IDEE
Estese il suo impero dal Nord Europa al Mediterraneo e seppe regnare rispettando le altre culture. Un modello ancora attuale
CI VORREBBE UN ALTRO FEDERICO II
Fu «feudale» in Germania e «pluralista» in Italia. Le sue regole sono alla base ancora della realtà federale tedesca. Nonostante la crociata non alimentò lo scontro di civiltà e fece di Gerusalemme una «città aperta»
di Franco Cardini (Avvenire, 24.02.2006)
Ha senso in un tempo come il nostro, caratterizzato da tanto brutali e inaudite novità, cercar ancora ispirazione indagando i modelli storici? O è una pia illusione pedante? Una sterile esercitazione retorica? I paragoni zoppicano sempre; la storia può presentar spesso situazioni che hanno fra loro somiglianze e analogie, ma senza dubbio non torna mai identica a se stessa, non si ripete mai. Eppure, a volte il passato sembra riproporsi con spietata evidenza. O è un’illusione ottica?
Nel suo ultimo libro, ch’è in realtà un’antologia di scritti usciti negli ultimi cinque anni, A passo di gambero, Umberto Eco si è divertito a cogliere i segni "regressivi" e "involutivi" della nostra epoca, chiedendosi il perché di questi molti ritorni al passato, dalle guerre calde sino al riaffacciarsi dell’ottocentesco Great Game nell’Asia centrale, magari con gli americani al posto degli inglesi, i russi sempre là e l’incognita cinese in più.
In una prospettiva del genere, che personalmente mi guardo bene dal condividere, ha senso anche indagare sulla "modernità" e magari "attualità" di certi modelli storici. Federico II di Svevia ad esempio, con la flessibilità istituzionale e la capacità di adattarsi a molteplici forme istituzionali del suo grande impero, appare oggi molto più "moderno" e "attuale" che non Clemenceau o Churchill. Non a caso, gli Stati nazionali sembrano oggi ormai definitivamente superati e si vanno profilando nuovi "imperi".
Sembra in effetti che la sua pratica di governo possa fornirci utili indicazioni. Imperatore romano-germanico, re di Germania, re d’Italia, re di Sicilia, sovrano formale del regno di Borgogna, erede e reggente per alcuni anni del regno di Gerusalemme, sovrano eminente di quello di Cipro, egli si presentava come titolare di una quantità di diritti e di prerogative istituzionali tra loro diverse per origine e caratteri: e non si sognò mai di tentare processi uniformatori e generalizzatori che ne avrebbero snat urato il potere.
Si ama definirlo "moderno". Ma la sua "modernità" è affidata, principalmente, alla memoria del suo Liber augustalis, le leggi promulgate a Melfi dopo il ritorno dalla crociata d’Oltremare e la natura delle quali è accentratrice, antifeudale, insomma tale da sembrar precorrere per più versi lo Stato moderno.
"Moderno" e accentratore in Sicilia, l’imperatore fu "medievale" e "feudale" in Germania e "pluralista" in Italia: la sua azione di governo e le sue deleghe di poteri stanno alla base della realtà federale della stessa Germania moderna, che ne ha gelosamente conservato il modello fino ai giorni nostri (con la sola parentesi, e non totale, del periodo nazionalsocialista); mentre il Risorgimento italiano, concludendosi nel centralismo sabaudo e mazziniano-garibaldino, ha abbandonato la tradizione regionalistica e pluricentrica che gli era propria. Flessibilità e sperimentazione furono i caratteri costanti della sua azione politica: in ciò, più che moderno, egli sembra piuttosto postmoderno.
Anche i suoi rapporti con il mondo musulmano sembrano genialmente spregiudicati se visti con gli occhi del XXI secolo: ma a ben guardare è piuttosto quest’ultimo a gestirli in modo maldestro. Federico non fu né filomusulmano, né antislamico: era un sovrano cristiano-latino del XIII secolo, traeva da fondamenta sacrali e sacramentali la sua legittimità di potere e riteneva la guida della crociata per la riconquista dei Luoghi Santi un suo dovere e una sua prerogativa. Ebbe ottimi rapporti con il sultano ayyubide del Cairo al-Malik al-Kamil e sostanzialmente buoni con i vari emirati dell’Africa settentrionale, ma in Sicilia represse e perseguitò duramente i residui insediamenti arabi spingendosi fino alla deportazione di essi in Puglia: solo a partire da allora si avviò il suo idillio con i saraceni di Lucera, ch’erano appunto dei deportati ch’egli usava quali mercenari.
Si cita spesso, come modello di moderazione e di saggezza, il modo con il quale egli concluse nel 1229 la sua crociata, accordandosi diplomaticamente con il suo amico il sultano d’Egitto in modo che Gerusalemme divenisse "città aperta", nella quale le comunità cristiane e musulmane detenessero ciascuna i suoi Luoghi Santi e si potesse convivere pacificamente.
Oggi, la proposta d’internazionalizzazione del piccolo perimetro della cosiddetta "città vecchia" di Gerusalemme, caldeggiata dalla Santa Sede consentirebbe forse la soluzione di uno dei nodi del problema israeliano-palestinese, che è anche un problema ebraico-cristiano-musulmano. In questo senso, ispiratore più che paradigmatico, Federico II di Svevia resta ancor "attuale".
Si fa spesso, oggi, come si diceva, il nome di Federico II come di un modello di tolleranza, di convivenza, di apertura mediterranea, di equilibrio internazionale, il riferirsi al quale potrebbe contribuire a risolvere alcuni problemi di oggi. Con tutti i suoi errori e anche i suoi misfatti, Federico II resta un eroe per il nostro tempo: ch’è nuovamente, come nel XIII secolo, un tempo d’incontri e di confronti tra civiltà; un tempo nel quale, non diversamente di allora, culture diverse possono rendersi conto di possedere elementi comuni, di non essere totalmente "altre" fra loro.
Il modello federiciano c’invita pertanto a superare l’astratta e banale dicotomia Oriente-Occidente, nata dal riduttivismo eurocentrico della nostra cultura sette-novecentesca ma riletta alla luce d’un tempo - il nostro - che sembra aver perduto le capacità di analisi e di esegesi socioantropologica della quale invece tale cultura disponeva. Questo è forse il grande compito che attende le nostre generazioni, cui spetta il dovere d’una nuova sintesi che vada al di là del prospettato melting pot multiculturale senza per questo cader nelle secche mortali del «conflitto di civiltà».
La lezione di Kantorowicz
LA COSTITUZIONE E I "DUE CORPI DEL RE" - DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Storia.
Francesco e il sultano: un incontro storico che portò alla pace
Il viaggio del Papa negli Emirati è stato accostato all’incontro del 1219. Bollato come leggenda, è certificato da più fonti cristiane e musulmane. Due epoche e mondi distanti, ma ci sono assonanze
di Franco Cardini (Avvenire, sabato 9 febbraio 2019)
La visita di papa Francesco ad Abu Dhabi ha originato discussioni e addirittura polemiche in gran parte corrispondenti a quanto ci si poteva aspettare, salvo su un punto: la meraviglia, quasi l’incredulità a proposito dell’analogia con un analogo evento verificatosi otto secoli fa: l’incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. È evidente che, in chi ha proposto e pianificato il viaggio del pontefice ad Abu Dhabi, l’incontro del 1219 e quindi la "celebrazione" degli ottocento anni erano sottintesi. Eppure da noi c’è chi si è stupito e chi ha addirittura parlato di leggenda.
Ora, che a proposito di eventi assegnati alla storia si possa dubitare, è più che legittimo. Deve però trattarsi di dubbio fondato, giustificato, metodico: il non prestare pregiudizialmente fede a nulla è altrettanto ingiustificato che credere a qualunque cosa. Cominciamo quindi da qui: verifichiamo se quell’episodio di ottocento anni or sono ha le carte in regola per poter essere accettato come autentico. Qui possiamo star tranquilli: studiosi seri si sono impegnati nell’analizzare le fonti che ci narrano di quella visita. Chi vuole conoscerla nei dettagli può ricorrere con fiducia al libro di John Tolan, Il santo dal sultano. L’incontro di Francesco d’Assisi e l’Islam, tradotto in italiano da Laterza nel 2009, che è l’ultima sintesi organica autorevole e affidabile sull’argomento; essa è stata del resto seguita da molti saggi e da numerosi lavori congressuali che ne hanno aggiornato la problematica.
Esistono almeno cinque fonti cronistiche occidentali attendibili che, con sostanziale concordia pur divergendo in alcuni particolari, ci testimoniano la vicenda. Esistono poi le numerose fonti francescane che, se fossero le uniche a riferire l’episodio, potrebbero suscitare legittimi dubbi: ma il loro racconto, confrontato con quello delle voci estranee all’Ordine, risulta a sua volta autorevole. Infine abbiamo una fonte epigrafica arabo-musulmana, un’iscrizione su una lapide funebre, che allude al medesimo episodio confermandone autonomamente l’autenticità. Il che non toglie che alcuni particolari dell’evento possano essere d’origine leggendaria: come la celeberrima “ordalia del fuoco”, mirabilmente evocata da un affresco giottesco della basilica superiore di San Francesco in Assisi, ma a proposito della quale il parere degli studiosi è, per vari e differenti motivi, quasi coralmente scettico.
Atteniamoci pertanto ai dati più sicuri e oggetto di comune consenso. Fino dal 1217 era stata bandita da papa Onorio III, fedele a una consegna d’Innocenzo III morto l’anno precedente, una crociata che sotto la guida del legato pontificio cardinal Pelagio si era diretta all’assedio, per terra e per mare, della città di Damiata o Damietta (in arabo Damiat) sul delta del Nilo. I capi dell’impresa avevano difatti convenuto che assediare Gerusalemme - che i crociati avevano perduto nel 1187 e che avrebbero voluto recuperare - fosse troppo complesso: la loro idea strategica era porre il blocco navale al delta nilotico, che era il principale polmone economico di tutto il mondo islamico di quell’area, e proporre quindi alle autorità musulmane di toglierlo in cambio della restituzione ai cristiani latini della Città Santa.
L’idea può sembrare macchinosa ma era plausibile. Tanto più che in quel momento l’Islam era, come più o meno sempre, percorso da una forte discordia interna. Il sultano al-Malik al-Kamil, nipote del grande Saladino e signore d’Egitto e di Palestina, era quasi in rotta col fratello al-Muazzam che dominava invece Damasco e la Siria. Francesco, che era partito ai primi del 1219, giunse all’inizio dell’estate sotto Damietta con una nave che proveniva da Acri dove aveva visitato il piccolo convento ivi aperto da alcuni dei suoi frati.
Era anch’egli sottoposto alla disciplina crociata, altrimenti non avrebbe potuto viaggiare in quel momento in partibus infidelium. È logico pertanto che abbia chiesto al cardinale legato il consenso per recarsi dal sultano, secondo il suo progetto di presenza (più che di missione) cristiana che egli avrebbe più tardi esposto nel capitolo 16 della sua Regula, redatta nel 1221 e riscritta di nuovo, con definitiva approvazione pontificia, due anni più tardi. Ai sensi di quel documento sappiamo che Francesco prescriveva al frate minore che volesse recarsi presso gli infedeli di essere mite e soggetto a tutti, di non avanzare proposta né richiesta alcuna ma di limitarsi alla professione di fede cristiana.
Sappiamo che fu ammesso alla presenza del gran signore musulmano. Il quale, come la legge del Profeta prescriveva, non avrebbe mai potuto negare udienza a un uomo di Dio che si fosse presentato al suo cospetto. E Francesco era tale: a testimoniarlo era la sua veste: un povero saio di lana non tinta, pieno di toppe e di strappi rammendati e provvisto di un cappuccio. Tale indumento, in arabo, si chiama suf: chiunque lo indossi è appunto un uomo che a Dio e alla preghiera si è consacrato. Un sufi. Quanto il sultano e il sufi cristiano si siano intrattenuti a colloquio e che cosa si siano detti, non lo sapremo mai. Le testimonianze sono varie e concordano solo sul fatto che il gran signore rinviò sano e salvo il povero frate dopo avergli offerto alcuni doni.
La crociata si chiuse con un insuccesso e i guerrieri cristiani rientrarono alle loro case. Ma dieci anni dopo al-Malik al-Kamil incontrò un altro cristiano che conosceva la terra natale di Francesco: era addirittura nato non lontano da Assisi, cioè a Jesi nelle Marche. Il sultano e l’imperatore Federico II, nel 1229, stipularono il primo patto di smilitarizzazione pacifica di Gerusalemme che conosciamo, e che resse per tre lustri, fino al 1244. Un patto nel nome d’una pace possibile.
Non diciamo altro, non azzardiamo ipotesi buone per un romanzo, ma che non servono alla storia. Al-Kamil e Federico conoscevano entrambi Francesco, sia pure in modo diverso. E avevano in comune una passione: la caccia col falco. Chissà: magari, negli intervalli dei loro colloqui politici, avranno parlato di falchi. Fratel Falco piaceva anche a Francesco.
RIPENSARE COSTANTINO. LA LEZIONE DI DANTE (E DI KANTOROWICZ) .... *
Musica, architettura e cosmo: una rilettura di Castel del Monte
di Cesare Cavalleri (Avvenire, mercoledì 22 agosto 2018)
Tantissimi anni fa, cioè nel 1970, lessi Pietre che cantano, di Marius Schneider, spinto dall’entusiasmo di Elémire Zolla che aveva spiegato come Schneider, osservando i chiostri romanici di San Cugat, di Gerona e di Ripoll in Catalogna, aveva annotato le figure effigiate sui capitelli assegnando a ciascuna un valore musicale; quindi lesse come simboli di note le singole figure, basandosi sulle corrispondenze tramandate dalla tradizione indù, e scoprì infine che la serie corrispondeva alla esatta notazione degli inni gregoriani dedicati ai santi di quei chiostri. Abbagliante erudizione che non ho mai smesso di ammirare.
Con questo precedente, non potevo evitare di tuffarmi (siamo in estate) nel saggio di Giulia Ferraro, Simbologia di Castel del Monte. Rilettura di un’ipotesi sui rapporti tra musica e architettura, pubblicato nel più recente quaderno del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano, a cura di Massimo Venuti con Giovanni Acciai e Gabriele Manca (Edizioni ETS, pagine 228, euro 23,00).
Castel del Monte, che si erge solitario nel paesaggio collinare delle Murge, in territorio di Andria, è un enigma che da otto secoli affatica gli studiosi che finora sono riusciti soltanto a scalfirlo. Enigmatico quant’altri mai, del resto, è chi lo fece costruire, l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), guerriero, astronomo, falconiere, politico antagonista del papato, protettore degli artisti da cui amava circondarsi. Enigmatica anche la destinazione del Castello, che non sembra di difesa né di delizie, con la sua pianta ottagonale e le otto torri angolari.
L’ipotesi che Giulia Ferraro intende rileggere è del musicologo Vasco Zara, autore nel 2000 del saggio L’intelletto armonico. Il linguaggio simbolico musicale nell’architettura di Castel del Monte. Zara collega le forti implicazioni astronomiche, matematiche e geometriche racchiuse nell’architettura del Castello, con le conoscenze musicali dell’epoca. In particolare, viene proposto l’antico accostamento tra pianeti e note musicali, «introducendo il concetto di “musica delle sfere”, per il quale il movimento di ciascun pianeta produce un preciso suono».
È un concetto di ascendenza platonica, che Dante riprenderà nel Canto XII del Paradiso. Zara, «dopo aver associato a ogni facciata interna del pianterreno del Castello un pianeta e del piano superiore una delle gerarchie angeliche, abbina a questi una nota musicale», secondo uno schema rinvenuto in alcuni fogli liberi di un manoscritto del XII secolo, contenente il De institutione musica di Boezio.
Il passaggio dal giro pagano dei pianeti al cielo abitato dalle gerarchie angeliche è scandito nella facciata nord-ovest del Castello dalla statua equestre di un cavaliere, peraltro semidistrutta: «L’immagine è quella di mediatore tra Cielo e Terra, adatta a un imperatore come Federico, autoincoronatosi, in una Gerusalemme da lui liberata, Re del Mondo contro il volere del Papa che l’aveva scomunicato, Re per grazia di Dio e non della Chiesa».
Dunque, l’architettura di Castel del Monte riprodurrebbe in forma plastica la musica delle sfere, la cui inudibilità è così spiegata da sant’Ambrogio in Exameron, II,7: «Alcuni dicono che il suono delle sfere non arriva fino alla terra, per la ragione che gli uomini, sia in Oriente che in Occidente, sedotti dalla soavità e dal fascino di quel suono originato dal movimento velocissimo dei cieli, trascurerebbero ogni dovere e attività e tutto quaggiù rimarrebbe ozioso, perché lo spirito umano sarebbe come portato in estasi da quelle musiche celesti».
Il Quaderno del Conservatorio intitolato “I volti della musica: allegoria, Spirito, realtà”, contiene, oltre allo studio di Giulia Ferraro, altri due saggi: Lutero e la riforma. Alle origini del Corale, di Ivana Valotti; Luigi Nono, al gran sole carico d’amore. La rivoluzione in musica, di Claudia Ferrari. Finché ci saranno studiosi che si dedicano ad approfondimenti come questi, il mondo non cadrà nell’insignificanza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. --- KANTOROWICZ, UN GRANDE LETTORE DI DANTE. Una nota
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz.... L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
Federico La Sala
L’incontro
Il Centro europeo di studi normanni di Ariano Irpino (Avellino), presieduto da Ortensio Zecchino, ha tenuto nei giorni 9-10 maggio il convegno internazionale «La storiografia dei mondi normanni, XVII-XXI secolo: costruzione, influenza, evoluzione». Studiosi italiani, francesi e britannici hanno discusso l’influenza dei Normanni nella costruzione delle rispettive tradizioni nazionali
L’epopea
I Normanni, di stirpe danese e scandinava, occuparono nel X secolo la regione della Francia che porta il loro nome, fondendosi con la popolazione locale. Nel 1066 il duca di Normandia Guglielmo, poi detto il Conquistatore, invase l’Inghilterra e ne divenne il re, vincendo la battaglia di Hastings. Intanto gruppi di Normanni occupavano gran parte dell’Italia meridionale, sconfiggendo i Bizantini e gli Arabi. Nel 1130 il normanno Ruggero II d’Altavilla creò il Regno di Sicilia, che comprendeva l’isola e quasi tutto il Sud Italia. Nel 1137 prese anche Napoli
Bibliografia
Una sintesi di quelle vicende si trova nel libro di Hubert Houben I normanni (il Mulino, 2013). Giuseppe Galasso ha pubblicato il saggio Normanni e pre-normanni nel giudizio di Croce e di storici inglesi nel volume La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani (il Mulino, 2015). Sui Normanni in Inghilterra: Hugh M. Thomas, The English and the Normans (Oxford University Press, 2005); Brian Golding, Conquest and Colonisation. The Normans in Britain (Palgrave Macmillan, 2001); Marjorie Chibnall, The Debate on the Norman Conquest (Manchester University Press, 1999)
* Corriere della Sera, La Lettura, 19.06.2016
Entrambe le terre furono conquistate dai Normanni
Croce pensava che in Gran Bretagna avessero operato meglio. Ma in realtà erano troppo rozzi per svolgere la stessa funzione civilizzatrice nel Mezzogiorno d’Italia
Perché il Sud non è diventato l’Inghilterra
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, La Lettura, 19.06.2016)
Bnedetto Croce consigliò a Giovanni Laterza nel 1927 di far tradurre in italiano la Storia d’Inghilterra di Albert Frederick Pollard dell’università di Londra. Egli non conosceva quel libro, ma ne conosceva l’autore come dotto e serio studioso. E ciò rende ancora più interessanti le affinità e spesso identità di vedute fra Croce e Pollard, in specie su qualche punto, come il periodo normanno in Inghilterra e nel Mezzogiorno.
«Per quasi due secoli - scrive Pollard - dopo la conquista normanna, non v’è storia del popolo inglese. V’è, in larga misura, una storia dell’Inghilterra, ma è la storia di un governo straniero». Un inglese non poteva vantarsi delle glorie di Guglielmo il Conquistatore e dei suoi successori normanni e angioini, che erano glorie «non più inglesi di quanto non sia indù il governo attuale (quello coloniale inglese, allora, ndr) dell’India». I nomi inglesi erano per un paio di secoli scomparsi dalla storia d’Inghilterra: «Dalle liste dei sovrani, dei ministri, dei vescovi, conti e sceriffi», sostituiti «da nomi che cominciano con “fitz” e sono distinti da un “de”». Perfino «la lingua inglese rimase sotterrata e divenne parlata incolta di contadini», e «non vi era interesse per l’anglosassone da parte di un’aristocrazia che scriveva latino e parlava francese».
Le simpatie di Pollard vanno, invece, tutte al periodo pre-normanno, al lungo e faticoso processo per cui Juti, Angli e Sassoni, dopo aver invaso la Britannia romana nel V secolo, avevano costituito una realtà storica instabile e mal delineata, ma tale da potersi dire, per lui, che «quanto di grande e di buono v’è in Inghilterra sia d’origine anglo-sassone».
Non diverso è il giudizio di Croce sul periodo normanno nel Mezzogiorno, e come Pollard al seguente periodo inglese angioino, così Croce lo estende al seguente periodo meridionale svevo. «Non sembra lecito - egli scrive - identificare la storia della monarchia normanno-sveva con la storia dell’Italia meridionale», poiché «essa fu rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle sue viscere» e «la nostra storia non può esser quella a cui abbiamo offerto il teatro, ma l’altra, grande o piccola che fosse, che si svolse nella nostra coscienza e nei nostri travagli, nelle nostre menti e nei nostri cuori, opera della nostra volontà». E che «alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il carattere indigeno e nazionale», si vede per Croce anche dal fatto che «i Normanni misero fine alla libertà delle città marinare e delle altre città, specialmente pugliesi», mentre «i re svevi, per la linea politica che seguivano e per l’esperienza dell’indomabilità dei comuni settentrionali, repressero con severissimo rigore ogni accenno di formazione comunale».
Come Pollard agli Anglo-Sassoni, così Croce riserva tutte le sue simpatie al Mezzogiorno pre-normanno, di cui parla con commozione e con grato ricordo dei suoi «nuclei nazionali» presso i Longobardi o ad Amalfi, a Napoli, nelle città pugliesi: una storia più modesta, ma più propria, di cui i meridionali possono legittimamente vantarsi, laddove a torto si gloriano delle imprese di Roberto il Guiscardo o di Ruggero II d’Altavilla o di Federico II di Svevia, protagonisti, gloriosi bensì, ma di un’altra storia: la storia delle loro dinastie e delle genti a cui appartenevano.
La corrispondenza tra le tesi di Pollard e quelle di Croce è, dunque, evidente. Quanto alla loro accettabilità, l’asserita mancanza di storia propria di un popolo in qualsiasi periodo non può essere postulata in principio, e, comunque, non si riscontra nella storia meridionale tra XI e XIII secolo.
Si trattava, in effetti, di giudizi non nuovi per l’Inghilterra. Per il giudizio crociano le cose sono più complesse. A prescindere comunque da analogie e diversità, Croce stesso confrontava comunque direttamente la storia normanna d’Inghilterra e quella del Mezzogiorno. «È stato almanaccato - scrive - più volte sul problema del come mai il regno di Ruggiero e quello di Guglielmo il Conquistatore, fondati da uomini della stessa razza, ordinati allo stesso modo, tenessero così diverso cammino e avessero così diversa fortuna, splendida questo e misera l’altro: ma la ragione è evidente, perché in Inghilterra i baroni adottarono presto fini generali e difesero interessi di tutta la loro classe e poi di tutto il popolo e questo chiamarono alleato nell’opera di mantenere bensì un potere regio, di cui sentivano la necessità, ma di piegarlo e foggiarlo a uso della nazione».
Perciò, nonostante le diversità etniche «e il contrasto di conquistatori e conquistati, si formò sin da allora una nazione inglese. Nella monarchia normanno-sveva non accadde lo stesso: un popolo, una nazione non nacque, non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie popolazioni si riconoscessero come subietto: siciliani, pugliesi, longobardi, napoletani erano tutti nomi parziali; popolani e borghesi non fecero pesare la loro propria volontà, e i feudatari solo in maniera individualistica e contraria allo Stato... Baroni e borghesi rimasero come estranei alla politica dei loro sovrani; e non furono a fianco di Federico e di Manfredi nella lotta contro i pontefici, come la Francia fu poi a fianco di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII. Invano tra i baroni meridionali si cercherebbero figure che avessero qualche tratto della religiosità, dell’austerità, del sentimento d’onore che si notano in un Simone di Montfort, e che spiegano la fecondità delle agitazioni e ribellioni da costui guidate, e ne fanno il martire di una causa nazionale. E dov’è poi, nella agitata e folgorante storia della monarchia normanno-sveva, qualche traccia di epica, di quell’epica che accompagna la coscienza del sorgere di un popolo?».
Sulla coscienza e sull’azione nazionale del baronaggio inglese per lunghi secoli è difficile che gli inglesi e i loro sovrani di quei secoli avrebbero potuto concordare col giudizio crociano. Quale motivo può, peraltro, aver indotto Croce all’accettazione così decisa di una tesi, sulla quale difficilmente potrebbe convenire anche l’attuale storiografia inglese, che si è sforzata di uscire del tutto fuori dal dilemma del carattere nazionale o non nazionale del periodo normanno?
Per l’aspetto della conquista la storia inglese e la storia meridionale di quel periodo presentano certo notevoli affinità. Così è soprattutto per il rapporto tra momento militare e della violenza e momento politico e della mediazione nell’organizzazione dei nuovi domini normanni. Anche le differenze sono, tuttavia, evidenti. Basti pensare che Guglielmo I si impadronì dell’Inghilterra con un paio di battaglie campali e con un paio d’anni di campagne militari distruttive in alcune regioni. Nell’Italia meridionale e in Sicilia occorsero, invece, decenni di azioni politiche e militari perché il dominio normanno vi si stabilisse.
Soprattutto, poi, ogni confronto fra i due casi sottostà alla difficoltà insuperabile delle profonde differenze di struttura storica dei due Paesi. Da una parte, il Mezzogiorno pluriculturale e pluriconfessionale, legato alle due aree più fiorenti del mondo medievale, quando l’Europa ancora appariva barbara e infedele, la bizantina e la musulmana, con un frazionamento politico per cui vi si distinguevano varie zone politiche rivali, ma anche in stretto contatto fra loro; tutte partecipi di commerci di ampio raggio; con una forte presenza di fenomeni cittadini importanti (e, in qualche caso, Palermo, di grande rilievo).
In un tale paese poco avevano i Normanni da insegnare e molto da apprendere, come, infatti, avvenne. È stato detto da tempo che la loro «bella monarchia» assimilò e utilizzò i criteri dell’amministrazione bizantina e musulmana. Il geografo del re Ruggero era un musulmano, Edrisi. I mosaici di Monreale e di altri luoghi celebri della Sicilia normanna sono di scuola bizantina e portano iscrizioni in greco, oltre che in latino. E si potrebbe proseguire con questa interazione mediterranea di cui si fa ancora grande merito al nipote di Ruggero II, Federico II.
Dall’altra parte, una Inghilterra anglosassone in condizioni materiali, culturali e religiose del tutto diverse. Qui erano i Normanni a poter giocare il ruolo di una aristocrazia colta e raffinata, espressione di quella grande Francia che dal Mille fino a tutto il secolo XIII fu al centro della vita, innanzitutto culturale, dell’Europa di allora. Poco o nulla, rispetto a Sicilia e Mezzogiorno, il precedente mondo anglo-sassone aveva da offrire ai conquistatori.
Tutto sommato, il punto di maggiore contatto fra le due esperienze rimane l’introduzione normanna del feudalesimo in entrambi i Paesi (e non è un caso che ne siano rimasti in entrambi due documenti fra i più importanti della storia europea di allora, il Catalogus baronum in Italia e il Domesday Book in Inghilterra, che danno l’impressione di una maglia feudale più stretta e di un controllo regio più forte in Inghilterra).
Le differenze, quindi, tra la Normandia inglese e quella italiana abbondano. La differenza prospettata da Croce - in Inghilterra subito una nazione anglonormanna, in Italia una dominazione dinastica - è, tuttavia, davvero discutibile. Ed è da presumere perciò che Croce, il quale non poteva non esserne in qualche modo consapevole, l’abbia espressa in modo tanto drastico anche perché così egli avrebbe dato maggiore evidenza e icasticità al suo giudizio sulla storia normanno-sveva nel Mezzogiorno d’Italia (senza contare che vi può essere entrata anche una sua certa visione idealizzata della storia inglese nel suo complesso).
Croce non affermò, comunque, mai che da quell’inizio non «nazionale» della monarchia meridionale dipendesse tutta la storia successiva del Mezzogiorno, come spesso si è affermato e si afferma. Da grande storico qual era, sapeva che nessuna storia è scritta una volta per sempre, e che ogni generazione, ogni epoca ha i suoi particolari problemi e le relative responsabilità.
il profilo di un’isola
La Sicilia dell’arabo Al-Idrisi e l’esplorazione immaginaria che è l’incanto di ogni libro
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, 15.06.2016)
«In via patria» era il motto di Sant’Agostino, vale a dire: la sola patria è il viaggio. E in tempi più vicini a noi un poeta, Ǒsip Mandel’stam, ricordava che «una volta chi non aveva viaggiato non osava scrivere». Al tempo di al Idrisi, nato non molto lontano da dove Agostino aveva iniziato il proprio cammino, sulla faccia della Terra ancora si muoveva ogni cosa, gli esseri umani ma anche la Terra stessa, sebbene non tutte le sue parti allo stesso modo. Una regione, la Sicilia detta allora Trinacria, si distingueva per la sua mobilità, cioè per la propria funzione di piattaforma di ogni traffico e commercio, al punto che una figura a tre gambe, l’antico simbolo orientale del triskelis, ne riassumeva la natura.
Che la Sicilia avesse forma triangolare era noto da quando i primi marinai ne avevano doppiato in fila i tre capi. Ma che tra un capo e l’altro s’interponesse un vettore orientato ovvero un organo di locomozione era qualcosa che soltanto l’esattezza del mito poteva dire, e che nessuna geometria avrebbe saputo rappresentare. Proprio anzi al rifiuto di ogni modello geometrico il simbolo del triskelis, che fa dell’isola una girandola per bambini, deve la propria efficacia e la propria funzione di verità: di capi, cioè di teste, ve n’è soltanto uno, al centro, e i vertici dell’isola corrispondono all’estremità dei tre arti che da esso si estendono per puntare verso est, sud ed ovest.
Non verso nord, e questo al Idrisi non l’avrebbe compreso. Nel 1139 re Ruggero di Sicilia gli comanda di raccogliere ed esporre in forma sintetica tutte le informazioni possibili su tutti i Paesi del mondo allora conoscibile. Ed egli non può ignorare, anche in virtù dell’origine normanna del suo signore, le contrade settentrionali (come l’Estonia e la Finlandia) fino ad allora restate allo scarto dalla concezione mediterranea dell’ecumene, termine con il quale i Greci indicavano il mondo abitato e conosciuto. Prima di morire, Ruggero fece appena in tempo ad ammirare il risultato del lavoro, costato quindici anni di fatica: un enorme planisfero inciso su una lastra d’argento del peso di 150 chili, ed un libro composto di carte e descrizioni intitolato Lo svago per chi brama di percorrere le regioni, rimasto celebre tra gli Arabi con il nome di «libro di Ruggero», il libro da cui muovono oggi gli itinerari suggeriti dalla rassegna «Paesaggi di mare», promossa dall’Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana.
Ancora più suggestivo è il titolo della seconda edizione del testo, approntata da al Idrisi per Guglielmo II, che succede a Ruggero: Giardino di diletto e svago dell’anima, oggi perduto. Una terza redazione, che sopravvive in forma di manoscritto, gli fa eco: Giardino di divertimenti e svago degli spiriti. Soltanto nel rileggere questi titoli diventa finalmente comprensibile l’origine dell’accusa di pigrizia che Baudelaire, all’inizio de I fiori del male, rivolge all’«ipocrita» lettore, che dunque è pigro proprio perché in virtù del libro è esentato dalla fatica del viaggio, dal travaglio del cammino, dalla pena dell’esplorazione. Come dire che ogni libro è un libro di geografia perché ogni libro sostituisce all’esperienza concreta delle cose terrestri il loro racconto.
Ma nemmeno del racconto di al Idrisi ci si può fidare del tutto, come mille anni prima di lui aveva spiegato Tolomeo, un altro geografo africano - e il «libro di Ruggero» deve ancora molto alla descrizione tolemaica. Spiega Tolomeo che il modello più fedele della Terra sarebbe una sfera, ma più un modello è fedele più non serve a nulla. Il globo, ad esempio, più è grande più è scomodo, perché per avere qualche informazione bisogna di continuo girarvi intorno o farlo ruotare con le mani. Perciò, suggeriva Tolomeo, fate delle mappe: comodamente seduti vedrete subito con un solo sguardo tutto quello che vi serve. Che è appunto quello che anche i lettori del «libro di Ruggero» sono indotti a fare. Ma soltanto per consentire alla propria fantasia, alla propria anima, al proprio spirito, di dischiudersi e prendere il volo. Qualcosa che Tolomeo a suo tempo ignorava e Baudelaire già disconosceva, ma che al Idrisi, evidentemen te, invece sapeva benissimo.
Università in festa: la Federico II compie 792 anni
di Mariagiovanna Capone *
Settecentonovantadue anni e non sentirli affatto. L’Università Federico II festeggia il suo genetliaco con modernità strizzando l’occhio al passato e puntando lo sguardo con ottimismo verso il futuro. Il 5 giugno 1224 fu fondato dall’Imperatore Federico II il più grande Ateneo del meridione e da allora i successi sono stati straordinari. Per il secondo anno, il rettore Gaetano Manfredi e il prorettore Arturo De Vivo hanno messo a punto un cartellone di eventi per dare il «Buon Compleanno Federico II» e aprendo gli spazi solitamente dedicati allo studio e alla ricerca, alla cittadinanza. Saranno aperti e accessibili gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno).
I festeggiamenti principali per il 792esimo compleanno dell’Ateneo sono slittati al 10 giugno per via delle elezioni amministrative e si concentreranno tra l’Aula Pessina (ore 15) dove saranno premiati gli studenti meritevoli dell’anno accademico in corso, «un modo per regalargli la giusta gratificazione per l’impegno profuso, che sia anche di buon auspicio per il loro futuro professionale», spiega Manfredi. Con rettore e prorettore anche i presidenti dei vari istituti federiciani da cui provengono i vincitori: Luigi Califano della Scuola di Medicina e Chirurgia, Lucio De Giovanni della Scuola delle Scienze Umane e Sociali, Piero Salatino della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, Matteo Lorito della Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria.
Alle 16.30 ci si sposterà nell’Aula Magna Storica per premiare stavolta i laureati illustri, coloro che hanno contribuito con le loro capacità e talenti a migliorare il Paese. Il geniale e poliedrico Renzo Arbore laureato alla Federico II in Giurisprudenza, il talentuoso drammaturgo Enzo Moscato laureato in Filosofia, e poi la storica dell’arte Paola D’Agostino da circa un anno direttrice del Museo nazionale del Bargello di Firenze, Riccardo Monti attuale presidente dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane laureato in Economia e Commercio, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli che sta provando a salvare la biblioteca dei Girolamini, e il Paolo Sassone Corsi che attualmente dirige il Centro per l’Epigenetica e il Metabolismo della University of California da dove sta contribuendo a studi sulla lotta al cancro.
Dopo la premiazione dei laureati illustri ci si sposterà sullo scalone della Minerva per un intervento musicale del Coro Polifonico Universitario Federico II e in piazza del Gesù per la festa vera e propria con cui l’Ateneo risentirà il calore e l’affetto della cittadinanza dopo il successo dello scorso anno. Ad aprire la serata sarà Mariano Rigillo cui è affidata la lettura di un monologo inedito di Maurizio De Giovanni sul fondatore dell’Università. In occasione dei 40 anni della Gatta Cenerentola, Peppe Barra si esibirà in concerto insieme alla sua band, anticipato dalla lettura di un messaggio del maestro Roberto De Simone. In chiusura di serata Francesco Di Bella in concerto.
Ricche proposte culturali e artistiche, a cominciare dal Fru16, decima edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane ospitato nel Complesso dei Santi Marcellino e Festo che farà da preludio dal 3 al 5 giugno alla giornata clou. Il Festival porterà a Napoli rappresentanti delle comunità studentesche di quasi tutti gli Atenei italiani che hanno una radio e sono previsti oltre 200 partecipanti di almeno 26 radio.
* Il Mattino, Mercoledì 1 Giugno 2016
La Federico II compie 792 anni: la storia della prima Università pubblica al mondo
di Luca Tesone *
Fondata il 5 giugno del 1224, l’Università Federico II si appresta a compiere ben 792 anni! Una vera e propria festa è stata organizzata dal rettore Gaetano Manfredi, e dal prorettore Arturo De Vivo. Per tutti i cittadini sarà possibile infatti visitare gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno). Festeggiamenti che poi proseguiranno il 10 giugno, a causa delle imminenti elezioni comunali.
La storia di questa importantissima università ha inizio con quella del suo fondatore, Federico II appunto. L’imperatore che, nelle sue mani, deteneva i poteri del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico. Una personalità spiccatamente mecenatesca come la sua non poteva che fondare la prima università laica e statale degli studi del mondo Occidentale. La scelta cadde su Napoli e non su Palermo (che era la capitale del regno) perché era più facile da raggiungere, sia via terra che via mare. Inoltre, essendo una delle città più ricche e grandi del regno, poteva più facilmente offrire alloggi agli studenti.
In oltre 700 anni di storia, la Federico II ha avuto molti alti e bassi. In particolare, nel Seicento si registra il periodo di maggior decadenza dell’istituto. Solo a partite dal secolo successivo, con l’intervento delle dinastie degli Asburgo prima, e dei Borbone poi, l’ateneo riuscì a riprendersi: creazione nel 1735 della prima cattedra in Astronomia in Italia e nel 1754 della prima cattedra di Economia. Senza dimenticare la presenza di personalità che hanno fatto la storia, e che hanno insegnato proprio alla Federico II, come il filosofo Giambattista Vico.
In seguito al ventennio fascista, la Federico II divenne il secondo ateneo più importante d’Italia per numero di iscritti, dopo la Sapienza di Roma. In questi anni, vissuti anch’essi tra alti e bassi, non sono mancati importanti riconoscimenti. La facoltà di Ingegneria, ad esempio, è stata riconosciuta come la migliore d’Italia. Importanti traguardi raggiunti anche nell’ambito della ricerca scientifica, come la cura per la schizofrenia. Più recente, invece, la costruzione della prima trave al mondo attraverso l’uso della stampante 3D. Un traguardo raggiunto anche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Strutture per l’Ingegneria e l’Architettura della Federico II.
Insomma, una storia densissima di traguardi e primati, che rendono la Federico II la più importante università d’Italia ed una delle più importanti al mondo. Non resta quindi che augurarle, anche noi, buon compleanno!
* Vesuvio-on-line, 01 giugno 2016 (ripresa parziale).
LA DISTRUZIONE DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": FEDERICO II, DANTE, E KANT.
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988).
* Federico La Sala, 06 febbraio 2015.
UNA VISIONE DELL’IMPERO TRA TRADIZIONE E MODERNITÀ
La questione DI FEDERICO
Considerato di volta in volta come un sovrano di stampo medievale o come il fautore di un governo libero dalle influenze ecclesiastiche, Federico II è al centro di alcuni recenti saggi, fra cui uno studio di Wolfgang Stürner, che dell’imperatore svevo sottolinea i lati innovativi, a partire da un’idea di Stato responsabile del rispetto del diritto
di Marina Montesano (il manifesto, 04.02.2010)
Tra i grandi personaggi del Medioevo, Federico II Hohenstaufen è uno dei pochi ad attirare l’attenzione anche di coloro che non si occupano in modo approfondito di quel periodo storico. Soprattutto nella sfera italo-meridionale, il mito federiciano sembra essere ancora molto vivo: sovrano «medievale» o «moderno»? eretico o solo fautore di un governo laico, libero dalle influenze ecclesiastiche? È sulla base di tali domande che molti studiosi hanno impostato la cosiddetta «questione federiciana».
Come sottolinea Ortensio Zecchino nella prefazione alla recente edizione italiana dell’opera di Wolfgang Stürner, Federico II e l’apogeo dell’impero (Salerno editrice, pp. 1128, euro 84), pubblicata in due volumi in Germania fra 1992 e 2000, quanti oggi si pongono questi interrogativi, riflettono un dibattito storiografico antico e acceso, che difficilmente troverà soluzione, e che in fondo poggia su alcuni pseudoproblemi di carattere principalmente nominalistico: primo fra tutti quello, appunto, della «laicità» e «modernità» dell’imperatore e della sua opera.
Erede di molte corone
Basti ricordare che lo stesso sovrano non mostrava alcuna intenzione di voler accordare alle città del regno d’Italia - dove difficile permaneva il problema del rapporto fra la corona e i comuni, solo temporaneamente risolto dalla pace di Costanza del 1183 - maggiori libertà di quanto non avesse già fatto circa mezzo secolo prima il suo avo Federico I. Ben diversa la situazione in Germania dove, con la Constitutio in favorem principum del 1232, venivano adottate misure che andavano in una direzione opposta rispetto a quella sancita nel Liber Augustalis, in quanto Federico II affidava il regno tedesco ai vari principi dell’impero, in tal modo legittimando giuridicamente quel carattere policentrico che sarebbe stato tipico di tutta la successiva storia della Germania e che avrebbe costituito la premessa per l’assetto federale sia del «secondo Reich», sia dell’attuale repubblica.
Difficile parlare di opera di sintesi per un volume come quello di Stürner che supera le mille pagine: e in effetti il libro è molto più di questo. Né ha senso, in campo storiografico, parlare di opera definitiva, e lo stesso autore lo sottolinea aprendo l’edizione italiana con un capitolo di aggiornamento bibliografico in cui passa in rassegna gli studi federiciani dell’ultimo decennio. Federico II e l’apogeo dell’impero è invece una biografia ragionata e documentata della straordinaria parabola dell’imperatore svevo, nella quale si discute soprattutto il rapporto tra la sua fedeltà alle istituzioni tipiche del suo tempo e le sue prospettive di innovatore.
Una dicotomia dinanzi alla quale Stürner non si astiene dal prendere posizione: «Tra i tratti peculiari di Federico, molti evidenziano come fosse radicato nel suo tempo, come subisse l’influsso di concezioni e principi della tradizione medievale. Ciò vale per la sua religiosità cristiana e per la sua visione dualistica dell’ordinamento sociale, fondato sulla volontà di Dio... Ma, al di là di questo legame consapevole con la tradizione, il progetto di Stato messo a punto dallo Svevo, con particolare riferimento al Regno di Sicilia, alludeva chiaramente al futuro, nei suoi aspetti più caratteristici: considerando lo Stato responsabile del benessere dei sudditi e del rispetto del diritto, rifiutando ogni ingerenza e controllo ecclesiastico in questo specifico campo di attività, creando una gerarchia amministrativa subordinata alla corte, impegnata in un raffinato lavoro di scrittura e, infine, richiedendo ai suoi funzionari specializzazioni e qualità morali straordinarie. Di sicuro può esser presa a modello la convinzione fondamentale di Federico - da lui sostenuta con passione e trasposta nella realtà - secondo la quale esercitare la sovranità significa prima di tutto garantire il diritto e la giustizia, così da assicurare la pace».
In tutte queste componenti della concezione dell’impero, la pace riveste in effetti un ruolo fondamentale. In quanto garante della giustizia e custode del suo popolo, l’imperatore è fons iuris e lex animata in terris; a lui spetta dunque il ruolo, addirittura il dovere di guidare la societas christianorum verso la felicità terrena garantita dal bonum commune. Non casualmente nel corso della «crociata diplomatica» invisa al papato, che lo condusse a un accordo con il sultano a proposito del possesso di Gerusalemme, Federico aveva sottolineato come il bene supremo della pace fosse obiettivo primario della sua missione imperiale, congiunto sempre alla iustitia senza la quale la pace - intesa in senso profondamente agostiniano - è una vuota parola.
Il progetto imperiale dello Svevo è un edificio che egli cercò di costruire nel tempo, attraverso fasi differenti; per questo il volume di Stürner si snoda seguendo una precisa scansione cronologica. Secondo quanto voluto da Federico I Barbarossa, suo figlio Enrico VI era divenuto re di Sicilia nel 1186 in seguito al matrimonio con Costanza d’Altavilla, e imperatore nel 1190, dopo la morte del padre. L’incoronazione ebbe luogo a Palermo, nel Natale del 1194. Proprio il giorno seguente a Iesi l’imperatrice Costanza dava alla luce Federico Ruggero, che riassumeva nei nomi il ricordo dei fondatori dell’impero svevo e del regno siciliano. Tuttavia Enrico VI morì appena trentenne, nel 1197, lasciando una situazione difficile.
Figlio di un imperatore romano-germanico e di una principessa siculo-normanna, Federico nasceva erede di molte corone. Anzitutto di quella imperiale. Essa, però, non era ereditaria: erano i principi tedeschi ad assegnarla eleggendo i re di Germania, che a loro volta, come «re dei Romani», erano candidati anche alla corona imperiale. In quanto re di Germania, egli era anche erede della corona di Borgogna e di quella d’Italia. Tutte queste corone, però, assicuravano diritti e prestigio ma non davano potere, perché il titolo comportava potenza soltanto se si era già forti: in caso contrario era praticamente impossibile far valere i diritti regi sui feudatari tedeschi o sulle città d’Italia. Diverso era il discorso per il regno di Sicilia, dove esisteva una forte compagine statale. Tuttavia, la dinastia degli Altavilla doveva la conquista del regno a se stessa, ma il titolo e la corona regali al papa, del quale era formalmente vassalla. Inoltre, siccome le terre del regno di Sicilia erano separate da quelle del regno d’Italia (che faceva parte dell’impero) da una fascia di territori a vario titolo rivendicati dalla Chiesa come dominio temporale, il papa non vedeva di buon occhio l’unione del regno siciliano all’impero.
Inizialmente, il pontefice Innocenzo III appoggiò l’erede: così, nel 1212, Federico fu eletto re dei Romani in cambio di ampie garanzie al papa e, finché visse Innocenzo, non si permise di condurre una politica personale troppo pronunziata. Ma con il successore, Onorio III, la situazione cambiò: nel 1220 egli si fece incoronare imperatore, dopo aver indotto la nobiltà tedesca ad attribuire la corona di Germania al figlio Enrico, senza mostrare alcuna intenzione di abdicare al regno di Sicilia. Non intendeva infatti abbandonare la Sicilia, in parte perché vi era stato allevato e si sentiva culturalmente più italo-normanno che tedesco, ma soprattutto perché ne conosceva le straordinarie possibilità economiche e l’altrettanto straordinaria posizione geografica. Federico si dette quindi a un’azione di consolidamento delle istituzioni del regno di Sicilia, per passare poi a quello d’Italia, dove progettava di ridurre all’obbedienza i comuni.
Nel 1227, alla scomparsa di Onorio III, salì al soglio pontificio Gregorio IX, deciso a non tollerare oltre la condotta di Federico II in materia di politica ecclesiastica e il mancato adempimento agli obblighi che si era assunto in ordine alla separazione tra impero e regno di Sicilia. C’era inoltre la questione della crociata, che Federico non pareva troppo interessato a compiere: costretto infine a partire nel 1228 da una scomunica, volse la spedizione in una missione diplomatica, scendendo a patti con il sultano Malik al-Kamil e cingendo la corona di Gerusalemme grazie al matrimonio con l’ereditiera Isabella-Iolanda di Brienne. Nonostante Gerusalemme fosse di nuovo cristiana, il papa fu tutt’altro che lieto del risultato, e bandì una crociata contro Federico, «peggiore dei saraceni», che dovette scendere a patti con il pontefice.
Tra guelfi e ghibellini
Di questo rinnovato periodo di pace l’imperatore seppe approfittare e nel 1231 emanò per il regno di Sicilia un nuovo insieme legislativo, il Liber Augustalis, che dimostrava come Federico avesse appreso la lezione bizantina e tenesse nel massimo conto la tradizione normanna: tali leggi miravano difatti a costituire uno stato centralizzato, burocratico, tendenzialmente livellatore - già avviato insomma a concezioni che molti hanno reputato «moderne», sebbene sia opportuno sfumare una contrapposizione così netta tra istituzioni medievali e modernità, come si evince dall’ampio profilo di storia istituzionale recentemente dato alle stampe da Mario Ascheri (Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Il Mulino, pp. 422, euro 27).
Anche per il regno d’Italia, dove era vivo il problema del rapporto fra la corona e i comuni, egli spingeva nella medesima direzione, mentre oltralpe, come si è detto, assumeva posizioni opposte, affidando il regno nelle mani dei principi dell’impero. Di fatto, Federico aveva intenzione di governare direttamente in Sicilia e in Italia, mentre sapeva bene di non essere in grado di controllare la Germania. Ma in realtà anche in Italia la situazione andava di nuovo verso la destabilizzazione. Federico incoraggiava, contro i comuni, alcune signorie in mano a feudatari «ghibellini», cioè a lui favorevoli. E proprio in età federiciana il conflitto tra «guelfi» e «ghibellini» giunse alla sua fase più acuta e terribile, anche se sarebbe riduttivo interpretarlo alla stregua di una semplice contrapposizione tra fautori del papa e partigiani dell’impero, come mostra efficacemente la raccolta di testi antologici, commentata e curata da Sergio Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Bruno Mondadori, pp. 184, euro 17).
L’ultima scomunica
I guelfi descrivevano Federico come un empio che avrebbe preferito l’Islam al Cristianesimo, oppure come un ateo convinto che le religioni erano tutte imposture. Si giunse, specie da parte di alcuni ambienti eredi della tradizione profetica affidata ai testi di Gioacchino da Fiore, a vedere in lui l’Anticristo. Per contro, l’opinione pubblica ghibellina e alcuni gruppi di eretici vi videro il possibile Reparator Orbis, colui che avrebbe punito i prelati indegni e restaurato la purezza della Chiesa. Nacque addirittura una leggenda secondo la quale egli non sarebbe mai morto ma, sopravvissuto misteriosamente fino alla Fine dei Tempi, sarebbe tornato allora sulla terra a guidare i cristiani contro le forze del male.
Nel 1239 Federico venne comunque nuovamente scomunicato - una decisione ribadita dal nuovo papa Innocenzo IV nel Concilio di Lione del 1245, sebbene non tutta la cristianità accettasse i deliberati di un’assise che si era svolta in condizioni non troppo chiare. Si trattò tuttavia senza dubbio di un colpo gravissimo per il prestigio dell’imperatore, che ne risentì in maniera profonda. Gli ultimi anni di Federico furono tristi, incrinati dalla cattiva salute, dalle ombre dei rovesci politici e militari, dall’ossessione del tradimento. La sua morte, avvenuta a Fiorentino di Puglia nel dicembre 1250, sembrò sancirne la sconfitta politica. Ma al contempo aprì le porte alla nascita del mito.
PROFILO
Alla Magna Curia invitò i più grandi studiosi del suo tempo
La Magna Curia, la corte siciliana di Federico II, rappresentò un centro di sperimentazioni culturali. Un ruolo speciale deve essere assegnato alla «scuola» poetica che vi sorse: la tradizione poetica francese vi venne fusa con influenze provenienti da varie culture, soprattutto quelle greca e araba, e dette vita a un modo di poetare nuovo che si espresse in un siciliano di qualità elevata. Oltre che letterari, gli interessi di Federico furono scientifici e filosofici. Anche in questo, egli seguiva in gran parte la tradizione dei sovrani normanni. Alla sua corte convennero studiosi tra i più notevoli del tempo, come il filosofo e astrologo Michele Scoto che tradusse alcune opere di Aristotele; Teodoro, un arabo cristiano; Juda ben Salomon Cohen, enciclopedista ebreo. L’imperatore inviava inoltre molte questioni scientifiche a dotti sparsi un po’ in tutto il bacino mediterraneo. Da parte sua compose un trattato, il «De arte venandi cum avibus», nel quale immise il frutto della sua capacità di osservazione. Lontano dai «Bestiari» a carattere simbolico tipici del tempo, il «De arte» è invece un trattato scientifico che si occupa di ornitologia, di allevamento, di addestramento.
Sulla modernità di Federico II sarebbe molto interessante acquisire qualche volta anche il parere di Pier delle Vigne. Io mi astengo, giacchè son di parte. Anzi no, di San Secondo di Parma. Elucubrazioni varie in "Martedì, 18 febbraio 1248".
Salute!
Pier Luigi Poldi Allaj
Pubblicato da Rubbettino l’epistolario completo del ministro di Federico II di Svevia
Fellone punito o vittima innocente
Dubbi e misteri su Pier della Vigna
Nella «Commedia» Dante sottolinea la sua devozione al sovrano e la confidenza personale che ne era derivata
di Galasso Giuseppe *
Pier della Vigna (o anche al plurale: delle Vigne) ha la fama che ha grazie al drammatico ritratto di Dante nel suo Inferno . Lì, come si sa, Piero figura come potente ministro di Federico II di Svevia, del cui cuore aveva tenuto «ambo le chiavi», quasi escludendo ogni altro dalla confidenza del sovrano, ma con tanta dedizione da perderne «il sonno e i polsi» per la consapevolezza e il senso di responsabilità con cui aveva svolto la sua parte presso il sovrano, sempre tenendo fede «al glorioso ufficio».
Invidia e malignità, solite nella vita di corte, lo avevano poi fatto cadere in disgrazia presso Federico, e lo avevano spinto a suicidarsi, benché mai avesse mancato ai suoi doveri verso il suo «signor che fu d’onor sì degno».I versi di Dante sono incisi anche su un masso ai piedi della rocca di San Miniato. Lì si dice che Piero, improvvisamente arrestato a Cremona nel febbraio 1249, fosse incarcerato, e lì torturato e accecato, per cui alla fine, non si sa come, vi si sarebbe suicidato.
Ce n’era abbastanza per sollevare voci più varie su quella repentina caduta in disgrazia: questione di donne, o partecipazione di Piero a una congiura antimperiale, o punizione per suo illecito arricchimento, o casuale conseguenza di un grave momento di difficoltà nell’azione politica di Federico II dopo la sconfitta di Parma del 1248.
Questioni opinabili, e forse insolubili, che, però, non attenuano l?interesse attirato su Piero, oltre che da Dante, dai trent’anni (1220-1249) in cui fu al servizio di Federico II, prima come notaio e scrittore della cancelleria, poi come giudice e logoteta (alto funzionario politico di corte, quasi un segretario personale del sovrano) del Regno di Sicilia.
Della sua attività curiale è testimonianza il suo cosiddetto «epistolario». Ce ne restano quattro diverse sillogi, ma un’ edizione completa moderna (dopo quelle di Simon Schard a Basilea nel 1556 e di Johann Rudolf Iselin nel 1740 a Hildesheim) mancava alla grande cultura europea ed era da tempo auspicata.
Vi ha oggi provveduto il Centro europeo di studi normanni, di Ariano Irpino, presieduto da Ortensio Zecchino, pubblicando L’ Epistolario di Pier della Vigna (coordinatore Edoardo D’Angelo con vari collaboratori, testo latino e traduzione italiana, Rubbettino editore). Si tratta, in realtà, come dice D’Angelo, «di circa 550 tra manifesti, mandati, epistole e documenti di vario genere», datati dal 1198 al 1264, e dunque solo in parte dovuti di sicuro a Piero.
La compilazione pare di tipo manualistico, secondo la massima parte degli specialisti di questa materia, e messa insieme fra il 1264 e il 1318, forse presso la Curia romana, allo scopo di fornire esemplari di redazione cancelleresca di vari tipi di testi.Ciò dice, peraltro, quale fosse il prestigio culturale dei testi della cancelleria sveva, di cui Piero fu tanta parte. Egli vi realizza, infatti, la piena integrazione di una soda cultura giuridica (pare abbia studiato a Bologna) con una perizia da grande letterato, maestro di stile e di retorica (studiata nelle scuole della natìa Capua): una perizia rafforzata dalla sua scrupolosa disciplina nell’osservare i canoni e i precetti artificiosi e manieristici dell’ars dictandi (l’arte dello scrivere) del suo tempo, che certo animavano anche la sua attività oratoria e ricorrono nelle sue poche prove poetiche.
Né la retorica, né il diritto esauriscono, però, l’interesse di questo «epistolario». Vi si ritrovano, infatti, testi importanti per le dottrine e i dibattiti politici del tempo in cui la lotta tra Federico II e la Chiesa di Roma occupò gran parte della scena europea. Allora molti videro in Federico un vero e proprio Anticristo, ma altri, com’è detto in un’epistola famosa di Piero, «un principe tanto grande, nel cui petto confluiscono tutte le virtù, che le nubi hanno fatto piovere (in terra) perfetto e sopra il quale i cieli dall’alto hanno sparso rugiada». Non per nulla, del resto, Federico sarebbe stato non solo lo «stupore del mondo» ai suoi tempi, ma il grande eroe laico e moderno, e perfino un quasi superuomo, della cultura europea dall’Illuminismo in poi.
Sia pure attraverso la prosa spesso faticosa del tempo, anche il lettore non specialista può farsi, così, grazie a questa notevole impresa editoriale, un?idea concreta di un periodo storico climaterico e di un protagonista fra i più affascinanti della storia europea.
Galasso Giuseppe
* Corriere della Sera, 20 agosto 2015, Pagina 39