse e si sviluppò.
La rassegna, che è la prima a Roma sul maestro fiorentino, viene presentata a oltre settant’anni dall’ultima mostra su Giotto e la pittura in Italia tra fine Duecento e prima metà del Trecento, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937 per celebrare il sesto centenario della sua morte. Questa volta non ci sono intenti commemorativi ma la volontà di una rilettura complessiva di un grande maestro, popolare e celebrato, eppure non conosciuto nella sua complessità.
«A partire dal Giotto architetto, perché in mostra ci saranno spunti interessanti per studi futuri », annuncia Roberto Cecchi, direttore generale per i beni architettonici, il quale fa parte del comitato scientifico internazionale che ha selezionato e fatto arrivare in prestito oltre 150 opere tra sculture lignee, codici miniati, oreficerie, ma soprattutto le fragili tavole trecentesche, alcune delle quali sono state restaurate per l’occasione.
La raccolta, che include maestri come Cimabue, Giovanni Baronzio, Ambrogio Lorenzetti, Arnolfo di Cambio, vuole dar conto di tutte le ramificazioni dell’influsso di Giotto sull’arte italiana del tempo. Ma soprattutto presenta venti capolavori eseguiti dal maestro di Firenze, oggi molto difficili da spostare per ragioni di conservazione.
Arrivano da Firenze la «Madonna con il Bambino in trono e due angeli» e la «Madonna col bambino e i santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto». Un maestoso Polittico a tempera e foglia d’oro su tavola è stato concesso dal North Carolina Museum of Art di Raleigh, mentre la cimasa del Polittico Baroncelli arriva da San Diego, California. Opere che affrontano i temi della formazione, del rapporto con l’antico e con il mondo gotico, focalizzando in particolare i legami con la Francia.
«La mostra - aggiunge il curatore Alessandro Tomei - analizza anche la presenza del maestro nelle maggiori città italiane, da Roma a Firenze, da Napoli a Milano. Qui le testimonianze sono scomparse, ma gli storici le hanno ricostruite attraverso la documentazione e le influenze nelle opere dei contemporanei. Dove è passato Giotto l’espressione artistica è cambiata, adeguandosi ai modelli elaborati dal maestro». Ecco dunque, dopo la dimensione europea, quella nazionale, il suo ruolo di assoluta supremazia, in quanto, come Dante, «Giotto è il primo a fondare la struttura linguistica della pittura del Trecento».
A ribadire questa teoria, condivisa dai maggiori studiosi, è stata organizzata al Vittoriano una mostra nella mostra, intitolata «L’altro Giotto». Si tratta di una postazione virtuale che consente di ammirare i più celebri cicli pittorici del maestro di Firenze e di scoprire gli itinerari giotteschi nelle città che lo ospitarono, attraverso otto regioni: oltre alla Toscana, l’Umbria, le Marche, l’Emilia Romagna, il Veneto, la Lombardia, il Lazio, la Campania.
In una sala al pianterreno i visitatori possono inoltre seguire un percorso che attraverso tecnologie molto sofisticate consente di vedere da vicino e in primo piano i particolari dei più famosi affreschi giotteschi, dalla basilica di San Francesco ad Assisi alla cappella degli Scrovegni a Padova.
Esposti a Roma molti suoi capolavori (ma alcuni di dubbia attribuzione)
oltre a opere di Cimabue, Cavallini, Martini, dei Lorenzetti e di Arnolfo.
Dalla rassegna emerge il profilo rivoluzionario di una cultura figurativa
Giotto. Il linguaggio e i gesti del moderno
di Antonio Pinelli (la Repubblica, 09.03.2009)
Disegna spazi abitabili dentro i quali fa muovere figure dalla corposa fisicità
L’esperienza dell’antico gli fa superare le convenzioni bizantine
In una "Canzone" polemizza con l’ideale francescano della povertà
ROMA. Giotto, non-Giotto è il titolo di un saggio, pubblicato nel 1939 sul Burlington Magazine, con cui l’autorevole storico dell’arte Richard Offner si schierò tra coloro che negano la paternità giottesca del celeberrimo ciclo con le Storie di San Francesco, affrescato sulle pareti della basilica superiore di Assisi.
Per la folgorante efficacia con cui sintetizza una disputa che ha fatto versare fiumi d’inchiostro - e chissà quanto ancora ne sarà versato, giacché tutt’oggi la querelle divide in due schiere contrapposte noi addetti ai lavori -, questo titolo dilemmatico mi è ronzato a lungo in testa mentre visitavo la grande mostra che ha aperto i battenti in questi giorni al Vittoriano («Giotto e il Trecento. "Il più Sovrano Maestro stato in dipintura"», a cura di Alessandro Tomei, fino al 29 giugno).
Per una duplice ragione: in primis, perché nel catalogo rigorosamente bipartisan compaiono saggi equamente divisi tra fautori dell’uno e dell’altro schieramento, e in secondo luogo perché, a dispetto degli squilli di tromba dei comunicati stampa che magnificano la presenza in mostra di ben «20 capolavori eseguiti da Giotto», chi voglia sincerarsi se tale affermazione risponde a verità, potrà constatare che almeno la metà di quei 20 capolavori pende, ahimè, verso il corno «non- Giotto» del dilemma.
Detto questo per amore di verità e in pacata polemica, non con il curatore, che non ne ha colpa (schede e cartellini registrano fedelmente tutti i dubbi attributivi), ma con la macchina mediatica del mostrificio, che sembra incapace di affrancarsi da questo genere di chiassoso imbonimento, non credo di smentirmi se affermo che lo sforzo compiuto dagli organizzatori è stato imponente e che la rassegna merita senz’altro di essere visitata.
Ne vale la pena innanzitutto per la quantità (più di 150) e la qualità delle opere esposte: oltre a quattro o cinque capolavori di Giotto, tra cui spicca il Polittico di Badia restaurato per l’occasione, basterà menzionare, tra le tante, opere insigni di Cimabue, Jacopo Torriti, Pietro Cavallini, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Nicola, Giovanni e Andrea Pisano, Arnolfo di Cambio.
Ma la mostra merita di essere apprezzata anche per il suo disegno innovativo, che mira a sottolineare l’importanza del ruolo svolto da Roma, con la sua cultura figurativa e i suoi antichi monumenti, nella formazione del linguaggio giottesco, e al contempo ambisce a illustrare con esempi prelevati ad hoc dai più svariati ambiti tecnici (miniatura ed arti suntuarie comprese) e dai più diversi contesti geografici (Firenze, Roma, Assisi, Rimini, Padova, Napoli, Milano..), quanto la rivoluzione operata da Giotto abbia segnato in profondità il panorama artistico del suo tempo e determinato, direttamente o attraverso i suoi seguaci, il corso dell’arte occidentale per secoli.
All’alba del ’400, Cennino Cennini coniò per tale sconvolgimento una definizione insuperabile: «Giotto rimutò l’arte di greco in latino, e la ridusse al moderno», spiegando l’essenza di un linguaggio che seppe riconquistare, sull’esempio dell’antico, la capacità di infondere all’immagine una tangibile concretezza, fisica e spaziale, abbandonando la piatta bidimensionalità e le astratte convenzioni grafiche della tradizione bizantina (la «maniera greca»): spazi «abitabili», entro cui si accampano figure con una propria corposa fisicità, modellate da un lume «vero» e indagate nella varietà di forme, gesti e fisionomie, che ne rappresentano la specificità individuale e la cangiante gamma espressiva dei sentimenti.
Che il geniale protagonista di questo nuovo corso sia nato e cresciuto a Firenze, dove da tempo si andava sviluppando una borghesia mercantile che badava al sodo ed aveva un concreto orizzonte terreno da coltivare ed ampliare a misura delle proprie ambizioni, non è certo un caso, così come non è un caso che Giotto abbia saputo rendere ottimo il proprio talento, organizzando con spirito imprenditoriale la propria bottega e facendola funzionare a pieno ritmo come una vera e propria manifattura (di qui l’ampiezza del problema attributivo «Giotto, non-Giotto»).
Ma non è tutto: copiose sono le testimonianze che ci parlano dei suoi accorti investimenti (telai affittati a lavoranti a domicilio, acquisto di terreni, poi dati in affitto agli antichi proprietari per spuntare pingui interessi aggirando le leggi contro l’usura); conosciamo perfino una sorprendente Canzone scritta di suo pugno, in cui si polemizza con l’ideale francescano della povertà, contestando il luogo comune della ricchezza come fonte di corruzione e definendo «cosa bestial» la miseria.
Ciò non mi induce a schierarmi tra coloro (per la verità, sempre meno) che giudicano non sue le Storie francescane di Assisi, ma mi persuade invece circa la perfetta aderenza di quelle Storie agli ideali revisionisti della corrente francescana dei «Conventuali», impegnata a polemizzare contro l’estremismo pauperista degli «Spirituali». Ma questo è solo uno dei tanti, affascinanti aspetti, su cui questa mostra - e il suo ottimo catalogo - offrono spunti di riflessione.
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
Lotta per le investiture: una riedizione del 3° millennio
di Rosario Amico Roxas
La defezione della Binetti potrebbe essere considerato un fatto isolato e sporadico di una persona in cerca di visibilità, se non comprendesse un antico problema che, dalla notte dei tempi, riemerge e si ripresenta, con l’urgenza di una soluzione definitiva.
Il binomio Stato-Chiesa dovrà avere una chiara soluzione, altrimenti servirà solo a creare fratture e imporre l’ingovernabilità.
Non si può prescindere dalla Rivoluzione francese per affermare la laicità dello Stato; in quell’occasione la storia voltò pagina e pose fine al feudalesimo, conclude il basso medio evo con le sue tante ombre e le sue poche luci. Illuminismo e Rivoluzione francese imposero un itinerario di non ritorno con la separazione delle sfere di competenza: da una parte lo Stato con le sue incombenze, dall’altro la Chiesa con le sue esigenze.
Era ancora vivo e vegeto lo Stato Pontificio, era al suo culmine del potere il Papa/Re con il potere temporale che sovrastava di molto il potere spirituale.
Fu illuminante l’affermazione di Paolo VI, quando affermò che la perdita del potere temporale era stata una salvezza per la Chiesa.
Ma il vezzo di intromettersi negli affari dello Stato italiano la Chiesa di Roma non lo ha completamente perduto, anzi, adesso sembra proprio che lo abbia accentuato, creando un ginepraio di contumelie che non soddisfano nessuno.
Ritorna la lotta per le investiture che culminò con lo scontro tra Enrico IV e Gregorio VII (quello della riforma gregoriana), con il dictatus papae, la deposizione del pontefice, le scomuniche elargite all’imperatore, lo schiaffo di Canossa, l’intervento conciliatore di Matilde di Canossa.
Ma eravamo nel basso medio evo; la ragione del contendere, in fondo, era rappresentata dalla ereditarietà dei feudi, che i vassalli erano riusciti ad ottenere. Così l’imperatore pensò bene di creare conti i vescovi, perché non dovendo avere, ufficialmente, figli, non avrebbero avuto interesse alla ereditarietà del feudo concesso. Il quesito che scatenò la reciproca ira fu il dovere di obbedienza: il papa lo esigeva per sé in quanto i notabili erano vescovi della Chiesa di Roma, mentre l’imperatore lo reclamava, in quanto vassalli dell’impero.
La cosa ebbe un seguito e non fu mai completamente sanata se non con la scomparsa dello Stato Pontificio. Ma ora si ripropone: i parlamentari cattolici devono obbedienza al Papa in quanto cattolici, oppure alla Costituzione in quanto parlamentari democraticamente eletti dal popolo.
Da questa doppia investitura nascono le contraddizioni che implicano ben più gravi conseguenze, come la confusione che nasce dal concetto di reato (di pertinenza dello Stato e quello di peccato (di pertinenza della Chiesa).
Reato e peccato rappresentano due modi di offendere la legge; bisogna, però, distinguere la legge della Chiesa, che amministra i peccati e quella dello Stato laico, che amministra i reati.
Non è possibile, nè lecito, confondere i due comportamenti, essendo il primo a carattere confessionale e il secondo a carattere laico. La polemica circa l’esigenza di sostenere le ragioni di Benedetto XVI, contro le critiche che da più parti vengono sollevate, non tiene conto della radice del problema che necessita di una visione più approfondita e non certo arricchita da motivazioni arbitrarie o da velleitari esibizionismi con sfondi lontanissimi da una veritiera esigenza di sostegno al Pontefice. Le azioni e gli atti estranei ad una lettura “ex cathedra” , anche se dette o fatte dallo stesso Pontefice possono e devono essere oggetto di dibattito, di critica, o anche di interpretazione diversa da quella originale, in quanto lo spirito della fede non può restare prigioniero del dovere di una obbedienza acritica, che finirebbe con l’allontanare dalla fonte della fede, più che sancire una continuità non condivisa.
Il problema alla base inizia con la confusione che si vuole ingenerare tra il concetto di “peccato” di pertinenza confessionale e quello di “reato” di pertinenza laica. Non tutti gli atti intesi come peccato possono essere identificati da uno Stato laico come reato, e agire di conseguenza, comminando sanzioni o condanne.
E’ il caso delle “unioni di fatto”, non sancite dal matrimonio, considerate peccato dalla Chiesa e che si vorrebbe venissero valutate dallo Stato come reato, con azioni di conseguenza, escludendo i “peccatori” “non pregiudicati (!)” dalle provvidenze che lo Stato riconosce alle coppie non in odore di peccato.
La pretesa inoltre di voler imporre ai parlamentari cattolici di esprimere un voto non di coscienza ma di obbedienza, ci riporta indietro di secoli, ai margini della lotta per le investiture, quando sorse il problema del potere temporale dei vescovi-conti, se dovevano riconoscere il primato di autorità al Papa in quanto vescovi o all’imperatore in quanto conti. Così oggi si ripropone il dilemma se il parlamentare cattolico deve obbedienza al Papa in quanto cattolico o alla Costituzione in quanto parlamentare.
Tutto ciò è e deve essere argomento di un dibattito estraneo allo spirito confessionale di parte, dovendosi tutelare, paritariamente, tutti i cittadini, qualunque sia la religione, la razza, la fede o anche solo le temporanee esigenze. Ben diversa è la circostanza del reato per lo Stato, quando viene assunto come peccato dalla Chiesa che avoca a se stessa l’onere del giudizio.
E’ il caso della pedofilia esercitata dai sacerdoti, che è indubbiamente un reato perseguibile penalmente, con i rigori della legge; ma in questa circostanza una discutibilissima lettera riservata, indirizzata «a tutti i patriarchi, arcivescovi, vescovi e altri ordinari del luogo, anche di rito orientale», del 1962 dal titolo “Crimen sollecitationis” (Delitto di adescamento), redatto dal card. Alfredo Ottaviani, parzialmente riveduta nel 2001 dalla Congregazione per la dottrina della fede, con la lettera “De delictis gravioribus”, dall’allora cardinale Ratzinger, riduce il reato a peccato da amministrare all’interno della Chiesa, con i modi che riterrà opportuno, mortificando i diritti delle vittime, all’interno di un tribunale esclusivamente ecclesiastico, obbligato, peraltro, con giuramento, ad una segretezza che sa di omertà, con la seguente formula:
“Perciò tutti coloro che a vario titolo entrano a far parte del tribunale o che per il compito che svolgono siano ammessi a venire a conoscenza dei fatti sono strettamente tenuti al più stretto segreto (il cosiddetto "segreto del Sant’Uffizio"), su ogni cosa appresa e con chiunque, pena la scomunica “latae sententiae”, per il fatto stesso di aver violato il segreto (senza cioè bisogno di una qualche dichiarazione NdT); tale scomunica è riservata unicamente al sommo pontefice, escludendo dunque anche la Penitenzieria Apostolica. [ossia: tale scomunica può essere ritirata solamente dal papa, NdT] “.
La critica diventa doverosa per la palese alterazione del rapporto tra diritti e doveri, che devono essere sempre uguali per tutti, altrimenti la stessa base fondamentale della vita civile verrebbe negativamente alterata. Il dibattito è iniziato da tempo, facilitato dai mezzi moderni, perché si tratta di problemi attuali che necessitano di chiarimenti idonei alle attese; ma si sono inseriti, abusivamente, taluni personaggi che in questo dibattito hanno voluto trovare l’occasione per esibirsi quali difensori della persona del Pontefice, trasformando un dibattito interno al mondo dei fedeli, in una polemica con personalissimi interessi di esibizione politica, per cercare approvazione all’interno di un panorama che non appartiene loro, questi ultimi non servono la Chiesa ma aspirano a servirsene.
A fronte di queste problematiche, la defezione della Binetti appare ben poca cosa, ma serve per sollevare il problema e, finalmente, giungere ad una soluzione definitiva che non preveda interferenze, lasciando ampio spazio alle attività del Vaticano, compatibilmente alle esigenze nuove di molteplicità di fedi religiose, ciascuna con un proprio diritto ad essere liberamente esercitata.
I parlamentari che dovessero nutrire dubbi circa il loro dovere di obbedienza alla Costituzione in quanto parlamentari, dovrebbero avere la coerenza di abbandonare l’abito laico della repubblica e vestire l’abito confessionale di qualche ordine e da quel pulpito predica le loro convinzioni, che non devono mai interferire con le decisioni dello Stato laico che deve provvedere alle esigenze di tutti i cittadini, senza discriminazioni di sorta.
FILOSOFIA
In antologia l’analisi del pensatore cattolico, per il quale il rifiuto di Dio è il problema della modernità, non il suo destino inevitabile
Del Noce cura le piaghe dell’ateismo
La tecnocrazia dei nostri giorni non è figlia della scienza, ma del razionalismo ateo che riduce tutto all’umano: è questo il vero limite del ’900
di Edoardo Castagna (Avvenire, 02.06.2007)
Non ha fatto tempo a vederla, Augusto Del Noce. Ma l’inversione di rotta dell’Occidente, che negli ultimi anni ha dimostrato come la deriva secolarista non fosse affatto l’esito scontato della modernità, non l’avrebbe sorpreso. Anzi, gli scritti del filosofo cattolico scomparso nel 1989 prefigurano e addirittura quasi profetizzano la società di questo primo scorcio di XXI secolo, come ben mette in luce l’antologia Verità e ragione nella storia, curata da Alberto Mina per Rizzoli. Tanto che, sostiene Giuseppe Riconda nell’ampia introduzione, «la sua filosofia ci dà anche su questo punto criteri per una spiegazione e valutazione».
Del Noce ha mostrato come sia possibile ritrovare nel pensiero tradizionale i principi dei quali abbiamo bisogno per comprendere il mondo presente. Prevedendo fin dall’immediato dopoguerra la fine dell’ideologia marxista e l’avvento della tecnocrazia, individuò con sicurezza il grande problema della modernità: l’ateismo. A differenza di tanti altri pensatori di quegli anni, però, non lo considerò mai l’esito inevitabile dell’Occidente, bensì solo un fenomeno: indubbiamente motivato e storicamente comprensibile, ma che - sempre storicamente - avrebbe anche potuto tornare a regredire. Nella sua analisi, Del Noce distingue due tipi di ateismo. Quello "negativo", che muove dalla considerazione del male nel mondo e che è, più che altro, contestazione di Dio nel nome di Dio; moderna trasposizione dei lamenti di Giobbe, cristillizzata da Primo Levi nella formula: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Un ateismo non radicale, argomenta Del Noce muovendosi tra Gilson, Marcel e Brunschvicq, in fondo ancora aperto: interrogando Dio per il suo silenzio, si lascia lo spazio per una risposta, per un incontro - negato qui e ora, ma comunque possibile. Altro è invece l’ateismo "positivo", che prima ha razionalizzato l’Assoluto, e poi - una volta resolo disponibile alle umane categorie - se ne è sbarazzato. È questa, per Del Noce, la secolarizzazion e, che storicamente è passata dalle religioni secolari degli anni tra le due guerre, dominati dal trionfo delle ideologie di massa, alla perdita completa del sacro nel secondo dopoguerra.
È questo trionfo - provvisorio - dell’irreligioso che ha reso possibile la tecnocrazia: non si tratta quindi di uno sviluppo spontaneo della tecnica e della crescita delle sue potenzialità, ma di un innesto della tecnica stessa in un contesto, quello della secolarizzazione, che non conosce più limiti alla sua applicazione. Se il tecnicismo fosse l’inevitabile processo della tecnica, allora sarebbe inarrestabile: così non è, per Del Noce, che può argomentare la sua visione della secolarizzazione come qualcosa di diverso da un fatto compiuto - e questo lo faceva, ne Il problema dell’ateismo, nel 1964, quando il pensiero occidentale sembrava in gran parte concordare su un simile esito della nostra società. L’atesimo non è il destino ma il «problema dell’età moderna», scriveva con lungimiranza; nonostante i tentativi di ridurla a fatto privato, la religione non si piegherà a quella sorta di silenziosa eutanasia cui il materialismo - sia marxista sia consumista - sembrava averla condannata.
Questa prospettiva tuttavia non significa, per un pensatore religioso come Del Noce, adagiarsi sul corso della storia, già pago di sapere che, prima o poi, il processo di secolarizzazione avrebbe invertito la sua rotta. Anzi, il filosofo cattolico è chiamato a prendere di petto la sfida del nichilismo, a farne il banco di prova delle sue proposte: senza confronto con il nichilismo, sostiene Del Noce sulla scia di Šestov e Maritain, il pensiero moderno si precluderebbe l’accesso alla realtà. Passaggio fondamentale è allora la critica al primo fondamento dell’ateismo, quel razionalismo che nega tutto ciò che va al di là della ragione umana, deride il mistero, rigetta il soprannaturale. Una battaglia che, per il filosofo, non può non appoggiarsi sulla Chiesa cattolica, depositaria di un pensiero trad izionale a lei «storicamente e necessariamente connesso». Rivendicando costantemente la libertà - ovviamente, in primo luogo la libertà religiosa - la Chiesa si pone non solo all’ascolto del mondo, ma anche in una sua perenne contestazione.
Augusto Del Noce
Verità e ragione
nella storia
Antologia di scritti
Rizzoli. Pagine 370. Euro 10,20
EROS (SESSO), CHARITAS (AMORE) .... e il "Deus caritas [ caro-prezzo] est" non di Giovanni!!! (fls)
MEDIOEVO
Il binomio di mistica e carnalità nei trattati cristiani del XII secolo in un volume della Fondazione Valla curato da Zambon
Quell’amore senza misura
Guglielmo di Saint-Thierry: «Che rapporto c’è fra la conoscenza razionale di Dio e l’esperienza della caritas?»
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 23.06.2007)
È come un respiro d’amore che sembra alitare su tutto il XII secolo. Abelardo ed Eloisa intrecciano mistica e carnalità; fiorisce il grande mito di amore-passione che ha in Tristano e Isotta la sua rappresentazione simbolica; i trovatori intonano i loro canti amorosi nel nome di Lancillotto; la misteriosa Maria di Francia lancia al cielo i versi dei suoi Lais e Chrétien di Troyes intesse in un romanzo amore e sacramento, mentre per le strade gorgheggiano non solo i cantori della lirica cortese ma anche le voci ben più corpose e sensuali dei goliardi. Ma a risuonare con una solennità e una potenza espressiva e ideale particolare è la parola della teologia che s’intride d’amore avendo come ovvio codice capitale di riferimento il Cantico dei cantici biblico, naturalmente passato attraverso il filtro dell’allegoria che alla coppia originaria del poemetto sacro assegna le fisionomie di Cristo, il mistico amante, e della Chiesa o dell’anima innamorata.
Bene ha fatto, perciò, Francesco Zambon, uno dei maggiori esperti di storia e dottrina dei Catari medievali, a costruire un dittico testuale (per ora è apparso solo il primo tomo) - nell’importante collana degli «Scrittori greci e latini» della Fondazione Valla - raccogliendo proprio i più significativi trattati teologici dedicati a questo amore che si consuma nell’intimità delle anime ma non disprezza la simbolica dell’eros, sempre però alla luce dell’asserto giovanneo del Deus caritas est.
Nella prima tavola di questo dittico teologico, aperto da un esergo scandito da una folgorante citazione del grande mistico musulmano del IX-X sec. al-Hallaj, sono di scena due figure massime del Medioevo. Ecco campeggiare innanzitutto l’abate Guglielmo di Saint-Thierry, un monastero benedettino a una decina di chilometri da Reims: il suo nome sarà per sempre associato a quel monastero, anche se nell’ultima intensa parabola della sua vita egli si ritirerà come semplice monaco in un’abbazia cistercense sperduta tra le foreste delle Ardenne e frequenterà, nella stessa area, la prima fondazione certosina di Mont-Dieu. Di questo fremente teologo dall’intelligenza cristallina, morto nel 1148, vengono qui offerti due trattati, il De contemplando Deo, e il più ampio e articolato De natura et dignitate amoris. Solo per rendere la tonalità stilistica del nostro autore, basti leggere l’incipit del primo testo, segnato da un ammiccamento biblico a Genesi 22: «Venite, saliamo al monte del Signore... Attenzioni, intenti, volontà, pensieri, affezioni e tutto ciò che sta nel profondo di me: venite, saliamo sul monte, nel luogo in cui il Signore vede ed è veduto. Preoccupazioni, angosce, ansie, fatiche, pene della schiavitù, aspettatemi qui con l’asino, con questo corpo, finché io e il bambino, cioè la ragione e l’intelligenza, corriamo lassù e dopo aver adorato torniamo a voi...».
Passione e riflessione si mescolano anche nell’altro grande che qui è convocato, un personaggio così alto da aver conquistato Dante che lo vorrà come guida finale nell’empireo celeste (Paradiso XXXI), Bernardo di Clairvaux, morto nel 1153. Della sua vasta e straordinaria produzione letteraria viene offerto quel De diligendo Deo "L’amore di Dio") che nacque proprio dalle lunghe conversazioni del santo con Guglielmo di Thierry. E anche in questo caso basti solo evocare le righe d’avvio per coglierne la temperie, rigorosa e appassionata al tempo stesso: «La causa per cui si deve amare Dio è Dio stesso; la misura è amarlo senza misura».
Ma per procedere in questo itinerario, che è una festa dell’intelligenza e del cuore, è necessario ricorrere a un esercizio previo che aiuta a sciogliere il nodo teoretico centrale di queste e di altre riflessioni cristiane sull’amore. La domanda è formulata dal curatore Zambon nell’introduzione generale al dittico, un vero e proprio saggio di un centinaio di pagine: «Che rapporto c’è fra la conoscenza razionale di Dio e l’esperienza della caritas, dell’amore di Dio? La caritas comporta un qualche grado di conoscenza?». Sarà Guglielmo di Saint-Thierry ad appuntare la sua analisi teorica sistematica proprio su questo interrogativo, coniando una formula sintetica divenuta celebre e che non necessita di versione: Amor ipse intellectus est.
L’"intelletto d’amore" è, così, scavato in tutte le sue iridescenze e nei suoi percorsi che rivelano orizzonti inattesi, finemente illustrati da Zambon che conduce il lettore per mano attraverso sentieri d’altura. Così, si delinea quel "progresso dell’amore" che, per Guglielmo, parte dalla purificazione per approdare alla piena rinascita di quell’"immagine" divina impressa in noi nella creazione. Un itinerario di liberazione e di esaltazione che anche san Bernardo a suo modo illustra attraverso i famosi quattro gradi dell’amore: «l’uomo ama se stesso per se stesso»; «l’uomo ama Dio per se stesso», «l’uomo ama Dio per Dio stesso», in modo del tutto libero e gratuito; infine, «l’uomo non ama più se stesso se non per Dio», con uno svuotamento totale di se stesso per raggiungere l’unitas spiritus, l’estasi mistica con Dio. Un’occasione straordinaria, dunque, per ritrovare non solo l’atmosfera ideale di un secolo ma un’esperienza umana e spirituale che soprattutto oggi ci è necessaria. Tant’è vero che, proprio in contemporanea, è apparso in versione italiana presso l’editore senese Cantagalli il suggestivo saggio di Jean-Luc Marion, Il fenomeno erotico, che ci ripropone alcune questioni decisive: l’uomo è solo l’essere cartesiano che pensa o piuttosto è innanzitutto un essere che ama? L’uomo prima conosce e poi ama o è amando che conosce? L’amore fiorisce dalla conoscenza o è l’amore che la fa fiorire?
TRATTATI D’AMORE CRISTIANI DEL XII SECOLO
A cura di Francesco Zambon
Fondazione Valla - Mondadori
Pagine 317. Euro 27,00