"Nella democrazia - scrive Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) - comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto.
L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).
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“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico” (don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, 1965)
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Per approfondimenti, nel sito, documenti e materiali sul tema:
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE": RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE.
FLS
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024), #STORIA, E #TEOLOGIA:
"N. S. MONTE #CARMELO", "MADONNA DEL #CARMINE, #16LUGLIO. Un filo di memoria e di tradizione culturale europea e mediterranea, carico di teoria, che tocca nel profondo la #questione antropologica dell’attuale #presentestorico , e richiama l’eccezionale intervento "critico" e "cristico" di #TeresadAvila (1515-1582) e, al contempo, dell’opera del filosofo e teologo Jakob #Boehme (Jacob #Böhme, 1575-1624).
I CARMELITANI SCALZI NEL REGNO DI NAPOLI (VICEREAME SPAGNOLO) E L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’#ECUMENISMO RINASCIMENTALE. Nel mio paese d’origine (#ContursiTerme, #Salerno), nella "vecchia" Chiesa della #MadonnadelCarmine, dedicata con i #CarmelitaniScalzi alla B.V. del Monte Carmelo (nel 1613), con una pala d’altare del 1608 (v. allegato), sono riemerse dopo il #terremoto del 1980 e il restauro completato nel 1989), le figure di 12 #Sibille (un richiamo forte ed esplicito alla lezione umanistico-rinascimentale, e a #Michelangelo #Buonarroti e alla sua "Sacra Famiglia" - il #TondoDoni).
NOTE:
UNA #STORIA DI #LUNGADURATA E, FORSE, DI UN PROSSIMO "ARROSSIMENTO GENERALE" : IL "#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610), L’#ITALIA E IL SUO GRANDE #PROVINCIALISMO NELLO STORICO PRESENTE DEL "#VILLAGGIO #GLOBALE" (2024).
CULTURA E SOCIETÀ, #OGGI: "SÀPERE AUDE!" (Koenigsberg, 1784; Kaliningrad, 2024).
ANTROPOLOGIA, #STORIOGRAFIA, E #CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO (#KANT2024). CONSIDERANDO che il "villaggio globale" dell’attuale storico presente (#Nicea 325-2025) è molto prossimo (epocalitticamente) alla "#pace #perpetua" (#Kant2024), è sperabile che in giro emergano molte tracce di rimorso dell’incoscienza passata (e presente) e che "lo spirito critico" sia in Italia sia in Europa riprenda il suo cammino.
Nota:
PENELOPE- IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
#RITORNO AL FUTURO, 4:
AL DI LA’ DELLA LUNGA DURATA DEL FEUDALESIMO TEOLOGICO-POLITICO (PLATONICO-PAOLINO) DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE.
CITTADINANZA E #SOVRANITA’ NELLA #CITTA’ DEL #SOLE, COME SI DICE "NOI" NELLA #NAPOLI DI IERI, DI OGGI, E DI DOMANI. UNA INDICAZIONE "MESSIANICA" DI GAETANO #FILANGIERI:
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA D’EUROPA. Alla "fine" della sua "storia" la "coscienza europea", imperterrita continua a mantenere in piedi la sua idea di regalità teo-androcentrica; e, a 800 anni dal #presepe di Greccio (1223), a 700 anni e più dalla lezione "cosmicomica" di teologia e antropologia di #DanteAlighieri sulla "Monarchia" dei #DueSoli, OLTRE CHE dalla sollecitazione della Riforma Protestante (1517), dalla Riforma Anglicana (1534), e dalla presenza del #corpomistico sul trono di Inghilterra di #Elisabetta I («Sono solo un corpo, dal punto di vista naturale, ma, con il permesso di Dio, un Corpo politico fatto per governare»), che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" di Kantorowicz sia intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" non sollecita alcuno a interrogarsi ancora e di nuovo sulla "Divina #Commedia" e sulla quarta #domanda, quella da cui tutto dipende, quella antropologica, posta da #Kant, nella sua "Logica", all’inizio del 1800. Che dire? Avanti tutta, titanic-amente.
CRITICA DELLA "RELIGIONE ASSOLUTA" E "SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). La #question #Hamlet-ica è all’ordine del giorno: avendo interpretato il #Logos come un #logo, ancora dopo #Auschwitz, è chiaro che non si sa più nulla né di #filologia né di #antropologia e nemmeno di #teologia, e, si continua a ritenere che "Dio amore" (#charitas) sia identico a "Dio #mammona" (#caritas), e che l’essere sia uguale al "non essere". Se è così, e la storia fin qui percorsa lo evidenzia (una #caduta extraterrestre, poco terrestre), come può essere possibile uscire dall’#inferno cosmoteandrico, se non ricordandosi della propria personale #sovranità e diventare un #essereumano, un "cristiano" adulto ("Ecce Homo")!? #DanteAlighieri, con #Filangieri, #Kant, #Kantorowicz, non ha lavorato inutilmente e ha dato fondamentali indicazioni per riprendere la diritta via.... #Sàpere aude!, così si dice ancora oggi nella #Napoli di Filangieri, per invitare a fare uso della propria #facoltà di #giudizio: assaggia!
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna".
Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado».
Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
La democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio.
di Guido Calogero*
«... Questo è dunque, intanto, l’atteggiamento fondamentale dello spirito democratico: ‘il tener conto degli altri’. [...] Ma come si tien conto della volontà degli altri? Anzitutto, ascoltandoli. Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie - mio inciso: proprio come succede nei talk show della politica! - la vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori. Naturalmente, perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno parli: ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per nulla si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni attenti.
La democrazia è dunque, in primo luogo, ‘colloquio’. E qui vediamo subito che gli uomini di scarso senso democratico son già coloro che tendono a sopraffare gli altri nella conversazione, che non stanno a sentire quello che gli altri dicono, che tagliano loro la parola prima che essi abbiano finito di esporre il loro pensiero. [...]
La realtà è che la democrazia vera consiste tanto nel diritto di parlare, quanto nel dovere di lasciar parlare gli altri. È un dovere tanto più delicato, in quanto molto spesso le persone più riflessive, e quindi più capaci di dir qualcosa di utile, sono anche le più riguardose e le meno disposte a compiere un atto di forza per inserirsi nell’eloquenza dell’interlocutore e strappargli la parola. Così i mediocri verbosi riescono spesso a sopraffare gl’intelligenti timidi.
Ma naturalmente questo non va inteso come una specie di giustificazione per i timidi. Chi è timido deve imparare a non esserlo, non foss’altro per abituare l’interlocutore a moderare la sua invadenza, allo stesso modo che si ha il dovere di far valere i propri diritti per non avvezzar male i prepotenti».
* Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo (dal cap. I - “L’abbiccì della democrazia”).
Il suo è un liberalsocialismo del «tu», del «lui» e mai di se stesso. Il «tu», una volta riconosciuto, deve proseguire l’opera infaticabile del primo «io». L’«io» e il «tu», quindi, non esauriscono il linguaggio etico perché c’è sempre un altro pronome non identificato che rivendica con timidezza la qualifica del sui iuris.
Sono innumerevoli i «lui» sparsi nel Pianeta. Gli sfruttati di ogni colore chiedono tutela e vogliono il «tu», ma il nostro «io» si addormenta nella contingenza e insegue la retorica delle consuetudini, per dirla con Carlo Michelstaedter. Il «tu» è facile individuarlo oggi, dato che spesso è figlio di un meccanismo opportunistico, di un vizio di mercato, di un atto oneroso. Il riconoscimento del nuovo «tu», lungi dall’alleviare il dolore sociale, è oramai dettato da un circolo perverso che ferisce la purezza e il dono del gratuito. Il Gott ist tot e l’esaltazione capitalistica dell’esistenza tradiscono la speranza progressista della scuola dell’uomo e rinviano l’appuntamento con la «terza persona». (Guido Calogero e la “terza persona” di Francesco Postorino, Micromega, 28 dicembre 2016)
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L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
Il caso Cesare Beccaria
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 ore, Domenica, 24 luglio 2016)
Cesare Beccaria ha certamente cambiato il nostro modo di pensare il diritto di punire, la stessa idea di giustizia, ponendo al centro della sua riflessione la difesa dell’uomo dall’uomo, in particolare dal cosiddetto homo necans, l’uomo che uccide per un ideale superiore. Risulta impressionante constatare il numero dei convegni che si sono svolti in Italia e all’estero in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene. Perché tanto clamore e coinvolgimento emotivo? Perché quelle pagine così ricche e appassionate si rivelano ancora moderne ed efficaci nella loro requisitoria contro la pena di morte, ma anche capaci di irritare tanti lettori nel mondo dei giuristi? Quanto conta l’estraneità di Beccaria a quel mondo, storicamente incline a concepirsi più o meno consapevolmente come corporazione, sensibile a una concezione del diritto come scienza ontologicamente autonoma, talvolta persino tempio dei sacerdotes juris e dei loro impenetrabili arcana?
Il fatto è che ancora troppi dei nostri studenti di giurisprudenza e più in generale tanti operatori di giustizia ignorano le pagine del Dei delitti e delle pene, o il più delle volte ne commentano con sufficienza le tesi, in parte a causa di una storiografia giuridica antilluminista che resta egemone nelle università italiane.
«Beccaria non è un vero giurista!» Quante volte questa frase perentoria ha concluso ogni discussione sul contenuto autentico di quel volumetto? Dopo la sua condanna all’oblio sancita dalla Restaurazione accadde che, nei primi decenni del Novecento, studiosi autorevoli come Arturo Rocco e Vincenzo Manzini ne certificassero l’estraneità alla corrente dei fautori dell’indirizzo tecnico-giuridico e della purezza scientifica del diritto positivo. Tale pregiudizio, legato a un’idea tutta formalistica di diritto, permane inossidabile.
Il vero punto dolente resta però soprattutto la poca simpatia che continua a correre tra l’illuminista milanese, considerato una sorta di padre spirituale dei cosiddetti garantisti, e il mondo dei giudici. Il contrasto, che nacque già all’indomani della pubblicazione del volume, non pare destinato ad attenuarsi. Al centro del contenzioso resta il problema interpretativo della norma. Il contenuto del celebre paragrafo IV, Interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, continua infatti a essere decontestualizzato.
L’obiettivo è sempre quello di far apparire Beccaria un ingenuo e astratto incompetente che non conosceva il difficile mestiere del giudice, cui da sempre è connaturata una qualche forma di interpretatio. E invece quel capitolo va letto per intero, storicizzato senza anacronismi e semplificazioni, in quanto esso disegna un modello limite, un orizzonte di riferimento, e soprattutto pone per la prima volta un grande problema storico e giuridico, un problema cruciale con cui continuiamo e continueremo a fare i conti in futuro.
Quel paragrafo apriva infatti una stagione nuova nella storia del diritto in Occidente, allorché l’antica figura del giudice era chiamata a mutare mentalità e profilo professionale, a confrontarsi con un’idea di legge conseguente al declino del cosiddetto «governo degli uomini» e alla nascita del moderno «governo delle leggi», del nuovo spirito repubblicano e democratico-rappresentativo voluto dagli illuministi.
«Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? - si chiedeva Beccaria - Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti o il giudice, il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi?». La secca risposta a favore del legislatore andrebbe valutata nel suo significato autentico, che prevedeva la presa di distanza dall’antica concezione del diritto elaborata dal medioevo, dalla visione sacrale di un magistrato ermeneuta e di una legge, estranea alla volontà umana, da riconoscere nel fluire della realtà storica secondo un’antica modalità che dava di fatto un potere enorme ai sacerdotes juris.
Chi ha compreso con acutezza la vera posta in gioco in quel testo è stato Paolo Grossi, maestro della storiografia giuridica italiana. Non a caso egli ha fatto delle pagine scritte da Beccaria sul tema fondamentale dell’interpretazione un punto decisivo della sua implacabile requisitoria contro le «mitologie giuridiche della modernità», e in particolare contro la «legolatria illuministica», colpevole di aver liquidato l’antica dimensione sapienziale del diritto maturata nel medioevo. Una perdita che «non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere òntico, del diritto come fisiologia della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole».
L’Illuminismo e la sua politica del diritto centrata sul governo della legge rappresentano dunque per Grossi il momento di rottura che porta verso la così poco amata modernità giuridica, ossia l’approdo di un lungo processo di trasformazione del diritto come fatto sociale avviato nel Trecento con l’emergere dell’individualismo moderno contro il comunitarismo e il corporativismo medievale. Ecco che con i Lumi arriva la vittoria della sovranità del principe e dello Stato assoluto, decisi a ridurre il diritto alla sola legge imposta autoritariamente dall’alto grazie all’influenza di miti come lo stato di natura, la geometrica eguaglianza degli individui, il contratto sociale.
Va detto con chiarezza che - al di là dei giudizi di valore che si possono esprimere a favore o contro la modernità giuridica - la serrata ricostruzione storica di Grossi circa la genesi di quel nuovo modo di pensare il diritto è per larghi tratti condivisibile. E tuttavia è difficile non individuare punti critici nella sua caratterizzazione della cultura giuridica dell’Illuminismo quale premessa del moderno positivismo giuridico kelseniano.
Allo stato attuale della ricerca storiografica, ad esempio, il persistente riferimento a una «mistica della legge» imposta come una sorta di filo rosso alla modernità giuridica da parte degli illuministi non regge alla prova dei fatti. A ben vedere, quella tesi che ha fatto di questi ultimi i veri ispiratori dell’ossessiva codificazione ottocentesca non tiene nel debito conto la discontinuità profonda di opere come quella di Beccaria.
Si dimentica l’apporto originale e fecondo della cultura illuministica alla storia del moderno costituzionalismo, alla fondazione dei presupposti giuridici e politici dello Stato costituzionale in cui viviamo: tematiche queste ormai da anni al centro del dibattito internazionale ma ancora poco frequentate dalla storiografia giuridica italiana.
Oggi sappiamo che il costituzionalismo illuministico, con il suo repubblicanesimo, con la sua difesa della costituzione scritta, con la centralità dei diritti dell’uomo, era cosa ben diversa sia dal costituzionalismo d’Antico regime, consuetudinario - che nella concezione di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re -, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e dall’idea della sovranità nazionale che faceva comunque premio sui diritti dell’individuo posti dagli illuministi al di sopra di ogni cosa. Per sincerarsene basta ripercorre le pagine scritte da Condorcet e da Paine, alle prese con il dibattito costituzionale americano prima del 1789, o quelle straordinarie di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano decisi a creare una nuova Scienza della legislazione capace di produrre un ordinamento giuridico costruito sulla base di principi, valori e diritti dell’uomo.
Contro l’assolutismo essi prefigurarono le fondamenta di un moderno Stato costituzionale. Uno Stato in cui dovevano operare due piani di legalità: un piano codicistico e legislativo e un piano costituzionale di verifica dei valori illuministici maturati consacrati nel principio dell’eguaglianza dei diritti dell’uomo.
Cesare Beccaria fu certamente tra coloro che in Italia e in Europa ispirarono direttamente la nascita del moderno e cosmopolita «costituzionalismo illuministico» destinato a essere travolto dalla Rivoluzione francese e dalla costruzione degli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. Nel suo interrogarsi sulla presenza di Beccaria nella costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza non a caso fu proprio Piero Calamandrei a fornire suggestioni in questa direzione indicandolo tra i fautori liberali di una dottrina del potere pubblico limitato.
L’opera di Beccaria continua insomma a interrogarci e a rivelarsi ricca di suggestioni e insegnamenti. E ciò perché le ragioni profonde del suo perentorio imporsi restano universali e perenni in quanto elaborate con passione civile a difesa dell’uomo e dei suoi diritti.
Grecia classica
L’evoluzione della democrazia
di Paolo Pombeni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.02.2016)
Quello sul “modello” costituito dalle democrazie della Grecia classica appartiene ai dibattiti infiniti. Capire cosa si sia veramente inteso con quel termine, indubbiamente creato in quel contesto, non è impresa facile visto l’uso e l’abuso che si è fatto delle ricostruzioni storiche e della sequela delle loro interpretazioni. Sempre più la domanda è stata se davvero i sistemi di governo che si affermarono durante l’età classica in quelle aree possano essere considerati gli antesignani del modo moderno di intendere la parola, o se si sia trattato invece di degradazioni che oggi chiameremmo populiste di contesti di governo che prima avevano conferito il potere ai migliori, sia pure con un certo appoggio popolare.
È dunque benvenuto questo agile libro di un grecista di vaglia come Maurizio Giangiulio che davvero mette a posto il tema per tutti coloro che vogliono capire questo passaggio tanto cruciale quanto delicato del percorso politico dell’Occidente. L’autore ha una più che notevole competenza sul tema, ma ha scritto un libro dove il rigore scientifico non va a scapito di una costruzione ben accessibile anche a chi non è uno specialista di storia dell’antichità classica.
Il punto di partenza è duplice: da un lato la grande questione sulle differenze, per dirla con una formula classica, fra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni; dall’altro il peso che sul giudizio circa la natura della democrazia in Grecia esercitarono le opere dei suoi critici, a cominciare da quelli più illustri come Platone e Aristotele.
Giangiulio riporta la tematica alle sue profonde origini storiche, cioè l’evoluzione socio-economica di Atene, il cui potere in crescita si basava sempre più sia sull’esercito (gli opliti, cioè la fanteria pesante) sia sulla flotta, un’imponente struttura che arrivò al numero di 180 navi che nella famosa battaglia di Salamina imbarcavano fra i 20 e i 30mila addetti (ma che arrivarono poi a 50mila nei decenni seguenti).
Con una economia in espansione che si organizzava attorno al porto del Pireo con la sua costellazione di mestieri che lo rendevano efficiente, e con il coinvolgimento nella potenza militare diventava difficile escludere la partecipazione dei cittadini alle decisioni comuni. L’autore sfata la tesi che si trattasse di cittadini per così dire indolenti, che potevano vivere sfruttando il lavoro degli schiavi. Se esisteva indubbiamente una parte di economia a base schiavile, gran parte del popolo politicamente attivo era fatto di soggetti che esercitavano professioni per guadagnarsi la vita.
Ovviamente la democrazia in Atene, che è il suo luogo principe, non è un istituto fisso nel tempo, ma un sistema che viene evolvendosi in circa due secoli di storia. Al centro di questo percorso sta la figura di Pericle, l’ottimate che diventa il “principe democratico”. Ma poi il sistema si modifica e deve affrontare il tema del pagamento delle cariche, perché la politica sottrae tempo al lavoro e dunque reddito a chi le esercita.
La forza modellistica, almeno fino a un certo punto, della vicenda ateniese è testimoniata da quel che avviene in alcune città della Magna Grecia. I capitoli dedicati a Siracusa, Crotone, Turi e Taranto sono di grande interesse per capire proprio le geometrie variabili, se ci è consentita questa espressione, che ha trovato la forma democratica nel contesto delle colonie greche in terra italiana. Particolarmente interessante il caso di Turi, che è una sorta di “città progettata”, sul piano urbanistico da Ippodamo di Mileto e sul piano degli ordinamenti politici da Protagora di Abdera.
Un bel libro questo, che, senza indulgere ad alcun cedimento a facili parallelismi con l’attualità, ci riconsegna in maniera vivace e affascinante un percorso centrale nella formazione del Dna della coscienza politica occidentale.
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 06.07.2015)
Pensando alla partecipazione dei greci al referendum viene da pensare che a muoverli sia stata, accanto alla gravità del momento, anche l’eredità di una idea che risale a un’epoca precedente di molti secoli alla nascita delle istituzioni democratiche. Quando Omero nell’Odissea vuole descrivere la barbarie di Polifemo non parla del suo cannibalismo. Parla di qualcosa di peggio: il fatto che i Ciclopi «non hanno assemblee di consiglio, non leggi/fa legge ciascuno/ai figli e alle mogli e l’uno dell’altro non cura» (Od., 9, 112-115).
Il segno dell’inciviltà sta nella mancanza di quel momento di incontro che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, è il momento più importante della vita pubblica. Quel momento che, dice Omero, è «la gloria degli uomini» (Il., 1, 490). E di lì a qualche secolo Alceo, esiliato dalla patria, scriverà che la sua vita lontano dalle istituzioni civiche è quella di «un solitario lupo».
Come non avere la sensazione che i greci in fila, mentre uno per uno deponevano il loro voto fossero la raffigurazione dei valori che, con la nascita della democrazia, essi ci hanno tramandato? L’isegoria, vale a dire (un voto uguale per tutti) e la parrhesia (totale libertà di parola).
All’epoca di Pericle infatti, con l’affermazione della democrazia radicale, all’assemblea (ekklesia) avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi che avevano compito i 20 anni, vale a dire raggiunto la maggiore età e compiuto due anni di servizio militare. E poi, su un ordine del giorno comunicato in precedenza, si votavano, sulla collina della Pnice, le proposte fatte dalla Boule, un Consiglio di 400 persone estratte a sorte, di età superiore ai 30 anni: a maggioranza assoluta, di regola per alzata di mano (cheirotonia) e dunque e scrutinio palese. Nei casi, invece, in cui il voto doveva essere segreto si votava introducendo nelle apposite urne una pietruzza (psephos).
Infine una considerazione sulle competenze dell’assemblea, che non si limitavano all’approvazione delle leggi, ma riguardavano la politica interna ed estera, la pace e la guerra, i trattati internazionali e le questioni finanziarie. In altre parole, tutti gli affari di Stato. La divisione dei poteri, ovviamente, era di là da venire, così come , ovviamente, il suffragio universale (donne e schiavi ne erano esclusi). Ma le basi perché ci si potesse arrivare erano state messe.
Le parole della democrazia
di Giulio Ferroni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.05.2015)
La padronanza della lingua costituisce naturalmente la base di ogni sviluppo civile, di ogni svolgimento di pensiero e di conoscenza, di ogni condivisione, di ogni rapporto con gli altri soggetti e con l’orizzonte comune. E dato che ci è toccato in sorte di nascere e vivere in Italia, la lingua italiana deve necessariamente essere il fondamento di ogni educazione e di ogni ambito scolastico.
Nonostante il fatto che di educazione linguistica e delle sue modalità (al centro di una didattica democratica) si parli da molti anni, il livello linguistico dei nostri giovani appare oggi particolarmente depresso: ricadono ormai nei luoghi comuni le lamentele sull’impoverimento del linguaggio delle giovani generazioni, che all’università si riscontra perfino in quei giovani che, per aver scelto facoltà umanistiche o specificamente letterarie, sembrerebbero dover avere, rispetto ad altri, maggiori disponibilità ad un buon uso del linguaggio.
Questo impoverimento tocca in modo particolare il lessico, con la diffusa ignoranza di tanti termini “colti”, anche abbastanza diffusi e banali (e lasciamo perdere il lessico dell’antico linguaggio poetico, ormai del tutto defunto): ma agisce naturalmente in profondità anche sulla grammatica e la sintassi; e spesso capita che, pur entro forme grammaticali e sintattiche corrette, viene a perdersi l’articolazione logica, l’ordine e l’equilibrio razionale dell’argomentazione. La prevalenza ubiqua di un parlato eterogeneo fa si?che anche nella costruzione dello scritto prevalga l’elasticita e lo scoordinamento, che vengano meno le forme sintattiche complesse: si dissolve l’ipotassi e spariscono modi verbali come il congiuntivo. (...)
Sempre più necessaria appare una educazione alla parola: il che non significa restaurare forme linguistiche ingessate, ritornare all’elegante italiano colto degli elzeviristi, ma ritrovare la ricchezza della lingua, la proprietà lessicale, la misura logica dei suoi procedimenti, il suo valore di scambio civile, la continuità con ciò che essa è stata, con gli usi che ne ha fatto chi ci ha preceduto. In primo luogo vanno collocate la disposizione argomentativa, lo sviluppo ragionato del pensiero e la sua stessa narrabilità.
Argomentazione e narrazione sono necessari fondamenti della democrazia: la lingua si impara e si trasmette insistendo sulla sua forza di contatto e di scambio, in un esercizio di argomentazione e di narrazione che il docente, argomentando e narrando, può suscitare e stimolare, a diversi livelli e nei diversi ordini di scuola, nei bambini e nei ragazzi.
Oggi si parla frequentemente del valore dell’argomentazione come fondamento della democrazia: si riscopre il rilievo civile della retorica, si rinvia alle formule del grande Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e di Lucie Olbrecths-Tyteca; e si sottolinea il valore didattico della narrazione, anche nelle situazioni scolastiche più difficili. Sono tutte cose che passano per un esercizio attivo della lingua, che non può peraltro prescindere da una verifica delle sue forme: per questo la grammatica tradizionale e la vecchia desueta analisi logica continuano ad essere più produttive delle classificazioni e degli schemi della moderna linguistica, certo determinanti dal punto di vista scientifico, ma non produttivi per ciò che riguarda l’abitudine al corretto esercizio della lingua, ad una padronanza concreta delle sue strutture. Il rilievo dell’argomentazione e della narrazione, anche per la scrittura, rendono giustizia al valore del vecchio tema, contro cui negli anni passati è stata condotta una battaglia, degna di miglior causa.
Non si tratta di tornare ad un’idea di tema come svolgimento di un ordine di pensiero gia prefissato e standardizzato (con studenti disposti ad atteggiare tatticamente il proprio pensiero in corrispondenza alla presunta morale del docente), ma di far leva sulla vasta area di possibilità suggerita dalla stessa parola tema: partendo da parole-temi, da ambiti di significato da interrogare nella scrittura, argomentando e narrando, appunto.
In mezzo agli usi linguistici correnti, alle varie forme del linguaggio giovanile, alla pressione dei media e della pubblicità, la resistenza della scuola resta essenziale e imprescindibile: solo ad essa può essere affidata un’adeguata gestione della lingua, una salvaguardia della specificità logica, emozionale, culturale dell’italiano, della sua stessa forza di lingua del dialogo, dell’arte e della scienza. Dovremmo essere capaci di rilanciarla e di viverla come lingua della cittadinanza e della democrazia. Sempre più urgente un investimento nel suo insegnamento come lingua seconda: la gestione della lingua italiana al più alto livello possibile da parte degli immigrati deve essere un dato davvero essenziale, per una loro effettiva integrazione nel Paese dove hanno scelto di vivere e che non può privare i suoi cittadini, e in particolare quelli meno privilegiati e in più difficili condizioni, di una padronanza della lingua, necessario strumento di piena partecipazione ad una comunità civile. Ma in questo ambito credo che ci sia ancora tanto lavoro da fare, sia nell’organizzazione che nella formazione degli insegnanti.
Per una educazione alla parola non astratta, ma in atto, resta determinante il confronto con i temi e le situazioni delle letterature, con le dirette pratiche di lettura di opere relativamente complesse (della complessità adatta ogni volta al livello scolastico in questione). L’esercizio della lettura, e della lettura di qualità, capace di mettere in gioco i sentimenti e l’interesse di vita dei ragazzi, dovrebbe porsi come base spontanea della formazione linguistica: lettura come esperienza diretta, non vincolata dall’ossessione dell’analisi e della scomposizione, dalla sua funzionalità ad esercizi strutturali, a messa in campo di tassonomie e classificazioni. In tempi di crisi del libro e della lettura, il contrasto alla sua disaffezione può giungere solo da una capacità del docente di dare evidenza al rapporto dei libri con la vita, ai modi in cui possono parlare del presente anche e soprattutto quando sembrano venire da molto lontano: dando così evidenza al diverso e all’impossibile, al destino e al senso dell’esperienza.
La Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri
di Antonio Gargano *
La Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri è stata l’opera su cui si sono formati i protagonisti della Repubblica napoletana del 1799. Il titolo stesso è molto significativo: racchiude in sé le aspirazioni dell’Illuminismo alla riforma della società su basi razionali. È implicita una forte polemica con il diritto feudale e con quello che Filangieri chiama il caos della legislazione in tutti i Paesi d’Europa. All’oscurità del diritto vigente, Filangieri contrappone i lumi della ragione. Come figlio del ’700 sostiene l’esigenza di princípi razionali che possano dare ordine e uniformità a tutta la legislazione: la legislazione non può essere fondata sulla tradizione, sulla consuetudine, sull’autorità, ma dev’essere fondata sulla ragione e sulla sua universalità.
Filangieri, come tutti i grandi uomini di cultura del ’700 napoletano, ha un punto di forza nella tradizione platonica: c’è un piano del dover essere, un piano delle idee, un piano delle norme giuridiche indipendente dai tempi e dai luoghi, dettato dalla forza della ragione ed è ad esso che bisogna rifarsi per creare nuovi rapporti tra gli uomini, una nuova legislazione che non riguarda semplicemente il piano giuridico, ma è la premessa per la ripresa morale, per la ripresa dei costumi, a sua volta premessa per la felicità nazionale. Il benessere dei popoli dipende dal prosperare dei costumi e della vita morale, che dipendono a loro volta dalla legislazione che deve essere coerente, trasparente, razionale. Questo punto di vista comporta la considerazione che i costumi non sono considerati adeguati.
È da sottolineare la posizione critica di Filangieri nei confronti del popolo: il popolo non ha raggiunto costumi adeguati ai Lumi, non c’è da fare affidamento sul popolo. «Tutto per il popolo, ma niente attraverso il popolo»: i costumi del popolo non sono adeguati ai lumi della ragione, quindi la legislazione non può adeguarsi al costume, non si può seguire il metodo di Montesquieu di accettare il costume, né si può accettare di tramandare il diritto vigente. Il diritto vigente, sedimentato nel costume, è il rispecchiamento di tempi oscuri. La ragione è in Filangieri fortemente progettante, come sarà anche in Francesco Mario Pagano. Si tratta di dare una svolta: non si devono assecondare i costumi del popolo, ma bisogna elevarli, e la legislazione è uno strumento decisivo in questo senso.
Gaetano Filangieri, nato a Napoli nel 1753, era il terzogenito di una famiglia di discendenza normanna e quindi rampollo di una casata di altissimo lignaggio, ma non di cospicua possibilità economiche, tanto che fin dall’età di cinque anni i genitori l’avevano dovuto inserire nell’esercito di Ferdinando IV come alfiere.
Per la sua formazione Filangieri venne affidato a un giovane sacerdote di tendenze gianseniste, Nicola De Luca, personaggio di un certo fervore culturale, molto innovatore, legato alle tesi della indipendenza del diritto civile dal diritto canonico. In un commento all’Ecclesiaste di De luca si intravede il rapporto che egli come pedagogista sta intrattenendo con questo giovinetto geniale. In quest’opera compare un giovane filantropo (il suo discepolo, Filangieri) che viene indirizzato al bene della specie umana; ci sono dialoghi tra il precettore e il discepolo incentrati su questa finalità: l’uomo deve concorrere al benessere della specie umana e non vivere per ragioni egoistiche. Questo personaggio di vasta cultura influenzò Filangieri, e ne fu influenzato.
Filangieri è stato un genio precoce: già a vent’anni egli presenta una personalità spiccata. Nel 1773, a vent’anni, Filangieri si reca a Palermo in visita allo zio Serafino Filangieri, vescovo di Palermo, che era tanucciano, si muoveva cioè nel solco del riformismo risalente all’età di Carlo III. La venuta di Filangieri a Palermo viene preannunziata da lettere che mettono gli ambienti palermitani in attesa dell’arrivo di questo giovane promettente. Filangieri non si smentisce, trova un ambiente molto fervido intorno al “Giornale dei letterati”, organo di critica letteraria, ma di fatto anche di critica storica e politica mal visto dal Borbone, di cui facevano parte due redattori d’eccezione, Isidoro Bianchi e Francesco Paolo Blasi (quest’ultimo morirà poi sulla forca nel 1795, accusato di aver partecipato a una congiura giacobina).
Nei dialoghi con Bianchi, Filangieri ricava punti di forza della sua visione teorica. Raccoglie la grande attenzione che c’era a Palermo per Mably (1709-1785), filosofo politico poco noto, ma significativo, tanto che, nelle tempeste della breve vita della Repubblica napoletana del ’99, i patrioti napoletani trovarono il tempo e il modo di pubblicare sue opere oltre al Contratto sociale di Rousseau. Mably presentava un tema fondamentale: una polemica anti machiavellica e una forte insistenza sulla saldatura tra morale e politica. Nei circoli palermitani Filangieri assorbe l’interesse per Mably, che ha elogiato lo spirito spartano e la congiunzione rigorosa di morale e politica. Riporta poi l’attenzione per Mably a Napoli e trasmette ai suoi discepoli l’interesse per questo autore francese.
Il primo elemento che raccoglie a Palermo è quindi la saldatura morale-politica e l’amore per Sparta. Nei circoli palermitani si era sviluppato un intenso dibattito su Rousseau con una posizione molto precisa: si rifiutava il primo dialogo del Ginevrino, quello sulle scienze e sulle arti e si accoglieva invece pienamente il secondo, quello sull’ineguaglianza. Filangieri respinge il dialogo sulle scienze e sulle arti, che denuncia i guasti che sarebbero provocati dalla tecnica, dalla scienza e dai Lumi, torna a Napoli convinto del fatto che senza i Lumi, senza la scienza e senza i filosofi non c’è progresso possibile: Rousseau ha sbagliato nell’ipotizzare un danno che venga dalla scienza e dalla cultura che sono invece i motori della trasformazione sociale.
A Palermo Filangieri prende parte a dotte conversazioni, ma assiste anche nel settembre del ’73 ad una sollevazione della plebe palermitana, una rivolta che si manifesta in maniera torbida, senza una testa pensante che la riesca a guidare. Tornato a Napoli scrive agli amici palermitani per riprendere una meditazione su questo episodio, da cui ricava la diffidenza verso il popolo non guidato dagli intellettuali: si rafforza in lui la convinzione per cui non si può avere fiducia nei costumi, cioè in quello che è sedimentato nel popolo.
L’anno dopo Filangieri dedica a Bernardo Tanucci un libretto intitolato: Riflessioni politiche sull’ultima legge del Sovrano. Tanucci aveva formulato una legge con cui si cercava di arginare l’arbitrio dei giudici e Filangieri, speranzoso nel dispotismo illuminato, nel suo denso opuscolo vede in questa legge di Tanucci una possibilità di rischiaramento consistente nel fatto che i giudici nell’emettere le sentenze devono renderle pubbliche e motivate. Questo costituiva una grande novità, in quanto la giustizia veniva amministrata senza motivazione delle sentenze.
Filangieri sostiene che bisogna spezzare gli arcana juris, cioè il velo di mistero che circonda il diritto. I giudici invece di motivare le sentenze ricorrevano alle tradizioni giuridiche: la condanna, l’assoluzione o la pena venivano non motivate, ma estratte dal diritto romano, dal diritto canonico, dalle tradizioni, dalla consuetudine, ci si riferiva a sentenze precedenti oppure al Corpus juris e non si cercava di enucleare la natura del reato e di giustificare la pena in rapporto al reato. Nel 1777 Tanucci cade e comincia l’involuzione reazionaria, sempre piú catastrofica, di Ferdinando IV, che si circonda di personaggi legati ai capricci di Maria Carolina fino a dare pieni poteri all’Acton. L’accantonamento di Tanucci crea una crepa nella fiducia da parte di Filangieri nella monarchia.
Nel 1780 Filangieri pubblica i primi due libri della Scienza della legislazione. Un giovane di 27 anni da alle stampe due volumi, preannunziando un’opera in sette libri suddivisi in piú tomi. La struttura della Scienza della legislazione secondo il piano delineato da Filangieri, consiste in un primo volume dedicato ai princípi della legislazione, un secondo dedicato alle leggi politiche ed economiche, il terzo al diritto criminale, il quarto all’educazione, il quinto alla religione (uscito postumo e incompiuto nel 1791), il sesto e il settimo, che dovevano essere rispettivamente sulla proprietà e sulla famiglia, non sono stati redatti per la morte precoce di Filangieri nel 1788, a soli trentacinqueanni.
Un immenso progetto che suscita già all’apparizione dei primi due libri un’ammirazione sconfinata. Pietro Verri gli scrive dopo pochi mesi: «Ho sentito la voce di Ercole nelle pagine della Scienza della legislazione». A Venezia viene immediatamente ristampata, giungono elogi da Milano, da Firenze, da Parma, tutti ispirati a una sorta di orgoglio nazionale. Nel 1784, anno in cui a Napoli viene messa all’Indice la prima parte della Scienza della legislazione, nell’ambito linguistico tedesco ne sono apparse tre edizioni diverse a Zurigo, a Berlino, a Vienna. L’opera viene poi tradotta in francese, in spagnolo, in inglese parzialmente, in russo, in svedese, con elogi entusiastici rivolti all’autore: il piú noto e significativo è quello di Benjamin Franklin che lo tiene presente anche per la legislazione americana e che avvia una corrispondenza con Filangieri.
Nel discorso introduttivo Filangieri si riferisce alla civiltà europea e sferza lo spirito di rapina dell’Europa nei confronti delle Indie e dell’America. L’oro è diventato l’elemento dominante dell’epoca, questo però implica una decadenza dell’Europa a cui si dovrà porre rimedio. L’oro vale dappertutto, ma non è distribuito egualmente dappertutto: bisognerà fare i conti col fatto che il danaro è diventato il valore dominante per cercare di curvarlo a fini di civiltà perché l’avidità degli europei, manifestatasi già con il saccheggio delle Indie occidentali, ha portato a gravi guasti nel costume europeo.
La riforma della legislazione viene vista come qualche cosa che si fonda su princípi naturali, ovvero razionali: la natura umana è caratterizzata dalla ragione e dal momento che la ragione è universale, i princípi della legislazione varranno per tutti i popoli del mondo; si tratta di un progetto di riforma dei costumi di portata universale.
Bisogna porsi il problema della “felicità nazionale” come dice Filangieri, ma questa non può essere conseguita se non c’è un sistema legislativo coerente, matrice di migliori costumi e di benessere. Filangieri sostiene che ci sono due requisiti fondamentali alla base della vita civile: la conservazione e la tranquillità. Egli parte dalla costatazione che ogni essere vivente, e in particolare l’uomo, ha una tendenza fondamentale a conservare se stesso, a cercare di rafforzare la propria presenza nel mondo, a moltiplicare le proprie energie e il proprio benessere; bisogna quindi mirare alla conservazione di tutti ed è quindi necessaria la tranquillità. La tranquillità si deve radicare nella certezza del diritto, che deve essere qualcosa di geometrico, di razionale.
In Filangieri si trovano espressioni simili a quelle di Spinoza, che aveva applicato ragionamenti di stile matematico-geometico alla morale. Filangieri parla di una circonferenza dal cui centro si devono ripartire i vari raggi: ci vuole un metodo deduttivo, il metodo razionale per eccellenza, che deve partire da un centro e quindi da princípi ben identificati attraverso i quali si deve costruire tutto l’apparato dell’ordinamento giuridico.
La posizione di Filangieri si può considerare come una presa di posizione per il giusnaturalismo contro il giuspositivismo: il diritto deve essere fondato su princípi razionali e non su ciò che è positus, posto, non su ciò che la storia ci lascia di fatto. Nel prearnbolo delle riflessioni politiche del 1774, Filangieri dice: «Io mi consacro interamente allo Stato», ciò a testimoniare che già a ventun anni ha la forte consapevolezza di avere una missione da compiere a cui non sottrae neanche un giorno della propria esistenza. Egli è invece piú indulgente con il prossimo: «Ognuno deve lavorare poche ore in modo da non abbruttirsi e supplire ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia, un lavoro assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. Questa era la misera condizione dell’infelice, niun istante era per lui perché li doveva tutti al lavoro. Lo Stato bisogna che sia ricco e che le ricchezze vi siano ben distribuite».
Ferdinando Galiani e Antonio Genovesi, gli altri due grandi esponenti della triade dell’Illuminismo napoletano, avevano a loro volta sviluppato la scienza dell’economia. Genovesi aveva ricoperto la prima cattedra di commercio e meccanica (oggi si direbbe d’economia politica) in Europa. Dalla sua opera Filangieri ricava l’attenzione al fatto che lo Stato per poter creare prosperità deve essere esso stesso prospero.
«Io chiamo bontà assoluta delle leggi la loro armonia coi princípi universali della morale comune a tutte le nazioni a tutti i governi e adattabile in tutti i climi» è chiara qui la polemica con Montesquieu che ha scritto lo Spirito delle leggi sostenendo che esse nascono dal costume, dalla storia, dal clima, dalle disponibilità economiche, dall’infanzia o maturità di un popolo; Filangieri invece è piú decisamente illuminista in questo senso, e sostiene che ci sono leggi comuni a tutte le nazioni. Si risente l’eco, non solo dell’Illuminismo europeo, ma anche della Scienza Nuova di Vico e quindi l’identificazione di linee di sviluppo comuni a tutta l’umanità. «Il diritto della natura contiene i princípi immutabili di ciò che è giusto ed equo in tutti i casi»: solo il diritto naturale e razionale può essere veramente giusto perché ha come regola la ragione che è egualitaria. La regola non può essere altro che la regola della ragione.
«Niun uomo può ignorare le sue leggi, esse non sono i risultati ambigui delle massime dei moralisti né delle sterili meditazioni dei filosofi, queste sono i dettami di quel principio di ragione universale, di quel senso morale del cuore che l’autore della natura ha impresso in tutti gli individui della nostra specie come la misura vivente della giustizia e dell’onestà che parla a tutti gli uomini il medesimo messaggio e prescrive in tutti i tempi le medesime leggi».
Dopo aver parlato della bontà universale delle leggi, Filangieri si addentra anche nella bontà particolare: non si può stendere una legge universale per tutto il mondo, ma ciò che è importante è che i princípi giuridici di tutela dell’individuo, di tutela del benessere, della conservazione, il rispetto reciproco, la possibilità di avere una presenza nella società garantita devono essere propri di tutte le legislazioni; da quel punto, deduttivamente, si arriva anche a situazioni piú particolari che devono essere regolamentate con princípi piú particolari.
La Scienza della legislazione presenta una demolizione morale e filosofica del feudalesimo. Il feudalesimo è arbitrio, è prepotenza, è diseguaglianza ingiustificata, le uniche disuguaglianze che possono essere tollerate sono quelle del merito, del talento, ma le disuguaglianze dovute al lignaggio, alla casta, alla prepotenza vanno respinte: bisogna distruggere le barbarie del feudalesimo per fare emergere i veri valori legati al merito e al talento. Per eliminare il feudalesimo bisogna abbattere il sistema di proprietà feudale, quindi bisogna fare in modo che il latifondo venga spezzato cosí da creare tanti piccoli proprietari. L’uomo, per potersi sostentare e per sentirsi parte nella nazione, deve avere una piccola proprietà, che gli fa mettere veramente radici. Il piano politico si salda cosí con quello economico.
Il II libro è dedicato a politica ed economia. C’è anche un’osservazione di carattere demografico che porta al passaggio dalla politica all’economia; egli sostiene che la legislazione feudale non favorisce i matrimoni, porta un rarefarsi della popolazione e afferma in maniera molto forte che l’Europa ha almeno cento milioni di abitanti in meno di quelli che dovrebbe avere perché non è incoraggiata la proprietà della terra.
Dal libro II: «Osservate lo stato di tutte le nazioni, leggete il gran libro delle società, voi le troverete divise in due parti irreconciliabili: i proprietarii e i non proprietarii, ossia i mercenarii. Sono queste due classi di cittadini infelicemente inimiche tra loro. Invano i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni diverse. Il proprietario cercherà sempre di comprare dal mercenario la sua opera al minor prezzo possibile e questi cercherà sempre di vendergliela al maggior prezzo che può. In questo negoziato quali delle due classi soccomberà? Questo è evidente, la piú numerosa. Per la disgrazia comune dell’Europa, per un difetto enorme di legislazione, la classe dei proprietari non è che un numero infinitamente picciolo relativamente a quella dei mercenarii [...], la felicità pubblica non è altro che l’aggregato delle infelicità private di tutti gli individui che compongono la società. Allorché le ricchezze si restringono tra poche mani, allorché pochi sono i ricchi e molti sono gli indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo, anzi, come ho detto, ne farà la rovina. Se le ricchezze dunque non solo sono inutili, ma perniciose ai popoli, il legislatore non avrà fatto tutto richiamandole nello Stato se non avrà pensato alla maniera di ben ripartirle».
[LA CONTINUAZIONE - di seguito, sotto - nel post successivo]
[CONTINUAZIONE- e fine]
Nel libro III sul diritto criminale Filangieri sviluppa una polemica a favore della trasparenza del diritto, contro i procedimenti segreti, contro le delazioni, ma c’è anche un dissenso con Cesare Beccaria: Filangieri non è contrario alla pena di morte, la vede necessaria in caso di omicidio e in caso di attentato alla sovranità dello Stato, ma è a favore di tipi di pene che siano utili alla società come ad esempio il lavoro nelle miniere o nelle galere. Quando il contratto sociale viene violato da un qualunque reato, si tratta pur sempre di un delitto contro la società e la società si deve rivalere ottenendo qualche servigio utile dal reo.
Il pensiero di Filangieri presenta una forte originalità sul tema del contratto sociale: questo non viene visto né alla maniera di Hobbes, né alla maniera di Rousseau come qualche cosa che scaturisce da un ipotetico patto tra gli individui. Il contratto sociale per Filangieri, è una condizione preliminare per la società, non può essere in alcun caso rotto dagli individui perché il contratto non parte dagli individui, ma è la precondizione logica per lo stare insieme degli uomini, ha una natura simile alle idee platoniche.
Tolto il contratto sociale è tolta anche la convivenza tra gli uomini. «Né la vendetta dell’offesa arrecata alla società né l’espiazione del reato sono gli oggetti delle pene. La vendetta è una passione e le leggi ne sono esenti. E la giustizia non è una di quelle terribili divinità alle quali i loro crudeli adoratori immolano le umane vittime per placare il loro preteso furore. Le leggi allorché puniscono, hanno innanzi agli occhi la società e non il delinquente; esse sono mosse dall’interesse pubblico e non dall’odio privato, esse cercano un esempio per l’avvenire e non una vendetta per il passato [la pena deve avere un potere fortemente dissuasivo nei confronti di futuri reati]. La vendetta, qualunque essa fosse, sarebbe assurda e inutile: assurda perché le leggi moderatrici delle particolari passioni giustificherebbero in questo caso col loro esempio quello che condannarono coi loro precetti; inutile perché non potrebbe impedire che il torto arrecato alla società dal delitto del reo non esistesse realmente. Le grida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? L’oggetto dunque delle leggi nel punire i delitti altro non può essere se non quello di impedire che il delinquente arrechi altri danni alla società e distogliere gli altri dall’imitare il suo esempio con l’impressione che la pena da lui sofferta deve fare sui loro spiriti. Se questo fine si può quindi conseguire colle pene piú dolci, le leggi non debbono impiegare le piú severe. Quelle pene sono dunque preferibili che, serbata la proporzione che conviene col minor tormento del reo, producono il maggior orrore per i delitti, e il maggiore spavento per coloro che sarebbero tentati a commetterli. Il legislatore, nel determinare dunque le pene alle diverse specie dei delitti, non deve permettersi che quel grado di severità necessaria per reprimere l’affezione viziosa che li produce».
Il libro IV tratta dell’educazione. Filangieri dedica un intero libro all’educazione dando una serie di indicazioni precise per un’educazione universale, di tutto il popolo, ma non uniforme, bensí differenziata tra le classi dirigenti e le classi popolari: non è ipotizzabile che le conoscenze che deve avere un magistrato vengano imposte anche al popolo. Il popolo deve essere educato in un’arte specifica, deve essere educato alla virtú, ma non può essere educato alla gestione del corpo sociale, all’amministrazione delle leggi. Per chi deve amministrare la società e gestire le leggi è necessaria un’educazione severa di tipo superiore, una volta che sia appurata la sua disponibilità al bene pubblico. Non si tratta semplicemente di mettere in moto un buon sistema educativo: l’educazione fondamentale viene dalle leggi.
Se il vivere civile non è ordinato, se al delitto non corrisponde la pena, se i rapporti tra gli uomini non sono trasparenti, se non c’è la certezza del diritto, i rapporti umani diventano confusi e quindi si crea maleducazione, tendenza al sopruso e nessuna buona istruzione servirà a niente. Sono sí necessarie leggi che istituiscano un’educazione universale, ma sono proprio le leggi stesse ad avere una funzione educativa. «L’esperienza è quella che mi fa vedere nelle moderne società europee l’istruzione e i Lumi diminuire i tristi effetti della corruzione ed innalzare il solo argine che oggi si oppone ai progressi del dispotismo e della tirannide. Che ne sarebbe di noi se in mezzo alla depravazione dei nostri costumi, ai vizi della nostra educazione e all’imperfezione delle nostre leggi, se in mezzo ad un milione e quattrocentomila uomini sempre armati e sempre pronti a difendere gli attentati dei padroni dell’Europa i libri scritti dai filosofi non inculcassero i luminosi princípi della morale, non combattessero il vizio, non facessero arrossire il tiranno? Che ne sarebbe di noi se l’opinione pubblica dei detti scritti maneggiata e diretta non coprisse d’infamia il monarca che ordina una legge ingiusta e il ministro che la propone e il magistrato che la fa eseguire?».
Filangieri ha un concetto molto moderno di opinione pubblica: la presenza di una cultura illuminata funge da deterrente per il dispotismo, per l’arbitrio. Ha molta fiducia nella diffusione dei Lumi e anche per questo difende la libertà di stampa. «Se i programmi delle cognizioni e dei Lumi ci han dato per cosí dire la forza per dominare la natura e di farla servire ai nostri disegni, se la mano potente dell’uomo dirige il fulmine, soggioga i venti, impone leggi alle acque, dà ai vegetali e agli animali nuove qualità, individua, crea per cosí dire negli uni e negli altri nuove specie secondarie, forme adopera nuovi fluidi e sale, si sostiene e viaggia con le ali dell’arte sugli immensi spazi dell’etere, se il progresso io dico delle cognizioni e dei Lumi ci ha dato tanto impero sul mondo fisico, per quale motivo non potremmo noi sperare di acquistarne uno sul mondo morale?».
Questo testo presenta una certa assonanza con un brano di Robespierre: in questi due grandi spiriti dell’Illuminismo europeo si affaccia con prepotenza l’esaltazione della capacità di dominio dell’uomo sulla natura e il rammarico per il fatto che non si profili un adeguato dominio anche sul mondo morale. Filangieri spera che l’uomo possa avere un dominio anche sul mondo morale, cioè sui rapporti intersoggettivi, sulle società e sul loro andamento attraverso l’educazione: l’uomo ha avuto un progresso a metà, i Lumi si sono diffusi solo sul versante della natura e non sono stati capaci di avere presa anche sul versante umano.
Il compito è di dirigere il mondo umano: questo è il messaggio forte dell’Illuminismo napoletano, come anche della Rivoluzione francese e della Rivoluzione napoletana del ’99. Filangieri, padre spirituale della rivoluzione del ’99, formula un’idea fondamentale: la possibilità di progettare razionalmente i rapporti tra gli uomini. Questo è il significato della Scienza della legislazione: i rapporti umani si regolano con la legge, la legge si può formulare in base a una scienza, ponendo fine all’arbitrio; i rapporti giuridici si possono regolare mediante una scienza, quindi si possono progettare. Non bisogna tenersi addosso il fardello della storia, è finita la preistoria in cui l’uomo si lasciava dominare da meccanismi automatici.
«Queste poche riflessioni basteranno, io spero, per mostrarci la differenza che vi deve essere fra il sistema dell’educazione pubblica degli antichi e quello dell’educazione pubblica dei moderni. L’uno e l’altro possono e debbono però rassomigliarsi in un solo articolo e questo è quello dell’universalità. Se una sola classe di cittadini venisse esclusa dalla pubblica educazione il mio piano sarebbe imperfetto e vizioso».
Il tema fondamentale è quello della universalità della educazione, ma Filangieri sottolinea anche che bisogna sdoppiare l’educazione del popolo, che deve essere elevato verso i Lumi, da coloro che detengono i Lumi e debbono guidare la società. Egli dice «Essa, educazione universale, richiede che l’artigiano possa ricevere nella sua infanzia per istruzione che atta ad allontanarlo dal vizio, a condurlo alla virtú, all’amore della patria, al rispetto delle leggi e a facilitargli i progressi nella sua arte e non già quella che si richiede per dirigere la patria e amministrare il governo.
L’educazione pubblica, finalmente, per essere universale richiede che tutte le classi, tutti gli ordini dello Stato vi abbiano parte, ma non richiede che tutti questi ordini, tutte queste parti vi abbiano la parte stessa, in poche parole essa deve essere universale, ma non uniforme, pubblica, ma non comune». Stretti sono i rapporti tra benessere economico e livello di istruzione di un popolo: «...bisognerebbe interamente ignorare l’istoria del progresso dello spirito umano per ignorare i molteplici e innegabili rapporti che vi sono tra l’istruzione pubblica e l’opulenza pubblica, tra lo stato del sapere e dei lumi di un popolo e quello della sua industria e delle sue ricchezze...».
Il V libro, di cui ci sono rimasti solo frammenti preparatori di una stesura definitiva, è dedicato alla religione. C’è una religione universale razionale, la religione della ragione, che può fino a un certo punto mediarsi con le religioni tradizionali. Tutte le religioni, essendo un frutto dell’uomo, hanno qualche cosa in comune. C’è elemento comune alle religioni storiche che può essere messo in rilievo per essere portato sempre piú in luce e per far emergere, al di là degli elementi mitici, le componenti razionali. La religione dello Stato dovrà espungere gli elementi di superstizione e mettere al centro i caratteri piú puri della religione. Una religione civile lega insieme i cittadini dello Stato. Le credenze comuni fondamentali sono razionali, ma soprattutto sono religione in contrapposizione a superstizione. La superstizione è ignoranza e oscurità, la religione invece si avvicina alla ragione ed è un legame, ha un valore politico, perciò Filangieri ne parla nella Scienza della legislazione.
Filangieri aveva progettato un’opera sulla scienza delle scienze, che avrebbe dovuto cercare di compiere un lavoro di razionalizzazione, di schematizzazione dei princípi di tutte le scienze. Aveva immaginato una Istoria universale perenne, cioè una ripresa della Scienza nuova di Vico. Purtroppo le carte contenenti i primi appunti di queste opere sono andate perse nei tumulti del 1799 in cui la famiglia Filangieri è stata colpita.
Nel 1780 escono i primi due volumi della Scienza della legislazione e nel 1782 ci sono le prime reazioni da parte dei personaggi piú legati all’ordine feudale a Napoli. Nel 1784 i due volumi vengono inclusi nell’Indice dei libri proibiti, ma - come si è detto - nello stesso anno Filangieri ha la grande soddisfazione di vedersi già tradotto in tedesco e, sempre piú preoccupato della piega che sta prendendo la monarchia a Napoli, scrive a Franklin una lettera in cui dice: «io spererei di poter rendere i miei servigi alla terra libera dell’America».
Fa capire di essere pronto anche a trasferirsi in America, ma la cosa non riesce allora si ritira a Cava dei Tirreni riuscendo a ottenere di sottrarsi alle incombenze di corte. Cava dei Tirreni diventa, soprattutto nel 1786-87, un luogo di pellegrinaggio di dotti di tutta Europa. Goethe nel 1787 vi si reca a visitare questo giovane intellettuale, ne riporta un’impressione molto forte che è descritta nel suo Viaggio in Italia.
Goethe riporta in Germania notizie di Giambattista Vico attinte proprio dai colloqui con Gaetano Filangieri. La situazione politicamente si inasprisce, Filangieri però si concentra sempre di piú nel proprio lavoro e riesce a concludere altri tre libri della Scienza della legislazione, ma all’improvviso, per una degenerazione della sua malattia dovuta anche allo strenuo lavoro, il 21 luglio del 1788 muore nel castello Giusso di Vico Equense. Lí si recano Domenico Cirillo e Francesco Mario Pagano futuri protagonisti della Repubblica napoletana del 1799, a rendere omaggio all’amico morente.
Gli anni immediatamente successivi fanno assistere a un intensificarsi della piega reazionaria della monarchia napoletana; l’anno dopo la morte di Filangieri scoppia la Rivoluzione francese e Maria Carolina, sorella di Maria Luisa di Borbone, con le sue diffidenze verso i riformisti prende sempre di piú il sopravvento nella corte napoletana.
I Borbone si rendono sempre piú conto che la Scienza della legislazione è materiale rivoluzionario. Il Consiglio di Stato condanna l’opera tanto che la vedova di Filangieri si deve appellare a un amico, Carlo Mazzacane, per ottenere una sorta di indulgenza da parte della regina. Negli anni successivi alla morte di Filangieri sempre piú si delinea l’identificazione fra i suoi seguaci e gli ideali rivoluzionari.
Quando la rivoluzione a Napoli temporaneamente vince, il debito nei confronti della Scienza della legislazione diventa evidente e Francesco Mario Pagano tiene un memorabile discorso in cui raccorda l’eversione della feudalità, nuova legge della Repubblica, con la Scienza della legislazione.
In Francia si vede in Filangieri uno dei padri anche della Rivoluzione francese e quando, a seguito della repressione dei moti del ’99, la vedova di Filangieri è costretta a portare i due figli a Parigi, Napoleone Bonaparte la riceve tenendo un esemplare della Scienza della legislazione sulla propria scrivania.
Il culto americano
di Gaetano Pecora
Cosa ne pensereste di un codice penale che esordisse così: «Chiunque adorerà un altro Dio che il Signore, sarà messo a morte»? Tutto potreste pensarne. Tutto. Tranne che lì gorgogliano sentimenti proclivi alla libertà religiosa. Eppure, di fatto, è precisamente questa la tesi di coloro che si sviscerano di amore per i puritani e che coccolano le loro prime comunità - quelle che essi allestirono nel Nuovo Mondo all’alba del XVII secolo - come altrettanti germogli dell’odierna tolleranza. Come se quella disposizione che letificava gli abitanti del Cunnecticut proprio non esistesse. E mille altre norme non esistessero dove il dio neroniano del Vecchio Testamento tempestava con altrettanta spietata iracondia.
Ben venga, dunque, questo libro di Nunziante Mastrolia e Luciano Pellicani i quali per tabulas (il volume raccoglie scritti inediti di Franklin, Jefferson, Madison e Paine) dimostrano che ben altra fu la tempera da cui uscì riscaldata la libertà di coscienza e di culto, e che né gli Stati Uniti nacquero assistiti dallo spirito della modernità né che a tale modernità abbia mai sorriso l’esclusivismo dei puritani.
Certo, più tardi contribuirono pure essi a costruire il «muro di separazione» (così Jefferson) tra lo Stato e le chiese, che poi è la pietra angolare di ogni architettura costituzionalistica; ma solo perché premuti da circostanze avverse che ricacciavano loro in gola l’hussitico grido di guerra contro i rinnegatori di Dio, del loro Dio si capisce. Frantumati come erano in mille piccolissime congregazioni, tutte pure, tutte infallibili, tutte fanaticamente convinte di riuscire esse sole gradite all’Eterno perché esse sole inflessibili depositarie dei suoi insegnamenti dogmatici, proprio per questa polverizzante debolezza di scomposizione, i puritani di ogni colore mancarono della forza necessaria per piegare lo Stato alla loro fede. Sicché non potendo, per il tramite del l’apparato pubblico, "purificare" gli altri si acconciarono all’unico sistema - quello separatistico - che se non altro impediva agli altri di "inquinarli" e di perderli con la loro contaminazione.
Ha ragione perciò Pellicani quando nella sua lucida introduzione scrive che «in America si erano formate le condizioni oggettive per garantire la massima libertà religiosa». Condizioni oggettive, badiamo bene, non soggettive. Fosse dipeso da loro, presbiteriani, quaccheri, episcopaliani, anabattisti e altri ancora, mai avrebbero avallato un regime giuridico per il quale non avevano ragione di spendersi in troppo tormentate vigilie.
Assai diversa la posizione dei Padri Fondatori, i quali muovevano incontro al separatismo correndo sulla linea diritta dei loro convincimenti, che per essere diritta non conosceva né le rientranze né le obliquità delle chiese cristiane. E, alla stretta finale, tali convincimenti giravano tutti nel cerchio di una un’unica fondamentalissima verità: che Dio aveva fatto dono agli umani del regalo più bello, quello della libera ragione. Sicché solo ciò che superasse il vaglio dell’indagine razionale andava raccolto nel deposito della fede. Niente miracoli, dunque, nessuna profezia e soprattutto nessun dogma («ordigni», come li trafiggeva Jefferson, che mutano il cristianesimo in un «semplice mattatoio»).
Cristiani, i Padri Fondatori? Sia pure. Ma a patto di slargare i confini del cristianesimo, fino a tirarvi dentro il «razionalismo sopranaturale» (così venne definito) degli antichi sociniani che ne furono i lontani progenitori e dei quali non a caso Jefferson raccomandò la ristampa americana dei loro scritti. E poiché, come notava Francesco Ruffini, nei sociniani «riviveva il principio della libertà religiosa quale era stato vagheggiato dai filosofi pagani», ecco che salendo per li rami non è improprio traguardare i Padri Fondatori come altrettanti «cristiani paganeggianti». Che è forse un intreccio di termini mal maritati e, addirittura, mal maritabili tra loro. Chissà però che proprio questa spuria contaminazione non li renda, se non più grandi, certo più vicini alla nostra sensibilità.
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2013)
Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23.01.2013)
L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione.
Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento.
Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri.
Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali.
Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione.
Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità.
In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.
DEMOSTENE (111 Olintica, 26 e 29) *
Gli uomini di Stato un tempo si mostravano così semplici nella vita privata e i loro costumi erano così conformi al carattere della nostra città che se qualcuno di voi potesse vedere la casa di Aristide o di Milziade o di altri cittadini illustri di quei tempi non la troverebbe più adorna di quella del suo vicino. Essi infatti non miravano ad arricchire trattando gli affari pubblici... Leali verso i greci, pii verso gli dei, rispettosi dell’eguaglianza nella città, ci procurarono, come ci si doveva aspettare, una grande prosperità...
Oggi, mi si dirà, i nostri affari non sono brillanti ma in città si è fatto di meglio. Ma che cosa mi si può effettivamente citare? I parapetti degli spalti lastricati a nuovo, le strade e le fontane ristrutturate, tante cose da niente... Ma rivolgete la vostra attenzione agli uomini che hanno fatto questa politica; gli uni sono passati dalla indigenza alla ricchezza, gli altri dall’oscurità agli onori, alcuni si sono costruiti case più imponenti degli edifici pubblici e, nella misura che la fortuna della città declinava, la loro si ingrandiva.
La fabbrica dei dibattiti pubblici
Un testo inedito di Pierre Bourdieu, sociologo (1930-2002).
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Le Monde Diplomatique, gennaio 2012 pagg. 1, 16, 17
Da una parte, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altra, un dibattito pubblico mutilato, ridotto a un’alternativa fra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? questo spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo suo corso sullo Stato tenuto al Collège de France e pubblicato in questo mese.
Un uomo ufficiale [ndt.: autorità] è un ventriloquo che parla a nome dello Stato: egli prende una postura ufficiale - bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’autorità -, parla in favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla come rappresentante dell’universale.
Si perviene qui alla nozione moderna di opinione pubblica. Che cos’è questa opinione pubblica che invocano i creatori del diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di coloro che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione patente in una società che pretende di essere democratica, ovvero che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. Vi è una specie di definizione per censo dell’opinione pubblica illuminata, come opinione degna di questo nome.
La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo, costituito in modo da dare tutti i segnali esteriori, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle sue forme adeguate. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte delle persone incaricate di comporre la commissione, che la persona considerata conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in modo legittimo, nella maniera che va al di là delle regole del gioco, che legittima il gioco stesso. Non si è mai tanto addentro nel gioco quanto lo si è stando al di là del gioco stesso. In ogni gioco ci sono regole e fair play. A proposito del mondo intellettuale, avevo usato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con le regole del gioco, facendo di questo gioco giocato con le regole del gioco un omaggio supremo al gioco stesso. Il trasgressore controllato si oppone del tutto all’eretico.
Il gruppo dominante coopta i membri su indici minimi di comportamento che sono l’arte di rispettare la regola del gioco, finanche nelle trasgressioni, regolate, della regola stessa del gioco: la buona creanza, il conservatorismo. È la celebre frase di Chamfort: «Il vicario di Curia può sorridere di un commento contro la religione, il vescovo riderne del tutto, il cardinale aggiungervi il suo motto [irridente] (1)». Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, partendo da una posizione tale che non vi siano dubbi. L’umorismo anticlericale del cardinale è supremamente clericale.
L’opinione pubblica è sempre una sorta di realtà doppia. È ciò che non si può non invocare quando si vuole legiferare su terreni non riconosciuti. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (straordinaria espressione) a proposito dell’eutanasia o dei bambini-provetta, si convocano persone che lavoreranno con piena autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con persone disparate - psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, eruditi, ecc. - che hanno come scopo quello di trasformare una somma di idioletti [ndt.: Zingarelli: l’insieme degli usi di una lingua caratteristico di un dato individuo, in un determinato momento] (3) etici in un discorso universale che riempie un vuoto giuridico, vale a dire che dà una soluzione ufficiale a un problema difficile che scombussola la società - la legalizzazione delle madri in affitto, per esempio. Se si lavora in questi tipi di situazione si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto la funzione attribuita ai sondaggi si comprende molto bene. Dire «i sondaggi sono dalla nostra parte» equivale a dire «Dio è con noi» in un altro contesto [ndt.: allude al “Gott mit uns”?].
Ma i sondaggi sono fastidiosi, perché talora l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto per. Che fare? Si crea una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che istituirà l’opinione illuminata come opinione legittima nel nome dell’opinione pubblica - che d’altra parte dice il contrario o non ha opinioni (e questo è il caso in molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alle persone problemi che esse non si pongono, nel fare infilare risposte a problemi che essi non hanno posto, quindi a imporre risposte. Non è una questione di sotterfugi nella costituzione dei campionari delle domane [dei sondaggi], è il fatto di imporre a tutti domande che si pongono all’opinione illuminata e, per questo, di produrre risposte di tutti su problemi che si pongono a qualcuno, quindi di dare risposte illuminate prodotte dalla domanda: si sono fatte esistere per le persone domande che per loro non esistevano, mentre ciò che costituiva per le persone una domanda è la domanda stessa.
Traduco man mano un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica dando la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla d’opinione pubblica si fa sempre un doppio gioco fra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente, che è ottenuta come sottoinsieme ristretto dell’opinione pubblica definita democraticamente.
«Essa è quel parere su un soggetto qualsiasi che è mantenuto e prodotto dalle persone meglio informate, più intelligenti e più moralmente qualificate della comunità. Questa opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone con un po’ di educazione e di sentimenti convenienti a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diviene quella di tutti.
Negli anni 1880 si diceva apertamente all’Assemblea nazionale [ndt.: v. storia della Rivoluzione francese, fra le altre quella di Furet-Richet] ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, vale a dire che il sistema scolastico doveva eliminare i figli degli strati sociali più sfavoriti. All’inizio si poneva il problema che in seguito è stato completamente rimosso, poiché il sistema scolastico si è messo a fare, senza che glielo si chiedesse, quello che ci si aspettava da esso. Quindi, nessuna necessità di parlarne. L’interesse del ritornare sulla genesi è molto importante, perché vi sono, all’inizio, dibattiti dove si dicono a chiare lettere cose che, in seguito, appaiono come rivelazioni provocatorie dei sociologi.
Il riproduttore della versione ufficiale sa produrre - nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» -, facendola divenire protagonista, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile) e in nome della quale egli parla. Deve produrre ciò in nome di quello che egli ha diritto di produrre. Non può non renderla protagonista, non darle una forma, non fare miracoli. Il miracolo più ordinario, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, la riuscita retorica; deve produrre la messa in scena di ciò che autorizza il suo dire, ovvero dell’autorità in nome della quale egli è autorizzato a parlare.
Ritrovo qui la definizione della prosopopea che cercavo poco fa: «Figura retorica mediante la quale si fa parlare e agire una persona che si vuole evocare, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, sempre un formidabile strumento, si trova questa frase di Baudelaire che parla della poesia: «Saper usare sapientemente una lingua equivale a praticare una specie di stregoneria evocatoria». Gli esperti in materia, coloro che manipolano una lingua erudita, come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena l’immaginario referente nel nome del quale parlano e che essi realizzano nella sua forma parlandone; devono fare esistere ciò che essi esprimono e questo nel nome di che essi esprimono. Devono nello stesso tempo produrre un discorso e produrre la credenza nell’universalità del loro discorso, con la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi - lo Stato è un fantasma...) di quella cosa che garantirà ciò che essi fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.
Percy Schramm ha dimostrato come le cerimonie di incoronazione erano il transfert, nell’ordine della politica, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi tanto facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie dell’incoronazione, è perché si tratta, nei due casi, di fare credere che vi è un fondamento del discorso, che non appare come auto-fondatore, legittimo, universale, se non perché vi è teatralizzazione - nel senso di evocazione magica, di stregoneria - del gruppo unito e consenziente al discorso che l’unisce. Da qui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese - che non si può comprendere completamente se non si vede ch’essa non è semplice apparato che si aggiunge: essa è costitutiva dell’atto giuridico (6). Dire di diritto vestiti modestamente è azzardato: si rischia di perdere la pompa del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo vestito: i re nudi non sono più carismatici.
Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione del convincimento dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico - teatralizzazione della credenza del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fede in ciò che fa. Se la teatralizzazione del convincimento fa parte delle condizioni tacite per l’esercizio della professione di esperto - se un professore di filosofia deve avere l’aria di credere alla filosofia -, si tratta dell’essenziale omaggio dell’autorità-uomo all’autorità; è ciò che occorre accordare all’autorità per essere un’autorità: occorre accordare il disinteresse, la fede nell’autorità, per essere una vera autorità. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle da curati, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di credenza politica nella quale tutti sono in malafede, essendo questa credenza una sorta di malafede collettiva, nel senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a sé stessi e mentono ad altri, sapendo che si mentono. È questo, l’autorità...
(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Paris, 1795.
(2) Dominique Memmi, « Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle », Actes de la recherche en sciences sociales, n°76-77, Paris, 1989, p. 82-103.
(3) Du grec idios, «particulier» : discours particulier.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londres, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) eut une longue carrière de membre du Parlement britannique.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9. zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (deux volumes), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n°4, Berkeley (Californie), 1974, p. 382-405.
Capitalismo in crisi
All’origine del sisma c’è l’indebolimento della democrazia
Lo scacco del modello liberista getta luce sulle radici materiali della crisi
dei sistemi rappresentativi. Non se ne esce rivolgendosi ai buoni sentimenti
di Michele Ciliberto (l’Unità, 24.01.2012)
È vero: nel dibattito politico italiano c’è un elemento di grave provincialismo. Non so se questo dipenda, come pensa Donald Sassoon, dalla fine del Pci che si muoveva in un orizzonte internazionale e abituava i suoi militanti a guardare a ciò che accadeva nel mondo. Non c’è però dubbio che ciò pesi profondamente sia nell’analisi della situazione attuale che nella individuazione di nuove prospettive strategiche.
Basta pensare al modo con cui è stato, in generale, interpretato il fenomeno berlusconiano: come un fatto tipicamente italiano, caratteristico del «populismo» nostrano o, addirittura, come una rinascita, in forme diverse, del fascismo. Mentre è stato la forma specifica assunta in Italia dalla egemonia, a livello europeo, della destre, e si è inserito in un generale processo di crisi e di degenerazione delle forme democratiche.
In questi giorni si è osservato che in Italia, «per governare non è più necessario essere “rappresentanti del popolo”, cioè passati attraverso il filtro del voto». È una tesi discutibile; ma se così fosse, sarebbe, precisamente, l’effetto diretto della crisi della democrazia che si è avuta in Italia negli ultimi due decenni. Non lo sottolineo della generica «crisi della politica» di cui oggi tanto si parla, a proposito e a sproposito; così come, in termini altrettanto generici, e spesso retorici, si parla della necessità di una sua «rigenerazione». Quasi si trattasse di una questione di buona volontà o di un impulso di carattere morale; e non invece di un problema strettamente materiale, che su questo piano deve essere affrontato.
La «crisi» del capitalismo liberista (o finanziario) di cui si parla finalmente in modo aperto getta luce sulle radici materiali della crisi attuale della democrazia e della politica democratica (e sulle stesse ragioni dell’avvento e della fine del berlusconismo), spingendo a guardare oltre i confini nazionali e ad afferrare l’“intero” in cui va situata la vicenda italiana, senza illudersi che essa possa essere risolta adeguandosi al «rigore» di Bruxelles o limitandosi ad avviare una politica certo importante di liberalizzazioni.
Oggi ed è questo il punto centrale c’è un indebolimento generale delle democrazie, una perdita di credibilità delle istituzioni democratiche che viene da molto lontano e che si manifesta anche nella tendenza sempre più diffusa a risolvere direttamente, cioè senza intermediazioni politiche o parlamentari, problemi sia personali che collettivi.
Ma questa crisi ha matrici materiali assai precise e concrete: nei Paesi dell’Ocse per citare un solo, e drammatico, esempio fatto da Sapelli ci sono 250 milioni di disoccupati, e di questi una buona parte sono destinati a restare disoccupati per sempre. Né si intravede, a livello europeo, una presa d’atto di questa situazione; mentre le società diventano, giorno per giorno, più disuguali, più divise, più lacerate e le democrazie perdono sempre più credito, come avviene quando gli individui, volenti o nolenti, sono sospinti nella difesa del cerchio ristretto del proprio interesse particolare.
In una crisi di questo tipo non serve rivolgersi ai buoni sentimenti o indossare i panni di Menenio Agrippa, appellandosi ai valori dell’«ordine sociale». La democrazia vive e si sviluppa se ha solide basi materiali; altrimenti entra in crisi, decade, può morire. Si è sviluppata e diffusa dal 1945 agli anni 70 del secolo corso perché era basata su un organico e conflittuale compromesso tra capitale e lavoro. Oggi è come sospesa per aria, senza fondamento materiale.
Se oggi il problema centrale è quello di «rimotivare» la democrazia, la prima cosa da fare è perciò lavorare per darle nuove basi materiali, ridefinendo i termini di un nuovo «compromesso». E per far ciò le forze riformatrici devono far sentire senza timore la loro voce scegliendo se necessario anche il terreno del conflitto. Fino a poco tempo fa era di moda dire che Marx era morto e sepolto; ora se ne ricomincia a fare il nome.
Certo, i rapporti fra capitale e lavoro oggi si pongono in forme del tutto inedite rispetto al XX secolo; ma come si vede anche dalla crisi attuale, il nesso fra democrazia e lavoro è centrale, strutturale: simul stabunt, simul cadent. È da qui che bisogna perciò ripartire ma ed è un punto altrettanto importante oltrepassando gli orizzonti tradizionali del movimento operaio e costruendo legami materiali, culturali, etici, politici di tipo nuovo che consentano all’Europa di imboccare strade originali, svolgendo il compito che le spetta nel millennio che si è aperto.
"Il mito della meritocrazia può distruggere la società"
intervista a Pierre Rosanvallon
a cura di Fabio Gambaro (la Repubblica, 8 novembre 2011)
Solo una società fondata su una vera uguaglianza può garantire la coesione sociale necessaria ad affrontare le difficili prove del nostro tempo. Per Pierre Rosanvallon è una certezza. Il celebre studioso delle forme della politica lo ribadisce nel suo ultimo libro, La société des egaux (Seuil), appena uscito in Francia e già in corso di traduzione in molte lingue. L’intellettuale francese che insegna al Collège de France e dirige La République des idées vi analizza la crisi del concetto di uguaglianza in una società, la nostra, dominata da differenze sociali sempre più marcate. Analisi da cui poi nasce la proposta di "una società degli eguali" che suona quasi come un contributo teorico al movimento degli indignados.
«Gli indignados sono solo la punta dell’iceberg di un protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione sociale», spiega Rosanvallon, di cui in Italia sono disponibili diverse opere, tra cui Il popolo introvabile (Il Mulino). «Purtroppo però l’indignazione non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano. La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega?
«La società condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l’idea che il merito possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche di trent’anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato sull’uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale della democrazia contava di più?
«Certamente. Per le rivoluzioni americana e francese, più che il regime politico contava l’idea di una società senza privilegi e differenze sociali. Per questo la parola "uguaglianza" era tanto importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e condivisa. Nella frattura sociale rischia d’insinuarsi il populismo, vale a dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il populismo risponde con l’esaltazione di un sentimento di comunità fittizio, basato su un’ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent’anni l’eguaglianza sociale è arretrata?
«La società ha progressivamente abbandonato il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo dell’individualismo?
«E’ stato un fattore strutturale determinante, per altro favorito dall’avvento del nuovo capitalismo d’innovazione, il quale valorizza la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poila meritocrazia e l’uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica dell’individualismo».
In che direzione?
«Agli albori della democrazia, l’individualismo era universalizzante. Essere un individuo significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la stessa libertà. Da qui l’idea di una società d’individui simili e uguali. Oggi invece prevale la domanda di singolarità, l’individualismo che ci distingue dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d’elezione nella società dei consumi. Abbiamo l’impressione di avere un potere supplementare sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicano come ideale della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere l’uguaglianza al centro della società?
«Insistere sul merito e sull’eguaglianza di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia dell’uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo. Dall’eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all’eguaglianza come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società d’eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si può più pensare all’uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. Ma accanto a questa eguaglianza "di posizione", va promossa l’eguaglianza "d’interazione", da cui dipende il sentimento di reciprocità, che è fondamentale per la coesione sociale».
Perché la reciprocità è così importante?
«C’è reciprocità quando ciascuno contribuisce in modo equivalente ad una società dove l’equilibrio dei diritti e dei doveri è lo stesso per tutti. L’assenza di reciprocità produce il sospetto sociale e la mancanza di fiducia nei confronti della collettività. Più la fiducia viene meno, più i cittadini si allontano gli uni dagli altri. La reciprocità è alla base delle cosiddette "istituzioni invisibili" che regolano la vita sociale: vale a dire, la fiducia, la legittimità, il rispetto dell’autorità. Oggi le istituzioni invisibili penano a mantenere il loro statuto e la loro efficacia. Ecco perché è necessario rimettere l’uguaglianza al centro dello spazio sociale, rendendo possibile tra l’altro quell’eguaglianza "di partecipazione" che è al centro della vita politica democratica. La possibilità per tutti di intervenire nella vita pubblica, anche al di là dell’esercizio del voto. Favorire questo tipo d’uguaglianza, da cui poi dipende anche la redistribuzione economica, è interesse di tutti. Un mondo di disuguaglianze, infatti, oltre ad essere un insulto ai più poveri, è anche un mondo dominato dall’insicurezza, dalla violenza e da costi sociali sempre elevati. La società della disuguaglianza non solo è ingiusta, ma è anche una minaccia per tutti».
La rivincita dell’égalité
Dalla Francia, il politologo riformista Rosanvallon rilancia un valore rimosso negli anni del neoliberismo trionfante. Anche a sinistra
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 24.01.2012)
In tanti l’hanno cercata, nessun l’ha trovata. Stiamo parlando dell’uguaglianza, uno dei valori fondamentali (anzi, quello costitutivo, per Norberto Bobbio) del progressismo, sbrigativamente liquidato da Reagan e dalla Thatcher, e uscito alquanto ammaccato da questi nostri decenni di neoliberalismo trionfante. Persino all’interno della sua famiglia politica di pertinenza, che, data per persa la battaglia, ha preferito dedicarsi alla governance dell’esistente, limitandosi a smussare le punte più ferine degli spiriti animali dell’indomabile turbocapitalismo. O si è invaghita delle teorie normative della giustizia di filosofi politici come John Rawls e Amartya Sen, le quali, immerse nei «veli di ignoranza» e nei modelli astratti di approccio alle scelte pubbliche, tra l’eguaglianza e l’equità prediligono di gran lunga la seconda.
Ecco perché in Francia - il Paese per antonomasia del pensiero politico ugualitario è stata salutata alla stregua di un vero e proprio avvenimento la pubblicazione di La société des égaux (Seuil, pp. 428, 22,50), l’ultimo libro di Pierre Rosanvallon, uno dei più noti intellettuali d’Oltralpe, che rimette al centro proprio l’ égalité, questo grande rimosso della riflessione recente della sinistra. Già animatore della cosiddetta deuxième gauche anticomunista e antitotalitaria, storico politico celeberrimo, professore al Collège de France, Rosanvallon è stato uno dei padri spirituali del social-liberalismo e il protagonista di una serie di scontri furibondi con gli esponenti della sinistra radicale (in primis Pierre Bourdieu) che abbonda in terra transalpina. Ora ci consegna questa terza parte della sua monumentale trilogia sulla democrazia (di cui sono già apparsi La contre-démocratie eLa légitimité démocratique ), una impressionante e poderosa genealogia culturale che scandaglia le nozioni e le visioni di uguaglianza lungo il XIX e il XX secolo, impegnandosi anche a sfatare quelli che, nel frattempo, sono diventati spesso dei (falsi) luoghi comuni.
All’epoca della Rivoluzione del 1789 - la scena originaria, l’inizio di tutto per la politica francese contemporanea uguaglianza e libertà costituivano due sorelle inseparabili, da pensare rigorosamente insieme. Col passare del tempo, quanto più si rivelava vittoriosa la «democrazia-regime», sottolinea lo studioso, tanto più si indeboliva la «democrazia-società», mentre l’uragano della globalizzazione finanziaria minacciava duramente la coesione sociale delle nazioni occidentali e ne metteva irreversibilmente in crisi il Welfare State (o, come lo chiamano a Parigi, l’ État-providence ). Nel frattempo, dilagava una delle patologie della democrazia-regime, il populismo, e si diffondevano ondate di indignazione, inadatte però ad approdare a riforme politiche concrete.
È dunque arrivato il tempo, sotto l’incalzare dei guasti sociali e umani, ma anche economici, prodotti dalla dottrina neoliberista, di lanciare un progetto di democrazia integrale, in grado di coniugare insieme le idealità, a lungo contrapposte, di democrazia e socialismo. Uno choc: Rosanvallon è diventato un rivoluzionario? No, rimane il riformista di sempre, serio e rigoroso (sebbene molto più preoccupato), in una nazione come la Francia nella quale questa parola, a sinistra, ha coinciso a lungo con una sorta di epiteto ingiurioso. E, infatti, lo studioso continua a rifuggire da qualsivoglia politica identitaria (caratteristica del comunitarismo anglosassone), come dall’idea (cara a certa sociologia americana) che l’omogeneità (sociale e addirittura etnica) sia l’indispensabile premessa per sistemi egualitari. Nessun livellamento, ma la sfida di pensare, contemporaneamente, uguaglianza, singolarità e differenza (che il neoliberismo restringe e confina alla sfera esclusiva del consumo). Per riuscirci occorre tornare a un’idea di «uguaglianza-relazione» capace di produrre nuovamente legame sociale, e non soltanto un almanacco (troppo virtuale) di diritti.
Perché una società funzioni, sostiene lo studioso, tutti i suoi componenti devono condividere ed essere educati a tale idea egualitaria, come avevano ben chiaro i leader delle grandi rivoluzioni liberali, francese e americana, che ruotavano dichiaratamente intorno a tre declinazioni dell’idea di uguaglianza: la somiglianza (uguaglianza-equivalenza), l’indipendenza (uguaglianza-autonomia) e la cittadinanza (uguaglianza-partecipazione). Dalla loro confluenza scaturiva, giustappunto, quell’idea di eguaglianza-relazione che alimentava una visione di bene comune e portava con sé le nozioni benefiche di temperanza e misura, che dobbiamo riscoprire ora. Come pure quelle di frugalità e sobrietà, naturalmente nell’accezione di Adam Smith e non in quella del teorico della decrescita Serge Latouche (di cui sta uscendo da Bollati Boringhieri l’ultimo libro, Per un’abbondanza frugale ). Da qui devono dunque ripartire le democrazie liberali, «facendo società», in primis attraverso una nuova politica urbana che riduca i ghetti metropolitani e le barriere sociali tra quartieri.
La ricetta rosanvalloniana prevede anche dosi massicce di «reciprocità» (con un servizio civile a favore della collettività) e di condivisione, a partire da quella del sapere: scuola e educazione rappresentano gli strumenti che devono permettere agli individui di liberarsi da tutto ciò che limita i loro orizzonti. Et voilà il senso della società degli eguali, che rappresenta il luogo politico nel quale i cittadini possono, al tempo stesso, essere eguali e diversi, simili e singoli, dediti a costruire percorsi collettivi, senza tuttavia rinunciare mai alla loro irriducibile individualità. Per questo occorre una sinistra che archivi definitivamente la versione di «partito della spesa, del fisco e della redistribuzione» per trasformarsi in soggetto portatore di una concezione allargata dell’uguaglianza.
Insomma, nessuna paura, Rosanvallon non si è convertito in un teorico postmoderno del «comune» à la Toni Negri, ma resta un saldo social-liberale (o liberalsocialista come diremmo noi). Proprio da quei lidi politico-culturali, infatti, proviene ancora una volta - come già ai tempi di Gobetti - una delle più convincenti perorazioni sulla necessità di un ritorno alla nozione di eguaglianza: da Stéphane Hessel (di cui, per i tipi di Add, è appena uscito Danza con il secolo) allo scomparso Tony Judt, sono proprio i liberali di sinistra a raccontarci quanto Guasto è il mondo (come Laterza ha intitolato un bel libro dello storico inglese), a causa delle teorie dei ChicagoBoys.
Tutte letture da meditare attentamente - a partire da quella di Rosanvallon, accademico di Francia (e dunque anch’egli, decisamente, un professore doc) per quel pezzo di sinistra italiana che si trova a disagio con talune scelte del governo dei professori, ma non vuole tornare a inseguire improbabili utopie.
Manconi: «considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea»
Sorpresa, il personalismo può rifondare la sinistra
Due decenni fa questo termine sarebbe stato guardato con sospetto. Oggi, per fortuna, è tornato ad essere il perno delle iniziative sociali e legislative in tema di diritti e di libertà individuali
di Luigi Manconi (l’Unità, 16.09.2011)
Grazie al cielo non c’è stato bisogno di alcuna cruenta guerra culturale o di una feroce controversia ideologica per far sì che nel vocabolario politico e nel discorso pubblico il termine persona venisse accolto a pieno titolo. Questo va ricordato perché, appena due decenni fa, quella stessa parola sarebbe stata guardata con perplessità. Non dico osteggiata, ma certo vista con sospetto, in quanto troppo profondamente denotata sotto il profilo storico e culturale-religioso. Questa acquisita maggiore elasticità mentale è un positivo segno dei tempi, che ci consente di abbandonare alcuni tabù linguistici e di conseguenza (si spera) gli stereotipi costruitivi sopra.
Persona, va da sé, richiama irresistibilmente il personalismo ovvero lo dico in estrema sintesi quella corrente di pensiero che pone al centro dell’universo dei valori e dell’azione la persona umana. Il personalismo una filosofia non un sistema, sottolineava Jacque Maritain ha una sua origine, una sua prima definizione (con Charles Renouvier) e un certo numero di autorevoli pensatori (dallo stesso Maritain a Paul-Ludwing, Max Scheler, Romano Guardini e, in particolare, a Emmanuel Mounier), ma qui il personalismo interessa meno in quanto orientamento filosofico e molto più in quanto ispirazione culturale e politica.
Sotto questo profilo, il personalismo come centralità assoluta della persona umana ha una storia millenaria che va ricordato lo connette strettamente alla categoria di eguaglianza. Più di recente, si ritrova una significativa ascendenza, anche quando non dichiarata, nel pensiero di Antonio Rosmini, nonostante le molte differenze e persino gli aperti conflitti rintracciabili nelle due elaborazioni. Ma è proprio la complessità e anche contraddittorietà della traccia che tiene insieme la categoria di persona, come elaborata dall’asse Maritain-Mounier e come elaborata da Rosmini e da molti altri ancora, che consente oggi di considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea. Insomma, proprio il fatto che la riflessione cristiana e cattolica sulla persona non è un sistema compatto, ne incrementa la diffusione e ne accentua la fertilità. Cosicché oggi quella stessa riflessione, esplicitata o meno, costituisce una componente ormai acquisita dell’identità culturale della sinistra più matura: e non c’è dubbio che abbia rappresentato uno dei motivi ispiratori dei programmi sociali del riformismo europeo, a partire dalle prime politiche di Welfare.
Ma torniamo a Rosmini: si deve ancora a lui (certo non solo a lui) la modernissima concettualizzazione del nesso profondo tra corpo/soggettività, persona e diritto: «il diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente». Ciò a dire che la persona nella sua prima costituzione, fondata su corpo e psiche, è la fonte e la sede dei diritti inalienabili dell’uomo e la radice stessa della libertà umana. Ecco, se partiamo da tali indicazioni e da ciò che il personalismo novecentesco ha successivamente elaborato con una particolare valorizzazione della corporeità si può giungere ad accogliere il concetto di persona come quello decisivo per una ridefinizione dell’agire sociale e dell’azione politica nelle società contemporanee. Tutto questo a prescindere dalle altre implicazioni proprie del personalismo come filosofia dotata di una profonda matrice religiosa; e a prescindere, soprattutto, dalla dimensione conflittuale dello scontro ideologico che, nella seconda metà del Novecento, ha portato quella filosofia alla contrapposizione, spesso assai aspra, nei confronti del marxismo.
Ciò che conta oggi, per chi ha ancora fiducia nella politica, e vuole sottrarsi sia alle tentazioni sincretistiche che alle dispute filologiche (saranno i filosofi a dedicarsi a queste ultime), è il ruolo della persona umana. E il nesso indissolubile tra coscienza e responsabilità sociale. Non è questione oziosa: la politica contemporanea va in tutt’altra direzione e si manifesta o come rappresentanza di “solidarietà corte” e interessi organizzati (lobbies e corporazioni, sindacati e ordini) o come residuale espressione di gruppi sociali (movimenti collettivi e lavoro precario, segmenti di territorio e fasce generazionali). Questi soggetti che chiedono e talvolta ottengono rappresentanza sono spesso meritevoli di tutela e, pertanto, l’errore non consiste nel volerne proiettare le domande sulla sfera politica. L’errore risiede, piuttosto, nell’incapacità pressoché generalizzata di partire proprio dal nucleo essenziale della loro costituzione materiale. E dalla politica che lì si può fondare. Ovvero la politica come proiezione nella sfera pubblica delle domande di diritto e di libertà che nascono dalla persona. I bisogni umani che trovano, appunto, nella persona la loro fondazione e la loro legittimazione come diritto richiedono una tutela che solo la politica può garantire. Oggi più che mai.
Dunque, la centralità della persona è la qualità possibile della politica contemporanea, nell’epoca dell’individualismo e nelle società liquide. Inutile inseguire rappresentanze di classe, pericoloso assecondare tutele di corporazione. È la persona umana che fonda la politica e la sua ricostruzione e ridefinizione a partire dall’individuo come premessa di una identità condivisa che, a questo punto, può anche essere di gruppo sociale e persino “di classe”, nella sua antica accezione. Che quanto fin qui detto sia tutt’altro che astrazione, è agevolmente dimostrabile. Due questioni cruciali della politica contemporanea, non solo in Italia, rimandano puntualmente a quel rapporto prima indicato tra corpo/soggettività, persona e diritto. Le tematiche di “fine vita” e, dunque, il Testamento biologico, l’autodeterminazione del paziente, la libertà di cura, la “sovranità su di sé e sul proprio corpo” da lì discendono; ma anche l’habeas corpus, le garanzie individuali, l’immunità del recluso e l’irriducibilità dei suoi diritti fondamentali, a quel rapporto rimandano. E lo rendono più che mai attuale e urgente.
Le piazze della primavera (globale). Il softpower della politica
Dal web alla partecipazione, anatomia del nuovo attivismo
di Raffaele Simone
(la Repubblica, 25.06.2011)
Le primavere delle piazze arabe, gli indignados madrileni, il fronte referendario in Italia: un’onda anomala fa sentire sempre di più la sua voce al Palazzo. I protagonisti sono qualcosa di più e di diverso dei vecchi movimenti. Sono trasversali, si mobilitano su singoli temi via internet, hanno strutture veloci e leggere senza gerarchie né troppe regole. Per definirli in Usa hanno coniato il termine di "click activism". Ma comunque li si chiami una cosa è certa:stanno rivoluzionando il rapporto tra cittadini, partiti e potere
Su Europa e dintorni s’è rovesciata da tempo un’onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità politica di quest’inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo "movimenti", ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi.
È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l’azione dei partiti pur tenendosene a distanza.
Quei movimenti hanno alle spalle vari predecessori, che negli ultimi anni sono riusciti a richiamare folle nelle piazze quasi senza aspettarselo: i girotondini, le bandiere iridate, le donne di "Se non ora quando", i movimenti per la costituzione, i no-global fino ai gruppi dei grillini. Se dapprima quelli sembravano fenomeni estemporanei, ora è chiaro che sono un trend della cultura politica della modernità.
Anzitutto, l’onda è internazionale. Nelle rivolte in Egitto, in Tunisia e in tutto il lato sud del Mediterraneo la parte decisiva spetta a movimenti "leggeri", di uomini, donne e perfino ragazzi, convocati, raccolti e messi in movimento con messaggi sms.
Senza la "primavera del gelsomino" (come qualcuno l’ha chiamata), Tunisia e Egitto non si sarebbero liberati dei tiranni. In Ucraina il movimento arancione si è adoperato contro il regime poliziesco del paese; e il colore arancione è stato ripreso anche in Italia come simbolo di gruppi di sinistra per i quali il "rosso" non era più abbastanza espressivo. Gli "Indignados" madrileni, per parte loro, si sono riprodotti in tutta la Spagna e in Portogallo e sembrano destinati a influire ancora sulla Grande Politica.
Una delle proprietà di questo fenomeno è la trasversalità. Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: i beni comuni, la dignità delle donne, la difesa della Costituzione, la salvaguardia dell’ambiente.
In Spagna, il movimento "¡Basta Ya!" ("Ora basta!"), tra i cui fondatori c’è anche Fernando Savater, si è battuto contro il terrorismo e per la definizione di un nuovo statuto di autonomia per i baschi; il gruppo francese "Ni putes ni soumises" ("Né puttane né schiave") si adopera dal 2003 in nome della dignità di genere.
La varietà degli obiettivi ha generato anche un gergo: il flash mob, ad esempio, è un movimento che colpisce e si dissolve, come il cartello "Riprendiamoci le spiagge", formato da studenti e precari, che l’altro giorno ha invaso la marina di Ostia senza pagare il biglietto di ingresso. Si tratta insomma di una sorta di attivismo reticolare, che opera in modo leggero, rapido e percussivo (negli Usa è nata la parola "click activism", per la capacità di reazione data dal web).
Trasversali come sono, queste entità esprimono stanchezza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e distanti dalle esigenze della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e concreti. In sintesi: se i partiti sono l’antico hardware della politica, gli attivismi ne rappresentano il software. Da qui l’esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. Ci si può ritrovare la categoria di "leggerezza" di Calvino o la versione migliore della società liquida di Bauman. L’estraneità ai partiti è dovuta anche all’illusione, molto viva, di praticare una sorta di democrazia diretta: una specie di "co-produzione della cittadinanza" (come la chiama Robin Berjon) che duri al di là delle pure elezioni e che permetta di tenere d’occhio le persone a cui viene conferita la delega a governare.
Ma dietro i meriti stanno una varietà di punti deboli. Uno, cruciale, è la volatilità, inevitabile in ogni organizzazione soft e poco strutturata. La storia parla chiaro. Quasi dimenticato il movimento dei girotondi, uscito dal giro quello delle bandiere iridate. L’ultimo blog di "¡Basta Ya!" (www. bastaya. org) apre con un triste "Despedida" ("Congedo"): la mancanza di denaro e di persone che possano lavorare nel sito giustifica la chiusura dopo diversi anni.
Per orientarsi in questa foresta sono nati vari siti, come il francese "Mouvements", ricchissimo di dati. D’altro canto, l’uso della rete è un carattere cruciale di questo trend. Siccome i movimenti non hanno indirizzo né sede, non hanno soci né fondi, non hanno segreterie né archivi, la rete è la loro casa: portali fatti alla svelta, convocazioni lanciate all’istante per mail o sms, liste di simpatizzanti raccolte con Facebook, senza carta, francobolli o servizi postali.
Nella storia pullulano del resto i casi di regimi e forme politiche che si sono costruiti sfruttando i media del tempo: l’uso della radio e del cinema contribuì in modo decisivo all’affermazione di fascismo, nazismo e stalinismo. Degli effetti politici della televisione paghiamo ancora lo scotto.
Ma ora il medium in gioco non è più unidirezionale, ma è interattivo, istantaneo e soprattutto "sociale" e dilagante. Per questo non sappiamo ancora che effetti la rete potrà avere sulla nascita di nuovi paradigmi culturali e politici, ma sarebbe bene che a questo tema si dedicassero accurate previsioni, soprattutto in un paese come l’Italia, dove per il Palazzo la rete è solo un divertente gadget per perditempo.
Il fenomeno dei movimenti non interpella solo i cittadini, che vi trovano nuovi modi di esprimersi e di farsi sentire. Interessa ancora di più i partiti veri e propri e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti fortemente anti-partito e contengono una rischiosa istanza di "uguaglianza estrema" (come diceva Montesquieu).
Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente avvelenato con le metodiche del partito: nomenklature, correnti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze, ecc. Possono senza dubbio servire come elettrochoc per partiti in affanno (come nel caso del Pd in Lombardia), ma il loro rapporto coi partiti è insieme di attrazione e repulsione.
Se riesce a non dissolversi, il movimento prima o poi presenta il conto, con il rischio di trasformarsi in partito o, peggio ancora, in frazione (come accadde coi Verdi in Germania) o in lobby. Altrimenti, il movimento, se è colto da "impazienza verso i limiti" (l’espressione è di Dominique Schnapper), può diventare un fattore di "regresso democratico", insomma un pericolo.
Dall’altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi perché hanno perduto le antenne per "sentire" le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, dato che i movimenti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni della gente, anche se non sanno trasformarli in progetti e proposte, e tantomeno gestire i propri eventuali successi. In ogni caso i partiti e le istituzioni sono avvisati: attenti, un movimento potrebbe seppellirvi!
SAPERE AUDE! USCIRE DAL "CERCHIO DEI CERCHI" DELLA FILOSOFIA DI HEGEL.
PAROLA DI ENRICO BERTI: Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa».
E’ talmente vero quello che pensa Berti (e, con lui, la maggioranza dei suoi colleghi di filosofia e storia della filosofia) che qualsiasi studente e ogni studentessa per educarsi all’uso della sua propria intelligenza e alla sua "facoltà di giudizio" deve ricorrere non alle sue (e loro) letture di Kant, ma a qualche perito o a qualche manuale di estimo: l’estimo è la disciplina che ha la finalità di fornire gli strumenti metodologici per la valutazione dei beni per i quali non sussiste un apprezzamento univoco!!!
MATERIALI SUL TEMA, NEL SITO, IN:
Gioacchino - da Fiore!!!
2001*
PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriarno gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA.
***
CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...
E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA
CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA
DI CITTADINI
SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI
E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo
di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua
AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di
tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE,
STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE
STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO
ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani
che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere
ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere
un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi
non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere,
in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede
una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di
[...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli
occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe
Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO
CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione
e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione
dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e
deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un
ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista
(cfr. il documento Dominus Jesus di Ratzinger, le dichiarazioni anti-
islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il
3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita
politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto I’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund Freud),
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA,
e
PROPONGO
di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione
e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i
nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato
vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’
invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani
ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più
una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte
conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria
dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a
noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano
personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE deila SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
P.S.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente,
si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine
di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,
allora, al termine della catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. I 3-14.
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva, coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della
"Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson
Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva
solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo
di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi,
i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale
della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già
nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore,
1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà
democratica coincide con la massina metamorfosí verso un
più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i
popoli del mondo".
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
Torna in libreria il "Discorso sulla servitù volontaria" di de La Boétie
Perché i popoli scelgono i tiranni
La prima edizione circolò anonima nella Francia delle guerre di religione.
L’autore era amico di Montaigne, che considerava l’opera un esercizio adolescenziale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.06.2011)
È meglio servire o essere liberi? La domanda sembrerebbe oziosa: un’intera tradizione delle culture occidentali ha risposto con le parole di Amleto: meglio morire che sopportare l’oppressione dei tiranni e l’insolenza del potere. Ma la realtà storica e politica parla una lingua diversa: quella della corsa a precipizio dei popoli verso la servitù - la "servitù volontaria": avere posto al centro del suo Discorso sulla servitù volontaria (Chiarelettere) proprio questa espressione è il principale, quasi unico titolo di gloria di Étienne de La Boétie, quello che fa tornare di tempo in tempo in libreria il suo scritto dopo la prima edizione postuma e anonima che vide la luce nella Francia delle guerre di religione. Allora il potere monarchico era in crisi, la furia dell’intolleranza religiosa scuoteva i troni e il pugnale dei tirannicidi minacciava la vita dei re. Ma anche se il libretto di Étienne de La Boétie fu edito in un contesto tanto agitato e violento con un titolo di battaglia - Contr’un -, si sbaglierebbe a definirlo un testo rivoluzionario.
Renzo Ragghianti, il nostro più esperto studioso dell’argomento, ha osservato che fu proprio Michel de Montaigne a considerare lo scritto dell’amico scomparso una declamazione giovanile, quasi un esercizio adolescenziale costruito su luoghi comuni letterari. E quanto al sintagma "servitù volontaria", Mario Turchetti nella sua vasta ricostruzione storica della discussione su tirannia e tirannicidio ne ha fissato l’origine al commento medievale di Nicole Oresme alla Politica di Aristotele. Tutto questo però non cancella il fascino delle pagine di Étienne de La Boétie. C’è in apertura quel genuino sentimento di stupore di chi fa una vera scoperta: «com’è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino un tiranno che non ha altra forza se non quella che essi gli danno?».
Questo è un problema vero: ci volle Thomas Hobbes per trovare la risposta. Una risposta racchiusa in una parola: paura. È per paura che gli uomini rinunciano alla libertà dello stato di natura e si piegano alla servitù del potere politico. Poi, con la nascita delle costituzioni liberali e democratiche, si pose il problema ulteriore se fosse preferibile sottoporsi al potere di uno o al potere di molti. E accanto a democratici e liberali favorevoli al governo dei molti sorsero i reazionari alla De Maistre, maestro perenne della genìa dei "servi liberi" di un padrone solo. Ma quella descrizione di Étienne de La Boétie di popoli supinamente acquiescenti e di tiranni che li addormentano con gli spettacoli, i bordelli e la religione, resta carica di una sua attualità (come nota il curatore Paolo Flores d’Arcais).
Pensiamo per esempio al modo in cui de La Boétie viene discoprendo dietro la figura solitaria dell’uno tutta una rete di complici e di clienti: quell’uomo apparentemente solo ha una piccolissima corte di sei complici delle sue ruberie e ruffiani dei suoi piaceri. Da loro dipendono seicento profittatori: e dai seicento dipendono altri seimila. Tutti sono legati tra di loro dalla spartizione di poltrone politiche e di fortune finanziarie, tutti coperti dall’impunità garantita da un potere che sospende o cancella la validità delle leggi. È un modello in cui parte dell’Italia di oggi può ben riconoscersi.
Si può spingere l’analogia anche più in là. Nel testo resta una sproporzione tra l’empito libertario della denunzia e la modesta proposta che si intravede: la speranza dell’autore si affida al ceto degli uomini di legge di cui fa parte e all’autorità dei Parlamenti, cioè a una minoranza di magistrati chiamati a difendere i diritti naturali degli uomini e a fare argine alla prepotenza del tiranno. L’alternativa libertà o morte non gli appartiene.
E non appartiene nemmeno alla maggior parte di noi lettori. A qualcuno di noi sì, se consideriamo tra i "noi" i disperati che attraversano il canale di Sicilia per diventare italiani. Ci vuole uno sguardo straniero per cogliere le assurdità delle nostre forme di convivenza civile e politica.
Non è per caso se l’accusa di "servitù volontaria" è diventata davvero celebre nella cultura europea solo quando Montaigne ebbe l’intuizione di farla sua mettendola però in bocca a chi davvero aveva i titoli per guardare alla realtà della nostra società con sguardo estraniato: i selvaggi brasiliani da lui incontrati a Rouen. Secondo Montaigne quei "barbari" vestiti di piume si erano meravigliati, come de La Boétie, che tanti uomini "civili" obbedissero a un re bambino; ma ancor più si erano stupiti della passività di una massa di popolo che moriva di fame senza ribellarsi.
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica" Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 16.06.2011)
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è - parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne - questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome - apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L’opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo.
Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?
c)L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti.
La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria.
Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il "pane terreno" che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano "liberamente", dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.