Illuministi Italiani: Riformatori Napoletani. Introduzione
di Franco Venturi *
Il moto riformatore ispirato alle idee illuministiche ha inizio nel Mezzogiorno dell’Italia quando ormai stanno esaurendosi le due grandi correnti di pensiero che dominano la cultura napoletana nella prima metà del Settecento, il cartesianesimo cioè e il rinato platonismo. Le personalità che avevano saputo interpretare queste correnti ideali e farle rivivere originalmente, come Pietro Giannone, Giambattista Vico, Paolo Mattia Doria, morivano tutti e tre negli anni che precedettero immediatamente la metà del secolo.
Attorno al 1750 la via era aperta ai giovani, alla generazione che era venuta sviluppandosi nella nuova atmosfera politica del regno meridionale da quando, nel 1734, Carlo di Borbone l’aveva conquistato agli austriaci e l’aveva costituito in stato autonomo.
La ritrovata indipendenza - sia pur relativa ed alquanto formale - influirà non poco sulle coscienze della nuova generazione e lascerà tracce importanti in tutto il mondo riformatore ch’essa avrebbe ben presto messo in movimento.
Quanti erano gli stati italiani in grado, se non di fare, almeno d’illudersi di poter fare una politica indipendente? Non molti in verità, e certo uno di essi era proprio il Napoletano. I sogni, le ambizioni d’una politica autonoma, fondata sull’esempio francese e spagnolo, una volontà d’autosufficienza economica, di affermazione sul mare e di sviluppo commerciale si radicheranno profondamente nella mentalità degli uomini che stavano svegliandosi, alla metà del secolo, all’osservazione della realtà sociale che li attorniava.
Un vecchio sopravvissuto dell’epoca che stava tramontando, il toscano Bartolomeo Intieri, diventerà allora il centro di coloro che rapidamente stavano assorbendo le idee provenienti d’oltr’Alpe e d’oltre mare per confrontarle con i problemi del loro proprio paese.
Amministratore e inventore, ammiratore della tradizione galileiana ed ottimo conoscitore della vita campagnola dello stato meridionale, Intieri possedeva due grandi qualità che ne faranno l’ispiratore del nascente moto riformatore: era un tecnico ed era un ottimista. Forniva cioè i mezzi d’azione ed ispirava una illimitata fiducia.
Sarà lui a discutere le prime idee finanziarie e monetarie di Ferdinando Galiani, a stabilire una prima rete di contatti, che poi i suoi giovani amici allargheranno, nelle più diverse parti della penisola ed anche in alcuni centri dell’Europa.
Sarà lui a permettere ad Antonio Genovesi di salire sulla prima cattedra di economia politica creata in Italia e battezzata col titolo caratteristico di cattedra di meccanica e di commercio.
Quando Intieri incontrò Genovesi, questi usciva da una crisi profonda, la crisi stessa della cultura tradizionale, metafisica e teologica, disputatrice ed accademica, alla ricerca di qualche cosa di nuovo e di diverso. Una vera e propria conversione sarà la sua, che lo porterà dalla morale allo studio della società, dalla filosofia all’economia. Ebbe tale importanza da potersi dire, senza esagerazione, che da quel momento aveva inizio una nuova storia. L’animus del riformatore illuminista era apparso ed aveva cominciato ad affermarsi.
La cultura di cui si venne colorando questa profonda volontà di rinnovamento era aggiornata, fresca e viva. Erano le idee che avevano accompagnato in Francia la crisi di Machault, che s’affermavano nei primi volumi dell’Enciclopedia, che la Spagna ambiva di poter applicare, che l’Inghilterra ispirava colla sua ricca esperienza e l’Olanda diffondeva in Europa. Le idee economiche cioè del liberismo anteriore alla fisiocrazia, del neomercantilismo manifatturiero e commerciale che s’accompagnava a una libertà sempre più ampia in materia di prodotti agricoli, e alla crescente volontà di spezzare all’interno d’ogni paese i vecchi vincoli di casta, gli antichi privilegi e pedaggi, tanto nobiliari che ecclesiastici. Era la mentalità del laissez-faire di Gournay, erano le idee di Forbonnais e di Plumard de Dangeul.
Il regno napoletano, tra le prime terre italiane, si aprì non soltanto alla conoscenza di queste idee - ché esse furono ovunque largamente diffuse- ma ad un vivo dibattito su di esse e soprattutto alla volontà di tradurle in realtà. Il meridione ebbe così il peso ed il privilegio di chi comincia a camminare dinanzi agli altri. Quando, uno o due decenni più tardi, vennero a diffondersi le idee fisiocratiche, il Napoletano era già fisso su alcune sue concezioni, che possiamo chiamare genovesiane e che venivano a costituire un argine, un ostacolo di fronte alle idee ormai diverse o contrarie che giungevano dalla Francia.
L’epoca di Carlo di Borbone e di Tanucci lasciò così una profonda impronta sugli spiriti. Indubbiamente ciò poteva avvenire perché le idee che vennero allora diffuse erano effettivamente corrispondenti alla realtà delle cose e soprattutto alle esigenze degli uomini che, sia pure empiricamente e con non poche incertezze, cercavano di portare qualche riforma alla base dello stato e della società ereditati dagli spagnoli e dagli austriaci.
Una ripresa commerciale pareva esser l’elemento motore d’un paese tanto ricco di coste, di porti, di secolari contatti con il mondo mediterraneo. I legami con la Francia si sarebbero approfonditi con l’immissione del Napoletano nell’orbita borbonica. La monarchia avrebbe potuto riprendere una funzione di guida, di incoraggiamento economico, tradizionale nel Mezzogiorno, ricercando un modello nella Francia di Colbert e nella Spagna che stava risvegliandosi a nuova vita.
Man mano che si procedeva ad osservare la situazione con occhi freschi e spregiudicati, non si venivano forse scorgendo altri elementi che spingevano nel medesimo senso? Certo sviluppare davvero l’agricoltura era risalire una china molto, molto scoscesa. I privilegi del clero e della nobiltà, l’ignoranza profonda delle classi contadine, la mancanza d’ogni scuola elementare, la tragica inefficienza delle amministrazioni locali, il regime al quale era sottoposta tutta la produzione, dal grano alla lana, dalla seta all’olio, le differenze profonde esistenti fra provincia e provincia, la mancanza di strade, di comunicazioni, l’assenza perfino di carte geografiche utilizzabili, tutto rendeva difficile il compito del riformatore. Ben se ne accorse lo stesso Carlo di Borbone quando cercò di stabilire un catasto degno di questo nome.
Eppure spinte profonde portavano all’azione, al miglioramento. La popolazione cresceva, i prezzi delle derrate e delle terre pure. Un senso generale di espansione pervadeva anche le contrade più lontane del regno, spinte magari a riprendere vecchie, antiche lotte con i baroni, a rivendicare i terreni comuni, e a suddividere tra i contadini, ad estendere le aree coltivabili. Lasciar le cose come stavano non era davvero più possibile.
Un primo dramma si ebbe quando si poté constatare come la formazione giuridica, e punto economica, l’intelligenza viva, ma arida, di Tanucci gli impedivano di toccare proprio quegli strati della vita nazionale verso i quali si dirigeva sempre più l’attenzione di coloro che Genovesi andava indirizzando e preparando.
Il momento culminante del dramma venne presto, nel 1764 - una delle date più importanti della storia dell’antico regime in Italia, quando fu evidente che Tanucci non era in grado di dominare la gravissima carestia scatenatasi quell’anno, e quando migliaia e migliaia di persone vennero dalla campagna verso la capitale, per morirvi di fame e di malattie.
La tragedia ebbe tale ampiezza che tutta la generazione settecentesca ricordò con sdegno e con dolore questo memorabile momento: «l’anno 1764 è ancora con orrore impresso ne’ nostri cuori», scriveva Niccola Fiorentino nelle sue Riflessioni, pubblicate nel 1794.
Tutte le opere principali di Genovesi economista saranno pubblicate subito dopo questa esperienza. Il problema della coltivazione, della conservazione e del commercio dei grani sarà al centro della sua attenzione. Il suo neo-mercantilismo diveniva sempre più apertamente liberistico e la sua polemica contro le vecchie strutture dell’amministrazione annonaria si facevano sempre più energiche e decise.
Allora, negli anni ’60, si verrà formando in ogni città e provincia del regno quello che possiamo chiamare il «partito» genovesiano. Già da due decenni ormai tornavano dalla capitale, dopo aver ascoltato le sue lezioni di metafisica, di etica e di economia, i giovani che erano venuti dal Molise come dalle Calabrie, dalla Puglia come dagli Abruzzi.
Una nuova fede stava spesso nei loro animi, un nuovo atteggiamento verso i contadini, verso la terra, verso la tecnica e la cultura. Ed ora, dopo il 1764, essi cominciavano, come il loro maestro indicava, ad organizzarsi, a formare delle Società agrarie, che erano sovente chiamate patriottiche, o tentavano addirittura di operare sul posto riforme e miglioramenti. Magari cominciavano a scrivere e pubblicare opere sull’economia locale, partecipando così attivamente alla diffusione dei lumi.
Erano pochi, ma spesso molto attivi, e due di loro il lettore verrà a meglio conoscere nelle pagine che seguono, un figlio di poveri contadini molisani, diventato prete, Francesco Longano, e il discendente d’una nobile famiglia genovese da secoli trapiantata in Calabria, Domenico Grimaldi. Sono stati scelti anche perché così profondamente diversi, accomunati tuttavia da un ideale di riforma economica che ne fa due esponenti caratteristici del «partito» o, come forse sarebbe meglio dire, della scuola genovesiana.
Genovesi aveva loro insegnato molte cose: a sentire l’immensa distanza che separava gli uomini colti dalla massa contadina, da coloro che egli paragonava agli Ottentotti africani, a riflettere non soltanto sull’ingiustizia ma sul pericolo d’una simile situazione, sul rischio di portare ad una vera e propria dissoluzione della società operando riforme senza avere la forza per imporle e senza aver dapprima diffuso la cultura, l’istruzione, nei villaggi del meridione.
Aveva loro detto quale fosse la radice profonda di questo pericolo, la sproporzione enorme esistente fra le grandi proprietà ed i poveri affittuari senza terra ed aveva proposto una forma di ridistribuzione delle proprietà.
Aveva detto che il pernio di tutta questa trasformazione era la classe media e soprattutto quel ceto di uomini colti che vedeva ogni giorno di fronte a sé, quando saliva sulla cattedra. Toccava a loro cambiare ordinamenti e strutture del proprio paese.
Faceva leva su di loro perché ben intuiva che in un paese in sviluppo demografico solo il progresso tecnico e la creazione d’un comune linguaggio tra città e campagna, tra signori e contadini, avrebbe potuto evitare un aggravarsi, magari catastrofico, della situazione.
Nulla di più concreto e indispensabile che i lumi: proprio spargere l’istruzione era lo strumento tecnicamente adatto per la trasformazione della società napoletana del Settecento.
Genovesi aveva pure cominciato a indicare quale avrebbe dovuto essere l’atteggiamento di questi uomini colti di fronte allo stato. Coscienti della propria importanza e funzione, avrebbero dovuto essere autonomi, magari fieri e indipendenti, ma animati sempre dalla precisa volontà di premere, di modificare lo stato stesso, sospingendolo sulla via delle riforme. Persuadere Tanucci, ma soprattutto educare coloro che avrebbero potuto operare le necessarie trasformazioni, questo fu il suo programma.
L’esempio spagnolo, francese e inglese, l’esempio soprattutto degli altri stati italiani, della Toscana e della Lombardia, gli fu sempre presente: l’illuminismo meridionale inizia il confronto tra le varie terre italiane e crea una prima coscienza - più approfondita di quanto spesso non si creda- dei problemi specifici del Mezzogiorno e delle particolari esigenze del regno napoletano.
Quando Genovesi morì, nel 1769, era evidente ormai quale fosse l’ostacolo più grave all’applicazione d’un simile programma. Lo stato, dal re alle amministrazioni locali, era molto più inefficiente e corrotto, più disadatto ed inerte di quanto non temessero o magari credessero i riformatori. Cominciava la tortuosa, affannosa, patetica ricerca delle vie per superare questo ostacolo.
Appoggiarsi all’anticurialismo e giurisdizionalismo di Tanucci e dei suoi successori per allargare i conflitti di carattere ecclesiastico e portarli sul piano economico, che era quello dei riformatori? Il tentativo venne ripetutamente compiuto e ebbe un risultato importante, l’avvicinamento cioè del clero giansenistizzante agli illuministi. Non che le due correnti si fondessero mai completamente, distanti e diversi come erano i loro punti di partenza, ma basta pensare a figure come quella di Andrea Serrao per vedere fino a che punto fosse profondo e fecondo questo incontro. Anche il clero si divise così, secondo la linea sulla quale si era già divisa la classe dirigente, separando gli elementi colti dagli altri e rendendo i primi solidali con coloro che in nome della cultura e dei lumi intendevano operare la trasformazione del paese.
Appoggiare i tentativi di riforma legale di Tanucci, cercare cioè di sviluppare gli elementi attivi che pur stavano nella tradizione legale del paese? Cercare insomma di continuare la via che Giannone e i giannoniani avevano aperta all’inizio del secolo?
I tentativi furono molti - da quello di Filangieri a quello di Galanti. L’avvocatura, il foro erano troppo normalmente il mestiere d’una gran parte della classe dirigente napoletana perché questa strada non fosse battuta con insistenza e con rinnovata speranza.
Il risultato fu uno dei conflitti più gravi che si producessero nel seno degli uomini colti meridionali. Questi avvocati illuministi si ribellarono contro la tradizione dei «paglietta», questi riformatori finirono per capire che proprio la tradizione di Giannone e di Tanucci costituiva uno degli ostacoli più gravi alla realizzazione del loro programma. Era proprio la mentalità giuridica a formare una barriera invalicabile verso una riforma tecnica, economica della realtà meridionale.
Si accorsero che proprio il ceto degli avvocati costituiva la saldatura tra l’assolutismo tradizionale del potere monarchico e le innumeri potenze, gli infiniti abusi ovunque esercitati dai poteri locali, in ogni angolo del regno. La lotta contro il legalismo, contro la mentalità avvocatesca costituirà uno degli elementi essenziali della seconda generazione dei riformatori napoletani. Galanti e Delfico ne saranno gli uomini più rappresentativi.
E allora? Clero ed avvocati messi da parte, quale poteva essere l’obiettivo essenziale della polemica riformatrice? Se dovessimo ragionare secondo i vecchi schemi della storiografia filosofica dovremmo dire che di fronte a simile problema la «scuola» di Genovesi si divise, si scisse, e diede luogo ad una sinistra e a una destra.
Potremmo facilmente dimostrare come l’insegnamento del maestro fosse raccolto in due diverse correnti, nello stesso tempo unite e discordi.
Da una parte la corrente più utopistica e feconda insieme, composta da Francescantonio Grimaldi, Gaetano Filangieri, Francesco Mario Pagano, e tanti altri, che costituirono il più bel frutto del Settecento meridionale, il momento di fulgore e di gloria della cultura napoletana e che crearono tutta un’ideologia diretta contro il feudalesimo, sospinti da una vigorosa volontà di libertà e d’eguaglianza, nutriti da tutta la cultura del tardo illuminismo francese, così come dalle nuove speranze che cominciavano ad albeggiare oltre oceano, in America.
Saranno loro a porre in termini filosofici, politici ed economici i problemi dell’eguaglianza in un mondo così diseguale come quello del meridione italiano, i problemi della fisiocrazia europea in una società in cui i nobili erano così disadatti, almeno in genere, a compiere quella funzione che altrove era affidata ai proprietari terrieri, francesi, inglesi ed americani, i problemi infine d’uno stato riformatore ed amministratore, come quello che sapevano contemporaneamente realizzare Leopoldo in Toscana e Giuseppe II in Lombardia. Tutto ciò in una terra come il Napoletano, dove lo stato era particolarmente degradato ed avvilito.
Furono questi uomini a indirizzare l’aculeo della loro polemica contro il feudalesimo, a fare dei feudi il problema essenziale della loro lotta.
Furon loro a volgersi verso il passato, a riscoprire le origini del mondo barbarico e medioevale, a cercare le radici profonde e storiche dei mali essenziali della società meridionale.
Alla ricerca delle origini, finirono per scoprire Giambattista Vico, che, con Hume, Robertson, Boulanger, Chastellux e Voltaire fu il loro grande maestro.
Vico parve loro, attraverso il mistero delle sue formule, colui che solo era riuscito a penetrare in un mondo mentale che essi volevano distruggere, il solo che aveva inteso le menti dei padri, dei nobili ed aveva sperato in «governi umani».
Furon loro a cercare una nuova forma organizzativa, non più nelle Società agrarie ormai, ma nella massoneria, con tutti i suoi conflitti interni, le sue diverse correnti, il suo inappagabile desiderio di perfezione e di purezza. Il mondo di Filangieri, Grimaldi e Pagano, cominciato a crescere in un ambiente letterario, attorno ai duchi di Belforte, finì per trasformarsi in una setta, già a contatto, attraverso Friedrich Münter, lo strano propagandista danese, con uno dei più avanzati raggruppamenti latomistici dell’Europa d’allora, quello cioè degli Illuminati di Baviera.
L’altra ala della «scuola» genovesiana, se così vogliamo esprimerci, fu più provinciale, più legata a problemi concreti ed immediati. Altrettanto antifeudale, essa cercò maggiormente i mezzi specifici per abbattere le giurisdizioni dei baroni, tentò con maggior costanza d’aggrapparsi ai precedenti e ai pretesti giuridici. Si occupò pure di problemi finanziari e vide tutta l’importanza del credito. Fu meno organizzata, meno unita nella sua attività, efficace tuttavia nella sua permanente e persistente funzione riformistica. Tre uomini la rappresentarono soprattutto: Galanti, Palmieri e Delfico.
E, nelle pagine che seguono, si vedrà quale acutezza stesse nelle loro parole e come essi sapessero creare la solida e duratura immagine d’un «buon governo», d’una attiva, solerte ed onesta amministrazione che sapesse sovrapporsi alle piaghe e alle brutture del sud. Saranno loro ad affermarsi, nel decennio murattiano, in quegli anni napoleonici che videro tradursi in realtà tante riforme proposte nel Settecento e, prima di tutte, l’eversione della feudalità.
Gli altri, i Filangieri, i Grimaldi, i Pagano, ebbero ben diversa e drammatica sorte. Le loro idee sboccarono nel giacobinismo meridionale. Anche quelli già morti quando la rivoluzione del 1799 toccò il suo apice, spiritualmente erano presenti con i Pagano, con i Cirillo e con tanti che caddero nella catastrofe da Genovesi intravista lontana e che, come un incubo, era sembrata sovrastare gli ultimi decenni del secolo: il disfacimento sociale cioè che avrebbe fatalmente accompagnato il fallimento della politica delle riforme. Uno dei drammi più alti della classe intellettuale italiana si chiudeva così, con i massacri della Santa Fede.
Sola ambizione delle pagine che seguono è di farlo rivivere, nell’unico modo in cui esso può tornare presente a noi, cioè attraverso le vicende personali, i dubbi, i pensieri e i tentativi dei singoli individui che lo vissero nei suoi diversi atti e momenti, da quando Genovesi salì sulla cattedra napoletana fino a quando Pagano salì sul patibolo in Piazza del Mercato a Napoli o, se si preferisce, a quando Melchiorre Delfico finì per compiere il suo melanconico tramonto nel mondo del liberalismo e del conformismo del primo Ottocento.
Il lettore troverà dunque, nelle pagine che seguono, i testi, le bibliografie ed i profili di nove illuministi riformatori, che ci sono sembrati particolarmente caratteristici ed importanti. Per ognuno di essi si è cercato di compiere ricerche tra le loro carte, le loro lettere e, naturalmente, nel gran numero di stampati che conservano l’impronta o l’eco del loro pensiero. Per tutto questo lavoro un incitamento altrettanto acuto e lucido quanto affettuoso ci è venuto da Walter Maturi, alla cui memoria questo volume è dedicato.
* Cfr. Franco Venturi, "Introduzione", Illuministi Italiani: Riformatori Napoletani, "La Letteratura Italiana. Storia e Testi", a c. di Franco Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, vol. 46, Tomo V, pp. IX-XVII (Le evidenziazioni nel testo sono mie, fls).
Lezioni di economia civile
Recensione di Nanni Salio (Sereno Regis, giovedì 29 agosto 2013)
Perché ripubblicare, e segnalare, un libro scritto nella metà del Settecento? Ce lo spiegano bene Luigino Bruni e Stefano Zamagni nella loro ampia Introduzione, facendo anche osservare che questa pubblicazione avviene nel trecentesimo anniversario della nascita dell’autore, nato a Castiglione il 1° novembre 1713 (oggi Castiglione dei Genovesi, in provincia di Salerno).
Diventato sacerdote nel 1737, Antonio Genovesi è il fondatore della Scuola Napoletana di Economia civile e primo cattedratico di Economia in Europa, nel 1754, a Napoli.
L’attualità del suo pensiero, come fanno notare i due noti studiosi nella Introduzione, è la riscoperta del “mercato come mutua assistenza”, in questo momento di grave crisi sistemica globale. Dice Genovesi: “Il gran fonte delle guerre è il commercio”. Ma subito dopo fa una precisazione degna dei migliori studi di “ricerca per la pace” (Galtung): “Se due nazioni trafficano insieme per reciproci bisogni, sono questi bisogni che si oppongono alla guerra, non già lo spirito del commercio” (p. XV). Quanto suonano sagge queste parole in questi tempi di continue guerre nella martoriata area del Medio Oriente! Ma chi le farà proprie tra i nostri governanti, ciechi e sordi, oltre che ignoranti?
Altre ancora sono le ragioni della straordinaria attualità del pensiero di Genovesi. Egli sostiene che esiste un rapporto profondo tra economia e felicità. “L’economia moderna nasce nei diversi Stati italiani come scienza della ‘pubblica felicità’.” (p. XVII) “E’ legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri.” (p. XIX)
Sono le stesse riflessioni che Helena Norberg-Hodge sviluppa nel film “L’economia della felicità”, che trae spunto dalla sua lunga esperienza tra le popolazioni del Ladakh. E’ una tradizione che è stata ignorata dalle scuole prevalenti di economia, sia in Italia che altrove, ma che ora si sta riproponendo con forza “nella cooperazione sociale, nel commercio equo e solidale, nell’economia di comunione, nella banca etica, e in tutte quelle forme che fanno della reciprocità e delle virtù civili interiorizzate il loro principale motivo d’azione.” (p. XX).
Infine, osservano ancora Bruni e Zamagni: “l’essere umano per realizzarsi ha bisogno di reciprocità, ma per averla deve fare il salto della gratuità... Senza la gratuità... la reciprocità genuina... non si sviluppa.” (p. XIX). E’ quella che molti oggi chiamano “economia del dono” e anche “economia dei beni comuni”. Sono le radici profonde del pensiero cristiano, e non solo, che riecheggiano nella lunga schiera di coloro che da John Ruskin al Mahatma Gandhi, da Ivan Illich a Ernst Fritz Schumacher hanno gettato le basi di un’economia nonviolenta, alla quale l’opera di Antonio Genovesi dà un contributo teorico fondativo.
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Maria Sirago, Scuole per il lavoro. La nascita degli istituti ’professionali’ meridionali nel dibattito culturale tra fine ’700 e inizi ’800"*:
Il nuovo programma pedagogico espresso da Antonio Genovesi a metà anni ‘50 nel suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, definito dalla Formigari il de ratione studiorum dei tempi suoi, prevedeva un’istruzione generalizzata, un "catechismo" civile, accademie congiunte di contadini, matematici e fisici, tramite la "volgar lingua", cioè un linguaggio comune, la condizione per la costituzione di un senso comune, necessario ad ogni progetto di edificazione ‘borghese’2. In Genovesi per la prima volta venivano in luce l’intersezione fra i problemi teorici del linguaggio e i problemi della prassi pedagogico-linguistica3, soprattutto nell’ambito della creazione di una scuola pubblica, statale, gratuita e diffusa in tutti i ceti sociali. Nel secondo ‘700 l’abate salernitano ebbe un ruolo di rilievo nel dibattito culturale napoletano arrivando a teorizzare, dopo lunghi anni di discussioni e lezioni universitarie, un nuovo pensiero pedagogico applicato alla riforma del sistema scolastico del 1767, quando fu creata la scuola pubblica, statale e gratuita in cui si doveva dare ampio spazio alla lingua italiana, da lui usata fin dagli anni ‘50 nelle sue lezioni universitarie4. [...]*
*Cfr. "Rassegna Storica Salernitana", 1999, pp. 109-172 (una parte è stata pubblicata sulla rivista on - line “Disciplinae”, 2, 2004).
NAPOLI E LA SCIENZA. STORIA E STORIOGRAFIA:
GIAMBATTISTA VICO CON #NEWTON E CON #SHAFTESBURY.
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LA PUNTA DI UN ICEBERG: "[...] #ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “#ScienzaNuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta.
Ecco quanto #Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’#Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze.
Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’inglese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del #Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milordi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli, modesto com’era, rifiutò” [...]" (cfr. Federico La Sala, "IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA").
NOTE:
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova": GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE).
LA SCIENZA A NAPOLI NEL SETTECENTO: L’UNIVERSITA’ E L’ AZIONE RIFORMATRICE DI #CELESTINO #GALIANI E #ANTONIO #GENOVESI *:
"[...] The principal context of the chapter is the tenure of Celestino Galiani (1681-1753) as the rector (or ‘Cappellano Maggiore’) of the University of Naples and the published work of his protégé Antonio Genovesi (1711-1769). The history of Galiani’s and Genovesi’s curricular reforms is well known among historians of the Settecento Meridione.
However, the place of ‘political science’ - that is, the teaching and study of ‘politics’ - in this history still awaits study. The chapter begins by surveying the institutional background to Galiani’s curricular reforms as Cappellano Maggiore; it then turns to the works of Genovesi and members of the so-called ‘#scuola #genovesiana’. Although the latter published on ‘political’ topics, neither Genovesi nor his students developed a curricular ‘political science’ [...]" (cfr. Felix Waldmann, "Political science in the Settecento University of Naples", in "The Science of Naples", op. cit., p. 61).
*
b) ANTONIO GENOVESI.
IL CAFFE’ DEL GIORNO E LA "MOKA": UN OMAGGIO AI "TRE MOSCHETTIERI", AL CAPOLAVORO DI ALEXANDRE DUMAS, E ALLO STORICO SUCCESSO DELLA "MOKETTIERA" (CAFFETTIERA) ITALIANA (Bialetti).
"Les Trois Mousquetaires" (A. Dumas):
A) «"I tre moschettieri" è in verità la storia del quarto» (Umberto Eco);
B) «Non credete ai denigratori. "I tre moschettieri" emana un vero profumo storico: non meno di "Guerra e Pace"; un #profumo che Dumas ricava con #astuzia e #grazia dalle memorie, dalle lettere e dai romanzi del primo #Seicento.» (Pietro Citati);
C) «Il romanzo "I tre moschettieri" è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei.» (Beniamino Placido).
CAFFETTIERA: MOKA. "[...] #Etimologia. L’origine del nome dell’apparecchio risiede nel nome della città portuale di #Mokha, nello #Yemen, da dove partivano per l’Occidente le navi cariche di caffè: questo paese è da secoli infatti una delle prime e più rinomate zone di produzione di caffè, in particolare della pregiata qualità arabica. Di questa qualità speciale si trova testimonianza nel capolavoro di #Voltaire, #Candido, quando il protagonista, in viaggio nell’allora Impero ottomano, viene ricevuto da un ospite che, tra le altre cose, gli offre una bevanda preparata «con caffè di Moca non mescolato con il cattivo caffè di Batavia e delle Antille». In #Spagna è nota come cafetera de rosca, cafetera de fuego o italiana, in #Portogallo e #Brasile la si conosce come #cafeteira italiana o cafeteira de rosca [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Moka).
Nota:
IL PERSONAGGIO
Antonio Serra, storia del «meridionalista inconsapevole»
L’economista cosentino è considerato uno dei primi studiosi al mondo dei fenomeni finanziari, analizzati con metodo scientifico. Eppure in pochi lo conoscono. Anche nella sua città
di Eugenio Furia (Corriere della Calabria, 18/02/2024)
COSENZA Via Antonio Serra è quel breve tratto di strada che, nel centro storico, da corso Telesio porta al liceo classico, sorto al posto dell’antico convento dei Gesuiti. La persona a cui la strada è dedicata ebbe i natali in un palazzotto posto a due passi dell’antica Giostra Vecchia, altro centro vitale dell’attività della Cosenza cinquecentesca.
Antonio Serra, intellettuale di vasta cultura, lasciò il segno, seppure fievole, nella Storia (quella con la S maiuscola) della cultura del Regno di Napoli e dell’intera umanità. Fu, in assoluto, il primo studioso al mondo dei fenomeni economici e finanziari, il primo a concepire un testo di scienza delle finanze, il primo teorico del mercantilismo, lo scopritore della legge sulla crescente produttività nell’industria. Uno dei non pochi grandi, che Cosenza ha avuto il privilegio di generare, pur tuttavia rimosso dal pantheon della città. In realtà gli hanno intitolato questa strada e un Istituto scolastico per periti commerciali, ma pochi degli studenti che lo hanno frequentato ne conoscono la storia, l’opera e i meriti.
Serra iniziò i suoi studi presso uno dei tanti Istituti religiosi a Cosenza, probabilmente proprio in quel famoso Studium dei domenicani, presso il quale si formarono generazioni di cosentini; completò gli studi a Napoli con una laurea in teologia e legge, ma si dedicò all’approfondimento di una particolare branca del sapere, all’epoca non ancora esplorata e piuttosto sconosciuta: l’economia.
Nella sua unica opera conosciuta (Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere, Napoli 1613) analizzò quelle che riteneva fossero le vere cause della spaventosa miseria di Napoli e di tutto il vicereame spagnolo. In estrema sintesi, individuò e indicò i fattori che avrebbero reso possibile, invece, una migliore condizione, in tre semplici e basilari concetti, oggi universalmente conosciuti: sagge leggi, buon governo e libertà di commerci e di scambi. Principi, questi del mercantilismo e liberismo, che si affermeranno solo secoli dopo.
Il saggio - meritoriamente riprodotto in copia anastatica a cura di Leonardo Granata nel 1998 per i tipi di Pubblisfera (San Giovanni in Fiore) - rivelò, inoltre, inaspettate conoscenze di filosofia e di scienza delle finanze, che gli permisero di enunciare con tre secoli di anticipo quella legge economica, in base alla quale anche la moneta aurea si apprezza o si deprezza in ragione inversa alla quantità circolante. Cioè più moneta si conia, meno vale.
Dopo oltre un secolo dalla pubblicazione, uno dei più importanti economisti del tempo, l’abate Ferdinando Galiani (1728 - 1787) scoprì in un certo senso l’opera del Serra e la definì «unica al mondo», inserendola nella seconda edizione di una sua opera intitolata Della Moneta (1780); altri riconoscimenti vennero da molti economisti e pensatori, fra i quali anche Benedetto Croce. «Chiunque leggerà questo trattato - così Galiani - resterà sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale ignoranza della scienza economica avesse il suo autore chiaro e giusto le idee della materia di cui scrisse, e quanto sanamente giudicasse delle cause de’ nostri mali e de’ soli rimedj efficaci».
Un ritratto e un premio
Al momento esistono in Italia tre copie originali del trattato: una presso la biblioteca Ambrosiana di Milano e due presso la Nazionale di Napoli. Anche a Parigi ne esiste una copia. «In un secolo “buio”, anche per la scienza economica, come il 600, per il Regno di Napoli, che si trovava sotto il giogo della dominazione spagnola, il trattato di Antonio Serra appare pervaso d’una lungimirante modernità. In breve, l’autore, adopera tecnicismi e studi addirittura e soprattutto sul cambio che ancora oggi appaiono di difficile comprensione»: così ricostruisce la Camera di Commercio di Cosenza, che da un lato conserva - nella stanza presidenziale - il dipinto (opera di Rocco Lotufo, 1867, nella foto) che ritrae Serra probabilmente nelle carceri della Vicarìa di Napoli «dove fu condotto per un’accusa di smercio di monete false, certamente un pretesto legato alle sue idee», dall’altro ne tiene viva la memoria da un paio di anni, con un premio dedicato alle Eccellenze calabresi.
«L’opera - si legge nella presentazione del premio - si divide in 3 parti: nella prima ricerca e determina le ragioni della ricchezza, nella seconda dimostra l’ininfluenza del cambio sulla stessa e nella terza parte esamina i rimedi che si possono porre in essere, nella sua epoca, per arginare la penuria di denaro. Le ragioni generali della ricchezza, afferma il Serra, possono essere naturali (ad esempio le miniere ) e accidentali, cioè quelle di cui l’uomo può avvalersi. Certamente è ragionevole pensare che il Serra scrisse altre opere che purtroppo sono andate perdute (...). Antonio Serra può essere considerato il primo economista italiano, nel vero e proprio senso moderno del termine, dotato di una lungimiranza fuori dal comune e dalla sua epoca».
Una vita da ribelle
Nulla o quasi conosciamo della sua vita e della sua formazione. La sua vita, a causa dei pochi elementi certi in nostro possesso, dovrebbe essersi dipanata tra il 1570 e il 1630. Siamo a conoscenza di un rogito del notaio Bartolo Giordano del 23 dicembre 1591 che attesta la sua qualità di dottore in giurisprudenza e il possesso di un appezzamento di terreno, esteso 5 moggi, nel comune di Dipignano, da cui, presumibilmente la sua famiglia era originaria. Sappiamo infatti che si definiva di Cosenza, anche se alcune congetture lo portano nativo di un casale vicino a Cosenza; non è data sapere la sua data di nascita, probabilmente e quasi sicuramente nella seconda metà del 500 e la sua data di morte avvenuta nei primi decenni del 600, come detto in carcere a Napoli. Contemporaneo di Tommaso Campanella, alcune fonti al momento senza fondamento lo portano legato alla rivolta promossa dal frate contro gli spagnoli.
Una volta giunto a Napoli fu profondamente toccato e amareggiato per le condizioni di vita della popolazione, tenuta in una immorale povertà, quasi schiavitù, dalle classi dominanti, che, appropriandosi dell’intero reddito dei campi, da cui si ricavava il vivere di tutti, determinavano l’immiserimento della gente. Ciò, forse, fu stimolo o causa che lo avvicinò al conterraneo Campanella, notissimo frate e filosofo eccellentissimo: ma anche ribelle e visionario, che, in quei tempi, andava elaborando suggestive teorie religiose che lo portarono ad essere attenzionato dall’Inquisizione. Campanella arrivò a progettare una congiura per eliminare gli spagnoli dalla Calabria e, possibilmente, da tutto il vicereame: pensava a un utopistico stato fondato sulla giustizia a servizio della felicità dell’uomo. Scoperto e imprigionato nel 1600, il frate di Stilo fu condannato a morte, condanna trasformata in carcere a vita. In seguito, dopo ben 26 anni, fu liberato su pressioni del papa (morirà a Parigi nel 1639).
Dopo alcuni anni dall’arresto del Campanella, probabilmente il 1609, perdurando in Calabria un clima di tensioni e di torbidi, la Spagna chiuse l’Accademia, aumentò la repressione ed anche il Serra, membro dell’Accademia, fu imprigionato, torturato e condannato al carcere a vita perché sospettato di avere aderito al progetto della rivolta campanelliana.
«Qualunque sia il motivo della sua carcerazione - scrive Leonardo Granata nell’introduzione al suo volume “Antonio Serra: economista e meridionalista inconsapevole” -, falso monetario, partecipazione alla congiura del Campanella o indisposizione al potere viceregio, Serra ha dimostrato col suo Breve trattato di avere la coscienza a posto e di avere agito e di “agire” per la rinascita generale del Regno di Napoli, per la rinascita del Mezzogiorno odierno, se spostiamo il suo discorso ai giorni nostri, alla problematica sulla Questione meridionale, attuale».
PASSAGGI STORICI. Otto saggi raccolti da Adriano Prosperi ampliano la sua penetrante lettura dei processi avviati dalla Chiesa in Italia all’epoca della Controriforma: «Una rivoluzione passiva», da Einaudi
Adriano Prosperi, carità, devozione e altre maschere sottili
di Francesco Benigno (il manifesto - Alias, 03 luglio 2022).
Controriforma è parola difficile, che segna la trasformazione di un mondo lontano, ma indica anche un processo decisivo, che ha segnato per secoli l’Italia. A metà del Cinquecento, col concilio di Trento la Chiesa Cattolica, una volta svaniti i tentativi di far rientrare la riforma protestante, faceva partire un processo di riorganizzazione delle proprie strutture, di controllo e di soggezione della popolazione, nonché di rilancio della predicazione su scala mondiale. Nasceva la religione cattolica per come l’abbiamo conosciuta, imperniata sulla messa settimanale, la predica, la confessione, i seminari, i catechismi, le reliquie, le missioni e un utilizzo innovativo delle immagini sacre. Nella penisola italiana questo processo ha avuto effetti poderosi e secondo Benedetto Croce non tutti e non sempre negativi: i rigori della controriforma avrebbero in sostanza fatto risparmiare all’Italia i drammi e i dolori causati dalle divisioni religiose che travagliarono invece per decenni altri paesi europei.
Oltre «Tribunali»
Al racconto di questa spinta, che fu molto più di una reazione difensiva, gli storici italiani hanno fornito negli ultimi tre decenni un contributo di grande livello. Tra loro, Adriano Prosperi ha lungamente lavorato su questo tema, e ne fornisce adesso una lettura penetrante nel suo nuovo libro "Una rivoluzione passiva Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia" (Einaudi, pp. 430, € 34,00). Gli otto saggi raccolti vanno letti in controluce a "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", quel testo del 1996 divenuto ormai un classico, in cui Prosperi aveva fissato una lettura della controriforma incentrata sulla capacità della Chiesa di radicarsi nella società italiana, plasmandone durevolmente i comportamenti.
Come in quel libro anche in questo si sottolinea l’importanza dei tre aspetti in cui si era articolato quel cruciale riposizionamento: e cioè le pratiche di controllo della cultura attraverso l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti; la diffusione della confessione come metodo di controllo e di condizionamento dei comportamenti individuali; e infine i nuovi stili della predicazione, quella dei parroci ma poi anche quella operata dai missionari. Soprattutto è presente qui una forte attenzione allo stile culturale e alle pratiche gestionali dei gesuiti, cui Prosperi aveva dedicato nel 2016 un altro libro importante, "La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento".
Quello che c’è di nuovo qui è la consapevolezza esplicita che ciò che la controriforma ha operato è stata una rivoluzione. Certo, non una rivoluzione dal basso che impone un mutamento violento dell’ordinamento politico, ma una rivoluzione dall’alto, che in modo più sottilmente violento cambia i connotati della vita sociale attraverso un nuovo uso della carità e della devozione, e che perciò va considerata, come indica il titolo, una «rivoluzione passiva». L’espressione, come si sa, è desunta da Antonio Gramsci, che - mutuando una frase di Vincenzo Cuoco - l’aveva utilizzata nei Quaderni dal carcere per parlare della «rivoluzione senza rivoluzione» che caratterizzava l’età tra le due guerre.
Questo rimando a Gramsci, tuttavia, va ben al di là del titolo del libro, perché sottolinea la messa in opera di un influente meccanismo di spiegazione. L’idea cioè che la reazione alla minaccia protestante sia stata ben più di una semplice difesa: qualcosa di diverso da un mero ritorno al passato, un mutamento che integra in modo differente il vecchio e il nuovo.
Prosperi descrive questa rivoluzione come incentrata sui cambiamenti di due gruppi sociali considerati decisivi: le classi subalterne, soprattutto contadine, da un lato e gli intellettuali dall’altro. Rispetto al mondo dei «semplici», il popolo analfabeta, si profila il tentativo della Chiesa di sradicarne la mentalità magica e le tradizioni folkloriche, ma mantenendolo in posizione di assoluta dipendenza; mentre verso gli intellettuali si esercitano forme di blocco della libera riflessione morale e soprattutto religiosa, come ad esempio il divieto dell’uso della bibbia in volgare. Il risultato di questa doppia operazione di direzione delle coscienze e di governo dei costumi sarà la nascita di una nuova società, in cui le masse popolari vengono plasmate dai parroci e in cui gli intellettuali laici, così prevalenti nell’epoca del rinascimento, lasciano il posto a chierici colti, secolari e ordinari, ormai lontani dall’interpretazione esteriore che della religione forniva tradizionalmente un certo mondo fratesco.
Radicamento personale
Ci si può chiedere se questa forbice gramsciana tra mondo contadino e intellettuali non sacrifichi l’analisi di altri gruppi sociali più variegati, incardinati nell’universo urbano, ma Prosperi confessa con grande onestà la sua predilezione per una prospettiva che ha sullo sfondo un radicamento esistenziale di tipo personale, derivato cioè dall’essere cresciuto in una famiglia contadina toscana sul finire dell’epoca fascista, divisa tra la fervente pratica religiosa, della madre, e la cultura comunista, del padre; un’esperienza avvicinabile a quella classica polarizzazione tra parrocchia e casa del popolo che ha ispirato Guareschi e la saga popolare di Don Camillo e Peppone. Un radicamento di vita che non spiega solo il riferimento a Gramsci, ma che ha sostenuto l’orientamento degli studi di Prosperi, una pratica storiografica intensa e impegnata civilmente e che continua ad offrirci risultati di grande spessore.
Storia.
La Napoli illuminista: grande e fragile, fra miseria e nobiltà
Le crescita delle capitali europee del Settecento genera ricchezza ma fa anche esplodere tutte le patologie che pure oggi segnano le nostre metropoli. Un saggio di Giorgio Simoncini
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, venerdì 6 agosto 2021)
Potrebbe sorprendere leggere che lungo il Settecento il dibattito sullo sviluppo di alcune capitali europee ha avuto come temi principali una serie di problemi - in qualche caso vere patologie - che anche oggi assediano le nostre metropoli. Riassumendo con uno slogan diciamo che il dibattito riguardò soprattutto “grandezza, lusso e povertà”.
L’architetto Giorgio Simoncini, già allievo di Bruno Zevi e autore di vari saggi storici incentrati sulla storia dell’architettura e dell’urbanistica nell’età moderna, ha da poco pubblicato da Olschki un excursus lungo il XVIII secolo, fino grosso modo alla Rivoluzione francese, riguardo La grandezza delle capitali nel dibattito dei riformatori illuministi e con specifico riferimento a Napoli, Parigi e Londra (pagine 148, euro 25,00).
Simoncini, che ha novantadue anni, non è nuovo all’argomento: già nel 1996, sempre da Olschki, aveva pubblicato Le città nell’età dell’illuminismo, di cui ora questo ultimo saggio può fornire un più specifico approfondimento per come è incentrato sulla dialettica, all’epoca già molto forte, fra centri e periferie, su una idea di città che si allarga e si degrada proporzionalmente al suo sviluppo economico, impoverendo le province, sull’etica che viene messa in pratica con le scelte di governi che ragionano con la testa delle monarchie, e su come tutto questo aumenta i benefici e i piaceri frutto di una economia sempre più commerciale, a svantaggio dell’agricoltura; economia che a Londra, in particolare, manifesta già la sua finanziarizzazione.
Tocca a Napoli aprire l’excursus perché, come lo stesso autore dichiara, è sulla capitale borbonica che il saggio si regge, laddove Parigi e Londra si affiancano sia per dare un contesto comparativo sia per sottolineare l’importanza della città partenopea nello scenario europeo del XVIII secolo. Con una scelta piuttosto ispirata Simoncini inizia parlando di Mefistofele e Faust.
Durante il suo viaggio in Italia Goethe visitò Napoli e conobbe l’illuminista Gaetano Filangieri che egli così descrive: «Appartiene a quella gioventù piacevolissima la quale si propone la felicità dell’umano genere ed una libertà temperata...». E Simoncini suggerisce come proprio queste parole del grande scrittore siano la spia di un influsso del pensiero e degli ideali dei riformatori meridionali sulla sua opera.
Il giudizio che Goethe dà della città oltre la sua ammirazione cela anche un’ombra: «Napoli sì, è un vero paradiso, ognuno vive nell’ebbrezza di una specie di oblio di se stesso...», ma, come rileva Simoncini, l’oblio per i moralisti è l’anticamera della perdizione. E in effetti la polemica sul lusso - che è proprio un tema critico dell’illuminismo (quasi mezzo secolo fa Einaudi aveva pubblicato una notevole antologia del dibattito francese, a cura di Carlo Borghero) - introduce a quasi tutte le riflessioni che riguardano le capitali trattate in questo libro.
Filangieri fu un protagonista di quella dottrina fisiocratica che pone l’utilitarismo alla base di un’armonia che assicuri stabilità e serenità ai cittadini, mentre il lusso sfrenato dei nobili e proprietari terrieri può bloccare la funzionalità del sistema economico (producendo ricchezza che non va in circolo a benefico di tutti, ma resta confinata nella capitale e non crea sviluppo nelle province, aumentando anche il malumore della popolazione e gli impulsi alla rivolta). Il faustismo è una delle tentazioni dell’uomo moderno. Faust voleva fare in grande, per soddisfare il suo desiderio di dominare il mondo. Simoncini annota che «l’aspirazione [di Faust] a rendersi padrone della natura, rientra tra le manifestazioni del pensiero illuminista». E Goethe pare tener conto di questo. Mefistofele asseconda Faust, ovvero la sua avidità di terra sottratta alle acque costruendo barriere marine, per poi bonificarla e darla da coltivare a chi ne vivrà e sarà libero; e desidera questo fino a un momento prima di morire, perché «nessun piacere lo sazia, nessun bene gli basta, e così continua a inseguire forme mutevoli...» commenta Mefistofele. Questo tema alimenta un dibattito che sembra finire tristemente quando prevalgono i rivoluzionari, che vogliono annientare i ricchi per dare ai poveri (ma il cui rigorismo non è affatto “temperato”).
La Napoli in questione è quella segnata dalla fine del dominio spagnolo, l’arrivo degli austriaci e poi dal nuovo regno borbonico. La città si presentava con due facce: bellezza dei palazzi nobiliari, della vita in questi luoghi, del paesaggio; e all’opposto la condizione dei sobborghi con migliaia di persone costrette a mendicare, e con i delinquenti e banditi che venivano in città dalle province attirati dal richiamo della ricchezza che cresceva ma rimaneva nei forzieri di pochi. Quindi problemi di sicurezza, di degrado ambientale, di diseguaglianze. La città era congestionata, aveva strade dissestate, solcate da miriadi di carrozze che fanno pensare al traffico di automobili di oggi; lo sporco e i luoghi maleodoranti crescevano, la peste si faceva largo, e l’immagine da paradiso del lusso era offuscata dalla nuda realtà.
Nei vari pensatori e uomini politici prevalgono due linee: quelli che vedono solo il male e quelli che ritengono che i mali siano compensati dalla grandezza di ciò che veniva realizzato e avrebbe avuto, come notava l’archeologo e duca di Noja, Giovanni Carafa, un effetto morale sulla vita della città. Tipico di questo duplice atteggiamento il dialogo che Antonio Genovesi inscenò nelle sue Lettere Accademiche fra il Canonico e l’Abate: il primo si scaglia contro il lusso e le sue malattie, il secondo compie una difesa delle grandi città in una logica che oggi definiremmo liberista: «Lasciate, lasciate, Canonico, lasciate fare alla legge dell’equilibrio... », il laissez faire nemico di una economia controllata dallo Stato che limita il mercato.
L’avvento sul trono di Ferdinando IV portò a un’epoca di riformismo sostenuto dal pensiero empirista, dove la critica alle grandi capitali (Francesco Milizia) in favore di una decentralizzazione verso le province continuò per decenni, ipotizzando di spostare nelle periferie i luoghi amministrativi e i tribunali. Filangeri inclinava per un riequilibrio nei rapporti fra etica civile ed economia, dove il lusso si rendeva tollerabile purché i benefici si riversassero su tutta la società. Il rifiuto della Grande Capitale si acuì con l’avvento dei riformatori rivoluzionari (lo stesso successe a Parigi, non a Londra dove il lusso nobiliare era molto meno ostentato): in particolare emergono le figure di Nicola Fiorentino e Vincenzo Russo, il quale metteva persino in dubbio che le grandi città fossero compatibili con la democrazia, anche per l’alto livello di corruzione che le dominava, e arrivava a considerare lecito soltanto il commercio dei beni di prima necessità. Entrambi sarebbero finiti sul patibolo con la restaurazione borbonica.
Regno d’Italia. Fu una guerra fratricida tra meridionali e un conflitto di classe
Doppia violenza al tempo dei briganti
di Valerio Castronovo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
L’energica azione repressiva condotta al Sud contro il brigantaggio dopo l’annessione del Mezzogiorno al nuovo Regno d’Italia è una pagina della nostra storia rimasta, per molto tempo, da scrivere in tutti i suoi aspetti e risvolti. Tant’è che solo dal secondo dopoguerra, quando si è cominciato ad alzare completamente il velo su questa complessa vicenda rispetto alle relazioni ufficiali tramandatesi dal passato, si è giunti man mano a disporre di analisi equanimi e di valutazioni appropriate. A gettare ulteriori luci al riguardo è adesso un saggio di Enzo Ciconte, che va apprezzato sia per la ricca documentazione su cui si basa sia per i criteri esplicativi da lui adottati in quanto concorrono ad ampliare il campo d’osservazione di un fenomeno complesso e di lungo periodo come il brigantaggio nonchè l’ambito dei diversi protagonisti e comprimari che li ha coinvolti da fronti opposti nel corso del tempo.
È un dato di fatto che la lotta al brigantaggio coincise con i difficili anni immediatamente successivi alla formazione dello Stato unitario, quando l’esigenza dei governi d’allora di spegnere a ogni costo e il più rapidamente possibile i focolai insurrezionali scoppiati in varie province meridionali appena incorporate dopo l’impresa garibaldina spinse le autorità militari ad agire con metodi altrettanto spicci quanto indiscriminati, sovente al di fuori della legalità, che si tradussero in una sequela di esecuzioni sommarie e di eccidi. A loro volta, nel corso di una vasta ondata di sommosse (estesasi dalla Basilicata all’Irpinia, dal Molise all’Abruzzo, dalla Puglia alla Capitanata), numerosi crimini e atti di spietata violenza vennero commessi dalle bande brigantiste col sostegno iniziale di ex soldati borbonici e la connivenza di esponenti clericali, visti di buon occhio da Vienna. Al punto che esplose tra il 1861 e il 1864 una vera e propria guerra civile tra gli italiani del Nord e quelli del Sud, fra i “piemontesi” inclini per lo più a considerare il Mezzogiorno un’area della Penisola non ancora approdata alla “civiltà”, e gran parte della popolazione locale indotta a odiare i “conquistatori” scesi dal Settentrione accusati di mire di dominio e di pesanti vessazioni fiscali.
Ma quello che si svolse all’indomani dell’unificazione nazionale (con l’impiego, da un lato, di un esercito cresciuto via via da 15mila a oltre 116mila uomini, e la mobilitazione, dall’altro, di folti nuclei di insorti (trasformatisi in altrettanti guerriglieri), fu un capitolo di un conflitto di più vasta portata, le cui matrici risalivano all’epoca dell’ancien régime. Tra l’eclissi dei Borboni e l’avvento dei primi governi post-unitari riemersero pertanto, secondo Ciconte, due generi di ostilità: una «guerra fratricida» di meridionali contro altri meridionali, e una «guerra di classe» fra proprietari e contadini senza terre.
Queste due guerre, latenti da vari secoli, erano sfociate, durante la Repubblica partenopea, in un duplice scontro cruento, ideologico e sociale: tra gli intellettuali eredi dell’Illuminismo e assertori dei principi della Rivoluzione francese e le bande dei controrivoluzionari reclutate dal cardinal Ruffo pure tra le masse contadine; nonché fra alcuni nuclei di una nascente borghesia, che intendevano eliminare i retaggi del vecchio sistema signorile nelle campagne e la nobiltà più retriva arroccata nella difesa dei suoi vetusti privilegi.
Allo stesso modo, seppur con le debite varianti, si riprodusse dopo il 1861 una situazione conflittuale che ebbe per scenario, da un lato, l’insorgenza popolare, aizzata dai nostalgici del Regno delle Due Sicilie, contro i nuovi “usurpatori” (come a suo tempo erano stati considerati gli invasori francesi), e, dall’altro, l’irruzione alla ribalta del brigantaggio, erettosi ad alfiere di una vasta schiera di braccianti e di coloni più poveri. E ciò perché gran parte di quanti, fra la borghesia provinciale, s’erano avvantaggiati nel frattempo della parziale confisca di alcuni possedimenti nobiliari e della messa in vendita di vari beni ecclesiastici e dei demani comunali, era costituita per lo più da sublocatari; speculatori, appaltatori o grossi intermediari, ben poco inclini sia a condurre le terre in economia sia a modificare i vecchi rapporti contrattuali fondati su condizioni di lavoro precarie e su pesanti forme d’indebitamento delle famiglie contadine più indigenti.
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Storia
Manlio e Nuto, lettere in difesa degli ultimi
Trent’anni fa moriva Rossi-Doria, l’intellettuale che aveva dedicato i suoi studi alle condizioni del Mezzogiorno, condividendo con l’amico Revelli l’interesse per i “vinti”. Pubblichiamo un carteggio inedito tra i due del 1977
di Nuto Revelli e Manlio Rossi-Doria (la Repubblica. 04 Giugno 2018)
CUNEO, 14/1/ 77
Caro Manlio, mi hai sempre accompagnato in questi anni di lavoro.
Mille volte mi sarò detto: «Se ci fosse qui Manlio, chissà che cosa ne penserebbe di questo e di quest’altro problema?». Devo molto al tuo incoraggiamento. Adesso ho finito, l’ho consegnata il 15 dicembre la mia fatica di sette anni. L’introduzione è di 150 pagine, e inquadra la situazione di ieri e di oggi, il mondo dei testimoni. Poi le 450 pagine delle testimonianze.
Ti confesso che sento non poca nostalgia del lavoro di ricerca, il lavoro entusiasmante era proprio la ricerca, era quell’entrare in centinaia di case a dialogare, ascoltare, imparare. Pesante invece la traduzione dal dialetto o dal patois, ho dovuto risentire ogni registrazione almeno tre volte prima di realizzare i testi definitivi. Ogni testimonianza parlata ha una durata media di quattro ore. Sono 270 le testimonianze che ho raccolto, un materiale enorme, e a mio giudizio quasi tutto valido. Ma i 2/3 di questo materiale ho dovuto sacrificarlo. Ho salvato 85 racconti di vita contadina.
I temi. C’è la 2° emigrazione verso le Americhe (la più interessante è quella degli Stati Uniti), c’è molto dell’emigrazione verso la Francia, e la 2° Guerra Mondiale, il prefascismo (poco), il “Ventennio”, la 2° Guerra Mondiale, la pagina partigiana, e infine la realtà di ieri e di oggi.
La guerra è proprio “dentro” al mondo contadino, come la tempesta. Mi ero illuso di aver smaltito per sempre il tema “guerra”. Invece l’ho ritrovata come tema dominante: la guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che sanguina non appena la tocchi.
Sette anni di dialogo con la campagna povera del mio Cuneese. E finalmente ho capito quanto sono duri i contraccolpi di un’industrializzazione selvaggia e caotica. Ormai, nella nostra campagna povera, è saltato il tessuto sociale: ormai le forze giovani sono finite tutte in fabbrica. Manlio, quanta gente vorrei che finisse davanti ad un plotone di esecuzione, quanto sarebbe necessario un 25 aprile!
Malgrado tutto continuo a credere. Ho già in testa un altro lavoro di ricerca, non riesco a stare fermo. Adesso vorrei studiare i matrimoni contadini della campagna povera. Dimmi se sono matto o no. I soli matrimoni contadini che si sono realizzati nell’arco di questi ultimi quindici anni sono i matrimoni tra i nostri contadini anziani e le donne del meridione, le cosiddette “calabrotte”.
Nelle Langhe questi matrimoni si contano a centinaia, e il fenomeno si va estendendo alla montagna e alla pianura.
È la realtà sociale delle nostre campagne che sta cambiando, tra l’indifferenza di tutti. Far parlare questa gente, scoprire queste due Italie povere che si incontrano, questo il mio interesse di oggi.
Ho ancora l’azienda, voglio sempre chiuderla, poi rimando, ma giorno dopo giorno la ridimensiono.
Penso proprio che il 1977 sarà l’anno buono.
Nel 1978 scenderò finalmente nel meridione! Manlio, perdonami la lunga chiacchierata.
Un saluto affettuoso a Annie, ai tuoi figli.
A te un abbraccio Nuto
ROMA, 6 MARZO 1977
Caro Nuto, son quasi due mesi che ho la tua lettera, letta e riletta e molto importante e cara. Non vedo l’ora di avere tra le mani il nuovo libro, ma dalla tua lettera ne ho già compresa tutta l’importanza e la bellezza. Purtroppo questo maledetto e benedetto disturbo coronarico - che mi ha fermato da un anno e mezzo o (per meglio dire) mi ha obbligato a mettermi definitivamente su di un piano diverso di vita - è venuto a cadere nel momento nel quale speravo di avviare laggiù in alta Irpinia un lavoro di ricostruzione dal basso con gli emigrati, al quale mi ero preparato. Spero e dispero di poterlo riprendere d’estate, quando i pericoli delle mie coronarie sono minori; spero e dispero di persuadere a portarlo avanti alcuni dei miei giovani collaboratori e amici di Portici. Ma non è facile e forse non siamo ancora pronti e certo le condizioni generali non sono in favore.
Eppure sono sempre più convinto che, per uscire dal fosso dentro il quale da anni camminiamo, uno dei processi essenziali sarà quello di una rivitalizzazione delle nostre campagne attraverso processi di ricostruzione dell’agricoltura contadina nel quadro di un’economia mista decentrata agricolo-industriale. Questa sola può essere capace di far rivivere - in forme e con accenti naturalmente diversi da quelli di un tempo - molti dei valori umani e civili, ai quali non soltanto noi teniamo, ma tengono istintivamente molti altri. Le premesse tecniche ed economiche per rendere possibile questo ritorno prima mancavano. Tale mancanza ha reso inevitabile e precipitosa la fuga e ha fatto «saltare - come dici tu - il tessuto sociale». Oggi - anche se di difficile sviluppo e bisognose di essere sorrette da un vigoroso slancio civile - tali premesse ci sono. Non bisogna, quindi, disperare. C’è nell’aria e nelle cose, e c’è particolarmente in molti giovani, qualcosa che spinge in questa direzione. Fino all’ultimo fiato persone come te e me sono tenute a dare sostanza a questo che a molti appare irrealistico disegno. Il tuo lavoro - sia quello precedente sulla guerra (la grande esperienza dei contadini italiani) sia quello recente sul grande
esodo - è e sarà essenziale per dar forza ad altri per lavorare in questa direzione. Bellissimo il nuovo lavoro al quale ti accingi. Mi piacerà molto ragionarne con te ed è questa una delle ragioni per le quali mi auguro che la tua da tempo promessa visita giù sia prossima e non lontana. Se troverai il nome dei poveri di origine delle tue “calabrotte”, si potrebbe insieme e con l’aiuto di alcuni miei amici meridionali visitarli e riscoprire i legami antichi e forse cercarne di nuovi.
È mia convinzione - e oggetto di fantasiose costruzioni mentali - che tra gli esiliati all’estero o nelle grandi città dalla «industrializzazione selvaggia e caotica», la nostalgia oscura di quel che hanno perduto possa - non dico in tutti, ma in molti - trasformarsi in interessamento e fors’anche in partecipazione a razionali processi di riordino, di rimessa e di sviluppo della contrada, nelle quali hanno ancora il cuore e le radici.
Mi chiedo, quindi, per il tuo Piemonte - come per la mia Irpinia e Lucania o Calabria - se non si possa andare tra coloro che sono partiti, per rilegarli tra loro in associazioni aperte ai problemi delle valli e degli altopiani dove sono nati. Sarebbe questo lo sbocco operativo del tuo lungo lavoro; forse quello sbocco al quale - anche se non hai voluto confessarlo a te stesso - hai sempre pensato. Questi ed altri sono i pensieri che la tua lettera ha ravvivato in me, con il desiderio di parlare ancora con te, nel ricordo delle bellissime giornate passate da me e dai miei come tuoi ospiti nel Cuneese.
Aspetto il libro e aspetto la tua visita. Voglimi bene come te ne voglio. Ricordaci a tua moglie, ai figlioli.
Ti abbraccio Manlio
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... *
Luigino Bruni, “Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo”
di Alessandro Visalli (Tempo Fertile, 05.09.2016).
Questo libro del prolifico scrittore cattolico Luigino Bruni, di cui avevamo già letto un interessante articolo, può utilmente inserirsi nel percorso di lettura sugli “spiriti” del capitalismo che da qualche tempo stiamo portando avanti.
L’autore rilegge le tradizioni di “economia civile” in cui il nostro paese, con le sue profonde radici cattoliche, è stato uno dei centri propulsivi. In particolare rilegge, in una consapevole cornice storica che risale alla tradizione monastica, da una parte, ed allo snodo della riforma, dall’altro, la sistemazione settecentesca in particolare attraverso la figura di Antonio Genovesi, morto nel 1769, che legge come contraltare dell’economia anglosassone ed in generale nordica, organizzata in forma di paradigma centrale dal quasi coetaneo Adam Smith (di undici anni più giovane e morto ventuno anni dopo). Dal 1755 Antonio Genovesi, che era sacerdote, ricopre la prima cattedra italiana di Economia presso l’allora prestigiosissima Università di Napoli. La sua opera principale, “Lezioni di economia civile”, esce nel 1765 mentre “La ricchezza delle nazioni” è del 1776 e l’opera di Genovesi non vi è citata.
Eppure Genovesi era un illuminista, primo a insegnare in italiano e seguace delle idee di Locke (oltre che di Vico); nella scuola italiana l’idea della “mano invisibile” era di casa, nel 1750, quando Smith ha 27 anni e si sta da poco occupando di altro, Ferdinando Galiani, sulla strada di Vico, ne farà una chiara menzione “questo equilibrio e la giusta abbondanza dè commodi della vita ed alla terrena felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall’umana prudenza o virtù, ma dal vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza, per lo suo infinito amore per gli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate. ... benedico al contrario la Suprema Mano, ognora che contemplo l’ordine, con cui il tutto è a nostra utilità costituito” (cit., p.87).
Lo abbiamo già visto nella lettura di Hirschman, l’interesse rivolto all’ordine è nello spirito del tempo, ed anche, con Weber (che Bruni legge con attenzione) che il capitalismo è strettamente connesso alla religione, “si è sviluppato parassitariamente dal cristianesimo” (come scrive Walter Benjamin), che questo “spirito” è legato strettamente alla dinamica del governo degli uomini e delle loro passioni e desideri.
Ma c’è molto di più, il capitalismo come dice Bruni “è nato dalla ricerca o dal desiderio del paradiso, e ancora oggi continua a vivere con promesse di altri paradisi”, paradisi secolari fondati su quei potentissimi simboli, codici e sogni che sono le merci ed il denaro stesso.
Il capitalismo ha natura, insomma, “religiosa, simbolica e spirituale” e nulla come la finanza, con la sua auto programmazione impermeabile a qualsiasi ratio umana lo mostra.
Il legame tra forme di cultura religiosa e spirito economico è, del resto, indicato anche da Marx, che nel terzo volume de “Il Capitale”, alla fine del capitolo trentacinquesimo sull’argomento dei metalli preziosi e il corso dei cambi scrive improvvisamente: “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. "The Scotch hate gold". Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’ la fede che rende beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario” (Editori Riuniti, p. 690).
La trattazione del tema di Luigino Bruni parte da una distinzione che in qualche modo ricorda la distinzione tra “economia” e “capitalismo” (e di queste con il livello della vita comune) compiuto da Fernand Braudel in “La dinamica del capitalismo” e nell’opera seguente alla fine degli anni settanta. Ci sono quattro distinte ‘economie’ nel nostro tempo: il vero e proprio capitalismo, il cui segno è orientato al profitto e manovra masse monetarie e creditizie mobili, occupa ogni spazio possibile, incluso nel settore contiguo, ma al solo scopo di produrre quanta più valorizzazione nel minor tempo possibile. Il secondo è descritto come l’economia realizzata da imprese “familiari”, dove cioè il controllo non è assunto e praticato dal capitale anonimo ma da persone. Questa forma di economia, direbbe Marx, è “cattolica”, interessata a durare nel tempo ed è “il muro maestro del nostro sistema economico e civile”. La terza economia è quella cooperativa e sociale, le cui ragioni sono esterne all’intervento economico o dovrebbero essere. La quarta è la cosiddetta sharing economy. La linea di attacco che l’autore porta alla economia “protestante” e nordica passa per l’estraneità alle tradizioni più profonde e radicate nella cultura europea di latrice latina, in quella cultura dell’ora et labora che riconosce la natura donativa, di pura libertà, del rapporto di lavoro, e contemporaneamente, nella transizione dal mondo antico al moderno, elabora le strutture che saranno la condizione di possibilità della stessa economia di mercato. Nel monachesimo non ci sono le barriere che oggi dividono il religioso dal civile, e poi il culturale dallo spirituale; ma per Bruni proprio a causa di ciò in effetti “i monasteri furono delle autentiche cellule staminali del tessuto europeo, che lo rigenerarono brano dopo brano” (p.43). Come anche altri rilevano, è qui che maturano le prime forme di democrazia moderna (gli abati erano eletti nell’ambito di sistemi complessi di governance), la divisione del lavoro e l’organizzazione razionale di tempi e luoghi, la scansione delle orae, la parcellizzazione di compiti e funzioni predispone le strutture che poi diventeranno produttive nelle fabbriche. -L’ethos che organizza questa cultura è cooperativo, e tale è il mercato ed il lavoro. “Le prime forme di pin factories organizzate sulla base della divisione razionale del lavoro, di cui parla Smith nella Wealth of Nations (1776), maturarono nei mulini, nei birrifici, nelle bonifiche e nelle biblioteche e nelle vigne dei monasteri europei, prima ancora che negli arsenali di Venezia e delle altre città marinare italiane ed europee”. E qui si arriva ad uno dei nodi della nostra mancata comprensione di questo cruciale turning point: l’orare et laborare dei benedettini ricompone un’unità tra attività lavorativa e spirituale che era stata rotta dal mondo aristocratico e schiavista greco-romano, riportando ad una cultura della prassi che alimenta l’umanesimo medioevale. Lavorare era anche esso liturgia.
L’altro contributo seminale che non può essere non ricordato è alla creazione della finanza, attraverso i Monti di Pietà, che i francescani aprirono sin dal 1458 per rendere bancabili fasce di popolazione escluse (il micro redito non è stato propriamente inventato da Junus) e porre le basi della stessa scienza economica (Luca Pacioli, che inventa tra le altre cose la “partita doppia”, per Sombart decisiva per la nascita dell’economia moderna, era un frate francescano).
Cosa è, invece, oggi il lavoro sottoposto alla logica dell’economia manageriale anglosassone? Il principio centrale sembra essere quello di tenere fuori del lavoro la vita ed i suoi impegni, evitare compromissioni con logiche “aliene” e disturbanti come gli impegni, i doni, la gratitudine, la capacità di gratuità; cioè con le relazioni di tipo comunitario e non contrattuale. Tutto deve essere razionalizzato entro le coordinate del contratto e nella sua figura logica. Di fiducia, passione, lealtà, si parla molto, ma solo questo. La loro pratica è poco controllabile, non è gestibile: lega. Il dono lega. Questa la sua natura, crea legami che poi inducono di essere rispettati.
Per questo la cultura del nuovo managerismo ne cerca solo la mimesi, ma al momento del fatto non rispetta mai il credito emotivo accumulato. In particolare nel primo sistema economico. Ne ha fatto esperienza quel dirigente che dopo decenni passati a far tardi la sera, e a pensare al lavoro anche a casa, improvvisamente non serve più. Da un minuto al successivo, ormai anche senza i vecchi riti di passaggio, si trova reciso da tutti i rapporti che credeva veri, mentre erano solo righe su un contratto. Il gioco continuerà con qualcun altro.
Questa cultura del lavoro, priva di ogni spessore, in effetti consuma vite e consuma gioventù. Tiene costantemente aperta la fucina delle sostituzioni. Tanto più quanto è minore il peso dell’attrezzo umano sostituito.
Come dice Bruni: “le grandi parole della vita portano frutto solo se non sono strumentalizzate. Hanno bisogno di grandi spazi, di essere accolte nella loro complessità e, soprattutto, nella loro ambivalenza che le rende generative, vive, vere” (p.23). Esse, in sostanza, “non permettono di essere usate a scopo di lucro, certamente non lo consentono per lungo tempo”. Ignorarlo induce una sofferenza (che con altri termini è oggetto dell’attenzione di Richard Sennett sia in “La cultura del nuovo capitalismo”, del 2006, sia in “L’uomo flessibile”, del 1998) sia psicologica sia morale. Il dilemma è che l’impresa per funzionare davvero ha bisogno di ciò che sui contratti non può essere scritto, dell’entusiasmo, delle passioni, dell’amore, della gioia, della creatività. Ma queste dimensioni dell’uomo sono “solo e tutta libertà”, e quindi possono essere solo donate.
Ecco ciò che non si capisce più, assolutamente: ciò che può essere solo donato richiede reciprocità.
Pretende riconoscimento e rispetto, pretende riconoscenza. “Incentivi” e tanto meno “controlli” non possono ottenerla. L’uomo, davvero, non lavora per il denaro. Questa semplicissima verità era chiara ancora nel XVIII secolo, anche agli scozzesi, ma oggi non è più capita (anche quando è enunciata).
Ma c’era anche un’altra tradizione, nella quale il mercato era interpretato sotto la figura della “mutua assistenza”. Questa tradizione fiorisce direttamente dalla tradizione medioevale ed emerge nell’umanesimo settecentesco nei paesi latini, Italia in particolare.
Uno dei più maturi esponenti è Antonio Genovesi, il primo professore di economia d’Europa, nel 1754, nato a Castiglione e vissuto fino al 1738 a Buccino (SA), studia filosofia a Napoli con Vico e dal 1745 è docente di metafisica. Come Smith alcuni anni dopo si occupa di filosofia, ma segue Cartesio e Locke e questo gli costerà la più dura opposizione. Nel dialogo con altre grandi figure come Ludovico Antonio Muratori e Ferdinando Galiani (che nel 1751 scrive “Della moneta”) Genovesi si muta in economista. Nel 1765 pubblica le “Lezioni di economia civile” che abbiamo già citato, opera subito tradotta in tedesco ed in spagnolo. Altre opere di questo periodo sono le “Logica” (1766) la “Della diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto” del 1766 e un commento allo “Spirito delle leggi” di Montesquieu. Muore prematuramente nel 1769 a cinquantasei anni.
Nella antropologia “socievole” che Genovesi mette a punto si contrappongono quelle che chiama “forze concentrive” (egoismo ed amor proprio) con quelle “diffusive” (altruismo), e devono essere tenute in equilibrio. Se la prima cresce troppo indebolisce la “diffusiva” e ne deriva la sua stessa autodistruzione. Dato che è esattamente ciò che sta avvenendo nel nostro tempo cieco leggiamolo meglio: “la forza concentriva spesso trae a sé soverchiamente, donde nasce un indebolimento della diffusiva, che strugge il fondo medesimo della concentriva” (“Logica italiana”, p.19).
Ma vale anche l’inverso, non si può essere solo diffusivi, ne nascono squilibri. Sarà, alcuni anni dopo, dello stesso avviso un altro grande intellettuale di quella fase felice: il genovese trapiantato a Napoli Paolo Mattia Doria. L’equilibrio e la reciprocità sono la radice della capacità di essere sociali dell’uomo. Dunque anche le relazioni economiche di mercato, allontanandosi dalla posizione che poi sarà di Smith, sono viste come relazioni di mutua assistenza. Non impersonali, né anonime.
Per Luigino Bruni Genovesi non va letto come uno Smith meno preciso, ma come l’approdo di una lunga tradizione che riusciva a leggere le dinamiche economiche entro quelle della vita civile e quindi anche il mercato come espressione di leggi generali (anche qui sotto la metafora dell’attrazione newtoniana) che regolano la società. Una posizione culturale posta all’incrocio tra etica, antropologia ed economia (ovvero, come si diceva, “commercio”). Ma è anche (nella “diocesina”) un anticipatore del tema dei diritti umani in ambito latino, cui aggiunge quello che oggi classificheremmo come un “diritto sociale”, quello al mutuo soccorso: “serbate intatti i diritti di ciascuno, anzi soccorreteli quando sapete, e potete”.
Le parole al centro del suo sistema economico sono diverse da quelle che si consolideranno: fiducia (fides), mutuo vantaggio, felicità. La prima è qualcosa come il tessuto di virtù civili e fiducia che rende possibile di fatto lo sviluppo umano ed anche quello economico (noi lo chiamiamo ora "capitale sociale"). La “fede pubblica” è propriamente parte della ricchezza di una nazione. È questa che manca, a suo parere di più al Regno di Napoli (all’epoca ricco sul piano materiale). C’è troppa “fiducia privata” (legami particolaristici, ed onore) ma troppo poco quella “pubblica”. Questa necessaria condizione di fides è legata strettamente all’altra parola guida dell’intero illuminismo settecentesco italiano: la felicità pubblica.
Mentre quindi altri si occupavano della ricchezza delle nazioni, dice Bruni, questi si interrogavano sulla felicità pubblica attraverso la fides pubblica e quindi equilibrio e reciprocità. Non è proprio la stessa cosa.
Su questa tradizione si innesta la riflessione di un allievo di Genovesi: Giacinto Dragonetti, autore de “Delle virtù e dè premi”. In quest’opera lega virtù e premi, dono e mercato. Le virtù civili, così importanti per la scuola di Genovesi, sono rinforzate molto più che da “I delitti e le pene” (come recita il coevo capolavoro di Beccaria), dai premi perché la virtù è più forte del vizio. Egli, che successivamente diventerà magistrato, si muove nella linea aristotelica, ciceroniana e tomistica valorizzando l’etica della virtù contro la più forte nel secolo tradizione utilitarista (e hobbesiana).
Il premio, dunque. Ma qualcosa di molto diverso dal nostro “incentivo”. Qui non si tratta di ottenere qualcosa, di estorcerlo per così dire, da chi altrimenti non lo farebbe. Sandel, in “Quello che i soldi non possono comprare”, coglie il punto nella sua critica della economicizzazione corruttiva dei rapporti sociali non di mercato attraverso gli incentivi. La virtù, che merita il premio, è rivolta agli altri, si compie con sforzo, ed è utile alla società. Ne deriva un’importante conseguenza: “essendo la virtù un prodotto non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società diritto veruno. La virtù per veruno conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altri sudore”. Sono dunque “servigi gratuiti” e quindi “bastano a se stessi”.
La cosa è molto chiara allora, il premio alla virtù è la virtù.
Il premio è un mero riconoscimento. Dunque ha alcune semplici caratteristiche: è pubblico, è ritualizzato, non vale in sé ma come simbolo, è posteriore all’azione, crea legame sociale.
Tutto il contrario dell’incentivo, che: è privato, ha valore estrinseco, è ex ante, e tende a rafforzare relazioni individuali e non sociali.
Questa tradizione, sostiene Bruni, si è “immersa”, ma ogni tanto rialza la testa, ne sono espressione Romagnosi (così stimato da Pisacane), Cattaneo, Minghetti, Lampertico, Toniolo, ma anche nel novecento Sturzo, Fuà, Caffè, e oggi Beccatini (con cui l’autore ha scritto dei libri). E poi intellettuali come Verdi, Gioberti e Manzoni.
La scienza economica andrà alla fine in un’altra direzione: verso l’esaltazione del commercio, dell’interesse e delle leggi automaticamente scaturenti dalle “attrazioni e repulsioni”, cioè verso la versione scozzese della “mano invisibile”. La “suprema mano” di Genovesi non era una teoria dell’ordine spontaneo del mercato fondato su un’antropologia pessimistica (come sostiene Max Weber), ma un’idea di provvidenza fondata su una naturale socialità dell’uomo. Negli ultimi anni lo vedrà bene, il commercio non deve essere guidato dallo “spirito di conquista” (p.92), ma è civile se è ispirato al mutuo vantaggio. Se reciprocità e felicità vi dominano. Se non è il luogo della predazione.
Adam Smith (che è però anche l’autore della “Teoria dei sentimenti morali”, che in qualche modo si divide il lavoro con la sua opera economica), è figlio di una madre calvinista e insegna in una scuola calvinista. Segue la tradizione che nasce dall’agostinianesimo di Lutero, secondo il quale la gratia deve essere separata dal mercato. E’ questo infatti lo scandalo originario: i doni della grazia erano fatti mercato. Ne era fatto mercato. Le 95 tesi del 1517 attaccano le indulgenze, ma la cosa diventa ed è più profonda. Dal mondo del dono, della gratuità, va tenuto fuori il mondo. Sono distinti, ogn’uno è retto da leggi diverse e non sono unificabili.
Viene abbandonata per queste ragioni l’etica della virtù di derivazione aristotelica e tomistica, e l’uomo è visto con Agostino (vissuto in epoche tragiche) come malato di egoismo ed incapace di per sé di virtù. Almeno nella “città degli uomini” (nella “città di Dio” la grazia lo soccorre). Resta interesse ed utilità. Lo abbiamo visto già in Hirschman, quindi in Max Weber, questa tradizione ha radici soprattutto in giansenisti e calvinisti, negli ugonotti francesi (che si spostano massicciamente in Inghilterra dopo le persecuzioni), e sono tutti legati ad un’antropologia agostiniana.
Ci sono in entrambe le tradizioni, dice giustamente Luigino Bruni, delle patologie sociali caratteristiche:
Max Weber nell’ultima, profetica e straordinaria, pagina del suo capolavoro lo aveva scritto: “specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’.... ***
Premio Internazionale “Giambattista Vico”, la 22edizione va all’On. Brunetta
Comunicato Stampa
Sarà una lectio magistralis dell’onorevole Renato Brunetta, già ministro e docente di Economia Politica, sul tema Giambattista Vico - Antonio Genovesi e la questione meridionale”, ad aprire sabato 19 agosto alle 20.00, presso il castello Vichiano di Vatolla, la 22esima edizione del Premio Internazionale “Giambattista Vico”. L’onorevole Brunetta riceverà, quindi, il Premio Internazionale dedicato a Vico e sarà nominato Rettore honoris causa del neonato “Ateneo del vino narrato”.
Nel corso della serata, quindi, saranno consegnati ulteriori riconoscimenti a personalità ed enti che si sono particolarmente distinti per la qualità del loro operato. I premiati di questa edizione saranno tre e riguarderanno i settori politica, società ed economia.
“Con il conferimento del Premio all’onorevole Brunetta - afferma il presidente della Fondazione GiambattistaVico, Vincenzo Pepe - iniziano gli eventi legati alla commemorazione dei 350 anni dalla nascita di Vico, avvenuta il 23 giugno 1668. Per noi della Fondazione è un evento molto significativo, suggellato dalla presenza dell’onorevole-professore Brunetta, un vichiano a tutti gli effetti, che avrà così di visitare e conoscere da vicino i luoghi vichiani”.
“Sarà un’edizione all’insegna delle novità - conclude Claudio Aprea, direttore della Fondazione Giambattista Vico - che vedrà, tra le varie iniziative, la nomina di Rettore honoris causa, del neonato Ateneo del vino narrato, al vincitore del Premio Vico, in occasione della concomitante apertura dell’anno accademico. Resta, invece, immutato il fine di un evento che vuole generare, attraverso la cultura attiva, dei modelli di crescita per il nostro territorio”.
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CILENTO NOTIZIE, 17/08/2017: http://www.cilentonotizie.it/dettaglio/?ID=34122&articolo=premio-internazionale-giambattista-vico-la-22edizione-va-all-on-brunetta#ixzz4pztlI9ql
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE.
L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
Se la mappa della filosofia cancella il Sud
di Massimo Adinolfi (Il Mattino, 23.02.2017)
Impossibile tracciare una mappa della filosofia in Italia. Accompagnando la meritoria iniziativa del «Corriere della Sera» che pubblica una nuova collana di libri dedicata ai «maestri del pensiero più importanti», Pierluigi Panza, a colloquio con il presidente della Società italiana di estetica, Elio Franzini, ci prova coraggiosamente in due righe. Eccole: «la scuola di Milano ha avuto una tradizione fenomenologica con Banfi e Paci; quella di Torino è stata caratterizzata dall’ermeneutica, ma ora ha svoltato con il «ritorno alle cose» di Ferraris; epistemologia e cognitivismo di stampo anglosassone sono variamente disseminati; al Sud è sopravvissuto un po’ di idealismo crociano con un approccio più storicista». Poche righe sommarie, in cui non compaiono Venezia, Padova o Pisa, ma in cui soprattutto il Mezzogiorno quasi non è avvistato: se non fosse per le sparute sopravvivenze storiciste, citate con troppa sufficienza, sembrerebbe che al di sotto della linea Gustav di filosofia non ve ne sia quasi più traccia.
Le cose però non stanno così. Basti pensare che fra gli autori italiani di gran lunga più tradotti all’estero vi sono oggi Giorgio Agamben e Roberto Esposito, uno romano e l’altro napoletano: chiunque intendesse stendere una mappa della filosofia in Italia, a meno di personali idiosincrasie, non potrebbe non includerli in posizione di spicco. E, certo, comprenderebbe il bresciano Emanuele Severino, il milanese Carlo Sini, il veneziano Massimo Cacciari e il torinese Gianni Vattimo, ma anche i napoletani Vincenzo Vitiello, Biagio De Giovanni e Paolo Virno, e i romani Donatella Di Cesare, Pietro Montani e Gennaro Sasso. Se si disputasse il derby fra Nord e Sud come fecero i Monty Pithon con la finale mondiale fra filosofi greci da una parte e tedeschi dall’altra Roma e Napoli, insomma, non sfigurerebbero affatto.
Ci sarebbero volute più righe? Certo. Ma soprattutto ci sarebbero voluta una più generosa attenzione verso tradizioni e stili di pensiero che evidentemente l’articolista non ama: dall’ermeneutica al post-operaismo, dal neoparmenidismo alle filosofie del senso. Ne sarebbe venuta fuori la rappresentazione di una ricerca filosofica molto più vivace e molto più plurale, per nulla prossima alla scomparsa.
Quel che invece rischia davvero di scomparire, e che forse induce a qualche errore di prospettiva, è l’infrastruttura istituzionale che dovrebbe sostenere l’insegnamento e la diffusione del pensiero filosofico, ormai al Sud quasi del tutto assente. La morte di Gerardo Marotta ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e della sua biblioteca, che rischia di divenire metafora di un più generale destino della ricerca nel Mezzogiorno. Ma siccome l’articolo del «Corriere della Sera» si chiude con una sentenza discutibile, che cioè oggi si fa filosofia «senza disturbare», proviamo a recare qualche disturbo.
O almeno a porre una domanda: se il Mezzogiorno non ha più un grande editore (e non ha più una grande banca), se il sistema universitario meridionale viene continuamente penalizzato nel trasferimento delle risorse, se i centri di ricerca non dispongono degli stessi polmoni finanziari che sostengono la ricerca al Nord, se manca o è carente l’organizzazione di grandi kermesse, se chiudono le fiere della letteratura o dell’arte, se tutto questo avviene nonostante la ricchezza di espressioni artistiche, fermenti letterari, compagnie teatrali, gruppi musicali che si muovono in città come Napoli, deve meravigliare il fatto che un grande giornale milanese, a colloquio con un professore milanese, scriva che di filosofia al Sud ce n’è pochina, quasi nulla, e che magari quella che c’è ha un certo sapore d’antico?
Qualche settimana fa si è tenuta a Bologna la Fiera internazionale di arte contemporanea. Bologna: ovvero il lembo più meridionale del sistema italiano dell’arte, perché sotto l’Appennino tosco-emiliano esposizioni simili non ce ne sono. È quasi inevitabile, allora, che chi volesse basare la propria mappa dell’arte italiana oggi su tutto quello che simili manifestazioni mettono in circolo avrebbe qualche difficoltà a inserirvi significative presenze meridionali. La teoria istituzionalista sostiene che è arte ciò che le istituzioni del mondo dell’arte affermano che sia tale. Forse è solo un escamotage, per sfuggire al compito impossibile di metter su una definizione che consenta di tenere insieme Raffaello e Malevic, Giotto e Warhol. Ma se qualcosa del genere è stata proposta persino per la scienza, al punto che vi sono epistemologi per i quali scienza è ciò che la comunità degli scienziati dice che è tale, figuriamoci se questo non accade anche nei riguardi della filosofia, il cui statuto è molto più incerto.
O perlomeno: è incerto solo in linea di principio, perché, come giustamente osserva Franzini, se si prende un filo che proviene dal fondo della tradizione occidentale e lo si prova a tirare fino a noi, un modo per orientarsi nel pensiero, e riconoscervi la forma in cui la filosofia si continua, di fatto c’è. Ma chi lo tira, quel filo? Se a tirarlo sono sempre gli stessi giornali, a margine della pubblicazione delle stesse collane, proposte dagli stessi gruppi editoriali, con operazione culturali che guardano verso le stesse scuole filosofiche che son lì a fare da sponda, allora è inevitabile che solo alcuni fili vengano sempre di nuovo tessuti, mentre altri finiscono con lo spezzarsi e col perdersi.
Una mappa della filosofia in Italia è impossibile, dicevamo. O meglio: dice Panza sul «Corriere della Sera». Ma non dice chi, nel caso, dovrebbe tracciarla, e soprattutto ignora il punto decisivo, che cioè la mappa viene ogni volta tracciata in via di fatto entro l’organizzazione dei saperi e dei poteri di una società. Se si vuole una filosofia che torni a recare qualche disturbo, forse non bisogna liquidare troppo in fretta una simile questione. E le commistioni con società, politica e scienza, che ancora Franzini giudica positive, come un accrescimento del senso del filosofare, aiuteranno allora a disegnarne una trama meno semplificata e soprattutto meno sbrigativa di quella che vede solo un po’ di Milano e un po’ di Torino, qualche sparso e inoffensivo residuo storicistico, tra Napoli e Bari, ma tutto considerato posizioni marginali, a cui non si deve molto più che un atto di omaggio. Le cose non stanno così e, sia detto en passant, se mai compariranno nelle prossime uscite della collana filosofi italiani, si può star certi che da Bruno a Vico, da Croce a Gentile saranno pensatori meridionali.
Franco Venturi e la storia dell’idea comunista
di Maurizio Griffo (L’Acropoli, Anno XVII/2016 - n. 5, Interventi)
L’opera storica di Franco Venturi investe in modo prevalente il XVIII secolo. Il moto illuminista viene da lui indagato già nel primo volume sulla giovinezza di Diderot, pubblicato nel 1939, e resta al centro dei suoi interessi fino all’ultimo saggio, uscito oltre cinquant’anni dopo, dedicato all’inquadramento storico e concettuale di un opuscolo del giovane Filippo Buonarroti, passando per la grande sintesi di Settecento riformatore, dove in cinque volumi si traccia un affresco della cultura illuminista europea.
Tuttavia per comprendere il senso ultimo del lavoro storiografico venturiano risulta fuorviante affidarsi al solo orizzonte tematico; per apprezzare la sua attività di ricerca è necessario invece porre mente al fatto che le indagini da lui condotte sono sempre guidate da un forte impulso etico-politico. Allora, solo analizzando tale impulso sarà possibile rendere ragione anche della continuità dei suoi interessi di ricerca.
Una riprova della validità di questo assunto la fornisce la recente pubblicazione di due inediti che l’università torinese ha voluto editare in occasione del ventennale della scomparsa (F. Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea, a cura di M. Albertone, D. Steila, E. Tortarolo, A. Venturi, Torino, Università degli Studi, 2014, pp. 176). Si tratta di due abbozzi composti a distanza di alcuni anni. Il primo, un manoscritto, è risalente al 1939, ed è stato scritto a Parigi, dove era esule assieme alla famiglia, con ogni probabilità prima dell’inizio della seconda guerra mondiale.
Il secondo è un dattiloscritto composto al confino di Avigliano in Basilicata nel 1941-1942. I due inediti venturiani sono accompagnati da vari saggi che ne illustrano aspetti e motivi e ne contestualizzano le circostanze di composizione. L’introduzione di Edoardo Tortarolo fornisce un ragguaglio generale della fase in cui i due abbozzi sono stati elaborati. Abbiamo poi una ricognizione di ordine storiografico ad opera di Manuela Albertone (Illuminismo e comunismo) che ricolloca questi abbozzi nel quadro generale della produzione scientifica venturiana, e un saggio di Michele Battini (“Entriamo in un’epoca di necessario illuminismo”), che inquadra la riflessione di Venturi nel dibattito culturale degli anni ’30.
Infine due saggi più monografici, ad opera di Girolamo Imbruglia e di Daniela Steila rispettivamente dedicati alla maniera in cui Venturi si confronta con l’impostazione storica crociana (“Il problema del comunismo nella sua integralità”. Tra Croce e Marx) e alla discussione sulla natura dell’URSS che in quella fase si svolgeva all’interno di “Giustizia e Libertà” e, più in generale, nella cultura francese (La Russia rivoluzionaria).
Nato nel 1914, dal 1932 Venturi viveva in Francia, dove la famiglia si era trasferita dopo che il padre, storico dell’arte, aveva rifiutato di prestare il giuramento richiesto dal regime ai professori universitari. Il giovane Venturi si iscrive alla facoltà di lettere della Sorbona, appassionandosi agli studi storici. Al tempo stesso è partecipe dell’emigrazione antifascista italiana e milita nel movimento di Giustizia e Libertà.
Dopo la rivoluzione bolscevica, il comunismo aveva acquistato una pregnante attualità, tanto sul piano delle prospettive politiche pratiche, quanto su quello della riflessione intellettuale. Un interesse che non scema, ma semmai si accresce, negli anni Trenta. In Unione Sovietica si consolida la dittatura staliniana, si varano i piani quinquennali ed entra in vigore la nuova costituzione. In Francia l’esperienza del fronte popolare sembra aprire prospettive diverse. Da un altro versante anche l’affermazione di regimi dittatoriali prima in Italia e poi in Germania appare la conferma della vitalità del collettivismo, sia pure declinato in chiave nazionale.
All’interno di GL la necessità di confrontarsi con la realtà del comunismo è molto avvertita. Carlo Rosselli prima della tragica scomparsa guarda al comunismo come possibile alleato per un fronte antifascista. Ma anche dopo il giugno 1937 gli sviluppi del quadro politico internazionale, che pare avviarsi verso il conflitto, non fa venir meno, anzi accentua, l’esigenza di interrogarsi sul comunismo.
Anche Venturi vive pienamente questa temperie, partecipa alle discussioni, legge le testimonianze e i resoconti che escono sull’Unione sovietica, per le sue ricerche su Diderot fa anche un viaggio in URSS, pubblicando poi, all’inizio del 1937, alcuni articoli sulla rivista di GL. Articoli non attraversati da un pregiudizio favorevole né da un sentimento ostile, ma intesi a cogliere i mutamenti della società russa.
In sostanza, la rapida evoluzione politica di quegli anni spinge Venturi a un tentativo di ripensamento storico del problema del comunismo per vederne l’origine e comprenderne gli sviluppi. I referenti storiografici di questa riflessione sono molteplici, ma un ruolo importante per indicare possibili ipotesi interpretative lo rivestono gli scritti e l’insegnamento di Élie Halévy. Da un punto di vista più direttamente politico, poi, si risente la eco delle discussioni degli anni Trenta con amici e sodali di GL, come Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci, Leo Valiani.
Questo è lo sfondo storico e biografico in cui si collocano i due inediti. Se ne può ricavare una prima, indiretta, indicazione. Per Venturi la politica rimanda necessariamente alla comprensione storica, ovvero le due attività, per quanto distinte, hanno un legame necessario e ineludibile.
L’argomento dei due inediti è il medesimo, cioè uno schizzo di una storia del comunismo. Per quanto diversamente articolati, il dattiloscritto del 1941-42 è circa il triplo del manoscritto del 1939, la diversità dei due testi dipende anzitutto dalla differente temperie politica in cui vengono elaborati. Il primo abbozzo è scritto nella capitale francese alla vigilia della guerra, certo, ma pur sempre in una condizione di tranquillità. Il secondo abbozzo è composto dopo una serie di drammatici avvenimenti. L’inizio del conflitto, il fallito tentativo di emigrazione in America, l’arresto in Spagna, la condanna al confino in Italia. Come rileva opportunamente Tortarolo, in quel torno di tempo nella vita di Venturi si era registrata «una svolta drammatica che si riflette senza dubbio sullo stile, l’argomentazione e la tesi», da lui esposta. In altri termini, gli accadimenti di quel periodo dovevano necessariamente «ripercuotersi su una personalità che faceva dell’osservazione ravvicinata e partecipe degli eventi politici e della loro messa in prospettiva storica una ragione di vita», pp. 9-10.
Nelle intenzioni iniziali lo schizzo avrebbe dovuto articolarsi in tre momenti: la vicenda del comunismo illuminista, il comunismo utopista, quello marxiano o “scientifico”. Tale scansione enunciata e non svolta nell’abbozzo del 1939, che si ferma alle premesse settecentesche, è rispettata sostanzialmente anche nel dattiloscritto del 1941-42, tuttavia qui essa si presenta più articolata, estendendosi anche alle fasi ulteriori.
Secondo la periodizzazione fissata da Venturi il comunismo moderno nasce nel XVIII secolo, quando l’utopismo cambia di segno; abbandona i moduli rinascimentali che si erano estenuati in «una forma bizzarra di letteratura», p. 29, per tornare a essere letteratura politica in senso proprio. Si tratta, al tempo stesso, di una reazione e di uno sviluppo dell’illuminismo. Le premesse di questa evoluzione sono poste da Rousseau, nei due Discorsi. Lo scrittore ginevrino, però, pur criticando l’idea di progresso propria degli illuministi, non trae tutte le conseguenze dalla sua analisi. A farlo saranno gli autori utopisti del tempo. È in Morelly e in Dom Deschamps, infatti, che l’idea, pur così complessa e articolata, di «stato di natura si fissa e concretizza in dogma che sembra risolvere tutti i problemi: nella società egualitaria coincidono perfettamente, anche se del tutto astrattamente, natura e ragione», p. 52. La rivoluzione francese aggiunge poi un altro elemento, che al momento non influisce sul corso degli avvenimenti, ma che finirà per rivelarsi essenziale. La congiura degli eguali di Babeuf si risolve in un fallimento, ma consegna alla posterità non solo «il germe del comunismo, ma anche quel binomio partito-potere che ne sarà lo strumento», p. 53.
Nella ricostruzione successiva Venturi sfuma la contrapposizione tra il socialismo romantico e quello che si autodefinisce scientifico, mettendo in rilievo la matrice romantica di una parte della riflessione marxiana. Un argomento, questo, che era emerso nella letteratura sull’argomento dopo la pubblicazione, negli anni Venti, delle opere giovanili. La ricostruzione di Venturi mette però l’accento soprattutto sulla pulsione politica che anima Marx. Questi, per quanto dopo il 1848 si concentri soprattutto sugli studi di economia, è guidato sempre da un definito obiettivo politico, quello di trovare la formula che assicuri l’avvento del comunismo. Un obiettivo che sarà ripreso anche dai suoi eredi ma con un esito in parte paradossale che Venturi sintetizza così, Marx aspirava ad essere e «poteva essere il Machiavelli del proletariato», ma i suoi successori «tendevano a farne un Bismarck del proletariato», p. 73.
Il socialismo europeo della seconda internazionale (tedesco, francese, britannico) pur nelle profonde differenze che lo caratterizzano è accomunato, a parere di Venturi, «da una incapacità di realizzazioni politiche». Da un lato, «sul terreno della democrazia, non riesce ad inserirsi completamente in essa», ma da un altro versante non riesce «a proporsi seriamente un problema rivoluzionario di sostituzione», p. 73. Rispetto a questa situazione di poca incisività politica, l’avvento di Lenin segna una cesura netta. Il leader russo si ricollega a quella che viene con finezza definita la fase blanquista di Marx, riscoprendone il volontarismo politico. Anche l’insistenza leniniana sulla purezza ideologica, il suo fanatismo assoluto, per quanto possa risultare poco appetibile intellettualmente, si intende perfettamente quando lo si consideri come una reazione alla insoddisfacente esperienza socialdemocratica.
Venturi sottolinea la specificità della rivoluzione bolscevica, legata a tre elementi particolari: «partito, proletariato, caos economico e politico», p. 83, che la rendono poco trapiantabile altrove, soprattutto in Europa, dove le condizioni economiche, sociali e politiche sono del tutto diverse. Tuttavia, a suo avviso, l’esperimento russo resta interessante perché costituisce una realizzazione pratica che non è possibile sottovalutare. Certo, il futuro storico del populismo non si nasconde la natura autoritaria del regime sovietico, parla infatti, con un’espressione in cui pesa il vissuto di esule antifascista, di «ducismo di Stalin», p. 85.
Riprendendo poi un tema assai presente nelle discussioni degli anni parigini, si sofferma anche sulle analogie tra i regimi totalitari del tempo. Negli ultimi anni, rileva, l’elemento della tradizione socialista più presente è costituito dallo statalismo. Un apporto che è stato mutuato anche dal fascismo e dal nazismo.
Non è causale, infatti, «che Mussolini sia stato un socialista e che Hitler abbia chiamato il suo movimento nazional-socialista», pp. 88-89. Peraltro, questa tendenza alla burocratizzazione è forte già nella socialdemocrazia tedesca delle origini, e inoltre le guerre moderne imponendo il controllo della produzione tendono verso lo statalismo. Tuttavia questa tendenza innegabile «va considerata come un fatto bruto, destinato a essere plasmato e a servire ad un ideale politico», p. 89.
Il dattiloscritto reca la data conclusiva del 16 maggio 1942, ed è evidente che in queste riflessioni finali Venturi risente l’impatto della guerra, che impone l’esigenza di riscoprire quegli ideali di umanità e giustizia conculcati nella situazione presente.
Lo scritto prelude all’impegno politico degli anni a venire, ma sullo sfondo resta il problema della intellezione storica. Problema che, alla fine della guerra, tornerà a essere, per Venturi, l’impegno predominante.
Nel 1725, Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 - Napoli, 23 gennaio 1744) spedisce a Newton la sua prima "Scienza Nuova".
Il miracolo in un’ampolla
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
Scappava, Pietro Giannone. Scappava a gambe levate. Via da Napoli, verso la natia Capitanata e le coste del Gargano. Verso l’Adriatico, e una qualche nave diretta al nord. Verso Vienna, la nuova capitale. Per lui, per l’incauto autore della Istoria civile del Regno di Napoli, pareva non esistere altro rimedio che la fuga, in quel disgraziato mese d’aprile del 1723. Da quando si era diffusa la voce che, nella Istoria civile fresca di stampa, Giannone avesse negato la natura miracolosa della liquefazione del sangue di san Gennaro, ecclesiastici di ogni specie e di ogni rango si erano fatti in quattro per scatenare la macchina del fango. Presuli dalle anticamere, frati dai chiostri, sacerdoti dai pulpiti, gesuiti dai torchi, avevano mobilitato contro lo scrittore anticuriale le «vili feminette», la «gente semplice e plebea». «Questa machina appunto adoperarono contro di me cotesti uomini pii, e religiosi. Si declamava per ogni angolo, ch’io negassi un sì evidente miracolo».
L’accusa suonava tanto più grave in quanto di lì a poco - il 1° maggio - doveva rinnovarsi il miracolo periodico della liquefazione. E in caso di mancato scioglimento del sangue, chi avrebbe protetto la città di Napoli dalle più varie calamità che regolarmente la minacciavano, le pestilenze, le guerre, le eruzioni del Vesuvio? Il 1° maggio, il martire cristiano avrebbe forse testimoniato del suo cruccio non solo contro il giurista miscredente, ma contro i napoletani tutti? Perciò Giannone scappava, scappava finché era in tempo. Perciò un suo fratello rimasto a Napoli aveva «tolto il migliore dalla casa», ritirandosi «in luogo ignoto e lontano dalla città». E poco importa se, nel giorno fatidico, il responso del sangue sarebbe riuscito ambiguo («si ritrovò parte liquefatto, e parte duro»). A Napoli, Pietro Giannone non avrebbe mai più rimesso piede, nell’agro quarto di secolo che pur gli restava da vivere.
Oggi - tre secoli più tardi - il sangue di san Gennaro ancora fa notizia, fin dentro le nostre cronache più recenti. Rinnovando l’attualità di una storia, quella del rapporto fra il sangue del santo e la città di Napoli, inaugurata oltre tre secoli prima della disavventura editoriale di Giannone: nell’anno 1389, con il primo episodio attestato di liquefazione. Storia risalente, dunque, al tardo Medioevo. Cioè a una stagione particolarmente propizia per un vissuto del cristianesimo così materico da sembrare pulp, fatto di manne dal cielo, di ostie sanguinanti, di reliquie ematiche del Golgota, come pure di stigmate di san Francesco, e di sacre sindoni.
Con un libro impeccabile nel metodo e impressionante nell’erudizione, Francesco Paolo de Ceglia ha ricostruito adesso i sette secoli o quasi di questa storia: la suggestiva vicenda (secondo il titolo) del «segreto» di san Gennaro, ovvero (nel sottotitolo) la «storia naturale di un miracolo napoletano». Non già - evidentemente - per determinare se miracolo ci sia davvero o non ci sia per nulla, ma piuttosto per ricostruire l’universo materiale e mentale di chi, da sette secoli in qua, quel miracolo ha riconosciuto come vero, consolante, salvifico; oltre all’universo di chi, da tre o quattro secoli a questa parte, nel miracolo ha intravisto il trucco.
Se le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento, la costruzione compiuta del miracolo napoletano va registrata intorno alla metà del Quattrocento. Allora si fissa il rituale per cui il tabernacolo contenente la doppia ampolla con il sangue di san Gennaro viene avvicinato dall’officiante al cranio del santo stesso, conservato in Duomo entro un reliquario antropomorfo: e per cui soltanto l’interazione fra le due reliquie - accompagnata da uno scuotimento del tabernacolo - provoca lo sciogliersi di un liquido che si presenta, altrimenti, allo stato normale di sangue rappreso. Seguono, nel corso del Cinquecento, le teorizzazioni più o meno eloquenti di tale organica «simpatia». Fino al trionfo seicentesco del culto in quello scrigno architettonico partenopeo che è la Cappella del Tesoro, dove magnificamente si dispiega l’arte pittorica del Domenichino.
Non per caso, nel pennacchio della volta, La Vergine intercede per Napoli raffigura l’intervento ematico di san Gennaro come un momento decisivo nella guerra scatenata dalla Chiesa di Roma contro l’eresia di Lutero e di Calvino: perché sin dagli esordi della Riforma protestante, e poi sempre più durante le guerre di religione, era stato dal Nord Europa che avevano risuonato le critiche più severe (oltreché le più sarcastiche) contro il preteso miracolo della liquefazione. Nella doppia ampolla napoletana non si poteva forse immettere una buona dose di calce viva che, eccitando il liquido rappreso, lo rendesse «spumante» come lo volevano i devoti? Questa l’ipotesi del teologo ugonotto Pierre du Moulin, cui si sarebbero aggiunte - dal Seicento al Novecento - innumerevoli altre proposte di decifrazione del segreto e di denuncia dell’impostura.
Il sangue di san Gennaro interrato in una ghiacciaia, «congelato nel modo in cui costoro [i napoletani] fanno i sorbetti». Il sangue di san Gennaro quale composto altrettanto astuto che truffaldino, un amalgama d’oro e di solfuro di mercurio. Il sangue di san Gennaro abilmente dissimulato in due tabernacoli identici, l’uno contenente liquido e l’altro contenente gel. Il sangue di san Gennaro prodotto da «sanguisughe ingozzate, con la bocca delicatamente sigillata». Il sangue di san Gennaro replicato e replicabile, in laboratorio, aggiungendo solfato di sodio a sangue di bue, ecc. ecc. «E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica che gl’impostori vi spacciano come sangue di san Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni? Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno?»: così, nel 1869, un mangiapreti che di nome faceva Giuseppe Garibaldi.
Ma la lunga storia non è finita lì, durante la breve parentesi di storia nazionale che è stata quella di un’Italia laica. Né è finita quando, corrente l’anno 1991, tre scienziati italiani hanno pubblicato su «Nature» un intervento che riduceva lo straordinario miracolo di san Gennaro a ordinario fenomeno di tissotropia. Stante «la proprietà di alcuni gel di liquefare quando mescolati o sottoposti a vibrazioni, e di solidificare di nuovo quando lasciati stare», si poteva ben ritenere che il liquido della doppia ampolla avesse poco di diverso da una banale miscela di cloruro ferrico, carbonato di calcio, acqua, e un pizzico di sale da cucina... A questi tre autorevoli scienziati, uno scienziato altrettanto autorevole - cui la curia di Napoli aveva permesso di compiere, dal 1979 al 1983, studi ravvicinati sull’ampolla - ha risposto negando, rilevazioni alla mano, che il comportamento della reliquia avesse «nulla a che vedere con la tissotropia».
Sì, la storia continua. Anche perché, notoriamente, chi ha bisogno di miracoli non cerca prove, ma segni. Non vuole ragionarci, vuole crederci. A tutt’oggi - con buona pace del generale Garibaldi - l’ampolla non è stata franta.
Un sangue sensibile alla cornice del senso
Credenze. Possente e minuziosa, la ricerca dello storico della scienza Francesco P. De Ceglia su «Il segreto di San Gennaro» (Einaudi) indaga i mutevoli concetti elaborati per spiegare il fenomeno
di Francesco Benigno (il manifesto, Alias, 11.12.2016)
Napoli, 4 maggio 1799. La cattedrale era gremitissima e la folla, che attendeva spasmodica di vedere la miracolosa liquefazione del sangue raccolto in un’ampolla rituale, appariva impaziente: il sangue non si scioglieva. Pochi mesi prima, a gennaio, all’arrivo del generale Championnet e dei suoi soldati, la liquefazione era avvenuta regolarmente, sia pure in cerimonia privata, e da quel momento San Gennaro era stato accusato pubblicamente di essersi fatto «giacobino». Ma ora la situazione era cambiata: le truppe inglesi e l’armata dei lazzaroni sanfedisti del cardinale Ruffo si stavano pericolosamente avvicinando a Napoli e i francesi, temendo un’insurrezione, presidiavano i punti nevralgici della città.
A voler credere a un testimone oculare, il diarista e ufficiale Paul Thiébault, il Presidente del governo napoletano, posto di fronte alla pericolosa impasse, avrebbe allora tentato una mossa estrema: si sarebbe avvicinato all’Arcivescovo di Napoli e - facendogli intravedere una pistola nascosta nel gilet - gli avrebbe sussurrato: «Se il miracolo non si compie in fretta voi siete morto». Detto fatto, il sangue si sciolse.
È solo uno tra i tanti episodi, favolosi e stranianti, raccontati da Francesco Paolo De Ceglia in Il segreto di San Gennaro Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, pp. XVI-416,euro 32, 00) una ricerca possente e minuziosa, condotta con garbo e grandi mezzi culturali, e soprattutto scritta benissimo, con uno stile incisivo e per quanto possibile - data la complessità dei temi trattati - chiaro. Perché sebbene il sottotitolo ammiccante reciti «storia naturale», la sua più giusta definizione avrebbe dovuto essere «storia intellettuale».
Il centro del libro non è costituito, infatti, dalle pratiche di devozione e dalla dimensione sociale della ritualità sacrale di una città sovrabbondante di «miracoli», bensì dai mutevoli quadri concettuali volta a volta elaborati per «spiegare» il fenomeno e, in sostanza, la cultura che lo ha identificato come tale. Un percorso affascinante, intessuto di ragionamenti sui confini tra la natura e la fede, tra la vita e la morte, tra ciò che può essere conosciuto e quanto resterà assolutamente ignoto.
La storia ha inizio il 17 agosto 1389 quando durante una processione delle reliquie di San Gennaro, martirizzato agli inizi del IV secolo, si verificò per la prima volta il fenomeno della liquefazione del suo sangue raccolto in una ampolla. Non era un caso del tutto eccezionale, a quel tempo. L’Europa pullulava di reliquie ematiche di vari santi nonché del sangue di Gesù Cristo, e alle reliquie erano variamente connessi miracoli disparati: a Bari, ad esempio, le ossa di San Nicola trasudavano manna. Ciò che c’era di particolare nel «miracolo» di San Gennaro, era la sua incostanza: normalmente solido e di colore bruno, il suo sangue talvolta si scioglieva guadagnando un colore rosso brillante. Era insomma instabile, incostante, mutevole in modo inquietante.
Cominciarono allora due processi importanti, mirati entrambi a rendere il miracolo gestibile e perciò a «regolarlo». Da una parte lo si inscrisse in un cerimoniale in grado di esaltarne la fruibilità collettiva, magari mitigandone la imprevedibilità; dall’altra lo si spiegò, in modo da rendere conto, pur nel quadro di un fenomeno soprannaturale, della ragione del periodico scioglimento. De Ceglia mette in luce molto bene come questi due processi siano interrelati e, oltretutto, promossi dagli stessi individui.
Ne viene, da un canto la fissazione di un calendario cerimoniale che prevedeva una liquefazione periodica, a giorni fissi; dall’altro la teoria secondo la quale il ribollire del sangue sarebbe procurato dall’avvicinamento delle altre reliquie del Santo, e segnatamente del capo, conservato in un ricco reliquario antropomorfo. Il cambiamento di fase del sangue dipenderebbe così dall’interazione tra le due reliquie. Il corpo del Martire, una volta avvicinatesi due sue componenti fondamentali, il capo e il sangue, riprenderebbe «a vivere»: «il sangue prezioso che si vede duro come un sasso, tosto che scuopre il suo venerando capo si vede liquido e spiumante come s’hallora uscito fuse dalle sacre vene: miracolo veramente stupendissimo, ch’eccede ogni altro miracolo».
Naturalmente, con la riforma, queste credenze subirono attacchi feroci da parte protestante, attacchi che cercarono di naturalizzare il fenomeno facendo leva sulla credenza, assai diffusa nei paesi nordici, della «cruentazione»; e cioè la convinzione che i cadaveri di individui deceduti di morte violenta siano in grado di reagire alla presenza dei propri uccisori emettendo sostanze organiche. Si avanzò così l’ipotesi che il cranio non fosse quello del Santo ma quello del suo carnefice. Come mostra bene De Ceglia, qui il contrasto non è dunque tra la superstizione meridionale cattolica e la razionalità settentrionale protestante, ma tra due diversi «stili di credenza». Uno, quello cattolico, orientato al soprannaturale, l’altro, quello protestante, più propenso alla dimensione magico-naturalistica.
Diverso ancora il panorama intellettuale settecentesco, dominato dalla logica dell’esperimento e dall’idea di replicare il fenomeno mediante pozioni di derivati di ferro e altre sostanze capaci di reagire, sciogliendosi, al calore o allo scuotimento. Ancora una volta, però, questa diversa dimensione, diciamo così sperimentale, non contrappone un nord scientista a un sud oscurantista, se è vero che a un Caspar Neumann, capace di intrattenere la corte di Berlino nel 1734 con un esperimento volto a svelare il «trucco» del sangue di San Gennaro, faceva eco a Napoli la costruzione, da parte del principe «illuminato» Raimondo di Sangro, di una macchina capace di riprodurre la liquefazione del sangue.
Le diatribe sono continuate fino a oggi e hanno coinvolto spiritisti e socialisti, gesuiti e massoni, maghi e sacerdoti, antropologi e mangiapreti, chimici e scienziati di diverso orientamento: la Chiesa infatti, pur proteggendo il culto, non ha mai dichiarato il fenomeno come miracoloso, sicché la fedeltà al cattolicesimo non ha implicato, di necessità, la credenza nella liquefazione miracolosa. Se un giorno tutto questo finirà, scrive saggiamente De Ceglia, non sarà perché qualcuno svelerà il «trucco» di San Gennaro ma perché cambierà la sensibilità verso queste forme di devozione.
Giusto, ma resta un rimpianto. Se nella sua fantastica traversata dei secoli De Ceglia avesse applicato lo stesso criterio, avremmo avuto una storia anche «sociale» e non solo intellettuale del «miracolo» di san Gennaro. E questa ci avrebbe fatto meglio capire, accanto agli aspetti della religiosità napoletana, dagli ex voto alle preghiere di intercessione, anche vicende che restano un po’ all’ombra di questo saggio: per esempio, il tentativo da parte popolare di appropriarsi della processione, il sostegno assicurato dai Gesuiti al suo culto, la protezione miracolosa accordata dal Santo alla città in occasione dell’eruzione del 1631, la competizione con gli altri Santi patroni di Napoli e quella, tutta politica, con Sant’Antonio di Padova. Durante la Restaurazione, infatti San Gennaro subì una sorta di ostracismo e pare che gli imbrattatele della rua catalana esponessero un quadro in cui Sant’Antonio armato di verghe sferzava san Gennaro che scappava. L’ostracismo sarebbe finito solo con l’arrivo solitario di Garibaldi in città nel 1860: e davanti all’Eroe dei due mondi, come (quasi) sempre, San Gennaro «fece» il miracolo.
PAESTUM, GIAMBATTISTA VICO, E L’EGITTO. LA "CITAZIONE" DI GABRIEL ZUCHTRIEGEL:
"Paestum e l’Egitto":
(Museo Egizio di Torino, “Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano”)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
"Paestum e l’Egitto":
Conferenza “Paestum e l’Egitto” a cura di Gabriel Zuchtriegel, Direttore del Parco Archeologico di Paestum (Museo Egizio di Torino)
Il caso Cesare Beccaria
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 ore, Domenica, 24 luglio 2016)
Cesare Beccaria ha certamente cambiato il nostro modo di pensare il diritto di punire, la stessa idea di giustizia, ponendo al centro della sua riflessione la difesa dell’uomo dall’uomo, in particolare dal cosiddetto homo necans, l’uomo che uccide per un ideale superiore. Risulta impressionante constatare il numero dei convegni che si sono svolti in Italia e all’estero in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene. Perché tanto clamore e coinvolgimento emotivo? Perché quelle pagine così ricche e appassionate si rivelano ancora moderne ed efficaci nella loro requisitoria contro la pena di morte, ma anche capaci di irritare tanti lettori nel mondo dei giuristi? Quanto conta l’estraneità di Beccaria a quel mondo, storicamente incline a concepirsi più o meno consapevolmente come corporazione, sensibile a una concezione del diritto come scienza ontologicamente autonoma, talvolta persino tempio dei sacerdotes juris e dei loro impenetrabili arcana?
Il fatto è che ancora troppi dei nostri studenti di giurisprudenza e più in generale tanti operatori di giustizia ignorano le pagine del Dei delitti e delle pene, o il più delle volte ne commentano con sufficienza le tesi, in parte a causa di una storiografia giuridica antilluminista che resta egemone nelle università italiane.
«Beccaria non è un vero giurista!» Quante volte questa frase perentoria ha concluso ogni discussione sul contenuto autentico di quel volumetto? Dopo la sua condanna all’oblio sancita dalla Restaurazione accadde che, nei primi decenni del Novecento, studiosi autorevoli come Arturo Rocco e Vincenzo Manzini ne certificassero l’estraneità alla corrente dei fautori dell’indirizzo tecnico-giuridico e della purezza scientifica del diritto positivo. Tale pregiudizio, legato a un’idea tutta formalistica di diritto, permane inossidabile.
Il vero punto dolente resta però soprattutto la poca simpatia che continua a correre tra l’illuminista milanese, considerato una sorta di padre spirituale dei cosiddetti garantisti, e il mondo dei giudici. Il contrasto, che nacque già all’indomani della pubblicazione del volume, non pare destinato ad attenuarsi. Al centro del contenzioso resta il problema interpretativo della norma. Il contenuto del celebre paragrafo IV, Interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, continua infatti a essere decontestualizzato.
L’obiettivo è sempre quello di far apparire Beccaria un ingenuo e astratto incompetente che non conosceva il difficile mestiere del giudice, cui da sempre è connaturata una qualche forma di interpretatio. E invece quel capitolo va letto per intero, storicizzato senza anacronismi e semplificazioni, in quanto esso disegna un modello limite, un orizzonte di riferimento, e soprattutto pone per la prima volta un grande problema storico e giuridico, un problema cruciale con cui continuiamo e continueremo a fare i conti in futuro.
Quel paragrafo apriva infatti una stagione nuova nella storia del diritto in Occidente, allorché l’antica figura del giudice era chiamata a mutare mentalità e profilo professionale, a confrontarsi con un’idea di legge conseguente al declino del cosiddetto «governo degli uomini» e alla nascita del moderno «governo delle leggi», del nuovo spirito repubblicano e democratico-rappresentativo voluto dagli illuministi.
«Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? - si chiedeva Beccaria - Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti o il giudice, il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi?». La secca risposta a favore del legislatore andrebbe valutata nel suo significato autentico, che prevedeva la presa di distanza dall’antica concezione del diritto elaborata dal medioevo, dalla visione sacrale di un magistrato ermeneuta e di una legge, estranea alla volontà umana, da riconoscere nel fluire della realtà storica secondo un’antica modalità che dava di fatto un potere enorme ai sacerdotes juris.
Chi ha compreso con acutezza la vera posta in gioco in quel testo è stato Paolo Grossi, maestro della storiografia giuridica italiana. Non a caso egli ha fatto delle pagine scritte da Beccaria sul tema fondamentale dell’interpretazione un punto decisivo della sua implacabile requisitoria contro le «mitologie giuridiche della modernità», e in particolare contro la «legolatria illuministica», colpevole di aver liquidato l’antica dimensione sapienziale del diritto maturata nel medioevo. Una perdita che «non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere òntico, del diritto come fisiologia della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole».
L’Illuminismo e la sua politica del diritto centrata sul governo della legge rappresentano dunque per Grossi il momento di rottura che porta verso la così poco amata modernità giuridica, ossia l’approdo di un lungo processo di trasformazione del diritto come fatto sociale avviato nel Trecento con l’emergere dell’individualismo moderno contro il comunitarismo e il corporativismo medievale. Ecco che con i Lumi arriva la vittoria della sovranità del principe e dello Stato assoluto, decisi a ridurre il diritto alla sola legge imposta autoritariamente dall’alto grazie all’influenza di miti come lo stato di natura, la geometrica eguaglianza degli individui, il contratto sociale.
Va detto con chiarezza che - al di là dei giudizi di valore che si possono esprimere a favore o contro la modernità giuridica - la serrata ricostruzione storica di Grossi circa la genesi di quel nuovo modo di pensare il diritto è per larghi tratti condivisibile. E tuttavia è difficile non individuare punti critici nella sua caratterizzazione della cultura giuridica dell’Illuminismo quale premessa del moderno positivismo giuridico kelseniano.
Allo stato attuale della ricerca storiografica, ad esempio, il persistente riferimento a una «mistica della legge» imposta come una sorta di filo rosso alla modernità giuridica da parte degli illuministi non regge alla prova dei fatti. A ben vedere, quella tesi che ha fatto di questi ultimi i veri ispiratori dell’ossessiva codificazione ottocentesca non tiene nel debito conto la discontinuità profonda di opere come quella di Beccaria.
Si dimentica l’apporto originale e fecondo della cultura illuministica alla storia del moderno costituzionalismo, alla fondazione dei presupposti giuridici e politici dello Stato costituzionale in cui viviamo: tematiche queste ormai da anni al centro del dibattito internazionale ma ancora poco frequentate dalla storiografia giuridica italiana.
Oggi sappiamo che il costituzionalismo illuministico, con il suo repubblicanesimo, con la sua difesa della costituzione scritta, con la centralità dei diritti dell’uomo, era cosa ben diversa sia dal costituzionalismo d’Antico regime, consuetudinario - che nella concezione di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re -, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e dall’idea della sovranità nazionale che faceva comunque premio sui diritti dell’individuo posti dagli illuministi al di sopra di ogni cosa. Per sincerarsene basta ripercorre le pagine scritte da Condorcet e da Paine, alle prese con il dibattito costituzionale americano prima del 1789, o quelle straordinarie di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano decisi a creare una nuova Scienza della legislazione capace di produrre un ordinamento giuridico costruito sulla base di principi, valori e diritti dell’uomo.
Contro l’assolutismo essi prefigurarono le fondamenta di un moderno Stato costituzionale. Uno Stato in cui dovevano operare due piani di legalità: un piano codicistico e legislativo e un piano costituzionale di verifica dei valori illuministici maturati consacrati nel principio dell’eguaglianza dei diritti dell’uomo.
Cesare Beccaria fu certamente tra coloro che in Italia e in Europa ispirarono direttamente la nascita del moderno e cosmopolita «costituzionalismo illuministico» destinato a essere travolto dalla Rivoluzione francese e dalla costruzione degli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. Nel suo interrogarsi sulla presenza di Beccaria nella costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza non a caso fu proprio Piero Calamandrei a fornire suggestioni in questa direzione indicandolo tra i fautori liberali di una dottrina del potere pubblico limitato.
L’opera di Beccaria continua insomma a interrogarci e a rivelarsi ricca di suggestioni e insegnamenti. E ciò perché le ragioni profonde del suo perentorio imporsi restano universali e perenni in quanto elaborate con passione civile a difesa dell’uomo e dei suoi diritti.
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
Uomini senza onore per tutte le stagioni
di Mimmo Gangemi (La Stampa, 10.07.2016)
Al procuratore Nicola Gratteri io credo per fede, come succede ai devoti riguardo i dogmi religiosi. Come me, crede in lui il popolo calabrese, quello sano. E non si potrebbe diversamente, c’è l’efficienza dei suoi lunghi anni di trincea, c’è la visione realistica del fenomeno ’ndrangheta, c’è la faticosa dedizione di chi bada al sodo e non ha bisogno d’inventarsi bufale con cui costruire meriti. E c’è la nascita aspromontana, nella splendida Gerace.
Solo chi è nato in questa terra martoriata da uomini d’onore che l’onore non sanno nemmeno cosa sia - ché di sicuro non c’è nel sangue versato a piene mani, nei sequestri di persona, nel traffico di droga, di armi, persino di scorie radioattive seppellite negli stessi luoghi dove loro vivono con le famiglie! - ha imparato certi meccanismi, certe logiche distorte, sa cogliere sfumature e dettagli, sa decifrare, è capace di intuizioni risolutive. Perché ha, suo malgrado, respirato ’ndrangheta, nel senso che ha avuto occasione di osservarli gli ’ndranghetisti, di coglierne i modi, le mosse, gli atteggiamenti, di assistere alle parate, di sentir rimbalzare il gergo e parole con lo stampo, di attingere fiati dalla stessa aria che quelli infettano, di distinguerli dentro una maggioranza che è perbene e che spesso ha il solo torto d’esercitare il diritto d’avere paura.
Ora Gratteri individua un altro nervo scoperto nella macchina amministrativa della cosa pubblica. Ed è ancora una volta credibile. È indubbio che c’è una parte non irrilevante di essa che non funziona a dovere, si rivela spesso incompetente e inadatta, fraudolenta, non “muore” mai - è sempre la continuazione di se stessa - uomini per tutte le stagioni, chiunque sia tenere il bastone della bandiera che svetta più in alto, uomini utili a chi si succede nel potere, loro stessi potere a fronte d’una politica troppo spesso inetta o che esprime pochezza, che è debole e si fa condurre docile, senza produrre idee, progresso, valori di cultura.
Questa macchina amministrativa taroccata è in qualche misura ’ndrangheta essa stessa, ne è la propaggine, molti la ’ndrangheta li ha agevolati ad accedere ai ruoli chiave, perché ne diventassero strumento, con politici per decenni solleciti a elargire i posti a cassetta su richiesta di un amico o, peggio, di un amico degli amici a cui non poter opporre un no.
Ad andare a spulciare nei quadri dirigenziali della Regione, degli enti pubblici, della sanità troveremmo tanti a cui ha messo il pennacchio il merito ’ndranghetista e non quello professionale, tanti diventati dirigenti senza aver vinto il concorso previsto dalla Legge e magari senza possedere la laurea, o primari ospedalieri cui non ci affideremmo per un’unghia incarnita. Chiaro che si tratta di favori a rendere: in qualche maniera dovranno sdebitarsi con chi ha consentito che succedesse, “dovranno togliersi l’obbligazione”, per dirla in gergo. A discapito della collettività.
Università in festa: la Federico II compie 792 anni
di Mariagiovanna Capone *
Settecentonovantadue anni e non sentirli affatto. L’Università Federico II festeggia il suo genetliaco con modernità strizzando l’occhio al passato e puntando lo sguardo con ottimismo verso il futuro. Il 5 giugno 1224 fu fondato dall’Imperatore Federico II il più grande Ateneo del meridione e da allora i successi sono stati straordinari. Per il secondo anno, il rettore Gaetano Manfredi e il prorettore Arturo De Vivo hanno messo a punto un cartellone di eventi per dare il «Buon Compleanno Federico II» e aprendo gli spazi solitamente dedicati allo studio e alla ricerca, alla cittadinanza. Saranno aperti e accessibili gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno).
I festeggiamenti principali per il 792esimo compleanno dell’Ateneo sono slittati al 10 giugno per via delle elezioni amministrative e si concentreranno tra l’Aula Pessina (ore 15) dove saranno premiati gli studenti meritevoli dell’anno accademico in corso, «un modo per regalargli la giusta gratificazione per l’impegno profuso, che sia anche di buon auspicio per il loro futuro professionale», spiega Manfredi. Con rettore e prorettore anche i presidenti dei vari istituti federiciani da cui provengono i vincitori: Luigi Califano della Scuola di Medicina e Chirurgia, Lucio De Giovanni della Scuola delle Scienze Umane e Sociali, Piero Salatino della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, Matteo Lorito della Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria.
Alle 16.30 ci si sposterà nell’Aula Magna Storica per premiare stavolta i laureati illustri, coloro che hanno contribuito con le loro capacità e talenti a migliorare il Paese. Il geniale e poliedrico Renzo Arbore laureato alla Federico II in Giurisprudenza, il talentuoso drammaturgo Enzo Moscato laureato in Filosofia, e poi la storica dell’arte Paola D’Agostino da circa un anno direttrice del Museo nazionale del Bargello di Firenze, Riccardo Monti attuale presidente dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane laureato in Economia e Commercio, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli che sta provando a salvare la biblioteca dei Girolamini, e il Paolo Sassone Corsi che attualmente dirige il Centro per l’Epigenetica e il Metabolismo della University of California da dove sta contribuendo a studi sulla lotta al cancro.
Dopo la premiazione dei laureati illustri ci si sposterà sullo scalone della Minerva per un intervento musicale del Coro Polifonico Universitario Federico II e in piazza del Gesù per la festa vera e propria con cui l’Ateneo risentirà il calore e l’affetto della cittadinanza dopo il successo dello scorso anno. Ad aprire la serata sarà Mariano Rigillo cui è affidata la lettura di un monologo inedito di Maurizio De Giovanni sul fondatore dell’Università. In occasione dei 40 anni della Gatta Cenerentola, Peppe Barra si esibirà in concerto insieme alla sua band, anticipato dalla lettura di un messaggio del maestro Roberto De Simone. In chiusura di serata Francesco Di Bella in concerto.
Ricche proposte culturali e artistiche, a cominciare dal Fru16, decima edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane ospitato nel Complesso dei Santi Marcellino e Festo che farà da preludio dal 3 al 5 giugno alla giornata clou. Il Festival porterà a Napoli rappresentanti delle comunità studentesche di quasi tutti gli Atenei italiani che hanno una radio e sono previsti oltre 200 partecipanti di almeno 26 radio.
* Il Mattino, Mercoledì 1 Giugno 2016
La Federico II compie 792 anni: la storia della prima Università pubblica al mondo
di Luca Tesone *
Fondata il 5 giugno del 1224, l’Università Federico II si appresta a compiere ben 792 anni! Una vera e propria festa è stata organizzata dal rettore Gaetano Manfredi, e dal prorettore Arturo De Vivo. Per tutti i cittadini sarà possibile infatti visitare gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno). Festeggiamenti che poi proseguiranno il 10 giugno, a causa delle imminenti elezioni comunali.
La storia di questa importantissima università ha inizio con quella del suo fondatore, Federico II appunto. L’imperatore che, nelle sue mani, deteneva i poteri del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico. Una personalità spiccatamente mecenatesca come la sua non poteva che fondare la prima università laica e statale degli studi del mondo Occidentale. La scelta cadde su Napoli e non su Palermo (che era la capitale del regno) perché era più facile da raggiungere, sia via terra che via mare. Inoltre, essendo una delle città più ricche e grandi del regno, poteva più facilmente offrire alloggi agli studenti.
In oltre 700 anni di storia, la Federico II ha avuto molti alti e bassi. In particolare, nel Seicento si registra il periodo di maggior decadenza dell’istituto. Solo a partite dal secolo successivo, con l’intervento delle dinastie degli Asburgo prima, e dei Borbone poi, l’ateneo riuscì a riprendersi: creazione nel 1735 della prima cattedra in Astronomia in Italia e nel 1754 della prima cattedra di Economia. Senza dimenticare la presenza di personalità che hanno fatto la storia, e che hanno insegnato proprio alla Federico II, come il filosofo Giambattista Vico.
In seguito al ventennio fascista, la Federico II divenne il secondo ateneo più importante d’Italia per numero di iscritti, dopo la Sapienza di Roma. In questi anni, vissuti anch’essi tra alti e bassi, non sono mancati importanti riconoscimenti. La facoltà di Ingegneria, ad esempio, è stata riconosciuta come la migliore d’Italia. Importanti traguardi raggiunti anche nell’ambito della ricerca scientifica, come la cura per la schizofrenia. Più recente, invece, la costruzione della prima trave al mondo attraverso l’uso della stampante 3D. Un traguardo raggiunto anche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Strutture per l’Ingegneria e l’Architettura della Federico II.
Insomma, una storia densissima di traguardi e primati, che rendono la Federico II la più importante università d’Italia ed una delle più importanti al mondo. Non resta quindi che augurarle, anche noi, buon compleanno!
* Vesuvio-on-line, 01 giugno 2016 (ripresa parziale).
Dopo l’unità d’italia. La camorra? Nasce come setta
In un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domemica, 3 Gennaio 2016)
Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese).
In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che - sinteticamente - si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca - le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale - Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che - significativamente - questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori.
La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.
Roberti: corruzione mai combattuta in Italia
di Nicola Barone (Il Sole-24 Ore, 16 settembre 2015)
Mai combattuta la corruzione in Italia? «Mai». Così il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti davanti alla commissione parlamentare Antimafia. Per molte ragioni non ultima il fatto che «i corrotti sono sempre stati visti come dei furbi, gente che ci sa fare e che va negli uffici comunali con gli assegni in bocca per ottenere le licenze».
Nel ragionamento di Roberti si affaccia lo stesso discorso che vale per gli evasori fiscali. «Ma corruzione ed evasione fiscale sono il sostrato della criminalità organizzata. Come prova anche l’inchiesta su Mafia Capitale, la corruzione si è associata all’intimidazione, certo non l’ha sostituita: ma non si può in nessun caso negare che le mafie siano un elemento costitutivo delle società da cui hanno avuto origine, all’interno delle quali si sono affermate e da dove si sono propagate anche fuori d’Italia e fuori d’Europa proprio per effetto della vulnerabilità del sistema economico finanziario e delle istituzioni».
La camorra è parte integrante della società napoletana
«Alcuni anni fa, durante un’audizione davanti alla commissione Antimafia presieduta da Forgione, dissi che la camorra era un elemento costitutivo della società napoletana. Intendevo dire, e la realtà da allora non è cambiata, che la camorra è parte integrante della società napoletana e un problema economico e politico oltre che criminale». In apertura della sua audizione il procuratore nazionale mostra di condividere la sortita, assai discussa, della presidente Rosy Bindi.
«Basta con i negazionismi ipocriti, subdoli e paralizzanti - ha premesso Roberti - che contrappongono a questa evidenza una visione di Napoli come paradiso terrestre e un atteggiamento di tipo consolatorio. Esiste una Napoli virtuosa e onesta ma anche una Napoli camorrista e plebea che convive con l’altra, si alimenta delle diseguaglianze economiche, fa affari con i ricchi senza scrupoli e recluta nelle aree della povertà, dell’emarginazione e della disperazione».
A Napoli - ha proseguito il procuratore nazionale Antimafia - «la camorra domina ancora larga parte del territorio: guardare in faccia la realtà è la precondizione necessaria per articolare un’attività strutturale di contrasto che risulti davvero efficace.
Questo vale anche per la mafia e per la ’ndrangheta: «Negare che le mafie siano una componente organica della società significa negare l’evidenza ma è necessario anche prevedere tutta una serie di interventi per favorire sul piano economico e sociale il recupero di questi territori. Come intervento giudiziario di più non si può fare, anzi dobbiamo fare attenzione a non indebolirlo come, inconsapevolmente e in perfetta buona fede, si sta invece rischiando di fare in questi giorni con alcune modifiche al Codice penale».
Napoli, i quarant’anni dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici: la rivincita dei Sanfedisti
di Mariano Casciano (il Fatto, 29 maggio 2015)
Confusi nella festa al Teatro Mercadante di Napoli c’erano anche loro, i giovani di Palomonte, provincia di Salerno. Sono nati nelle terre che accolsero come un salvatore il Cardinale Ruffo, contribuendo a precipitare il sogno della Repubblica Napoletana del 1799 nelle illusioni perdute della storia.
A festeggiare i quaranta anni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Marotta hanno scelto di non mancare. L’avvocato, ha da poco lanciato proprio da Palomonte la prima “Agorà” dei Giovani, un centro di cultura con il marchio e lo spirito del prestigioso Istituto. Una reazione alle difficoltà ed al declino, forse. Sta di fatto che è scoccata una scintilla e da Napoli è arrivata una carica di libri ed entusiasmo alla quale i giovani del piccolo comune hanno saputo rispondere.
E’ nata così, in provincia, una longa manus dell’Istituto, piccola e agguerrita. Senza soldi e senza clamore, accanto ai loro professori, scolaresche, universitari, contadini e perfino politici di varia provenienza hanno discusso di temi umanistici e storici, riflettuto sull’ordinamento dell’Europa e, da ultimo, di biblioteche, come avverrà sabato prossimo. Perché dove c’è Marotta ci sono libri, ma anche spirito ribelle e la cultura non canonica, non accademica.
Chi ha visto il Grande Vecchio della cultura napoletana curvo sotto le amarezze di questi anni non ne potrebbe immaginare l’entusiasmo l’energia e l’allegria profuse in questa piccola impresa: costruire un accampamento a centocinquanta chilometri dal quartier generale di Monte di Dio.
E’ un aspetto poco noto, forse, ma c’é una parte della vita di Marotta che ha riguardato la cura e l’attenzione alla formazione culturale delle periferie: con le scuole estive, con innumerevoli iniziative in luoghi evocativi. Uno per tutti, Vatolla, il borgo cilentano di Giambattista Vico.
Naturalmente c’è una biblioteca, a Palomonte, subito arricchita da una piccola ma preziosissima donazione dell’avvocato, che è arrivato l’estate scorsa con i volumi di Mario Pagano sottobraccio, e pazienza se per spiegare le idee e le gesta dei suoi eroi si è dovuto più volte piegare ai momenti conviviali e gastronomici, cui sono adusi da quelle parti, violando le proprie spartane, leggendarie abitudini alimentari.
Accanto a Marotta la piccola corte delle eterne collaboratici, e di un sostenitore di eccezione, l’ispanista Gerardo Grossi,- che dall’Istituto Universitario Orientale - dove insegna, ha sempre tenuta in vita la fiaccola della cultura nel proprio paese.
Marotta tornerà sabato 30 maggio tra quei giovani che resistono come in trincea nelle periferie contro la voglia di scappare: anche se non leggeranno mai Hegel in tedesco e non diventeranno grandi filosofi, o giuristi, cresceranno. “Magari un Mario Pagano, uno sì, uno per classe, per istituto, per generazione, magari uno solo, che porti la fiaccola”, ha detto una volta Marotta.
Il Grande Vecchio non coltiva solo filosofi da queste parti; si impegna ancora a formare cittadini, “patrioti”, come usa dire, critici e responsabili. Magari la sua grandezza consiste pure in questa incessante semina. Qualcuno la veda, magari.
Il comunismo sotto la lente di Venturi
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 10.02.2015)
Ora che il marxismo pare sepolto da ben più di tre giorni e si è quasi indotti a chiedersi «Marx, chi?», non è facile immaginare quel che Karl Marx e il marxismo significarono per un secolo e mezzo in ogni parte del mondo, soggiacendo poi all’alternanza del «servo encomio» (prima) e del «codardo oltraggio» (dopo) nelle grandi svolte storiche.
Lo ricorda con efficacia la pubblicazione di due inediti di Franco Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea (Centro studi di storia dell’Università di Torino, pp. 176, e 14, disponibile presso il dipartimento di studi storici dell’ateneo, tel. 011.6703126). Il primo fu scritto, si ipotizza nell’introduzione, prima della firma nell’agosto 1939 del patto nazi-sovietico per la spartizione della Polonia, che poté indurre Venturi a desistere dall’idea di scrivere una storia dell’idea comunista «nella sua unità» originaria, comprensiva anche di socialismo e anarchismo.
L’inedito ne era la prima parte, dedicata al «comunismo illuminista», seguito attraverso alcuni nuclei problematici fondamentali (l’utopismo, il rapporto ragione-natura, la questione del progresso) e, in specie, Diderot, Morelly, Rousseau. Il secondo inedito, del 1941-’42, è dedicato al socialismo «romantico» (Saint-Simon), ma giunge subito a Marx e al socialismo «moderno» (dopo Marx) e ad alcune riflessioni sulla natura e il destino del comunismo.
Non erano scritti di occasione. Come emerge anche dalla solida biografia di Adriano Viarengo (Franco Venturi. Politica e storia del Novecento, Carocci, pagine 334, e 30), il problema del comunismo assillò Venturi fin dalla più giovane età.
Egli aveva aderito, e restò sempre fedele, a Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli con l’idea di un «socialismo liberale», alternativo al comunismo marxista. Venturi ne ribadì le idee in un opuscolo del 1943, Il socialismo di oggi e di domani (ora incluso nei suoi scritti politici, pubblicati nel 1996 dall’editore Einaudi, a cura di Leonardo Casalino, con il titolo La lotta per la libertà ); e il confronto con Marx e col «socialismo reale» che a lui si rifaceva rimase poi sempre al centro del suo spirito, e non per suggestione di partito o di scuola.
Nella scia di Rosselli, egli aveva ben capito che quella comunista era la grande sfida del secolo. Una sfida che non si prestava a dubbi sul punto della «libertà», alla quale il «socialismo reale» si era negato, ma che imponeva anche ai più liberali il problema della «giustizia», insegna di quel socialismo, che Rosselli aveva sentito ineludibile nella moderna società industriale.
Si capisce da ciò quale sia stato il giudizio di Venturi su Marx e sul comunismo sovietico. Un giudizio formato nel fuoco delle passioni politiche di quel tempo, che fecero di Marx e del comunismo l’oggetto di confronti ideali e materiali di una intensità poche volte raggiunta in altre epoche, ma commisurata a tutto ciò che in quei confronti era in gioco.
Pur attraverso la passione politica, la non comune intelligenza storica di Venturi emerge, tuttavia, nei due inediti, che la confermano, poiché si legano alle prime prove del grande storico che egli sempre più divenne. Ma, come dicono i curatori del volume (Manuela Albertone, Daniela Stella, Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi), essi attestano pure gli «stimoli che Franco Venturi è ancora in grado di offrire».
Alcuni punti da lui qui affermati, come le radici illuministiche del comunismo, il suo fondamento religioso, la sua soluzione economicistica del problema della giustizia, sono idee o spunti di idee non banali, né del tutto scontati. Anch’essi rinverdiscono, perciò, il ricordo di uno studioso di straordinario rigore e originalità, che fu pure un appassionato testimone del suo tempo e un fedele dell’idea di libertà come condizione anche di quella di giustizia.
Franco Venturi (1914-1994)
Nel nome della democrazia
Militante antifascista e studioso del Settecento e del socialismo premarxista russo: la parabola umana e scientifica dello storico ricostruita da Adriano Viarengo attraverso carte d’archivio
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 01.02.2015)
Settecento riformatore è il titolo della più celebre opera di Franco Venturi, pubblicata tra il 1969 e il 1990, in 5 volumi e 7 tomi, per un totale di oltre 4mila pagine: opera peraltro rimasta incompiuta a causa della morte del grande storico romano di nascita e torinese d’elezione, scomparso ottantenne nel 1994. In essa era confluito il lungo, intenso, appassionato studio dell’età dei Lumi che lo aveva portato a diventare «uno dei più grandi storici del suo secolo», come ebbe a scrivere Bronislaw Baczko.
Uno studio che era cominciato sin dagli anni universitari a Parigi con gli importanti libri su La jeunesse de Diderot (de 1713 à 1753) (1939) e Dalmazzo Francesco Vasco (1732-1794) (1940), quest’ultimo nato come tesi di laurea, che poté tuttavia essere discussa alla Sorbona solo nel ’46, a guerra finita.
Figlio e nipote di due grandi storici dell’arte quali Lionello e Adolfo Venturi, infatti, all’inizio del ’32 - dopo aver sperimentato per qualche giorno le carceri fasciste - il giovane Franco aveva dovuto seguire nell’esilio francese suo padre, privato della cattedra torinese per il rifiuto di giurare fedeltà al regime mussoliniano. Qui si era subito legato a Giustizia e Libertà, ai fratelli Rosselli, a Gaetano Salvemini, e aveva rinsaldato una duratura amicizia con Aldo Garosci, che si sarebbe via via allargata ad altri esponenti della lotta antifascista, fino all’occupazione nazista della Francia nel 1940.
Il fallimento del tentativo di passare in Spagna per poi raggiungere la famiglia negli Stati Uniti portò l’ancor giovanissimo studioso in una terribile galera franchista (ricordo di averlo sentito evocare la straordinaria astuzia dei pidocchi spagnoli, capaci di superare ogni difesa degli sventurati prigionieri).
Consegnato alla polizia italiana, riuscì a evitare il tribunale speciale, ma fu mandato al confino in Lucania per oltre due anni, fino al crollo del Fascismo, quando non tardò ad assumere un ruolo politico di primissimo piano dapprima a Roma e poi in Piemonte nella lotta di liberazione, a fianco di personaggi che sarebbero stati i suoi amici più cari, come Giorgio Agosti, Sandro Galante Garrone, Vittorio Foa.
Subito diventato con Leo Valiani la testa pensante dell’azione giellista e poi del Partito d’azione, fu un protagonista della Resistenza in Piemonte con il nome partigiano di Nada (in ricordo della desolazione carceraria spagnola), un instancabile organizzatore della stampa clandestina, un inesauribile animatore e ideologo del movimento e del suo impegno per una rivoluzione democratica.
Fu dunque nel cuore di una stagione drammatica, quella del dilagare del nazifascismo e poi degli orrori della guerra, che Franco Venturi sviluppò le sue prime ricerche, nutrite di fameliche letture anche nelle condizioni di vita più difficili, al punto di essere criticato come uno che talvolta «pensava solo a studiare e dimenticava che allora c’era da fare una rivoluzione».
In realtà furono anni di cortocircuito permanente tra azione antifascista e riflessione storica, tra studio del passato e progettualità politica, sempre all’insegna di una cultura militante, che lo portò sin dal primo momento a concentrare le sue ricerche sul Settecento, sulle origini delle moderne idee di democrazia, libertà e socialismo per le quali combatteva e che proprio in quei decenni sembravano conoscere un’irrimediabile frattura.
Un Settecento europeo, cosmopolita, esteso dalle Americhe alla Russia, animato da contraddittorie ma feconde tensioni utopistiche e riformatrici (Utopia e riforma nell’Illuminismo sarà il titolo di un suo densissimo libro, frutto dalle Trevelyan lectures di Cambridge nel 1969), sfociato infine nella crisi rivoluzionaria dell’Antico Regime.
Alquanto controvoglia nel 1950 Venturi sarebbe infine salito su una cattedra universitaria (a Cagliari, a Genova e infine dal ’57 a Torino), dopo essere stato per oltre due anni, tra il ’47 e il ’49 a Mosca, voluto da Manlio Brosio come addetto culturale dell’ambasciata, dove non tardò a sperimentare la difficoltà di allacciare autentici rapporti culturali con l’intelligencji a sovietica nel cupo tramonto dello stalinismo. Ma qui poté dedicarsi allo studio del socialismo premarxista in Russia, dai decabristi ai populisti, che la vittoria del bolscevismo aveva di fatto cancellato dalla memoria storica della rivoluzione. Ne sarebbe scaturito il grande libro sul Populismo russo, edito nel ’52, che avrebbe assicurato all’autore una fama internazionale e lo avrebbe portato a tenere corsi e lezioni nelle maggiori sedi universitarie del mondo e a inaugurare un nuovo cantiere di lavoro in cui l’indagine storica si intrecciava con la difesa della libertà anche attraverso una fitta rete di relazioni personali. Alcuni dei suoi numerosi saggi sulla storia presovietica sarebbero stati raccolti nel 1982 in un volume dal significativo titolo di Studies in free Russia.
Il delicato passaggio dalla lotta antifascista all’Italia democristiana, l’Italia dei «preti», come usava dire, e il rapido esaurimento politico del Partito d’azione consentirono dunque a Venturi di tornare alla storia, di dedicare tutto il suo tempo agli studi, affiancati peraltro dall’intensa collaborazione con la casa editrice Einaudi (interrotta a causa della sua risentita presa di distanze dalla “contestazione” sessantottina) e dalla direzione della «Rivista storica italiana», trasmessagli da Federico Chabod nel 1959. Studi ancora di ambito francese in un primo tempo - Le origini dell’Encyclopédie (1946), L’antichità svelata e l’idea di progresso in Nicolas-Antoine Boulanger (1947), Jean Jaurés e altri storici della Rivoluzione francese (1948) - ma poi concentratisi sul Settecento italiano, a cominciare dalla monografia su Alberto Radicati di Passerano (1954) e dalla ricchissima edizione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1965), fino al tenace lavoro di scavo confluito nei volumi dedicati agli illuministi della Letteratura italiana edita da Ricciardi. Ne sarebbe infine scaturita la grande sintesi ricordata in apertura, tutta fondata sul ruolo degli intellettuali e del loro impegno politico, della loro continua mediazione tra progetto e realtà, tra idee e azione.
Una vita coraggiosa, intensa, feconda, quella di Franco Venturi, e un lascito storiografico di cui permane viva la vitalità, la passione politica, la vigorosa energia - usando una parola a lui cara - con cui fu progettato e realizzato un programma di ricerche di straordinario spessore. Le solide e nitide pagine di Adriano Viarengo, per la prima volta basate sulle carte conservate nel ricchissimo archivio privato, ricostruiscono con chiarezza origini, contesti e sviluppi del percorso biografico e intellettuale di un protagonista della cultura italiana del secolo scorso.
Per parte mia, molto sommessamente, considero un privilegio esserne stato allievo e aver potuto fruire da vicino di quell’affascinante intreccio di intelligenza, sapere, esperienza politica, robustezza di carattere, rigore morale che contrassegnavano il lucido e partecipe sguardo sul presente e sul passato di un uomo che anche nel settembre del 1940, intrappolato nella Francia invasa dai nazisti, non esitava a dirsi «plein d’espoir et de certitude».
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. IN MEMORIA DI CARLO LEVI, DI ROCCO SCOTELLARO, E GIUSEPPE DI VITTORIO ...
Gli illuminati
Chi governa il mondo? “Una setta globale dove convivono Rihanna e Le Pen. Loro ci manipolano con messaggi subliminali su YouTube”
Un complotto internazionale l’ultima ossessione nei licei francesi
di Elisa Mignot (La Repubblica/R2, 23.04.2014)
PARIGI. ARRIVANO con il contagocce alla riunione del seminario di lettura dei giornali. In questo liceo situato nella parte orientale del dipartimento Seine-Saint-Denis, banlieue parigina, sono una quindicina, soprattutto ragazze, gli studenti che seguono questo laboratorio. Quando chiedo se hanno sentito parlare degli Illuminati, l’ultima moda dei licei francesi, rispondono in coro: «Certo!». E attaccano: «Io ho sentito che era una specie di setta composta per lo più da personaggi importanti che hanno firmato un patto con il diavolo. Sembra che ci manipolino». Un altro liceale aggiunge: «Sì, vogliono dirigere il mondo».
Dove ne hanno sentito parlare? «Su Internet! ». Ci credono? «Io no», «Io neanche. Ma c’è lei che è super esperta». «Sì, io ci credo davvero », ammette una studentessa dell’ultimo anno. «Ho visto dei video su YouTube. Ci sono dei segni sui dollari americani, sugli imballaggi del Kit-Kat, e poi ci sono gli attentati dell’11 settembre».
Si inserisce un ragazzo: «E ne parlano anche in film come Paranormal Activity 4 ». «Ci manipolano attraverso le canzoni, i film, con messaggi subliminali», ipotizza un’altra studentessa. «Io ho smesso di guardare i videoclip dove ci sono i simboli degli Illuminati, come l’occhio, il triangolo...». E chi è che farebbe parte degli Illuminati? «Obama»; «Anche Sarkozy»; «E Jay Z, Rihanna, Beyoncé, Lady Gaga, Kanye West...»; «Anche Le Pen». «Rihanna e Le Pen!», esclama la loro professoressa, Stéphanie P. «Vorrei vederli quando si incontrano!».
La campanella suona per la seconda volta. I liceali restano ancora un momento intorno alla tavola rotonda, piuttosto intrigati dal fatto che l’argomento sia stato evocato ufficialmente. Di solito la loro professoressa di storia e geografia cerca di limitare le discussioni al riguardo. Da un po’ di tempo le sue lezioni sono regolarmente interrotte dall’immancabile «Ma signora, è colpa degli Illuminati!». Che si tratti degli attentati dell’11 settembre 2001 o della carenza di infrastrutture in Mauritania, della schiavitù o della povertà nel mondo, il nome di questa presunta setta viene brandito come spiegazione suprema.
In origine gli Illuminati, detti anche «Illuminati di Baviera», erano una società filosofica nata nel 1776 in Germania, che si richiamava alle idee dell’Illuminismo e predicava un governo mondiale guidato da élite intellettuali mosse da ideali umanistici. La società fu messa al bando nel 1784, ma il suo spettro è perdurato in una letteratura più o meno segreta. Gli Illuminati si sono immischiati nel XXI secolo grazie a libri di fantascienza come i bestseller di Dan Brown, giochi di società, videogame e blog a mai finire. Presso una frangia della gioventù francese hanno trovato un terreno propizio al loro sviluppo.
Impossibile quantificare il fenomeno, dato che a tutt’oggi nessuno ha condotto studi di alcun genere al riguardo. Ma sono tanti i professori che non battono ciglio quando chiedi se i loro allievi menzionano questi illuminati. La Missione interministeriale di vigilanza e lotta contro le derive settarie dice di essere «attenta e preoccupata». È stata interpellata da genitori inquieti, ma non può avviare un’inchiesta perché non ci sono né santoni né pratiche né luoghi di culto.
«I miei studenti mi hanno tacciato più volte di far parte degli Illuminati! L’ultima volta perché avevo una collana con un triangolo, che sarebbe un simbolo della setta. È grottesco », racconta Bénédicte G., professoressa di francese e di storia e geografia in un istituto professionale di Nanterre. Come la moda del satanismo o dello spiritismo negli anni 90 e negli anni 2000, questo «illuminatismo» risponde a un desiderio di cercare spiegazioni esoteriche a un’età in cui è naturale mettere in discussione il mondo nel quale si cresce.
«Ma è la loro convinzione che mi spaventa», prosegue Bénédicte G. Come lei, anche altri insegnanti osservano che il pubblico più permeabile a queste tesi complottiste spesso è rappresentato da giovani provenienti da ambienti disagiati. È nelle zone a istruzione prioritaria e nelle scuole professionali che i professori sembrano più preoccupati. «Con gli Illuminati », dice Bénédicte G, «ognuno difende la sua sofferenza. Per alcuni sono responsabili della schiavitù, per altri del conflitto israelo-palestinese. È come una rivincita su questa società che vedono come ingiusta».
Pierre-André Taguieff, che ha scritto La Foire aux illuminés (Mille et une nuits, 2005), insiste sul lato plastico e pratico di questa teoria. «La narrazione degli Illuminati ci dà l’impressione di conoscere la causa delle nostre sventure», sottolinea. «Per dei giovani che si sentono vittime, questa grande narrazione esplicativa onnipotente esercita una grande attrattiva: hanno trovato i loro colpevoli. Gli Illuminati inglobano i capitalisti, i massoni, gli ebrei, i monarchi, le cerchie di uomini politici, le società pseudosegrete, la finanza internazionale, i banchieri e così via».
Ecco l’aspetto forse più inquietante: la parola «Illuminati» è spesso seguita da affermazioni antisemite e negazioniste. «Questi giovani si fanno la loro cultura storica sul Web e si imbattono in video che gli spiegano il mondo in venti minuti con tanto di buoni e di cattivi», osserva Rudy Reichstadt, direttore del sito Conspiracy Watch, un osservatorio sulle teorie del complotto. «L’effetto può essere molto gratificante per giovani che vanno male a scuola, in questo modo acquisiscono un discorso politico proprio».
Secondo Reichstadt, c’è un grosso lavoro da portare avanti sull’apprendimento (in particolare della storia) e anche sullo status delle informazioni che si raccolgono sulla Rete. «Abbiamo a che fare con una generazione che a volte fatica a distinguere le fonti affidabili dalle altre. Per esempio tendono a prendere per oro colato tutto quello che leggono su Wikipedia, qualunque sia l’argomento!», dice desolato.
Stéphane François, frequentemente citato su Conspiracy Watch, studia le destre radicali. Per lui il fenomeno, anche se sembra essere appannaggio di una gioventù depoliticizzata, non è scollegato da una sfera politicamente ben precisa. «Questi discorsi sono molto influenzati da personaggi come Dieudonné e Alain Soral», osserva il politologo. «I miei studenti non hanno letto Soral, ma lo hanno visto su internet!». Questo ideologo di estrema destra, molto vicino al comico condannato per antisemitismo, sostiene che il mondo è dominato da un’oligarchia finanziario- americano-israeliana che chiama «l’impero». Gli Illuminati sono una versione semplificata, più abbordabile per i giovani? «Soral non parla propriamente degli Illuminati, ma come altri imprenditori del complotto, riprende i codici di questa controcultura », osserva Rudy Reichstadt. «Oggi il cospirazionismo non è solo un’ideologia, è anche un business».
(Le Monde/la Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)
D’Alfonso, il giudice e la lista dei “Templari”
Un candidato Pd in Abruzzo sugli elenchi di una Loggia
di Antonio Massari (il Fatto, 23.04.2014)
Non ho mai conosciuto Luciano D’Alfonso. Non ho mai aderito a nessuna associazione. Neanche alla bocciofila. È una bufala da campagna elettorale e sono pronto a querelare chiunque sostenga il contrario”. Il giudice Italo Radoccia, rintracciato da Il Fatto, nega categoricamente di aver mai aderito alla Suprema Militia Equitum Templi.
A VERIFICARE se dice il vero, oppure no, ci sta pensando la polizia giudiziaria che ha acquisito alcuni atti d’un vecchio procedimento della Procura di Pescara. Un’inchiesta del 2008 avviata dal pm pescarese Gennaro Varone che, durante alcune perquisizioni, trovò un “elenco di nominativi” della congregazione. La polizia postale segnalò d’aver trovato “16 nominativi, tra cui quello di Guido Dezio indicato come politico e Luciano D’Alfonso, scritto a penna e fuori elenco”. In un secondo documento si ritrovarono invece 23 nominativi tra i quali “al numero 18 Luciano D’Alfonso”.
Il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare che il numero 6 dell’elenco è occupato dal nominativo di tale “Angelo Radoccia - magistrato”. Il punto è che l’unico Radoccia magistrato in Abruzzo si chiama Italo e, soprattutto, è il giudice che pochi mesi fa ha assolto Luciano D’Alfonso dall’accusa di corruzione nel processo Ecosfera. Un’assoluzione che ha consentito a D’Alfonso di candidarsi con il Pd per la poltrona di presidente della Regione Abruzzo.
Sulla vicenda è stata anche presentata un’interrogazione parlamentare firmata dal M5S e presentata dal deputato Andrea Colletti. “In uno degli elenchi - scrive Colletti si trovano nominativi di imprenditori, politici, militari, giudici e professionisti, fra cui l’ex sindaco di Pescara, Luciano D’Alfonso, il suo braccio destro, Guido Dezio” e chiede ai ministri dell’Interno e della Giustizia, se siano a conoscenza “di tale associazione e le sue attività, in particolare al fine di sapere se tali azioni siano o possano essere confliggenti con la pubblica sicurezza e con il buon andamento della pubblica amministrazione”.
Il dettaglio in più, che Il Fatto è in grado di rivelare, è la presenza, nell’elenco in questione, della dicitura “Angelo Radoccia - magistrato”. Il nome non corrisponde a quello del giudice che ha assolto D’Alfonso e, come abbiamo già scritto, Radoccia nega categoricamente. Il punto è che la vicenda è oggetto di un approfondimento giudiziario e, se il giudice in questione fosse davvero Italo Radoccia, e se fosse davvero iscritto alla Suprema Militia Equitum Templi, sull’assoluzione di D’Alfonso, menzionato nello stesso elenco, s’addenserebbero parecchi dubbi.
Il Fatto ha provato inutilmente a rintracciare D’Alfonso: intendevamo chiedergli se ha mai aderito alla congregazione di templari e se conosceva Radoccia prima del giudizio. Nessuna risposta né al telefono ai nostri sms. La polizia giudiziaria ha acquisito nei giorni scorsi gli elenchi dei presunti adepti alla Suprema Militia Equitum Templi per verificare se si tratti di millanterie o di fatti certi.
Fu nel febbraio 2008 che due agenti della polizia postale, perquisendo la sede della società Aquila srl, notarono su un mobile, nell’ufficio dell’imprenditore Tommaso Di Nardo, un intero faldone con la documentazione sulla “Suprema Militia Equitum Templi - Gran Priorato di Toscana”. In un’agenda, invece, fu trovata una lettera in cui Di Nardo veniva nominato “commandeur” per la regione Abruzzo. E sempre nell’agenda gli agenti rinvennero i fogli con l’elenco di “16 nominativi di politici, imprenditori, militari e professionisti”.
La Suprema Militia Equitum Templi non si definisce una loggia massonica, ma una Onlus, che si ispira agli antichi templari. Le cerimonie prevedono abito nero, camicia bianca e papillon per i “fratelli” e “abito scuro, Rosa e Mantiglia” per le dame. Il Guido Dezio nominato insieme ad Angelo Radoccia e D’Alfonso, invece, è il braccio destro di quest’ultimo, soprattutto per la battaglia elettorale in corso.
L’INDAGINE sulla veridicità dell’elenco, affidata in questi giorni alla polizia giudiziaria, è tanto più necessaria per dissipare qualsiasi tipo di dubbio sia sulla posizione di Radoccia, sia su quella, tutta politica, di D’Alfonso che, in queste settimane, sembra sempre più lanciato verso la poltrona di presidente.
Se le verifiche porteranno a confermare l’adesione di Radoccia e D’Alfonso alla Suprema Militia Equitum Templi, il passo successivo sarà il trasferimento del fascicolo alla Procura di Campobasso, competente per i magistrati abruzzesi, o una segnalazione alla commissione disciplinare del Csm.
Un libro inedito di Gershom Scholem rievoca il kabbalista giacobino Moses Dobrushka, che incarnò i legami tra occultismo e Rivoluzione
Quella passione esoterica nel cuore dell’Illuminismo
di Roberto Esposito (la Repubblica, 19.09.2014)
IL 5 aprile 1794, Sigmund Gottlob Junius Frey è ghigliottinato, insieme a Danton e ad altri, nella piazza della Rivoluzione per cospirazione contro la Repubblica, pur proclamandosi innocente e strenuo difensore della libertà - come il nome di Junius, datosi in onore dell’eroe romano Junius Brutus, lascia immaginare. Tale nome era in realtà il terzo che egli aveva assunto dopo quello, originario, di Moses (Levi) Dobrushka e l’altro, successivo, di Franz Thomas von Schönfeld. Ciascuno di essi aveva ricoperto, come una maschera cangiante, il suo volto sfuggente.
Nelle fasi diverse della sua vita avventurosa - di ebreo convertito, seguace di un ordine massonico di orientamento kabbalistico, di letterato fedele suddito dell’imperatore austriaco e, infine, di fervente giacobino, autore di una Filosofia sociale dedicata al popolo francese.
Nipote acquisito del profeta eretico Jacob Frank al punto di apparirne il successore, legato all’alta borghesia austriaca di cui condivideva gli interessi finanziari, austero esperto di dottrine teosofiche, ma non alieno dai piaceri della carne, illuminista e mistico, chi era in realtà quest’uomo nato in Moravia nel 1753 e morto, quarantenne, sul patibolo?
Una risposta, tutt’altro che conclusiva, a questa serie di domande è fornita dal grande ebraista Gershom Scholem, nell’edizione italiana del saggio inedito Le tre vite di Moses Dobrushka , edito da Adelpi con una dotta e brillante postfazione di Saverio Campanini.
Si tratta della stesura ampliata di una conferenza pronunciata a Parigi nel 1979 su invito dello storico della Rivoluzione François Furet, che conclude, sia pure in forma aperta e problematica, una ricerca complementare ai fondamentali studi sulle sette ebraiche avviati da Scholem alcuni decenni prima. E si situa al punto di tensione tra esoterismo e illuminismo cui, attraverso un percorso accidentato e ricco di pieghe, perviene il movimento, insieme mistico e nichilista, fondato da Shabbatay Zevi nel Seicento e proseguito, nel secolo seguente, dal successore Jacob Franck.
Moses Dobruschka, figlio della cugina di Jacob, ebbe la classica educazione rabbinica, ma insieme fu iniziato alla fede sabbatiana. Intrapresa la carriera letteraria con il nome di Franz Thomas von Schönfeld, si convertì esteriormente al cristianesimo, come altri adepti, rimanendo però fedele al proprio credo segreto.
Stabilitosi a Vienna, fu introdotto nei circoli illuminati lealisti verso Giuseppe II, entrando in contatto con scrittori come Klopstock, Gleim, Ramler e Voss. Fu allora che aderì alla società massonica dei Fratelli Asiatici, di tendenza esoterica ed occultista, in una sorta di singolare miscela di razionalismo e misticismo, espressa dal doppio triangolo della Stella di David e del Candelabro a sette braccia.
Spostatosi in Francia con il nome di Junius Frey, senza rinunciare alla radice kabbalistica, secolarizzò la propria prospettiva in senso politico, accostandosi agli ambienti rivoluzionari giacobini. Tuttavia la sua personalità controversa destò presto sospetti, tanto da essere accusato di spionaggio a favore degli austriaci con l’intenzione di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina, sotto la cui lama finì egli stesso insieme ai fratelli e al cognato, il deputato Chabot.
I pareri sulla sua effettiva posizione - di patriota repubblicano o di traditore della Francia - divergono. Scholem, influenzato anche dall’accorata protesta di innocenza lasciata al figlio insieme allo scritto sulla Filosofia sociale, propende per la prima tesi, ritenendo possibile la commistione tra l’anima sabbatiana e quella rivoluzionaria, Nel saggio, incluso nella presente edizione, sulla Metamorfosi del messianismo eretico sabbatiano in nichilismo religioso l’autore individua il punto di possibile convergenza in un messianismo fin dall’inizio orientato in direzione rivoluzionaria e anche anarchica.
Al centro della dottrina di Frank vi è la tesi, di matrice gnostica, secondo cui il mondo in cui viviamo non è stato creato da Dio, ma da un suo alter ego demoniaco alle cui leggi occorre sfuggire, infrangendole anche attraverso atteggiamenti apparentemente peccaminosi. Da qui la tesi, più tardi fatta propria da Bakunin, che «la distruzione è una forza creativa». Ciò spiega la compresenza di mistica e sovversione sul piano pubblico e di fede e vita dissoluta su quello privato. «I soldati della fede - sostiene Frank, sempre affascinato da immagini guerriere - non possono scegliere per quale via penetrare nella fortezza. Se necessario devono esser pronti a percorrere le fognature più immonde».
Nella sua sapiente postfazione Campanini, ricostruendo la storia del testo e anche l’ambiente in cui fu elaborato da Scholem, avanza qualche riserva sulla sua interpretazione innocentista - per un trasformista di mestiere del calibro di Moses farsi credere innocente per il prestigio proprio e degli eredi era tutt’altro che impossibile. Ciò non revoca in causa il procedimento dialettico di Scholem, teorizzato già nel 1937 nello scritto La redenzione attraverso il peccato (edito, sempre da Adelphi, nel suo libro L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica).
Tale dialettica passa per il concetto antinomico di “pia colpa” o di “casta meretrix”, termine rivolto al “messia femmina” Eva Frank, ma anche alla Chiesa nel suo complesso: la disattivazione della legge è l’unico modo di operare senza cedere al male prima della venuta del Messia. Un’idea non lontana dalla prospettiva paradossale di Kafka e dal pensiero di Benjamin, incrociati da Scholem anche attraverso la frequentazione di Max Brod. Ma non estranea neanche alla dialettica negativa di Adorno, che infatti teorizza la compresenza di illuminismo e mito.
Tale conclusione, assunta da Scholem come chiave esplicativa della concezione sabbatiana, fu contrastata, per esempio da Jacob Taubes, come una punta avvelenata nel cuore dell’ebraismo. Se qualcuno è arrivato ad avvicinare la dottrina di Frank all’hitlerismo, Lukács ha visto nel suo nichilismo il nucleo segreto del comunismo. Ma ciò che, poco prima della morte, Scholem cercava nelle infinite metamorfosi di Moses Dobrushka era probabilmente qualcosa di più che la verità su una figura controversa. Era uno specchio deformante in cui rinvenire il tratto più estremo della propria inquietudine.