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DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA E DI PARLARE DA CITTADINO SOVRANO. Pubblicato in Francia «Le gouvernement de soi et des autres» di Michel Foucault (il volume sul corso tenuto nel 1983 al Collège de France). Riflessioni di Roberto Ciccarelli e di Alessandro Dal Lago - a cura di Federico La Sala

giovedì 21 febbraio 2008.
 


michel foucault

L’indocile autonomia della presa di parola

Pubblicato in Francia «Le gouvernement de soi et des autres» il volume sul corso tenuto nel 1983 al Collège de France. Una ulteriore tappa del filosofo francese nella critica del Politico La virtù democratica per eccellenza non è la decisione, ma l’esercizio della libertà da parte dei dominati nella complessa relazione che li oppone al governo della città

di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 16.02.2008)

Entrava nell’anfiteatro rapido e grintoso. Prima di iniziare le sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault sembrava pronto a tuffarsi in acqua. A metà degli anni Settanta, le cronache ne descrivono la voce forte ed efficace, i suoi tentativi di posizionare gli appunti tra i magnetofoni, unica concessione alla modernità analogica in una sala semibuia ricolma di stucchi, appena rischiarata da una lampada che l’autore di Sorvegliare e punire accendeva prima di iniziare a parlare a cento all’ora.

Grazie ai quei magnetofoni, e alla cura filologica di Frédéric Gros, Gallimard e Seuil hanno da poco pubblicato il corso, registrato tra il gennaio e il marzo del 1983, Le gouvernement de soi et des autres (pp. 382, euro 27). Per quindici anni, le densissime dodici ore di insegnamento al Collège de France sono state affrontate da Foucault come un’esplorazione di territori remoti in vista di libri a venire. Nelle sue intenzioni, questo corso del 1983, insieme a quello tenuto all’università californiana di Berkeley nel secondo semestre dello stesso anno, raccolto dieci anni fa in Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli), avrebbero dovuto confluire in un libro dal titolo omonimo, mai pubblicato a causa della morte del loro autore.

Già nel corso del 1982 su L’ermeneutica del soggetto (Feltrinelli), Foucault aveva spiegato la sua intenzione di rivolgersi alla cultura classica, in quel caso la sessualità e la cura del sé in Grecia e a Roma, come parte di una storia delle pratiche attraverso le quali un soggetto si costituisce, e a partire dalle quali esso giunge ad un rapporto con la verità. Il corso del 1983 sposta il progetto su un terreno più direttamente politico, assumendo l’idea che il discorso filosofico in Occidente si è costituito sulla piega del governo di sé e degli altri.

La città ideale

Le gouvernment de soi et des autres ripensa il rapporto tra filosofia e politica alla luce dell’analisi sul governo esposta nei corsi Sicurezza, territorio, popolazione (1977-1978) e Nascita della biopolitica (1978-1979, pubblicati entrambi sempre da Feltrinelli). Nella tradizione platonica, di cui Foucault offre una rilettura originale, filosofia e politica intrattengono un rapporto vincolante, al punto che si parla comunemente di «filosofia politica» il cui oggetto è la descrizione della città ideale, retta da un insieme di leggi, fondate sull’uso corretto della ragione.

Nel corso del 1983, Foucault sostiene che il territorio «reale» della filosofia non è quello di proporre leggi, dare consigli al principe, persuadere le masse, ma di esercitare una libertà, conquistare la conoscenza di una verità che il soggetto trova nella propria vita, come in quella altrui, e non nei principi stabiliti da un regime politico.

All’opposto della tradizione platonica, per Foucault il rapporto tra filosofia e politica si configura in un’«esteriorità indocile» nella quale la filosofia gioca un ruolo autonomo rispetto al potere, puntando sull’espressione pubblica e rischiosa della convinzione politica di chi la esercita.

Tale espressione era stata definita già nell’Ermeneutica del sé come parresia, quella facoltà del «parlare vero», o «liberamente», che attribuisce un potere esemplare alla libertà di parola esercitata da un maestro di esistenza (Socrate, ad esempio). Ne Le gouvernment de soi et des autres, la parresia non viene più considerata solo come l’espressione del rapporto maieutico tra maestro e discepolo, né come rapporto preferenziale tra il filosofo e il tiranno, ma come l’atto politico con il quale il singolo (e non più soltanto il «filosofo») prende posizione rispetto alla propria comunità. Nelle sue varie forme - socratica, platonica, stoica ed epicurea -, la parresia indica un’esteriorità singolare rispetto alla politica, un’irriducibile posizione critica di un uomo, o di una donna, rispetto al governo dello Stato. La «realtà» della filosofia non è dunque un sistema costituito di conoscenze, ma un gioco politico le cui regole e scopi vengono formulati all’interno dei rapporti di forza immanenti alla politica.

Il coraggio del rifiuto

Da Euripide a Platone, la parresia si è manifestata in due grandi forme. La prima è quella della parola che l’oratore rivolge all’assemblea dei cittadini allo scopo di vedere trionfare la propria concezione dell’interesse generale. La seconda forma è il discorso che il filosofo rivolge privatamente al principe per rivelargli le insidie che lo attendono nel governo della città. Chi governa la polis deve accettare il fatto che i più deboli sono in grado di dire la verità, anche quella più scomoda. Coloro che invece non hanno il potere, ma ritengono di possedere un’idea più giusta del governo della città, devono dimostrare di essere capaci di governare il gioco politico nel quale prendono la parola. La disponibilità all’ascolto degli uni, e il coraggio politico degli altri, traducono per Foucault le condizioni del «patto parresiastico» che governa una democrazia.

Foucault definisce il luogo dove avviene tale confronto permanente «dunasteia», quella dimensione dove i parresiastes esprimono la potenza del loro discorso, mentre i governanti esercitano il proprio potere. La democrazia non viene qui intesa come forma di governo, nella quale vige l’idea giuridico-istituzionale per cui la politica è regolazione dell’esistente, o istituzione di una forma di governo ben regolata.

Per Foucault, la democrazia non esiste solo in base al diritto di nascita, o di censo, dei cittadini, ma in nome del coraggio da parte dei singoli (anche non cittadini come Ione nell’omonima tragedia di Euripide) di dire la verità sulla cosa pubblica.

Nel famoso discorso agli ateniesi riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, Pericle ha elogiato questo coraggio come unica garanzia per mantenere l’uguaglianza tra i cittadini. Non è dunque solo il merito individuale, ma è la presa di parola in nome dell’interesse generale a stabilire i criteri di partecipazione al gioco politico. Per Foucault, quello politico è un gioco pericoloso che minaccia di sciogliere il patto tra il potere e i parresiastes.

La trama realistica di questo gioco rivela che la democrazia non è semplicemente creazione di regole, ma esercizio della potenza (dynamis) nei termini agonistici della «lotta» nella quale i soggetti fanno «esperienza» di sé e degli altri nell’ipotesi, mai normativa, di un governo della città.

Il rischio della democrazia

Questa genealogia della democrazia a partire dall’evento archeologico della presa di parola contrasta con l’idea, ormai dominante, che la virtù democratica per eccellenza sia la decisione. A questa visione oligarchica della democrazia (la decisione è sempre quella di una classe dirigente), Foucault contrappone l’idea che una democrazia esiste a partire dalla differenza introdotta dalla presa di parola. Anche la filosofia moderna, fino al Sapere aude! di Kant, rifiuta le autorità costituite del sapere riattivando la struttura parresiastica della politica. Se una decisione esiste, essa è quella di chi dice la verità al potere e non si sottrae ai rischi che questo comporta. Per Foucault, ciò che ha valore nel gioco politico è solo l’esercizio di una parola coraggiosa e libera. Il suo scopo non è governare meglio lo Stato, ma trasformare la maniera di vivere dei soggetti.


Corpo a corpo con il potere della verità

La svolta «greca» degli anni Ottanta chiama in causa le fonti della tradizione occidentale. È in questo contesto che il «parlar chiaro» non ha nessun significato edificante, ma riguarda la possibilità di trasformare la vita nella polis

di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 16.02.2008)

È noto che per Michel Foucault la scrittura in vista della pubblicazione era invenzione o deviazione che si staccava come una lamina dal flusso della sua ricerca. Lo stile dei suoi libri era troppo elegante per poter dar conto di un travaglio in cui accidenti, intoppi e svolte improvvise rappresentano vere e proprie emergenze produttive. Da questo punto di vista, l’uscita del settimo volume, su tredici, dei corsi al Collège de France è un ulteriore, prezioso accesso a quello che non esitiamo a definire come il laboratorio storico-filosofico più imponente della seconda metà del XX secolo.

Scorrendo l’elenco dei corsi vediamo come il plesso soggetto/governo, fuoco dell’intera opera foucaultiana, sia indagato nei mondi delle pratiche scientifiche e dei controlli, delle strategie, dei saperi e dei discorsi istituzionali. Ma quella che fino alla fine degli anni Settanta poteva essere considerata come indagine storica controfattuale sulla preistoria della contemporaneità diviene ora interrogativo filosofico sul presente. La svolta «greca» dei primi anni Ottanta è il gesto radicale con cui il filosofo Foucault chiama in causa le fonti stesse della tradizione occidentale. Non sorprende così che il corso Le gouvernement de soi et des autres sia inaugurato dalla lezione su Che cos’è illuminismo di Kant. È la posizione del problema, la libertà di coscienza, che per Foucault non ha alcun significato intimistico o edificante, ma riguarda l’atteggiamento del pensiero davanti alla verità, in primo luogo del potere.

Da qui, dall’ancoraggio alle radici filosofiche del presente, si svolge un’analisi accuratissima, ai limiti dell’acribia, del concetto chiave di parresia, il «parlar franco» o «parola verace», potremmo dire. La traduzione a breve, si spera, del corso farà rapidamente giustizia anche da noi delle interpretazioni spiritualiste e cattolicheggianti, sulla falsariga di Pierre Hadot, che, in una fase di ripiegamento politico e accidia teorica, sono profuse a proposito della parresia. Perché questa - letta da Foucault nelle tre figure dello Ione di Euripide, del Pericle di Tucidide e del Platone della VII Lettera, nel contesto della crisi della democrazia ateniese - è in principio la presa di parola politica.

Si tratta di un gesto che può essere esterno alla polis, passionale, fonte di fraintendimento, in cui però, alla lunga emergono due accenti complementari: perché il forte, che sia principe o cittadino eminente di una democrazia (per intendersi, un uomo come Pericle), possa dire la verità alla sua città, è indispensabile che il debole, la vittima di un’ingiustizia, sia capace di gridargli in faccia la propria verità.

Il contesto è l’Atene della guerra del Peloponneso, la scena è l’agorà, la cornice è una relazione di potere, o se vogliamo di governo, in cui governanti e governati possono ancora vedersi in faccia, parlare ad alta voce e assumere i loro rischi. La scelta foucaultiana, in senso stretto tragico-teatrale, di mettere in scena un mito politico consente di ripercorrere la successiva torsione filosofica e insieme il declino pubblico della parresia: dalla politeia alla teoresi e da qui alla soggettività del filosofo.

È infatti con Platone che il «parlar franco» diverrà prerogativa del filosofo che si rivolge coraggiosamente al principe. Ma il coraggio non è condizione di successo. Gli scacchi di Platone con Dionigi sono la condizione dell’applicazione filosofica come lavoro di sé su sé. Alla fine il coraggio sarà quello del pensiero che interroga arditamente se stesso.

Sarebbe imperdonabile sottrarre al lettore, con cenni inevitabilmente caricaturali, il piacere di analisi che si configurano come corpo a corpo con la filosofia classica e le sue interpretazioni contemporanee: dalla morte di Socrate al confronto con la critica derridiana del logocentrismo. Quello che conta è che, in ultimo, il gesto filosofico primario è identificato con l’ascesi filosofica intesa come esteriorità rispetto al potere, come quella libertà di coscienza e parola in cui il sapere aude di Kant si riannoda alla fondazione greca della filosofia. E in cui lo stesso Foucault, il quale sta sobriamente parlando del proprio pensiero, si colloca sulla scia di Kant.

Ma di quale ascesi si tratta? Non certamente di una discesa senza fine nel soggetto, o di quella pseudo-beatitudine a mezza via tra il pastorale e il pedagogico con cui l’ellenismo contemporaneo sta trasformando in barzelletta il pensiero di Foucault. No, parliamo di un’estraneità costitutiva al potere in cui la filosofia trova la sua vera ragion d’essere. Perché, in fondo, ci dice Foucault, la libertà di parola che irrompe tra gli uomini, nel pericolo di chi la pronuncia, echeggia nella polis, declina con essa e ad essa ritorna, nelle forme ambigue, ma comunque date, del presente.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.

DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA - di Susanna Cernotti e Eleonora Cirant

-  IL RISPETTO DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA MAESTRA PER UN’ALTRA POLITICA.

-  SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".

-  IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.


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