michel foucault
L’indocile autonomia della presa di parola
Pubblicato in Francia «Le gouvernement de soi et des autres» il volume sul corso tenuto nel 1983 al Collège de France. Una ulteriore tappa del filosofo francese nella critica del Politico La virtù democratica per eccellenza non è la decisione, ma l’esercizio della libertà da parte dei dominati nella complessa relazione che li oppone al governo della città
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 16.02.2008)
Entrava nell’anfiteatro rapido e grintoso. Prima di iniziare le sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault sembrava pronto a tuffarsi in acqua. A metà degli anni Settanta, le cronache ne descrivono la voce forte ed efficace, i suoi tentativi di posizionare gli appunti tra i magnetofoni, unica concessione alla modernità analogica in una sala semibuia ricolma di stucchi, appena rischiarata da una lampada che l’autore di Sorvegliare e punire accendeva prima di iniziare a parlare a cento all’ora.
Grazie ai quei magnetofoni, e alla cura filologica di Frédéric Gros, Gallimard e Seuil hanno da poco pubblicato il corso, registrato tra il gennaio e il marzo del 1983, Le gouvernement de soi et des autres (pp. 382, euro 27). Per quindici anni, le densissime dodici ore di insegnamento al Collège de France sono state affrontate da Foucault come un’esplorazione di territori remoti in vista di libri a venire. Nelle sue intenzioni, questo corso del 1983, insieme a quello tenuto all’università californiana di Berkeley nel secondo semestre dello stesso anno, raccolto dieci anni fa in Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli), avrebbero dovuto confluire in un libro dal titolo omonimo, mai pubblicato a causa della morte del loro autore.
Già nel corso del 1982 su L’ermeneutica del soggetto (Feltrinelli), Foucault aveva spiegato la sua intenzione di rivolgersi alla cultura classica, in quel caso la sessualità e la cura del sé in Grecia e a Roma, come parte di una storia delle pratiche attraverso le quali un soggetto si costituisce, e a partire dalle quali esso giunge ad un rapporto con la verità. Il corso del 1983 sposta il progetto su un terreno più direttamente politico, assumendo l’idea che il discorso filosofico in Occidente si è costituito sulla piega del governo di sé e degli altri.
La città ideale
Le gouvernment de soi et des autres ripensa il rapporto tra filosofia e politica alla luce dell’analisi sul governo esposta nei corsi Sicurezza, territorio, popolazione (1977-1978) e Nascita della biopolitica (1978-1979, pubblicati entrambi sempre da Feltrinelli). Nella tradizione platonica, di cui Foucault offre una rilettura originale, filosofia e politica intrattengono un rapporto vincolante, al punto che si parla comunemente di «filosofia politica» il cui oggetto è la descrizione della città ideale, retta da un insieme di leggi, fondate sull’uso corretto della ragione.
Nel corso del 1983, Foucault sostiene che il territorio «reale» della filosofia non è quello di proporre leggi, dare consigli al principe, persuadere le masse, ma di esercitare una libertà, conquistare la conoscenza di una verità che il soggetto trova nella propria vita, come in quella altrui, e non nei principi stabiliti da un regime politico.
All’opposto della tradizione platonica, per Foucault il rapporto tra filosofia e politica si configura in un’«esteriorità indocile» nella quale la filosofia gioca un ruolo autonomo rispetto al potere, puntando sull’espressione pubblica e rischiosa della convinzione politica di chi la esercita.
Tale espressione era stata definita già nell’Ermeneutica del sé come parresia, quella facoltà del «parlare vero», o «liberamente», che attribuisce un potere esemplare alla libertà di parola esercitata da un maestro di esistenza (Socrate, ad esempio). Ne Le gouvernment de soi et des autres, la parresia non viene più considerata solo come l’espressione del rapporto maieutico tra maestro e discepolo, né come rapporto preferenziale tra il filosofo e il tiranno, ma come l’atto politico con il quale il singolo (e non più soltanto il «filosofo») prende posizione rispetto alla propria comunità. Nelle sue varie forme - socratica, platonica, stoica ed epicurea -, la parresia indica un’esteriorità singolare rispetto alla politica, un’irriducibile posizione critica di un uomo, o di una donna, rispetto al governo dello Stato. La «realtà» della filosofia non è dunque un sistema costituito di conoscenze, ma un gioco politico le cui regole e scopi vengono formulati all’interno dei rapporti di forza immanenti alla politica.
Il coraggio del rifiuto
Da Euripide a Platone, la parresia si è manifestata in due grandi forme. La prima è quella della parola che l’oratore rivolge all’assemblea dei cittadini allo scopo di vedere trionfare la propria concezione dell’interesse generale. La seconda forma è il discorso che il filosofo rivolge privatamente al principe per rivelargli le insidie che lo attendono nel governo della città. Chi governa la polis deve accettare il fatto che i più deboli sono in grado di dire la verità, anche quella più scomoda. Coloro che invece non hanno il potere, ma ritengono di possedere un’idea più giusta del governo della città, devono dimostrare di essere capaci di governare il gioco politico nel quale prendono la parola. La disponibilità all’ascolto degli uni, e il coraggio politico degli altri, traducono per Foucault le condizioni del «patto parresiastico» che governa una democrazia.
Foucault definisce il luogo dove avviene tale confronto permanente «dunasteia», quella dimensione dove i parresiastes esprimono la potenza del loro discorso, mentre i governanti esercitano il proprio potere. La democrazia non viene qui intesa come forma di governo, nella quale vige l’idea giuridico-istituzionale per cui la politica è regolazione dell’esistente, o istituzione di una forma di governo ben regolata.
Per Foucault, la democrazia non esiste solo in base al diritto di nascita, o di censo, dei cittadini, ma in nome del coraggio da parte dei singoli (anche non cittadini come Ione nell’omonima tragedia di Euripide) di dire la verità sulla cosa pubblica.
Nel famoso discorso agli ateniesi riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, Pericle ha elogiato questo coraggio come unica garanzia per mantenere l’uguaglianza tra i cittadini. Non è dunque solo il merito individuale, ma è la presa di parola in nome dell’interesse generale a stabilire i criteri di partecipazione al gioco politico. Per Foucault, quello politico è un gioco pericoloso che minaccia di sciogliere il patto tra il potere e i parresiastes.
La trama realistica di questo gioco rivela che la democrazia non è semplicemente creazione di regole, ma esercizio della potenza (dynamis) nei termini agonistici della «lotta» nella quale i soggetti fanno «esperienza» di sé e degli altri nell’ipotesi, mai normativa, di un governo della città.
Il rischio della democrazia
Questa genealogia della democrazia a partire dall’evento archeologico della presa di parola contrasta con l’idea, ormai dominante, che la virtù democratica per eccellenza sia la decisione. A questa visione oligarchica della democrazia (la decisione è sempre quella di una classe dirigente), Foucault contrappone l’idea che una democrazia esiste a partire dalla differenza introdotta dalla presa di parola. Anche la filosofia moderna, fino al Sapere aude! di Kant, rifiuta le autorità costituite del sapere riattivando la struttura parresiastica della politica. Se una decisione esiste, essa è quella di chi dice la verità al potere e non si sottrae ai rischi che questo comporta. Per Foucault, ciò che ha valore nel gioco politico è solo l’esercizio di una parola coraggiosa e libera. Il suo scopo non è governare meglio lo Stato, ma trasformare la maniera di vivere dei soggetti.
Corpo a corpo con il potere della verità
La svolta «greca» degli anni Ottanta chiama in causa le fonti della tradizione occidentale. È in questo contesto che il «parlar chiaro» non ha nessun significato edificante, ma riguarda la possibilità di trasformare la vita nella polis
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 16.02.2008)
È noto che per Michel Foucault la scrittura in vista della pubblicazione era invenzione o deviazione che si staccava come una lamina dal flusso della sua ricerca. Lo stile dei suoi libri era troppo elegante per poter dar conto di un travaglio in cui accidenti, intoppi e svolte improvvise rappresentano vere e proprie emergenze produttive. Da questo punto di vista, l’uscita del settimo volume, su tredici, dei corsi al Collège de France è un ulteriore, prezioso accesso a quello che non esitiamo a definire come il laboratorio storico-filosofico più imponente della seconda metà del XX secolo.
Scorrendo l’elenco dei corsi vediamo come il plesso soggetto/governo, fuoco dell’intera opera foucaultiana, sia indagato nei mondi delle pratiche scientifiche e dei controlli, delle strategie, dei saperi e dei discorsi istituzionali. Ma quella che fino alla fine degli anni Settanta poteva essere considerata come indagine storica controfattuale sulla preistoria della contemporaneità diviene ora interrogativo filosofico sul presente. La svolta «greca» dei primi anni Ottanta è il gesto radicale con cui il filosofo Foucault chiama in causa le fonti stesse della tradizione occidentale. Non sorprende così che il corso Le gouvernement de soi et des autres sia inaugurato dalla lezione su Che cos’è illuminismo di Kant. È la posizione del problema, la libertà di coscienza, che per Foucault non ha alcun significato intimistico o edificante, ma riguarda l’atteggiamento del pensiero davanti alla verità, in primo luogo del potere.
Da qui, dall’ancoraggio alle radici filosofiche del presente, si svolge un’analisi accuratissima, ai limiti dell’acribia, del concetto chiave di parresia, il «parlar franco» o «parola verace», potremmo dire. La traduzione a breve, si spera, del corso farà rapidamente giustizia anche da noi delle interpretazioni spiritualiste e cattolicheggianti, sulla falsariga di Pierre Hadot, che, in una fase di ripiegamento politico e accidia teorica, sono profuse a proposito della parresia. Perché questa - letta da Foucault nelle tre figure dello Ione di Euripide, del Pericle di Tucidide e del Platone della VII Lettera, nel contesto della crisi della democrazia ateniese - è in principio la presa di parola politica.
Si tratta di un gesto che può essere esterno alla polis, passionale, fonte di fraintendimento, in cui però, alla lunga emergono due accenti complementari: perché il forte, che sia principe o cittadino eminente di una democrazia (per intendersi, un uomo come Pericle), possa dire la verità alla sua città, è indispensabile che il debole, la vittima di un’ingiustizia, sia capace di gridargli in faccia la propria verità.
Il contesto è l’Atene della guerra del Peloponneso, la scena è l’agorà, la cornice è una relazione di potere, o se vogliamo di governo, in cui governanti e governati possono ancora vedersi in faccia, parlare ad alta voce e assumere i loro rischi. La scelta foucaultiana, in senso stretto tragico-teatrale, di mettere in scena un mito politico consente di ripercorrere la successiva torsione filosofica e insieme il declino pubblico della parresia: dalla politeia alla teoresi e da qui alla soggettività del filosofo.
È infatti con Platone che il «parlar franco» diverrà prerogativa del filosofo che si rivolge coraggiosamente al principe. Ma il coraggio non è condizione di successo. Gli scacchi di Platone con Dionigi sono la condizione dell’applicazione filosofica come lavoro di sé su sé. Alla fine il coraggio sarà quello del pensiero che interroga arditamente se stesso.
Sarebbe imperdonabile sottrarre al lettore, con cenni inevitabilmente caricaturali, il piacere di analisi che si configurano come corpo a corpo con la filosofia classica e le sue interpretazioni contemporanee: dalla morte di Socrate al confronto con la critica derridiana del logocentrismo. Quello che conta è che, in ultimo, il gesto filosofico primario è identificato con l’ascesi filosofica intesa come esteriorità rispetto al potere, come quella libertà di coscienza e parola in cui il sapere aude di Kant si riannoda alla fondazione greca della filosofia. E in cui lo stesso Foucault, il quale sta sobriamente parlando del proprio pensiero, si colloca sulla scia di Kant.
Ma di quale ascesi si tratta? Non certamente di una discesa senza fine nel soggetto, o di quella pseudo-beatitudine a mezza via tra il pastorale e il pedagogico con cui l’ellenismo contemporaneo sta trasformando in barzelletta il pensiero di Foucault. No, parliamo di un’estraneità costitutiva al potere in cui la filosofia trova la sua vera ragion d’essere. Perché, in fondo, ci dice Foucault, la libertà di parola che irrompe tra gli uomini, nel pericolo di chi la pronuncia, echeggia nella polis, declina con essa e ad essa ritorna, nelle forme ambigue, ma comunque date, del presente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA - di Susanna Cernotti e Eleonora Cirant
IL RISPETTO DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA MAESTRA PER UN’ALTRA POLITICA.
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA #TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del #Sapiente (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori . Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale? Ne parleremo in Triennale l’11 settembre
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato - contro la stirpe, per altro: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli Anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.
L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta Femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.
La negazione del desiderio (femminile)
«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene - racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte -. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».
Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità? Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore - spiega ancora Mapelli - è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».
La prestazione anche nel sesso
Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella - sostenuta dalle teoriche radicali americane degli Anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin - che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile. Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.
Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto. «L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati - dice Todella -. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».
Desideri e sexy shop
Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata - afferma -, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato».
Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».
Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post-porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).
È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista - rileva Bonomi Romagnoli -, dalle ragazze del Sexishock che nel 2001 mettono al centro del loro discorso politico la parola “desiderio” e aprono il primo sexy shop autogestito da donne per donne in Italia, ai femminismi più radicali che pongono in maniera problematica la questione dell’identità sessuale, sostenendo che è fluida e non classificabile una volta per sempre.
Il femminismo d’altronde non può non occuparsi di sesso, perché di fatto un sesso ha ancora potere su un altro, perché si continua a voler dettare norme sulle sue pratiche (vedi il «fertilityday») e perché le relazioni e i rapporti sociali ci sono a partire dai rapporti di forza fra i generi. Affinché siano sane è necessario che la sessualità attenga alla consapevolezza e autodeterminazione dei singoli». Con una consapevolezza nuova rispetto agli Anni 70: la ricerca di una sessualità più autentica è una liberazione non solo per le donne ma anche per gli uomini
L’APPUNTAMENTO IN TRIENNALE
Elena Tebano affronterà l’argomento al Tempo delle Donne cercando di rispondere alla domanda: Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale delle donne? Oggi il loro piacere è davvero più diffuso e riconosciuto nelle relazioni come nella cultura comune?
L’appuntamento è al Triennale Lab, domenica 11 settembre, alle ore 11.30
LA DONNA CLITORIDEA AI TEMPI DI YOUPORN
Il Femminismo e la rivoluzione sessuale: un bilancio
Con Barbara Mapelli, coautrice di Infiniti amori (EDS), Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di Irriverenti e libere (EIR), e Yasmin Incretolli, autrice di Mescolo tutto (Tunuè)
Dominijanni, Ida.
Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi.
Nell’imponente quantità di pubblicazioni sul berlusconismo, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni , è finora l’unica solida riflessione teorica e femminista che ne analizzi gli aspetti fondativi, simbolici e strategici, mettendoli in relazione con la storia culturale e politica italiana degli ultimi quaranta anni e con la dimensione transnazionale.
Con profonda consapevolezza teorica, l’analisi della filosofa, femminista della differenza, saggista e storica editorialista del Manifesto, parte dalla nozione lacaniana dell’ “evaporazione del padre”- cioè la crisi dell’ordine simbolico incarnato dalla legge edipica - e si misura con il pensiero di Foucault, Arendt, Butler, Lonzi, Žižek, e Recalcati, per citare solo i riferimenti più eclatanti.
Ambizioso obiettivo del libro è la riconfigurazione teorica e storica del berlusconismo nel periodo che prende il via dalla stagione del “lungo sessantotto italiano” (33) e del femminismo, estenden dosi alla contemporaneità.
Dominijanni contesta le interpretazioni mainstream: la prima, che vede il berlusconismo come un’anomalia italiana del modello liberal democratico e un attacco ai principi costituzionali; la seconda, che insiste sulla realizzazion e politica della debordiana “società dello spettacolo”; la terza, infine, che denuncia una strategia politica di identificazione con un preciso blocco sociale che mira a difendere i propri interessi socio-economici, sullo sfondo del modello neoliberale e i ndividualista della postmodernità.
Queste tre linee interpretative colgono alcuni dei tratti salienti del regime berlusconiano, nota Dominijanni, ma ne offrono una visione parziale. Il trucco capovolge i discorsi sul berlusconismo, riportando al centro d ell’analisi l’azione dirompente che la sessualità, il corpo e gli affetti esercitano sulla politica. Discutendo il berlusconismo come un’“inedita forma di governamentalità biopolitica e post-patriarcale” (27) fondata sullo scambio di sesso, potere e denaro, la studiosa analizza la sfera della sessualità nella sua funzione, innanzitutto, di strumento di codificazione del “regime del godimento” (25), basato sull’autoimprenditorialità del corpo e della sua libera offerta come merce di scambio negli ambiti socio-culturali ed economici del neoliberalismo.
D’altra parte, è proprio la sessualità, sostiene Dominijanni, ad aver delegittimato il berlusconismo attraverso la denuncia dell’immagine fallace e strategica del sovrano.
Si tratta di una vera e propria ribellione all’ordine simbolico post-patriarcale che prende forma nella presa di parola delle donne del sexgate e rivela la natura del “trucco” che dà il titolo al libro, cioè la fondamentale “impotenza” (17) del sovrano.
Tesi di fondo del libro è che la ventennale egemonia del berlusconismo sia stata neutralizzata non tanto sul terreno economico, quanto per l’appunto su quello della sessualità.
Dopo una premessa metodologica e un’introduzione teorica (“ Dalla fine. Spettri di Berlusconi”), l’analisi si snoda in nove serrati capitoli che discutono i tratti fondanti del berlusconismo nella loro valenza simbolica e storica.
Il rigore dell’argomentazione e l’originale storicizzazione dei fatti si intersecano con la vivacità giornalistica e lo spirito polemico dell’au trice, che sollecita una rilettura del presente alla luce dei dispositivi di potere messi in atto dal berlusconismo. Dominijanni decostruisce i concetti-chiave, le figure e le retoriche del berlusconismo, adottando un criterio di analisi deliberatamente sp iazzante ed efficace, quello degli spostamenti strategici “che hanno consentito alle ‘guerre culturali’ neoconservatrici degli ultimi decenni di costruire egemonia sopra e contro lo stesso terreno arato dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta” (145) .
Questi spostamenti sono semantici, retorici, culturali e simbolici e comportano rilevanti conseguenze politiche.
Lo spostamento valoriale analizzato nel primo capitolo (“La partita della libertà”) investe il concetto di libertà.
Un esempio fra tutti. Allo scopo di auto-legittimarsi come “padre fondatore” (37), Berlusconi si è appropriato della Festa della Liberazione, liturgia fondativa della patria basata sull’eredità culturale e politica della Resistenza antifascista, riformulandola come “Festa della Libertà” (38), cioè una celebrazione unitaria e popolare, tesa ad includere tutte le posizioni politiche.
Con una simile deviazione semantica, Berlusconi ha trasformato il partito in “Popolo delle Libertà ,” affermando la propria identificazione con un’idea astratta di popolo e ufficializzando l’inclusione dell’Italia nell’area valoriale della politica liberale.
Dominijanni sottolinea che questo “slittamento semantico” ha condotto a uno “slittamento politico di prima grandezza” (40), in quanto Berlusconi int erpreta il termine “libertà” in modo ambivalente: da un parte, come volontà di trasgredire le norme stabilite dalla costituzione e, dall’altra, come affermazione della libertà imprenditoriale e consumistica imposta dal neoliberalismo.
In questo contesto, la libertà diviene un’esperienza negoziabile e flessibile, che si realizza ai confini della legalità e può configurarsi sia come affermazione di un diritto che come consenso servile.
Altri spostamenti sono esaminati nel libro. Centrale è la discussione co ndotta nel terzo capitolo (“Parole che contano”), in cui l’autrice discute la funzione destrutturante della parola femminile nei discorsi delle donne coinvolte nel sexgate.
La presa di parola si articola infatti in modalità che vanno oltre le retoriche e i cliché rappresentati dalle donne “parlanti,” cioè l’intellettuale (Ventura), la moglie (Lario) e la prostituta (D’Addario e le altre). Lario, ad esempio, non solo denuncia il tradimento coniugale, ma il sistema di potere che usa le donne per potenziare il corpo del capo e provocare l’identificazione con la popolazione maschile.
Perfino le conversazioni “impietose” delle Olgettine ridicolizzano il corpo del capo, rendendolo una “copia comica e farsesca di se stesso ” (85).
Dominijanni fa notare come la politica berlusconiana abbia messo in atto il “dispositivo dell’internamento” contro queste donne, stigmatizzandole, censurandole e relegandole ai margini del discorso politico.
Questo ulteriore spostamento è strettamente con nesso a strategie retoriche e simboliche che Dominijanni analizza in altri capitoli del libro: lo “sconfinamento” (104) del pubblico nel privato , la ridefinizione in chiave libertina del conce t to di privacy (“Privato e pubblico, personale e politico”) e lo slittamento del rapporto fra morale e politica (“Penale, morale, politico”), in cui l’autrice discute lo “scarto di senso” (141) della narrazione berlusconiana, fondato sulla ridefinizione del rapporto tra libertà, potere politico e legge.
Particolarme nte originale è l’inquadramento storico del berlusconismo a partire dal Sessantotto e dal femminismo, un’intuizione che la studiosa articola nel sesto (“Papi e il nome del padre”) e nel settimo capitolo (“‘Veri’ uomini, ‘vere’ donne”).
Contestando le coordinate cronologiche del ventennio berlusconiano, Dominijanni vede nel berlusconismo la risposta “perversa” (33) e “regressiva” (175) alle istanze innescate dalla stagione del Sessantotto e del femminismo.
Il berlusconismo non ha realizzato quelle istanze, m a le ha invertite, trasformando la domanda di creatività, l’affermazione della liberazione sessuale, il bisogno di democrazia e il conflitto fra i sessi in regime del godimento, mercificazione, populismo mediatico e strategia di assoggettamento e ri- natura lizzazione dei ruoli di genere. In altre parole, il capitalismo neoliberale di cui il berlusconismo è la realizzazione italiana, ha marginalizzato le domande di ribellione e reso ambivalente la nozione di libertà femminile, secondo la quale la “vera” donna è figlia “ sia della rivoluzione femminista sia dell’egemonia neoliberale, e porta dunque sia il segno politico della libertà femminile, sia il segno della sua traduzione nella lingua economica della ‘libera scelta’ e dell’au toimprenditorialità” (194).
Un altro spostamento , quindi, forse il più rilevante sul piano socio- culturale e politico. L’analisi dei dispositivi di potere del berlusconismo elaborata da Dominijanni permette alla studiosa di interrogarsi sulla possibilità di nuovi spazi di soggettivazio ne e pratiche femministe.
Pur tralasciando la prospettiva queer, Dominijanni si confronta con una grande varietà di posizioni critiche contemporanee, fra cui il postfemminismo anglosassone, e contesta le rivendicazioni neo- femministe incentrate sulla lotta al femminicidio, la denuncia del sessismo dei comportamenti e del linguaggio e la richiesta di quote rosa (specie negli ultimi due capitoli: “Dopo il patriarcato. Femminismo e questione maschile” e “Dispositivo di sessualità, regime politico”).
Contro una riflessione critica che aspira semplicemente all’intercambiabilità di genere e non promuove pratiche diverse da quelle imposte dal post- patriarcato, Dominijanni riporta al centro del “conflitto politico fra i sessi” (27) la sfera della sessualità, che si pone come “tecnica del potere [...] decisiva per la soggettivazione” (27).
Il trucco è un libro provocatorio e coinvolgente, che sollecita nuovi interrogativi non solo sull’età berlusconiana, ma anche e soprattutto sul ruolo del femminismo nella vita culturale, sociale e politica della società contemporanea.
Dickinson College
«Voglio sapere di cosa si tratta». Sull’esperienza morale della sessualità, l’ultima intervista di Michel Foucault
Di Redazione LC 25 giugno 2014 *
André Scala, Gilles Barbedette: Ne L’uso dei piaceri, forse per la prima volta, lei manifesta la necessità di ritornare sui passi di alcune sue opere precedenti.
Michel Foucault: Molte cose rimaste implicite, nelle mie opere precedenti, non avrebbero potuto d’altronde essere rese in maniera più esplicita in ragione del modo stesso di porre il problema. Mi sembra, tuttavia, di aver sempre cercato di individuare tre grandi tipi di problemi: il problema della verità, il problema del potere e il problema della condotta individuale. Questi tre ambiti - che sono poi i grandi ambiti dell’esperienza - non possono essere compresi se non l’uno in relazione all’altro e ciascuno di essi è incomprensibile senza gli altri due. E questo è anche ciò che mi ha più volte ostacolato... A me è sempre sembrato di individuare tra essi una linea retta e che non ci fosse alcun bisogno di ricorrere a certi metodi, leggermente retorici, attraverso i quali, di solito, li si analizza.
A.S., G.B.: In che modo lo “stile” assurge a grande questione filosofica e non solo estetica?
M.F.: Il problema dello stile occupa, in effetti, una posizione centrale nella mia opera: stile d’azione, stile di relazione... Gli antichi non hanno mai smesso di porsi il problema di sapere se fosse possibile stabilire la scoperta di uno stile che accomunasse i soggetti tra loro e se, a fronte della scoperta di questo stile, fosse possibile pervenire a una nuova definizione del soggetto. Ho però anche l’impressione che gli stessi antichi non abbiano praticamente mai descritto questo problema. Una morale dello stile appare soltanto verso il II e il III secolo, sotto l’Impero romano - una morale che tenta di definire le congiunture e le intenzioni interne dell’uomo. [...] L’uso che faccio io del concetto di stile lo devo in larga misura alla riflessione di Peter Brown, anche se ciò che dirò ora, che non ha nulla a che vedere con Peter Brown, è tutta farina del mio sacco e di conseguenza tutte le sciocchezze [sottises] che dirò sono da imputare a me soltanto e non a lui [ride]. La nozione di stile come io la uso mi sembra di rilevanza cruciale per la comprensione della storia e della morale degli antichi; per quanto mi riguarda, ho sempre detto le cose peggiori della morale degli antichi, ma ora mi piacerebbe invece provare a parlarne bene, nel senso che reputo che vi siano, in quella morale, una serie di elementi estremamente importanti per la comprensione del passato. Inoltre, per via del fatto che questa morale antica si indirizzava, tutto sommato, a un numero ristretto di individui, ciò significa che non si trattasse di una morale dall’afflato universale, mirante cioè a ottenere che tutti iniziassero a percorrere lo stesso cammino, bensì di una morale riservata a una piccola minoranza tra la popolazione, e anche a una piccola minoranza di uomini tra gli uomini, affinché questa morale forgiasse uomini nuovi ad esempio all’interno di una piccola città greca. Ciò che appare interessante, se si segue la storia di questa morale, è che essa è stata nutrita a poco a poco di valori riguardanti un numero sempre crescente di persone. All’epoca di Seneca o di Marco Aurelio, ad esempio, questa morale poteva già ambire a una validità universale. Tuttavia, se anche questa morale fosse stata valida per tutti, non si trattava tanto di renderla un “obbligo”, quanto piuttosto una “scelta”. Tutti potevano condividere questa morale e scoprirne i principali meccanismi, ma non era che una scelta personale, e ciò rende molto difficile sapere chi, sotto l’Impero, la condividesse. Nei primi stoici si può ravvisare un’idea della filosofia perfettamente in equilibrio tra una certa concezione della conoscenza, una certa concezione della politica e una certa concezione della condotta individuale; a poco a poco, dal III secolo a.C. fino al II d.C. le persone smettono di porsi domande circa la filosofia, in generale, facendo cadere nel dimenticatoio soprattutto le questioni sul potere politico, ma non tuttavia quelle sulla morale [...].
A.S., G.B.: Sembra che la scrittura fosse una pratica del sé particolarmente rilevante, privilegiata, presso i Greci...
M.F.: È vero che la questione della scrittura di sé fosse assolutamente centrale, molto importante per la formazione individuale. Mettiamo da parte Socrate, dal momento che lo conosciamo attraverso Platone, e soffermiamoci proprio su Platone. Il minimo che possiamo dire è che Platone non ha molto coltivato la pratica di sé come pratica scritta, come pratica della memoria, come pratica della redazione del sé a partire dai ricordi. All’opposto, Platone ha invece scritto molto di numerosi argomenti politici e metafisici, e questi scritti testimoniano, in qualche modo, anche nel suo discorso, della presenza di una qualche relazione con il sé [...]. A partire dal I secolo d.C. si assiste a una proliferazione di testi che sembrano tutti obbedire a un certo stile di scrittura e che fanno della scrittura una modalità fondamentale di relazione con il sé. Troviamo scritti interi di raccomandazioni, da parte di un certo numero di autori, di consigli e avvertimenti indirizzati ai propri giovani allievi, come se si trattasse di lezioni date da grandi capi. Successivamente, e solo successivamente, questi autori insegnano agli allievi a porsi delle proprie domande, a dare delle proprie opinioni, e poi a formulare queste opinioni sotto forma di singole lezioni e, infine, sotto forma di didattica. Ciò è rinvenibile nei testi, tra loro differenti, di Seneca, di Epitteto o di Marco Aurelio. Questo mi porta a sostenere che la morale degli antichi non sia stata una morale della cura di sé per tutto il corso della sua storia, ma lo sia divenuta solo a partire da un certo momento, quando il cristianesimo vi ha introdotto delle perversioni, o delle modificazioni, considerevoli, allestendo funzioni penali su larga scala che implicavano il dar conto di sé e il dar conto di sé agli altri, ma non in forma scritta. [...] Il diario cristiano del XVI secolo era molto diverso da quello del IV o del V. Non rispondeva alla stessa questione. Non si trattava di pervenire alla conoscenza delle stesse cose, e non cercava di trattare lo stesso tipo di problema.
A.S., G.B.: E che dire delle Confessioni di Sant’Agostino?
M.F.: Sono qualcosa di curioso. Peter Brown ha scritto un intero libro sulla questione [...]. Bisogna innanzitutto ricordare che Sant’Agostino colloca il cristianesimo occidentale intorno al V secolo, fine del IV, e bisogna anche ricordare che il cristianesimo occidentale praticamente non esisteva fino a quel momento. Con ciò non voglio dire che non esistessero i cristiani, chiaramente, ma che non vi fosse una cultura cristiana. Anche perché è stato proprio Sant’Agostino a costruire, letteralmente, quel cristianesimo che si è instaurato, ad esempio in Francia, nel corso dei secoli XVI e XVII.
A.S., G.B.: Ne Le parole e le cose lei pone un interrogativo sullo statuto della letteratura. Scrive: «Che cos’è questo linguaggio che non dice niente e che non tace mai che chiamiamo letteratura?». La letteratura è forse una maniera, una tecnica del sé?
M.F.: Credo che la letteratura abbia rivestito questo ruolo per un certo periodo, tra il XV e il XVI secolo, e, più tardi, intorno al XIX, ma credo anche che la letteratura stia ora perdendo quel ruolo di forma della coscienza di sé a una velocità straordinaria.
A.S., G.B.: Ciò di cui si fa un gran parlare oggigiorno, che potremmo definire “cultura del sé”, non ha nulla a che vedere con ciò di cui lei parla nei suoi libri?
M.F.: Sì e no. D’altronde, se ci limitiamo a leggere le cose nella loro stretta formulazione filosofica, che sia la morale dell’antichità romana o greca o la morale della società contemporanea, esse sembrano non avere nulla in comune con noi. Al contrario, se si considera la morale antica nei termini di ciò che prescrive, di ciò che inclina, di ciò che suggerisce, si può percepire quanto essa sia straordinariamente vicina a noi e quanto i suoi consigli siano, se non somiglianti, quanto meno nettamente prossimi alla morale attualmente popolare. È proprio questo che si tratta di far apparire: la prossimità, la differenza e, attraverso questo gioco della prossimità e della differenza, mostrare come gli stessi consigli offerti dalla morale antica possano operare in maniera diversa in uno stile della morale contemporaneo.
A.S., G.B.: Vi è poi la questione del rapporto del sé con sé, e della costituzione del sé mediante il sé, che si solleva quando si parla della sessualità come esperienza... Vi è già presso i Greci questo tema della delizia, del delirio amoroso, della perdita di sé, del rapporto con l’altro?
M.F.: A me sembra che nei testi della filosofia greca del III e II secolo a.C., fino al III secolo d.C., non vi sia affatto una concezione dell’amore la cui validità possa rappresentare questa esperienza a cui voi fate riferimento, esperienza che comunque era già nota, ossia l’esperienza della grande passione amorosa.
A.S., G.B.: Nemmeno nel Fedro di Platone?
M.F.: Io penso di no. Ora, non vorrei allontanarmi troppo dall’oggetto della nostra discussione, ma a me sembra che, nel Fedro, troviamo al contrario l’esperienza di coloro che, attraverso l’esperienza amorosa, approdano all’esperienza in sé. Essi in sostanza ignorano quella che potrebbe apparire come una pratica corrente e costante della loro epoca per pervenire a un tipo di sapere che consentirà loro, da un lato, di continuare ad amarsi l’un l’altro e, dall’altro, di essere, davanti agli occhi della legge e in ragione dei propri doveri di cittadinanza, conformi a ciò che deve essere il comportamento degli individui. Dunque non credo che si possa parlare di quel tipo di esperienza a cui voi alludete. Possiamo iniziare a vederla forse solo in Ovidio. Nei suoi testi, mi sembra corretto dire... troviamo la possibilità, l’apertura di un’esperienza nella quale l’individuo, in qualche modo, perde completamente la testa. Non sa più chi è, perde la propria identità. Si lascia attraversare dall’esperienza amorosa come in perpetuo oblio del sé. E credo che questa esperienza dell’amore non corrisponda minimamente a quella del IV secolo a.C., quale quella di Platone o Aristotele.
A.S., G.B.: Relativamente ai Greci, quando Heidegger sostiene che i filosofi non sono coloro che amano la conoscenza, bensì coloro che hanno conoscenza dell’amore... si riferisce secondo lei a questo?
M.F.: Sì, sicuramente. I filosofi sono coloro che hanno conoscenza dell’amore. Detto questo, non mi pare di trovare, nell’esperienza filosofica greca che è pervenuta a noi (quella del IV secolo, contenuta nei discorsi di Platone), l’elemento in grado di mettere l’esperienza dell’amore all’esterno dell’esperienza del sapere.
A.S., G.B.: La rilettura degli antichi può essere il sintomo di una crisi del pensiero? La volontà di un ritorno alle origini?
M.F.: Mi sembra corretto dire che in questo movimento di rilettura dei Greci, che peraltro si fa spesso, vi sia senz’altro una sorta di nostalgia, un tentativo di recuperare una forma originaria del pensiero, e soprattutto un tentativo di concettualizzare la cultura greca al di fuori di tutti i fenomeni cristiani. Si tratta di un tentativo che ha preso in realtà molte forme. Ad esempio, nel XVI secolo consiste nel ritrovare, attraverso il cristianesimo, e in funzione della preservazione del cristianesimo, un tipo di filosofia greco-cristiana. Ma in Hegel, o ancora in Nietzsche, questo tentativo consiste invece nel recupero dei Greci attraverso l’elisione del cristianesimo. Oggigiorno mi sembra che il tentativo di ripensare i Greci non consista tanto nell’elevare la loro morale a morale per eccellenza, a elemento imprescindibile per qualunque forma di pensiero, quanto piuttosto nel fare in modo che la filosofia europea possa in qualche modo ripartire, come esperienza in grado di guardare ai Greci, ma anche in grado di sentirsi dinanzi a loro totalmente libera.
A.S., G.B.: Lei ha detto questo, del suo lavoro: «Ho cambiato strada», «Non sono riuscito a fare ciò che avevo annunciato». Pensa di essere stato imprudente o pensa piuttosto che le cose siano talmente cambiate, per gli intellettuali e per i ricercatori, da aver reso necessarie certe precauzioni...
M.F.: Quando ho scritto il primo volume [della Storia della sessualità, La volontà di sapere, N.d.T.], ormai sette o otto anni fa, avevo assolutamente l’intenzione di scrivere questa storia della sessualità, questi studi di storia sulla sessualità, a partire più o meno dal XVI secolo [...]. In parte penso di averlo fatto. Tuttavia, proprio mentre portavo avanti la mia opera, iniziavo a rendermi conto di quanto questa non filasse, per via di un certo numero di problemi molto importanti che non avevo preso in considerazione, come ad esempio l’esperienza morale della sessualità. È in quel momento che mi sono detto: «Voglio sapere di cosa si tratta». Ho dunque messo da parte gli studi che avevo condotto sul XVI e il XVII secolo e sono tornato indietro. Sono tornato indietro fino al V secolo, pressappoco, fine del IV e inizi del V, per essere precisi, a quello che ritenevo l’esordio dell’esperienza cristiana [...]. Ho poi cercato di capire cosa è successo nel periodo immediatamente successivo [...] e mi sono sentito quasi obbligato, ormai da tre anni a questa parte, a mettermi a studiare la sessualità tra il V e il IV secolo. È stata dunque la necessità di spiegarmi alcune cose che mi ha condotto a cambiare interamente il mio percorso, rispetto alla sua forma originaria. Forse voi mi domanderete ora se non si sia trattata di pura disattenzione da parte mia, all’inizio, o forse solo di un desiderio segreto, rimasto represso e rivelato solo alla fine. Non lo so. E vi confesso di non volerlo nemmeno sapere. La mia esperienza, come ora mi appare, è questa. Questa storia della sessualità, non avrei indubbiamente potuto condurla correttamente se non a condizione di mettermi sulle tracce di ciò che è successo in quei secoli a noi lontani, per vedere come l’universo della sessualità sia stato vissuto, manipolato, perpetuamente modificato [...]. Stando così le cose non avrei potuto condurre uno studio di qualità se mi fossi limitato al solo XIX secolo. Mi sarei potuto certo limitare a includere nella mia analisi i secoli XVII e XVIII, sempre a partire dal XIX, ma questo lavoro mi avrebbe forse preso troppo tempo inutilmente. Con i classici, ne ero sicuro, mi sarei divertito di più.
Paestum 2012. Passioni durature
di Lea Melandri *
Se mi chiedessero che cosa differenzia il femminismo dagli altri movimenti, direi innanzi tutto che nessuna rivoluzione ha creato rapporti di amicizia e passioni politiche così durature, percorso strade diverse, talora contrastanti e apertamente conflittuali, senza perdere il piacere di rincontrarsi. Paradossalmente, le ragioni che l’hanno portato spesso a dividersi e frammentarsi sono le stesse da cui può nascere all’improvviso inaspettata la spinta all’accomunamento. Ne indico solo alcune: il valore che si è dato alla vita personale, la pretesa di portare la parola in prossimità del corpo e di tutto ciò che di “impresentabile” ancora trattiene, la volontà di sottrarsi ad appartenenze precostituite per far crescere ogni volta la forza collettiva da singolarità autonome in relazione tra loro.
L’incontro che si è tenuto a Paestum - lo stesso luogo che ospitò 36 anni fa l’ultimo convegno del movimento delle donne, nel 1976 - si è presentato coi tratti felici di una “ripresa”: consapevolezza del patrimonio di saperi e pratiche che si sono andate sedimentando nel tempo, riattualizzazione degli assunti più radicali degli anni Settanta: uscita dal dualismo che ha contrapposto, insieme al destino dell’uomo e della donna, privato e pubblico, politico e non politico, soggettività e mondo, cura, amore e lavoro, produzione di beni e riproduzione della società.
Quella che fu vista allora come “la protesta estrema del femminismo” - il movimento che aveva costretto la politica a fare i conti con la “materia segreta” posta ai confini tra natura e storia, sulla linea d’ombra che la separa dalla “inquietante persona” (Rossana Rossanda)- può diventare oggi la “sfida” a un modello di sviluppo e di civiltà che ha subordinato il vivere al produrre, la creatività al consumo, la cura dei bisogni primari dell’umano alle regole dell’accumulazione capitalistica.
La “rivoluzione necessaria” comincia da qui, portando l’interrogativo del cambiamento possibile alle radici di una crisi che era già inscritta nell’atto fondativo del dominio maschile. Si tratta di collocare nel giusto ordine il rapporto tra mezzi e fini, correggere l’universalismo astratto dei diritti umani, proiezione di un “io maschile” che si è pensato libero dai vincoli biologici, partendo dalle vite reali di donne e uomini viste nella loro complessità.
Se è stato il femminismo ad aprire una breccia nella “politica separata”, sottraendo alla naturalizzazione e alla sacralizzazione esperienze umane essenziali, come l’amore, la sessualità, la procreazione, la dipendenza, la malattia, la nascita e la morte, non si può dire che il “primum vivere” sia ancora il grande rimosso della coscienza occidentale. Sia pure con modalità diverse, oggi è presente nei movimenti che si battono per la salvaguardia dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni, della giustizia sociale, ma rimane incomprensibilmente passata sotto silenzio quella “risorsa”, quel “bene comune” che sono state per secoli le donne , assegnate per “destino biologico” alla conservazione della vita, e per questo incluse attraverso un’esclusione dal patto sociale.
La loro nascita come soggetti -e quindi come sguardo, pensiero, sensibilità sempre meno conformi a modelli imposti e incorporati- non sembra avere scalfito la collocazione rassicurante che ne è sempre stata data, da destra come da sinistra, tra i gruppi sociali deboli, tra cui oggi, oltre ai minori, la massa dei giovani colpiti dalla precarietà, dei disoccupati e dei migranti senza lavoro e senza patria.
L’oscillazione tra tutela o, al contrario, valorizzazione degli attributi specifici del femminile, se per un verso permette a politiche di stampo maschile di trincerarsi ancora dietro la maschera della neutralità, dall’altro continua ad esercitare sulle donne stesse il fascino di una complementarietà ambiguamente segnata sia dalle gerarchie di potere sia dal sogno di unità e armonia degli opposti.
Non si capirebbe altrimenti perché in tutti i gruppi nati fuori dai partiti negli ultimi decenni e debitori nei confronti del femminismo di scelte di democrazia partecipata, orizzontalità, attenzione al quotidiano, rifiuto della delega, pratica assembleare, le donne abbiano sostenuto il maggiore impegno organizzativo e contemporaneamente una contropartita sul versante ideativo e decisionale assai debole. Sulla dubbia “opportunità” rappresentata dalla femminilizzazione dello spazio pubblico e sulla seduzione che ha ancora sulle donne la chiamata al ruolo di salvatrici, si dovrà ancora discutere a lungo.
Dall’incontro di Paestum, che viene dopo decenni di percorsi carsici, inabissamenti e improvvise riemersioni, ci si può augurare che le donne, forti dell’autonomia che sono venute conquistando e oggi più presenti che in passato sulla scena pubblica, comincino, senza aspettare ruoli di potere, a“prendere parola” in tutti i luoghi in cui sono presenti e a promuovere senza paura del conflitto azioni efficaci di cambiamento.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione - con una nota
(...) Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia (...) Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare (...)
LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
Riscopriamo l’etica. Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee"
intervista a Giorgio Agamben
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 8 febbraio 2011)
In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali - oggetto di una costante erosione - trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.
Proveremo a trattare la questione "credere, credenza", affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di "veridizione". Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».
Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?
«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».
Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?
«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».
Un esempio?
«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, "credere in Gesù Cristo" e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula "Credo perché è assurdo"».
Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?
«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi.È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di "testimonianza", mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto "l’ho fatto perché così mi piaceva". L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».
Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.
«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».
In Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?
«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione. Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».
È una strada ancora aperta?
«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: "com’è grazioso - cioè capace di gratuità - l’uomo quando è veramente umano". È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».
Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.
«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».
Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.
«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla "cura di sé", sulla "pratica di sé". Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».
Al cittadino non far sapere
di Giancarlo De Cataldo (l’Unità, 10.11.2009)
Condivido pienamente le preoccupazioni espresse dal Corriere della Sera: se davvero insegnassimo nelle scuole «Cittadinanza e Costituzione» trasformeremmo, sciaguratamente, «la democrazia in catechismo». Parole sante. I nostri ragazzi devono essere tenuti alla larga da discutibilissimi precetti quali l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3), il ripudio della guerra (art. 11), la libertà di culto (art. 8), di associazione (art. 18), di pensiero (art. 21), il diritto alla salute (art. 32) e all’istruzione (art. 34), il dovere di pagare le tasse (incredibile, vero? Beh, c’è anche quello, all’art. 53), la irrevocabilità della forma repubblicana (art. 139).
La maligna forza persuasiva di detti precetti è tale che i nostri figli potrebbero convincersi della validità della nostra Costituzione e mandare al diavolo quei politici, baroni e maestri del pensiero che da anni si battono per cambiarla (taluni sognando più mature e consapevoli forme di governo, ispirate a legislatori del calibro di Sardanapalo e del Leonida di Frank Miller). O, addirittura, potebbero prendere tanto sul serio questo confuso agglomerato di “buonismo democratico” da pretenderne l’applicazione.
Inoltre, i nostri ragazzi potrebbero persino coltivare la perniciosa illusione che la scuola non serva soltanto a ingozzarli di nozioni come oche da foie gras, ma possa e debba contribuire (orrore) a farne cittadini civili e consapevoli. Ciarpame culturale che abbiamo già sperimentato con l’esecrando Sessantotto, e che, fortunatamente, il vento impetuoso del progresso (e le norme della Finanziaria) spazzeranno presto via. Così i nostri ragazzi, finalmente istruiti da savi maestri senza grilli per la testa, saranno liberi di formarsi una coscienza critica attraverso strumenti più adeguati: Wikipedia, la Curva, Miss Italia e il Grande Fratello.
LA CRITICA ERRANTE DI UN PENSIERO RIBELLE
Lo scandalo DELLA VERITÀ
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 23.10.2009)
Il corso di Michel Foucault raccolto nel volume edito da Feltrinelli «Il governo di sé e degli altri» articola il tema di una prassi teorica che si presenta come critica all’esistente e atto ribelle rispetto al potere. Un testo che, assieme a «Il coraggio della verità» in corso di pubblicazione, smentisce le interpretazioni che hanno presentato il filosofo francese come un teorico del neoliberismo
Il coraggio della verità è il titolo del corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France dal febbraio al marzo del 1984. Pochi mesi dopo, nel mese di giugno, il filosofo sarebbe morto. La morte aleggia sulle ultime parole pubbliche pronunciate da Foucault e non solo perché all’inizio del corso egli ammette di essere seriamente malato o si moltiplicano i riferimenti agli ultimi giorni di Socrate. Piuttosto, le lezioni si concludono all’insegna della finitudine, come consapevolezza di un senso terreno e irripetibile da dare all’esistenza tra gli uomini. Continuazione esplicita di Il governo di sé e degli altri, uscito in Francia nel 2008 e in Italia da pochi giorni presso Feltrinelli, Il coraggio della verità (di cui l’editore milanese ha annunciato la pubblicazione in italiano) corona una meditazione sobria e analitica ma non di meno radicale su ciò che Hannah Arendt avrebbe definito l’esistenza politica.
Qui dobbiamo essere chiari. I due corsi, e soprattutto il secondo, mandano all’aria le interpretazioni edificanti e parrocchiali, essenzialmente revisioniste, che nell’ultimo decennio, in base alla pubblicazione dei corsi, si sono volute dare della ricerca foucaultiana. Laddove Foucault ricostruiva le peripezie dell’etica antica in chiave di progressiva spoliticizzazione (e quindi giustificazione di un governo pastorale o se vogliamo del dominio), alcuni interpreti contemporanei hanno voluto vedere una sorta di filosofia pratica dell’interiorità - come in quella parodia degli esercizi spirituali che va sotto il nome di consulenza filosofica. Uno storico e filosofo scettico e libertario è stato così ridotto a una sorta di pedagogista o maestro di saggezza, caricatura che Foucault avrebbe aborrito. Basterebbe la sobrietà con cui ha affrontato gli ultimi mesi di vita a mostrare come per Foucault la «cura di sé» fosse qualcosa di squisitamente privato di cui non fare commercio intellettuale e materiale.
Gli idoli del cinico
Nel Governo di sé e degli altri, Foucault indica, basandosi su Euripide, Platone, Plutarco ecc.come la parresia fosse in origine un concetto politico - la parola che l’uomo libero pronuncia al cospetto della polis contro la tirannia e l’ingiustizia. Dunque, qualcosa che ha senso in pubblico e presuppone un coro. Successivamente, in sintonia con il declino della polis, la parresia entra a far parte degli arcana imperi. Come si vede nei rapporti di Platone con i due Dionigi, il «parlar franco» diventa quello del filosofo al tiranno; in altri termini, si tratta di qualcosa al tempo stesso tecnico e segreto (da qui l’affinità con il tema platonico della supremazia della sapienza orale).
La fine della libertà greca è il contesto storico in cui la parresia perde qualsiasi sapore politico per divenire «franchezza» teoretica, «verità» personale e interpersonale. Si gettano qui le premesse per quel rimpatrio dei filosofi in se stessi alla base di gran parte dell’etica ellenistica e in particolare dello stoicismo. Ma, se si hanno in mente le altre ricerche di Foucault, è impossibile non pensare alla fondazione della soggettività teoretica. A partire dal Noli foras ire di Agostino si dipana una strada che passa da Cartesio e transita dalle parti di Husserl per finire nel ricettario edificante contemporaneo.
Le prime lezioni del corso del 1984 riprendono e rielaborano il Governo di sé e degli altri. Come se sentisse l’urgenza di fissare un materia delicatissima (in fondo si tratta di ripensare in chiave di conflitto etico-politico, e non più di mero disvelamento della razionalità, le origini del pensiero occidentale), Foucault ritorna sulle diverse declinazioni della parresia, si sofferma sulle interpretazioni della morte di Socrate, tira i fili che da quelle antiche discussioni portano direttamente ai dilemmi d’oggi, mostra come in ultimo la psuché sia il terreno cui è approdato il «parlar franco». È nell’interiorità dell’anima che il saggio vedrà in ultimo manifestarsi il logos. Simone Weil ha potuto parlare, a proposito della filosofia platonica, di intuizioni precristiane. Foucault ci mostra quanto classica sia l’idea (che si vuole moderna) dell’io come terreno privilegiato della verità.
Era possibile un’altra storia? Attraverso un’analisi originalissima della svolta cinica, Foucault sembra suggerire di sì - portandoci su un terreno che non è quello della mera nostalgia della polis e tanto meno del ripiegamento stoico. Il cinico non è qualcuno che esercita all’occasione la parresia o tanto meno la teorizza, ma è quello che la pratica sempre - qualcuno cioè che vive, si potrebbe dire, in uno stato di parresia.
Il cinico pertanto, smaschera con il suo esempio gli idoli privati e pubblici. Esemplare, a questo proposito, quel filosofo cinico trascinato in giudizio perché si rifiuta di accettare i misteri. Se i misteri sono cattivi, egli dice, il filosofo deve dire la verità su di loro. Se sono buoni, dovrà attirarvi più gente possibile; in ogni caso, deve conoscerli e quindi non possono darsi misteri. Con una battuta, i cinici smascherano la mitologia religiosa e la prosopopea del potere. In questo modo, corrono dei rischi, esattamente come Socrate, di cui portano alle estreme conseguenze il metodo, ma senza quell’aura di superiorità un po’ tortuosa che già aveva sollevato su Socrate le ironie di Aristofane.
I cinici, infatti, danno soprattutto l’esempio, incarnano la verità con il loro comportamento. In un capitolo straordinario sulla posterità dei cinici, Foucault mostra quanto il loro esempio sia affine allo spirito rivoluzionario moderno. Il cinico è, in ultima analisi,un filosofo pratico sovversivo e, in questo senso, si erge contro il conservatorismo platonico e aristotelico e il loro supremo senso dell’ordine.
Lo spirito antistituzionale
Povertà nella vita quotidiana, corpi coperti di stracci, mancanza di dimora, nomadismo... In questa filosofia praticata in basso Foucault vede giustamente i prodromi di un cristianesimo popolare e primitivo, ma anche delle eresie che germineranno ai margini dell’istituzionalizzazione del cristianesimo e contro di essa. Come non pensare, oltre ai valdesi citati da Foucault, alle sette gnostiche, ai catari e via via ai levellers o agli anabattisti? C’è nel cosiddetto cinismo, sembra dire Foucault, uno spirito anti-istituzionale e anti-aristocratico che, pur provenendo direttamente dall’esperienza filosofica classica, mira direttamente al cuore di un’altra modernità.
I cinici si rifanno a Socrate, ma lo liberano delle mitologie filospartane e autoritarie di un Senofonte, lo de-platonizzano e così facendo lo superano. Ecco il senso del motto di Diogene «cambiare il valore della moneta». Non un’apologia della falsificazione, ma - verrebbe voglia dire - una trasvalutazione dei valori democratica, popolare, rivoluzionaria.
Ascesi, verità come scandalo, militantismo: sono questi i tre aspetti che il cinismo consegna alla posterità. Non solo nella religione o nelle dottrine sociali. Si pensi - dice Foucault - alla pretesa degli artisti moderni di vivere una vita esclusiva, e cioè di vivere l’arte, di non accettare una separazione tra arte e vita. «C’è un anti-platonismo dell’arte moderna che (...) è stata una tendenza che si ritrova in Manet sino a Francis Bacon, da Baudelaire sino a Samuel Beckett o Burroughs; anti-platonismo: l’arte come irruzione dell’elementare, messa a nudo dell’esistenza» (Le courage de la verité).
La pedanteria dell’esempio
Certo, nel cinismo filosofico, dice Foucault c’è anche l’annuncio di un altro tipo di pedagogismo, che non si manifesterebbe attraverso il razionalismo socratico-platonico e poi storico, cristiano ecc., ma con la pedanteria dell’esempio. Il militante è pronto a trasformarsi - come l’esperienza storica ci mostra sino alla nausea - in funzionario, magari dell’umanità. Il sovversivo in moralista. L’eretico in tutore di un ordine che non può che invecchiare fatalmente.
Ma si tratta di una dialettica squisitamente moderna, che è alla base delle nostre illusioni e delle innumerevoli delusioni contemporanee. E tuttavia, la «ragion cinica» - per citare un vecchio libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk - continua a lavorare contro l’eternizzazione del presente. Perché, come nota giustamente Frédéric Gros nelle note conclusive a Le courage de la verité, il gesto dei cinici consiste nell’appello alla trasformazione del mondo e quindi alla possibilità di un mondo «altro». Con ciò, crediamo, il senso della ricerca di Foucault si emancipa dalla patina insopportabilmente perbenista e confessionale da cui è stato ricoperto da una ventina d’anni.
Viene voglia di dire che il significato profondo della parresia per noi non è affatto nel ripiegamento interiore che Foucault ha ricostruito sino alle soglie del cristianesimo, ma nell’indifferenza di Diogene di fronte ad Alessandro e al suo seguito; nel disprezzo delle convenienze teoriche e politiche; nell’appello alla verità contro la falsità mediale e istituzionale. In definitiva, in un’esistenza autenticamente ribelle. Dopotutto, poco prima di morire, Foucault ha notato che il vero significato della ribellione non è nella sua vittoria, che è sempre problematica, ma nel fatto che solo essa rende possibile la storia.
Foucault
TRA IL SÉ E IL NOI - COME LASCIARLO ALLA SUA IRREQUIETEZZA
Un sentiero di lettura per aggiornarci sul filosofo francese. Dai saggi curati da Mario Galzigna in Foucault, oggi per Feltrinelli, alla monografia di Paul Veyne Foucault. Sa pensée, sa personne, uscito da Albin Michel al libro sul Pensiero politico di Foucault di Vincenzo Sorrentino per Meltemi
di Stefano Catucci (il manifesto, 16.11.2008)
Nella sempre più ampia quantità, di studi dedicati a Michel Foucault alcune immagini e alcune citazioni ricorrono e mostrano l’urgenza di un problema: come leggere i suoi scritti e come usare le sue indicazioni di ricerca senza annettere un pensiero così irrequieto agli imperturbabili classici d’accademia?
Per un verso si tratta di un destino inevitabile giacché ogni esperienza filosofica, a mano a mano che si storicizza, tende a fissarsi nei testi che la esprimono e diviene perciò oggetto di analisi letterali, se non proprio di una pratica filologica. Ma per un altro verso è un paradosso, dato che Foucault ha contestato con forza, e costantemente, il predominio della «cultura del commento» e denunciato la piccola pedagogia spicciola nascosta nell’idea che una filosofia sia interamente compresa nei suoi testi.
Quella della «cassetta degli attrezzi» è l’immagine che Foucault metteva a disposizione per chi volesse incamminarsi sulle piste di ricerca da lui avviate, una immagine che viene spesso utilizzata per sottolineare la priorità dell’uso di un pensiero rispetto alla fedeltà di un’interpretazione.
E vi andrebbe aggiunta una citazione, quella secondo cui «il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero consiste nell’utilizzarlo, nel deformarlo, nel farlo stridere e gridare» senza accordare alcun tipo di interesse al criterio della «fedeltà» a un dettato: viene impiegata per rafforzare l’idea che la sua opera sia refrattaria a quei processi di acquisizione i quali, trasformandola in un classico, la normalizzano privandola del suo carattere più esplosivo, del suo essere un esempio di pratica critica e non un corpo di dottrine da applicare.
Un pensiero enigmatico
È significativo che quell’immagine e quella citazione compaiano in diversi contributi del volume Foucault, oggi, curato da Mario Galzigna (Feltrinelli, 2008, pp. 308, euro 20). Pur nella discontinuità tipica dei libri collettanei, tanto più forte se - come in questo caso - nascono come raccolta degli atti di un convegno, gli interventi ruotano essenzialmente intorno all’interrogativo posto da Alessandro Fontana nel saggio di apertura: come leggere Foucault oggi.
Fontana appartiene alla generazione degli allievi diretti di Foucault ed è tra coloro che portano il maggior merito dell’impresa che ha condotto alla pubblicazione delle sbobinature dei corsi tenuti al Collège de France. La sua, tuttavia, non è una voce che riporta all’insegnamento vivo di Foucault giudicando quanto vi si sia rimasti «fedeli». Offre piuttosto indicazioni di metodo che vengono incontro anche alla frequente delusione di chi, confidando fin troppo nell’immagine della «cassetta degli attrezzi», cerca di applicare al presente le intuizioni di Foucault nella speranza di trovarvi indicazioni concrete sulle pratiche di resistenza e di militanza, dunque su una prassi politica che, essendo tutta da reinventare, troverebbe nei suoi scritti un suo primo, foss’anche provvisorio abbecedario. Foucault però, osserva Fontana, non ha «prodotto ’saperi’», non ha elaborato concetti universali, «categorie astratte e forme trascendenti o trascendentali» da applicare. Il suo, semmai, è un pensiero «enigmatico» e «ambiguo», che non si lascia ricondurre a precetti generali ma obbedisce a una forza dispersiva irriducibile a un catalogo ordinato di strumenti.
La via da lui indicata è quella della sfida critica nei confronti dei saperi consolidati. Lasciate perdere perciò, consiglia Fontana, «esegesi e commenti», e «fate funzionare le macchine analitiche nel reale» senza trasformare l’esempio delle sue ricerche in un corpus di dottrine. Solo così, avverte ancora, si può intendere la relazione viva che intercorre tra i libri di Foucault, i suoi corsi, le interviste e gli interventi sparsi che Deleuze definiva «linee di attualizzazione» della sua filosofia. La tentazione ermeneutica che mira a intendere anche la lezione orale di Foucault come un testo scritto, insomma, dovrebbe essere rovesciata fino a leggere anche nei suoi libri non la fissazione di un programma, ma una prestazione critica in atto.
Le parole di Fontana spingono lo sguardo sul ruolo che Foucault assegnava alla storia come cardine del suo progetto di filosofia critica. È questo, sia pure in una modulazione differente, ciò che preoccupa anche Paul Veyne nel libro Foucault. Sa pensée, sa personne, pubblicato di recente in Francia dall’editore Albin Michel (pp. 216, euro 16). Veyne, che di Foucault è stato collega al Collège de France, amico e «consulente» per i problemi riguardanti la storia antica al centro degli ultimi scritti foucaultiani - ma idee e analisi, scrive, erano come l’arco di Ulisse «che lui solo aveva la forza di tendere», mentre «il mio ruolo» si riduceva «a confermare le sue informazioni e a dargli conforto» -, vede appunto nella forza esplicativa attribuita al gioco delle singolarità storiche e nel rifiuto di sottometterle a principi generali la novità rivoluzionaria del pensiero di Foucault. Tramite l’ancoraggio ai temi concreti della ricerca egli metteva in questione i presupposti più radicati della metodologia storica, in primo luogo il totem della relazione causa-effetto, e contemporaneamente strappava ai filosofi la maschera di protezione formata dal ricorso a categorie universali.
La storia si presentava così, agli occhi di Foucault, come un crogiuolo di differenze e la filosofia come un’esperienza del dettaglio il cui empirismo radicale, sostiene Veyne, sfiora lo scetticismo senza però scivolare nel nichilismo. A trattenerlo su questa soglia è la constatazione dell’esistenza della libertà: libertà di avere convinzioni, speranze, indignazioni, libertà di ribellarsi.
Neppure l’esercizio della libertà, però, doveva essere ricondotto a principi generali: «non utilizzate il pensiero per dare valore di verità a una pratica politica», aveva scritto nel 1977. Compito di uno «storico foucaltiano», oggi, è dunque per Veyne riconoscere il peso delle singolarità al di sotto dei tessuti unitari che continuiamo a stendere su di esse, rintracciare discontinuità e differenze laddove tendiamo a vedere continuità e somiglianze.
Il Foucault raccontato da Veyne è dunque un «antropologo empirico» più vicino a Montaigne e a Nietzsche che a Heidegger, un «antropologo» per il quale ogni storia realmente critica, e ogni filosofia ancorata sulla storia, dovrà infine essere una «storia della verità», ovvero dei modi in cui ogni epoca ha prodotto i propri parametri di verità senza cessare di variarli: «ontologicamente parlando», conclude Veyne, «non esistono che variazioni», mentre la dimensione metastorica «non è che un nome privo di senso».
Sarebbe difficile ad ogni modo, e non solo per uno spirito sofistico, negare che le indicazioni di Foucault sul modo di intendere una filosofia, usandola più che interpretandola, o sulla maniera di fare storia, indagando le singolarità e le variazioni piuttosto che le continuità, non siano filosofemi di carattere generale e non sottintendano in alcun modo una dottrina.
Certo, come ha riconosciuto Daniel Defert, Foucault ha esplicitato raramente i grandi temi della sua filosofia, lasciando di fatto ai suoi commentatori quello che Veyne definisce un «temibile compito». Fra la prosecuzione delle sue ricerche sul terreno concreto delle analisi storiche e l’interpretazione dei suoi scritti non c’è, allora, solo quella profonda distanza che appariva a prima vista, ma anche un rapporto di complementarità. E che le interviste, le conferenze e le lezioni di Foucault vengano trattate, oggi, a tutti gli effetti come «testi» dipende in gran parte proprio dal fatto che in esse egli ha evocato i principi della sua filosofia più spesso, e più esplicitamente, di quanto non abbia fatto nei libri pubblicati.
Un esempio del rapporto complementare fra uso e interpretazione del dettato foucaltiano viene da quei contributi che, nel volume Foucault, oggi, prendono in considerazione il tema della biopolitica, l’attrezzo senza dubbio più diffuso, riprodotto e imitato fra quelli che riempiono la famosa cassetta. Dai saggi di Roberto Esposito, Ottavio Marzocca e Judith Revel emerge come una corretta ricostruzione del pensiero di Foucault serva non tanto a definire un gradiente di fedeltà letterale, quanto piuttosto a delineare un orientamento politico. Particolarmente chiare, in questo senso, le puntualizzazioni di Revel: la dimensione biopolitica non funziona per Foucault come una chiave universale per comprendere l’attualità e non indica neppure uno strato di roccia comune a tutti, la vita biologica della specie, sul quale edificare il proprio sé, la propria singolarità. Ciò che è comune, semmai, dev’essere costruito per Foucault a partire dalla proliferazione delle differenze che si oppongono al riduzionismo biologista: è la costruzione di una pluralità di «modi di vita», intesi come nuclei di resistenza alle forme di assoggettamento dei dispositivi biopolitici, a rappresentare per Foucault la posta in gioco politica di quella che, soprattutto negli ultimi scritti, egli ha insistentemente definito un’«etica». Questa non lascia intravedere il movimento di un ritiro verso la cerchia delle relazioni private, come pure viene spesso sostenuto, ma la produzione di uno spazio comune a partire da un soggetto non invischiato nelle definizioni identitarie, bensì concepito come «forza creatrice».
Un interrogativo sulla democrazia
La dimensione del «noi», scriveva Foucault, non è qualcosa che ci sia stato assegnato preliminarmente, per natura, ma un obiettivo da problematizzare di continuo per renderne possibile la «futura costruzione». E la biopolitica non è il margine entro cui sono confinate le nostre pratiche politiche, ma il limite che occorre oltrepassare per assumere, nei confronti del potere, un atteggiamento «affermativo» e non solo «difensivo».
Il rapporto fra la costruzione del «sé» e del «noi», fra la costituzione autonoma della propria soggettività e la relazione con l’altro, è al centro anche del volume che Vincenzo Sorrentino ha intitolato Il pensiero politico di Foucault (Meltemi, pp. 309, euro 25) e che ricostruisce un intero percorso filosofico a partire dai suoi esiti finali.
Un lavoro di interpretazione, quello di Sorrentino, ma guidato da una interrogazione sulla democrazia che negli scritti di Foucault assegna esemplarità etica anche a figure antiche, come quella greca della parresia: il «parlar franco» del filosofo di fronte al potere, il coraggio della verità che a rischio della vita afferma il diritto della critica come principio di una pratica di libertà. Di qui, secondo Sorrentino, è possibile delineare la visione che l’ultimo Foucault profila dell’individualità, assai diversa da quella atomistica della cultura dominante, e sciogliere dalle ambiguità per quanto possibile la sua filosofia politica, aprendola a usi e prosecuzioni non impugnabili a piacere da ogni parte.
SCRITTI SULL’ARTE Oggetti di uno sguardo non estetico bensì strategico
Gli scritti di Foucault dedicati alla letteratura, quasi tutti degli anni Sessanta, godono oggi di minore attenzione rispetto al resto della sua opera. Un libro di Miriam Iacomini appena uscito per Quodlibet, «Le parole e le immagini» (pp. 286, euro 24), li riconduce in primo piano mettendoli in parallelo con le pagine di Foucault sulla pittura: su Bosch, Goya e Van Gogh in «Storia della follia», su Velazquez in «Le parole e le cose», su Manet in una conferenza pronunciata a Tunisi e su Magritte nel saggio «Questa non è una pipa».
L’arte, in Foucault, è oggetto non di uno sguardo estetico, ma strategico. L’immagine pittorica in particolare, scrive Iacomini, si rivela per lui capace di far emergere alla visibilità le coordinate ontologiche di un’epoca. Per forza esplicativa può essere ricondotta a quel «rapporto sagittale con la propria attualità» che Foucault riferiva a Kant, alla novità di un testo - «Che cos’è Illuminismo?» - nel quale in gioco era appunto una domanda su «ciò che sta succedendo adesso».
Non solo la pittura, ma anche le immagini su cui Foucault lavora per mettere in risalto la discontinuità dei processi storici - la cura settecentesca per l’isteria all’inizio di «Nascita della clinica», il supplizio di Damiens con cui si apre «Sorvegliare e punire» - hanno quell’evidenza «sagittale» che mostra gli strati archeologici su cui è edificato il nostro presente. L’analisi del «calligramma» di Magritte è utilizzata da Iacomini come passaggio per giungere dalla pittura agli scritti di Foucault sulla letteratura, visti come un impulso che alimenta, e in parte orienta, la sua metodologia di lavoro.
La relazione fra gli studi letterari e la fase estrema della filosofia di Foucault è stata già più volte sottolineata, ma Iacomini ne effettua una ricognizione ad ampio raggio facendone risaltare l’irruzione anche in pagine trascurate dei suoi testi maggiori. La funzione di sostegno che garantivano all’elaborazione teorica impedisce forse ai suoi studi su pittura e letteratura di aprire linee di ricerca oggi ulteriormente percorribili. Ma proprio perché compongono l’idioma di Foucault mostrano di essere indizi molto fecondi per una genealogia del suo pensiero.