LA RIVOLUZIONE COPERNICANA, IN FISICA E IN METAFISICA, E LA "STRADA MAESTRA" DELLA "CRITICA" ....
KANT: LA BUSSOLA DELLA SANA RAGIONE, L’ATTACCO DEGLI “ILLUMINATI” METAFISICI, E L’ESPERIMENTO GALILEIANO DELLA NAVE. Note su “che cosa significa orientarsi nel pensiero”
di Federico La Sala
(Queste note si ricollegano - in particolare - alla parte finale del lavoro SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ “UNO”, e sono il seguito delle note per una rilettura dei Sogni di un visionario)
Premessa
Ripartiamo da Galilei. Ripartiamo, in particolar modo, dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano” e rileggiamo (dalla “seconda giornata”) l’intervento di Salviati:
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran naviglio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. [..] Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma».
Senza la lezione - e questa, in particolare - di Galilei, possiamo dire di Kant quello che vogliamo, ma sicuramente non parliamo più di Kant. L’esperienza della nave è l’esperimento decisivo (è “il principio della relatività galileiana”) che segna la morte definitiva della vecchia fisica e della vecchia metafisica e segna la nascita della nuova fisica, quella galileiana - e della nuova ‘metafisica’, quella kantiana.
Dopo Galilei, come aveva già capito Pascal, tutti siamo imbarcati, e Kant pensa dall’interno del “gran naviglio”. Dopo Keplero, Kant parla della Terra come di “un’isola”, ma come di un’isola dell’“oceano cosmico” (Keplero, 1611). E il concetto di filosofia a cui guarda Kant è quello “cosmico”, non tanto e solo a quello “scolastico” (cfr.: I. Kant, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 810-811). Ma noi, ancora oggi, facciamo finta di abitare nella vecchia Terra, quella della ‘preistoria’! Ci nutriamo anche di slogan ad effetto, come quello di Nietzsche che segnala che, “dopo Copernico, l’uomo rotola verso una X”, ma continuiamo a essere i sognatori della ragione o i sognatori della sensazione di sempre, contro cui Kant ha già detto la sua nel 1766!
Non vogliamo proprio sapere nulla né di cosa significa uscire dallo stato di minorità, né di cosa significa pensare da sé, né di imparare a orientarsi nella realtà e nel pensiero, e lavoriamo come pazzi (o, se si vuole, con Nietzsche, come “l’ultimo uomo”) a distruggere la Terra e a raggiungere (tutti e tutte ‘insieme’) una definitiva e perpetua pace! E continuiamo a essere ostinatamente ingiusti con Kant, con la sua “Critica della Ragion pura” e con la sua “rivoluzione copernicana”.
Ma egli, con la sua “fede razionale” assoluta e incrollabile, continua a vegliare, assiste generosamente i naviganti ‘addormentati’ con i suoi consigli e le sue domande, e continua a sperare:
“Io presuppongo dunque dei lettori che non vogliano vedere una giusta causa difesa in modo ingiusto. Riguardo a costoro [gli avversari della buona causa] risulta dunque assodato che, secondo i nostri principi della critica - se non si guarda a quel che accade, bensì a quel che sarebbe giusto accadesse - non deve propriamente esistere una polemica della ragion pura.
In effetti, come potranno due persone contendere riguardo ad una cosa, quando nessuna delle due sappia rappresentare in un’esperienza reale, oppure soltanto possibile, la realtà di questa cosa, e quando si stia covando solo l’idea di essa, per cavarne qualcosa di p i ù che non un’idea, ossia la realtà dell’oggetto stesso? Attraverso quali mezzi costoro vorranno metter fine alla contesa, dal momento che nessuno dei due può rendere direttamente comprensibile e certa la sua asserzione, e che ciascuno dei due, piuttosto, può soltanto attaccare e confutare l’asserzione dell’avversario?
In realtà, il destino di tutte le asserzioni della ragione pura consiste nell’oltrepassare le condizioni di ogni esperienza possibile, al di fuori delel quali non si ritrova da nessuna parte un documento della verità, e nel dover tuttavia servirsi delle leggi dell’intelletto (le quali sono destinate semplicemente all’uso empirico, ma senza le quali non si può fare alcun passo nel pensiero sintetico), cosicché tali asserzioni riveleranno sempre all’avversario le loro debolezze, e inversamente utilizzare il punto debole dell’avversario.
La critica della ragion pura può essere considerata come il vero tribunale per tutte le dispute della ragione pura. Tale critica, in effetti, non si interessa delle controversie, che si riferiscano immediatamente ad oggetto, ma è destinata a determinare ed a giudicare i diritti della ragione in generale, in base ai principi della sua originaria istituzione. Senza tale critica la ragione, per così dire, è nello stato di natura, e non può far valere né consolidare le sue asserzioni e le sue pretese altrimenti che con la g u e r r a. Per contro la critica, la quale desume tutte le sue decisioni dalle regole fondamentali della sua propria istituzione - la cui autorità non può essere messa in dubbio da nessuno - ci procura la pace di uno stato legale, nel quale noi non possiamo risolvere le nostre dispute se non mediante un p r o c e s s o “( I. Kant, Critica della ragion pura ..., cit., pp. 743-744).
E’ elementare. Ma se non impariamo a dialogare con noi stessi e con noi stesse, se non impariamo a metterci da noi stessi di fronte a noi stessi - al di là dello specchio (narcisismo) e al di là della logica edipica, a metterci “al posto di una ragione estranea” e a esaminare imparzialmente i nostri propri giudizi “dal punto di vista altrui”, se non sappiamo usare correttamente la “bilancia”, e non sappiamo nulla del “tribunale della ragione”, come possiamo pretendere o sperare di trovare “una terza via” (Kant al suo ex allievo Marcus Herz nel 1771), e capire - pur se siamo sulla “nave” di Galilei - il principio di relatività galileiana (ed einsteiniana), e la rivoluzione e la lezione kantiana?
Come possiamo pretendere o sperare di uscire fuori dallo stato di minorità, se non ci svegliamo a noi stessi e a noi stesse e agli altri e alle altre?! Che cosa possiamo volere? Che cosa possiamo aspettarci se non la pace perpetua?! Che così sia: Per la pace perpetua (Kant, 1793)!
2. Note su “che cosa significa orientarsi nel pensiero”.
Quando nel 1786, in seguito all’infuriare della “controversia sul panteismo” (e sull’ateismo) accesasi tra Moses Mendelssohn e Friedrich H. Jacobi sulla posizione assunta da Lessing sullo spinozismo, della lotta tra la filosofia della “ragione” e la filosofia della “fede” determinata a riaprire la strada ai visionari e ai metafisici, Kant alla fine interviene. E, pur se non contro Meldelssohn e Jacobi, così scrive: “Mi risulta pressoché incomprensibile che gli studiosi sopracitati abbiano potuto trovare nella Critica della ragion pura punti di appoggio per lo spinozismo” (cfr. I. Kant, “Che cosa significa orientarsi nel pensiero”, Adelphi, Milano 1996, p. 64, n. 1). E’ una presa d’atto coraggiosa e, tuttavia, piena di drammaticità - per sé (in direzione di una possibile autocritica) e per gli amici (che sono andati fuori dal seminato ... e dal seminabile).
Purtroppo, ancora dopo la pubblicazione della “Critica della Ragion pura” (1781), dopo i “Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” (1783), dopo la “Fondazione della metafisica dei costumi” (1765), e dopo la “Risposta alla domanda “Che cos’è l’illuminismo?” (1784), si è ancora a una generale incomprensione del discorso fatto nella “Critica” e a una conseguente totale incapacità (come aveva sollecitato a fare già nel 1766) a riflettere e a tener “dietro semplicemente alle conseguenze”, di teorie come lo spinozismo (il panteismo e l’ateismo).
Kant scende in campo, e richiama alla propria responsabilità e ad agire per il meglio: “Ma avete riflettuto attentamente su ciò che state facendo e sulle conseguenze dei vostri attacchi alla ragione? Senza dubbio volete che la libertà di pensiero rimanga intatta, poiché senza di essa anche i liberi slanci del vostro genio finirebbero presto. Cerchiamo quindi - egli scrive - di vedere che cosa inevitabilmente ne sarebbe della libertà di pensiero, se la procedura da voi inaugurata prendesse il sopravvento” (op. cit., p. 62).
Per Kant si è superata la soglia: dare “via libera” ai sogni dei visionari e dei metafisici, significa solo ricadere nello stato di guerra (nello stato di natura hobbesiano) e all’eterno ritorno del dispotismo, ridare via libera al gioco del vecchio desiderio di sapere (titanico prima e satanico dopo) che vuole giungere al “vero sapere” e mettere fine alla ricerca (cfr. Hegel, “Prefazione” alla “Fenomenologia dello Spirito”)! Purtroppo le cose vanno nel senso non voluto: nello stesso anno, nell’agosto del 1786, Federico II di Prussia - il grande re amico di Voltaire e della libertà di pensiero e di espressione - muore e gli succede Federico Guglielmo II che, con il suo ministro Wollner, rilancia una politica oscurantista e repressiva.
Nonostante l’amarezza, con pazienza, sul filo dei discorsi già fatti nei “Sogni” (“si può dunque ammettere la possibilità di esseri immateriali senza timore di essere confutati, ma anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità per via di principi razionali”), e poi , nella “Critica della ragion pura” (si cfr., in particolare, tutta la parte dedicata alla “dialettica trascendentale” e alla “dottrina trascendentale del metodo”), Kant spiega ancora e di nuovo cosa significa “rivoluzione copernicana”, e come sia possibile “orientarsi nel pensiero”.
Il tono è pacato e per molti versi accorato, ma nella sostanza è determinato e fortissimo: dobbiamo partire da noi stessi (dall’“uomo in relazione col mondo” - come aveva detto nei “Sogni”, dalla nostra stessa persona che sente e pensa), cercare in noi stessi (nella propria ragione) “la pietra ultima di paragone della verità”(cfr. I. Kant, Che cosa significa orientarsi... cit., p.66), “non dobbiamo spacciare per libera cognizione ciò che è soltanto presupposto inevitabile”, e al contrario dobbiamo capire che “dogmatizzare con la ragion pura nell’ambito del sovrasensibile” conduce direttamente “all’esaltazione filosofica” e che “solo la critica” di questa stessa facoltà della ragione garantisce “un rimedio radicale” a questo male (op.cit., p. 53, nota).
Prendendo spunto dal lavoro di Mendelssohn, Kant amplia e definisce, “con maggiore precisione”, il concetto di orientarsi e mostra che, come sul piano sensibile non possiamo non partire se non dalla “differenza nel mio stesso soggetto”, “da un criterio di distinzione puramente soggettivo” - il “sentimento” della mano destra e sinistra, così sul piano sovrasensibile - quando la ragione vuole “estendersi al di là di tutti i confini dell’esperienza senza trovare alcun oggetto dell’intuizione”, non possiamo non partire se non dal criterio soggettivo (“l’unico che rimane”), dal “sentimento del bisogno della ragione”, dal “diritto di orientarsi nel pensiero - nello spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde - unicamente in virtù del proprio bisogno” (op. cit., pp. 47- 51): la salda e immutabile “fede razionale” (p. 57), da non confondere - annota Kant - con la “fede storica”, in cui “è pur sempre possibile che vengano trovate prove che dimostrano il contrario e in cui dobbiamo sempre riservarci di mutare opinione se la nostra conoscenza dei fatti dovesse ampliarsi” (op. cit., p. 58).
E per togliere ogni ambiguità alla discussione sul criterio soggettivo della “sana ragione”, così precisa con chiarezza e determinazione: “Una pura fede razionale è dunque la guida o la bussola con cui il pensatore speculativo può orientarsi nelle sue peregrinazioni razionali nell’ambito degli oggetti sovrasensibili, e con cui l’uomo dotato di una ragionevolezza comune, ma (moralmente) sana, può tracciare la propria via, perfettamente adeguata dal punto di vista sia teoretico sia pratico all’intero fine della sua destinazione; e questa stessa fede razionale va posta a fondamento di ogni altra fede, anzi di ogni rivelazione”.
E, per essere ancora più chiaro, così prosegue: “Il concetto di Dio e la stessa convinzione della sua esistenza si possono rinvenire solo ed esclusivamente nella ragione, derivano solo da essa, e non ci vengono forniti in anticipo né da un’ispirazione né da una novella comunicataci da un’autorità, per quanto grande”. Se ho - scrive Kant - “un’intuizione immediata, tale che a fornirmela non può essere affatto la natura - per quanto la conosco -, è pur sempre necessario un concetto di Dio che serva da criterio per verificare se un’apparenza siffatta concordi con le caratteristiche di una divinità” (op. cit., p. 58-59).
Per Kant solo la fede razionale, quella di una ragione (moralmente) sana che si “sottomette solo ed esclusivamente alla legge che essa stessa si dà”, può evitare il peggio e portare l’umanità fuori dallo stato di minorità, altrimenti e necessariamente la ragione, accecata, finirà per “piegarsi al giogo delle leggi imposte da altri, poiché senza una qualche legge niente , nemmeno l’assurdità più grande, può sussistere”. E la conseguenza inevitabile è che “alla fine ci rimettiamo la libertà di pensiero”, e poiché la colpa - scrive Kant - “non è della sfortuna, ma della nostra tracotanza, siamo noi a giocarcela nel vero senso della parola” (op. cit., pp. 63-64).
Kant, benché veda crescere dappertutto la tempesta e l’impeto, non dispera: la sua speranza e la sua fede nella ragione sono salde (“possiamo sempre contare - aveva scritto nella “Critica” del 1781, nella sezione su “La disciplina della ragione pura, a riguardo del suo uso polemico” - possiamo sempre contare sulla massima soggettiva della ragione, che manca necessariamente all’avversario, e che ci offre uno scudo, dietro il quale noi possiamo guardare con calma e con indifferenza a tutti i suoi vani attacchi“).
Ma la posta in gioco è grande, e alla maturità critica - all’imparare a rendersi conto delle illusioni e dei pregiudizi - non si arriva se non attraverso una faticosa lotta! E così Kant, ben sapendo che “radicare l’Illuminismo in singoli soggetti mediante l’educazione” è assai facile, “basta abituare per tempo le giovani menti a questo tipo di riflessione”), e, altrettanto, che “illuminare un’epoca” è molto laborioso, “poiché si trovano numerosi ostacoli esterni che in parte impediscono, in parte rendono difficile un’educazione siffatta”, rompe con l’indifferenza e gli indugi, apre la sua ragione alla carità, e chiude tutto il suo generoso discorso con un accorato appello (op. cit., p. 66, senza nota) :
“Amici dell’umanità e di ciò che le è più sacro! Assumete pure ciò che a un esame schietto e accurato vi appare più credibile, si tratti di fatti o di motivi razionali, ma non contestate alla ragione ciò che la rende il bene sommo in terra, cioè il privilegio di fungere da pietra ultima di paragone della verità. In caso contrario, perderete certamente una libertà di cui siete ormai indegni, riversando questa sventura anche su quella residua parte incolpevole che altrimenti sarebbe stata senz’altro disposta a servirsi della propria libertà in maniera conforme alla legge, cioè finalizzata al bene del mondo”.
Federico La Sala (20.07.2010)
KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDABILE, E IL PROBLEMA DELL’ “IO”. Note
di Federico La Sala
“Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (1786) è un testo decisivo dell’evoluzione del pensiero di Kant e, al contempo, dell’intero pensiero europeo. Nei temi e nei toni affiorano nodi non sciolti del passato e del presente, e segnali di tempeste del futuro, già in avvicinamento: l’inizio di una guerra di lunga durata all’illuminismo kantiano, e alla sua rivoluzione copernicana, in nome di Kant contro Kant!
Kant mostra di essere giunto ad un punto oltre al quale non può più spingersi. Ma non è questo il problema! E’ vero: i suoi stessi amici hanno frainteso (e non capito) la proposta della “terza via”; la sua risposta - pur se ferma e decisa a difendere la sua “fede razionale” e appena venata dal sentimento di una possibile carità razionale - è debole teoreticamente e, alla fin fine, moralistica praticamente. E’ vero: un dialogo pieno tra maggiorenni non c’è stato, ma non c’è stato non per motivi anagrafici o psicologici. E’ teoreticamente, e storicamente, che l’unità stessa del soggetto non c’è ancora: non è stata ancora concepita come l’unità di un soggetto maturo - a tutti i livelli. Pensare da minorenne alla maturità, da suddito alla cittadinanza democratica - ai “diritti dell’uomo e del cittadino” - non è un’impresa da ... ragazzi: il “Sapere aude!” non dipende solo dal coraggio di servirsi della propria intelligenza senza la guida di nessuno. Kant lo sa (per esperienza: Federico II di Prussia non è Federico Guglielmo II) e non si ferma, né si arrende. Intorno al problema, girerà fino alla fine: la vera questione, a cui si riducono le altre (metafisica, morale, e religiosa), scrive nella Logica (1800), è quella antropologica: “che cosa è l’uomo?”.
Per Kant non ci sono dubbi - egli è e rimane incrollabilmente e assolutamente fiducioso: solo la strada critica non è un vicolo cieco (quello che imboccano - come già succedeva ai tempi di Parmenide - coloro che, per “l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente”, sono abituati a “usar l’occhio che non vede e l’udito risuona di suoni illusori”); solo “il criticismo della ragion pura” assicura alla facoltà umana della conoscenza “una duratura condizione, non solo all’esterno ma anche all’interno, di non essere bisognosa di ampliamento o di restrizione, né di esservi anche solo disposta” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 71). Trasformare “questo sentiero in una strada maestra” (come aveva già scritto nel 1781) è possibile - e necessario: è l’unica che permette una ‘navigazione’ nel dialogo, nella nonviolenza e nella pace (I. Kant, Per la pace perpetua, 1793) e non distrugge la ‘nave’ - l’umanità e la stessa Terra.
Seguendo il filo di Aristotele, Galilei, Newton, Rousseau. egli si è spinto coraggiosamente avanti, con la sua bilancia ha trovato il modo sicuro per non perdere la speranza e la fede razionali, ma ora ha trovato dinanzi a sé di nuovo il loro stesso ostacolo: la soggettività da lui conquistata e teorizzata, presuppone (e guarda) a una soggettività che non c’è ancora - nemmeno oggi! La sua epoca è l’epoca del dispotismo e dell’Illuminismo, non è un’epoca illuminata. Kant ne è consapevole, e guarda lontano, pensa già ai cittadini e alla nuova società, a una società democratica: con la sua bussola. è sicuro, è possibile arrivare alla “terra promessa”. Nel suo caso, e ancor di più, possiamo - cosa a cui invita egli stesso, del resto! - “far valere e considerare come un passo avanti anche il non procedere”: egli, infatti, ha fornito una bussola inaffondabile per orientarsi, “un criterio atto a capire ciò che di recente è avvenuto nella metafisica (...) quanto è stato fatto per l’innanzi”, e ciò che “si sarebbe dovuto fare” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 68).
Kant come Mosé: Holderlin aveva ragione. Ma già con lui, e con Fichte, Schelling, Hegel, Feuerbach, Marx, fino a Heidegger e a Lacan (che associa, “Kant e Sade”), inizia la moda di ‘giocare’ a superare Kant e a sciogliere il nodo delle antinomie della ragione, rinnovando e variando le tecniche e gli strumenti sofistici dei visionari e dei metafisici del passato. Ma l’unità e il monoteismo della ragione e del soggetto, a cui Kant guarda fisso (con il metodo della parallasse, di cui parla nei “Sogni”) non ha niente a che fare: non ha niente a che fare con la tradizione platonico-cattolica, con la loro rinnovata e camuffata vecchia unità, con la loro soggettività di un monoteismo, falso e bugiardo.
Federico La Sala (24.07.2010)
KANT: "IO SONO DOVE SENTO". L’unità inscindibile di sensibilità e intelletto. Alcune note
di Federico La Sala
Agli straordinari abitatori del mondo ("i sognatori della sensazione") e agli illuminati abitatori dell’"altro mondo" ("i sognatori della ragione"), Kant ha già chiarito le idee nella sua interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766): "la metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi (...) presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. Ma qui - egli continua - il risultato inganna troppo spesso la speranza (...) L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto questo aspetto - scrive Kant già con grande lucidità - la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana"(I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 158-159).
Ma nessuno di loro ha voluto né capire né svegliarsi e imparare a distinguere l’illusione dall’apparenza. Senza bilancia e senza bussola, essi continuano a seguire la strada del "ragno" o delle "formiche" o, addirittura, hanno rinunciato alla possibilità stessa di giungere a una conoscenza "chiara e distinta". Essi hanno continuato e continuano a sognare su come acchiappare "l’anguilla della conoscenza": chi propone di partire dalla coda, chi dalla testa, e chi di scegliere "ciascuno a proprio piacere il proprio punto di partenza" (op. cit., pp. 147-148). Ma, così, continuano a non raggiungere né alcun accordo né alcun risultato e, soprattutto, a non capire nulla né della loro esperienza né di se stessi!
Nel 1766 Kant è già sicuro di sé - e indica la svolta necessaria: "Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa: sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione (...) La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte". E prosegue: "La sana intelligenza coglie spesso la verità prima di vedere le ragioni per mezzo delle quali può essere dimostrata e spiegata" (I. Kant, I sogni di un visionario..., cit. pp.108-109). Di qui ripartire - per fare chiarezza! Noi, il soggetto: questo è il problema e questo il punto di partenza - da riconsiderare.
E’ la questione antropologica - e la svolta cartesiana finita in un vicolo cieco e miseramente (un promettente luminoso "io" sole che, insediatosi da re al centro di tutto, ha subito mostrato la sua natura terrestre (umana, troppo umana) di un semplice, grande "ragno") - che Kant riapre e reimposta, alla grande! La questione è antica: "Che cosa è l’uomo?" "Anima, o corpo, o ambedue insieme, come un tutto unico" (Platone, Alcibiade primo, 130 a). Ma ora il punto di vista è moderno - e di un moderno che riattinge a profondità simili a quelle dantesche (aristoteliche e bibliche, evangeliche)!
Indietro non si torna. Svegliato e sollecitato dalla lettura da Rousseau e, in particolare, dalla lettura dell’Emilio (soprattutto della centrale "Professione di fede del vicario savoiardo": "[...] sentiamo prima di conoscere [...]. Anche se tutte le nostre idee ci provengono dall’esterno, i sentimenti che le valutano sono dentro di noi, e solo per loro mezzo conosciamo l’armonia o la disarmonia esitente tra noi e le cose che dobbiamo ricercare o fuggire"), Kant riprende la linea della tradizione aristotelica, la coniuga con la libertà della coscienza di Rousseau, e ricomincia a ricostruire tutto - a costruire la sua "Divina Commedia". L’orizzonte cambia interamente e rapidamente: il cielo è libero, stellato sopra di noi, e la legge morale non viene né dall’alto né dal basso - è dentro di noi.
Nel 1770, con la Disssertazione "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis", è posto il primo grande pilastro della sua costruzione. E’ tolta la confusione relativa a "come va il cielo" e a "come si va in cielo", e la via alla conoscenza è assicurata: "E’ eliminato il "contagio" (Ansteckung, contagium) dell’intelligibile da parte del sensibile, quale emergeva tanto chiaramente nella dottrina newtoniana di Dio", e, al contempo, alle forme della sensibilità [spazio e tempo] sono garantite la certezza incondizionata e l’applicabilità senza eccezioni entro la loro cerchia, e quindi per tutto quanto l’ambito degli oggetti dell’esperienza" (cfr.: E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 136).
Nel 1772, in una lettera sul suo programma di lavoro a Marcus Herz (cfr. E. Cassirer, Vita ..., cit., p. 154), così Kant chiarisce il punto essenziale: l’intelletto umano non funziona affatto nè come "un puro intelletto creatore, di un intellectus archetypus", né "di un intelletto puramente senziente, di un intellectus ectypus". "Il nostro intelletto - precisa Kant - non rientra in nessuna di queste due categorie: non genera esso stesso gli oggetti a cui si rapporta nel suo conoscere, e neppure si limita a ricerverne semplicemente gli effetti quali si danno immediatamente nelle impressioni sensibili". L’interpretazione dei "sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica" apre le porte alla rivoluzione copernicana e alla trasformazione della domanda della metafisica("Che cosa posso sapere?"). La "metafisica" diventa "filosofia trascendentale" - nel senso rigoroso in cui più tardi la Kritik der reinen Vernunft definirà il nuovo termine: "Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori" (cfr.: E. Cassirer ... cit., p. 158).
Tutti parlano, lodano, e cercano di fare del "trascendentale" una moda, ma non ci riescono e, allora, decidono di muovere all’attacco di "quel Kant che sgretola tutto" (Moses Mendelssohn) e sta smontando il teatrino della vecchia metafisica. Filosofi, dotti, e "amici dell’umanità", - nella incapacità di riflettere criticamente sul fatto che, "per quanto ogni nostra esperienza incominci c o n l’esperienza, non per questo proprio tutte le debbono sorgere d a l l’esperienza" (I. Kant, Critica della Ragion Pura, "Introduzione", Adelphi, Milano 1976, p. 45), non solo continuano ad "orientarsi" male e confusamente, ma cominciano a contestare alla "sensibilità" il suo valore e il suo legame con l’"intelletto", e "alla ragione ciò che la rende il bene sommo in terra", negano la "fede razionale" e corrono ciecamentee dietro illusioni tanto pericolose da perdere per sempre la libertà, "una libertà" di cui "sono ormai indegni" (I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996, pp. 65-66).
Questi "nuovi" filosofi non sanno né vogliono capire che "pensare da sé significa cercare in sé stessi (cioè nella propria ragione) la pietra ultima di paragone della verità" (I. Kant, op. cit., nota 1, p. 66) - la bilancia dell’intelletto, come l’aveva chiamata nei "Sogni". E non sanno che, per trovarla e per usarla, bisogna "servirsi della propria libertà in maniera conforme alla legge, cioè finalizzata al bene del mondo" (cit., p. 66). Essi vogliono solo perpetuare il gioco platonico-cattolico del pastore e delle pecore!!!
Federico La Sala (26.07.2010)
Perché si vuole uccidere Kant?
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
Cultura
Dare la mano, sfida tra saluto e salute
Saggi. «L’avventurosa storia della stretta di mano» di Massimo Arcangeli, per Castelvecchi, una carrellata avvincente sulla biografia di un gesto che suggella patti, matrimoni e dà fiducia all’altro da sé
di Tiziana Migliore (il manifesto, 13.01.2021 /Aggiornato 19.1.2021)
In questi primi giorni del 2021 l’augurio di un anno fatto di caldi e impetuosi abbracci impazza. Per molti non poter toccare gli altri, per conoscerli o esprimere affetto, è un supplizio. Scopriamo il valore della relazione fisica di contatto, pratica fra le più ovvie e consolidate, ora che ne siamo privi. Che forme ha la prossemica, linguaggio semiotico dei rapporti interpersonali di prossimità e di distanza, normalmente silente, poco conosciuto, ma che acquisiamo da bambini prima della parola?
L’INSTANT BOOK di Massimo Arcangeli L’avventurosa storia della stretta di mano. Dalla Mesopotamia al Covid-19 (Castelvecchi, pp. 108, euro 14,50) esplora quest’universo a partire dal modo più diffuso di approcciare l’altro in Occidente: il darsi la mano. Se con persone della nostra cerchia usiamo il bacio, l’abbraccio o la rapida apertura e chiusura del palmo insieme al «ciao» - dal veneto s-ciavo «(sono vostro) schiavo» -, gli estranei li incontriamo allungando e stringendo la nostra destra nella loro. Si esce, cioè, dalla comfort zone e si ripone fiducia nell’altro compromettendo il proprio stato di benessere fisico.
Arcangeli percorre i secoli mostrando, con testi artistici, storici e letterari, gli slittamenti semantici della dextrarum iunctio. Si va dalla stipula di alleanze politiche, nel pannello scolpito dell’Iraq Museum di Baghdad, dove notiamo la stretta di mano, nell’850 a.C., fra il re assiro Salmanassar III e il re babilonese Marduk-bel-usati, alla riconciliazione fra due città, come Samo e Atene, metaforicamente rappresentate dalle rispettive dee protettrici, Era e Atena, in una stele dell’Acropoli di Atene del 402 a.C.
IN OCCIDENTE la stretta di mano era nota da tempo anche come simbolo di iniziazione a sette e gruppi esclusivi, di lealtà in amicizia e di fedeltà coniugale, nel rito del matrimonio e al decesso di uno dei due sposi, a riprova di una concordia proiettata oltre la morte. Se fin da allora era marcato che la mano da stringere fosse la destra - il termine in uso per indicare la stretta di mano in greco era dexióomai, appunto «dare la destra» - l’anello che nelle nozze suggellava questa unione doveva essere infilato dalla mano destra dell’uomo nell’anulare sinistro della donna, ritenuto connesso al cuore tramite un nervo sottile.
Il Ritratto di Marsilio Cassotti e della sua sposa Faustina (1523) di Lorenzo Lotto testimonia questa tradizione in voga ancora oggi. Nell’arte glittica medievale e nella gioielleria fiorentina del ’500 la chiusura del cerchio d’anello presentava le destre congiunte stilizzate, a volte con valore legale.
NELLA VITA PUBBLICA dell’era moderna la stretta di mano passò a connotare il legame fra pari, da un lato opponendosi strutturalmente al baciamano, a inchini e salamelecchi vari, dall’altro evitandola con i superiori, il che avrebbe sortito effetti di pessimo gusto. Dopo un periodo reazionario, fra il XVI e il XVII secolo, che aveva visto il ritorno delle cerimoniose gerarchie, l’egalitarismo quacchero ha imposto lo scuotersi reciprocamente le destre in forma di saluto.
Quando si trattava di siglare un patto o favorire la nascita di un’impresa tra famiglie, specifici mediatori potevano intervenire, al posto dei loro mandanti, per stringersi la mano; in siciliano si alludeva a un rapporto viscerale chiamando questi sensali ncucchia viddichi («congiungi ombelichi»).
Ma Arcangeli nel libro non si ferma a una cronistoria della stretta di mano. Mette in tensione il gesto con altri dello stesso paradigma, preferiti per ragioni di sicurezza, come il saluto gladiatorio - afferrarsi per l’avambraccio, accertandosi così che l’altro non nascondesse un’arma nella manica - o per ragioni di igiene, come il saluto romano, portato in auge da Mussolini («la mano, asciutta o sudarella, quanno ha toccato quarche porcheria, contiè er bacillo d’una malatia. Invece, a salutà romanamente, ce se guadagna un tanto co l’iggiene, eppoi nun c’è pericolo de gnente», Trilussa).
Alcune pagine sono dedicate a Trump e all’azione bloccante dell’interlocutore che è preda delle sue mani: nella «doppia stretta» aggressiva con Putin, afferrandone la mano e il braccio, nei tira e molla con Macron o avviluppando nel suo pugno la mano della regina Elisabetta.
PAESE CHE VAI, usanza che trovi, la reazione a gesti inconsulti cambia a seconda della cultura interessata - Bill Gates con una mano in tasca di fronte alla presidente Park Geun-hye ha scandalizzato tutta la Corea del Sud.
Nel mondo vigono forme di saluto diverse, alcune delle quali recentemente importate per un rispetto maggiore della distanza: il namasté dell’India o il tai wai thailandese, con le proprie mani giunte in forma di preghiera all’altezza del mento, del petto o della fronte, il sorriso e l’inchino; il gong shou (Cina), cioè il pugno contro il proprio palmo; lo sguardo reciproco, suggerito dal francese Philippe Lichtfus, maître di bon ton; una pacca sulla spalla (Australia), un bel «toccaculo» (Iran), il piede contro piede di Wuhan, reso popolare da un balletto su Tik Tok, e il gomito contro gomito, a loro volta scalzati da forme meno rischiose, come la mano sul cuore.
Un emoji ha codificato ultimamente il saluto di benedizione «tipico» sul pianeta Vulcano, fatto dal dottor Spock in Star Trek e che ha radici ebraiche. Forse, piuttosto, non sarebbe una cattiva idea ibridarci con i tibetani, che congiungono le mani al petto e mostrano la lingua. In tempi bui di barbari e svalvolati, ci garantiremmo reciprocamente di non essere posseduti da demoni.
NEUROSCIENZE E FILOSOFIA: CRITICA DELLA RAGION PURA! Uscire dallo stato di minorità: Uscire bene fuori dalla coscienza, per capire di più e meglio il mondo - e la stessa coscienza .... *
Scienze.
Manzotti: «E se la coscienza non fosse dentro di noi?»
La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 4 febbraio 2020)
La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga.
Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca. La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25).
La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.
Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?
«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ’fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».
La sua proposta della ’mente allargata’ si presenta come ’rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?
«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è - cioè cellule, sangue, neuroni - diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».
Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?
«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ’strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».
Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?
«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO.
«LA RICERCA DELLA VERITÀ»: AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. LA LEZIONE DI KANT... *
Il casco di Dio e la mela: la logica vinta dalla “matematica del mistero”
C’è una razionalità orizzontale e una verticale: la prima crede di dominare il reale, la seconda esce dai binari del già scritto e comprende la totalità. È lo strumento per compiere la nostra umanità
di Raul Gabriel (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
Il termine “razionale” viene usato spesso a sproposito. In sé non identifica alcuna categoria certa. La razionalità è una materia talmente malleabile che può schiudere visioni sorprendenti o ingabbiare in strutture di ragionamento rigide da cui non si riesce più a uscire. Tutto dipende dalla qualità della razionalità. E la qualità dipende in buona parte dall’asse su cui si sviluppa.
Ognuno di noi è razionale, e non è escluso che, sia pure con le limitazioni del caso, la razionalità possa essere estesa anche al mondo animale. L’interpretazione della parola “razionale” si infiltra nei labirinti sinaptici per strade che possono essere molto diverse. Persino in contraddizione tra loro.
Qual è il punto critico? Il fatto che alcuni sviluppano una razionalità orizzontale, caratterizzata da grande ricchezza di informazioni organizzate in maniera estremamente meccanica, rafforzata non di rado da un autocompiacimento che frena ogni possibile risonanza capace di espandere la struttura del ragionamento. Non è importante che si tratti di storia, arte, biologia, fisica, teologia, critica letteraria e così via. Ciò che importa è la propensione ad articolare il pensiero secondo concatenazioni vincolate e sequenziali che lo rendono simile ai processi produttivi delle macchine di produzione alfanumeriche.
Altri invece sviluppano una razionalità verticale e obliqua che al posto delle meccanicità orizzontali-aritmetiche, ha come fondamentale caratteristica la potenzialità dei salti di intuizione. Il modo verticale, se così possiamo chiamarlo, va spesso in conflitto con il procedimento meccanico. A differenza del modo orizzontale che si accontenta di risultati facilmente dimostrabili a patto di rimanere in prospettive estremamente limitate, non dà sempre garanzia di successo, ma è l’unico che può portare a veri salti cognitivi.
Un collezionista di Milano in visita al mio studio ha detto una cosa di cui sono profondamente convinto. Le intuizioni più potenti vengono praticamente sempre dagli autodidatti. Aggiungerei anche da coloro che hanno un rapporto profondamente conflittuale con gli studi e non ne diventano il breviario noioso e ragionieristico da esporre come una litania stanca per la troppa abitudine. L’intelligenza orizzontale ha molto a che fare con la burocrazia intellettuale, e spesso si sposa più con l’ansia di un facile riconoscimento da parte degli altri che con una sete di indagine.
Il casco di Dio
La ricerca di Michael Persinger, neuroscienziato sviluppatore del cosiddetto “casco di Dio”, originariamente “casco di Koren” da Stanley Koren il suo primo creatore, può essere emblematica della distinzione tra i procedimenti orizzontale e verticale. Soprattutto nelle sue conseguenze. Sono convinto che non molti conoscano Persinger, scomparso di recente e fondatore del Behavioral Neuroscience Program, settore di ricerca sulle neuroscienze che innesta psicologia, chimica, neurologia e biologia in un progetto sperimentale che ha generato branche di studio come la neuroteologia.
Cercherò di illustrare brevemente la sua esperienza. Il “casco di Dio” è un semplice casco da motoslitta dotato di due solenoidi in grado di emettere leggeri campi magnetici. Fatto indossare a una persona in un ambiente isolato senza suoni e stimoli di sorta, produce un leggero campo magnetico sul lobo temporale. La stimolazione porta l’individuo ad avvertire delle presenze. In alcuni casi i soggetti sono in grado di elencare numero e posizioni spaziali di queste presenze.
Durante l’esperimento sono state riferite sensazioni come “uscire dal corpo” e cose del genere. L’esperienza di per sé è estremamente interessante, come indagine conoscitiva e medica. La capacità del cervello, e per esteso del corpo, di sintonizzarsi su forze invisibili ma perfettamente presenti e “corporee”, reagire a esse generando percezioni di varia natura, è sicuramente un campo di indagine molto affascinante.
Ma questo è il dato empirico. In sé non significa nulla. Come tutti i dati sperimentali osserva ciò che succede ma non può dire nulla sul perché succede. Michael Persinger ha applicato alla interpretazione dei risultati ottenuti con questo apparato incredibilmente semplice, quella che definisco “razionalità orizzontale”. Cioè la stessa logica di un rebus da settimana enigmistica. Non voglio essere frainteso. Questo tipo di razionalità può arrivare molto in là nella complessità delle deduzioni. -Ciò che non può fare è uscire da una catena di cause e conseguenze vincolate e sequenziali, che non possono portare a vere novità, ma trovano la strada di un labirinto senza orizzonti, come una cavia addestrata alla ricerca del cibo premio.
Nell’interpretazione di Persinger i risultati degli esperimenti dimostrano l’inconsistenza degli stati caratteristici nelle esperienze mistiche come percezione di presenze, rivelazioni, catarsi, trasporti spirituali. Tutto ciò che si attribuisce a una attività spirituale o extrasensoriale dell’individuo è, secondo Persinger, il prodotto dell’influenza sul cervello di perturbazioni elettromagnetiche in cui ci si può imbattere occasionalmente.
Questo ragionamento aritmetico si svolge in un tunnel univoco. Mette gli elementi in fila uno davanti all’altro e trae una conclusione che non si scosta in alcun modo dalla stessa qualità dei dati empirici. Non tiene conto del fatto che i dati dell’esperimento mostrano semplicemente una modalità di interazione del cervello. La meravigliosa capacità del nostro corpo di intercettare visibile e non visibile, pur sempre corporeo, a livelli di finezza sorprendenti. Ma la sua lettura orizzontale non va oltre il dato e la sua ontologica insignificanza etica.
Non produce una sintesi capace di uscire da un labirinto logico privo di orizzonte. Il ragionamento si affanna a tracciare una linea tra i dati mantenendone il medesimo livello qualitativo. Non produce sintesi e salto cognitivo.
La razionalità orizzontale ci dice quello che sappiamo già: che esistono i dati, che hanno quella forma e scansione temporale. Dal punto di vista cognitivo non genera alcuno spostamento. Dire che la nostra vita extrasensoriale o spirituale è il frutto aritmetico della fisiologia del cervello sottoposto ad alcuni stimoli significa scambiare arbitrariamente gli effetti con le cause.
Se le dimensioni percepite a causa del casco sono artificiali, questo non esclude in alcun modo che esistano dimensioni vere e concrete che generano la stessa percezione.
Se Persinger avesse aperto la sua razionalità alla dimensione verticale avrebbe compreso che aveva dimostrato un fatto profondo e toccante: se un Dio esiste, si manifesta proprio attraverso la dote che è stata data al nostro corpo: reagire a quel campo magnetico leggero che a me fa tenerezza, come una carezza delicatissima dentro la nostra carne.
La logica senza frutto del peccato originale
Le considerazioni sul "casco di Dio", le direzioni della razionalità, la loro divisione radicale nel quadro delle facoltà cognitive umane, compresa la sfera spirituale, portano molto in là e possono aprire a ipotesi stimolanti.
Intelligenza orizzontale e verticale aprono a mondi completamente diversi e innescano comportamenti completamente diversi - con un riflesso evidente nel nostro modo di stare al mondo, di interagire con gli altri e nella società. Si tratta non solo di meccanismi cognitivi che si esplicano nel momento del loro esercizio, una sorta di “soluzione” diversa a una domanda. -Le due forme di intelligenza sono la porta verso visioni complessive della realtà totalmente differenti.
Vi è un filo conduttore che riconduce questo tema chiave della razionalità al primo dilemma posto dalla storia simbolica a riguardo dell’intelligenza come forma di contrapposizione e ribellione al divino, verticalità per definizione. Il “peccato originale” è l’enigma cognitivo alla radice della storia umana. Riguarda la natura del bene e del male e, a mio parere, riguarda profondamente la natura della razionalità, che con il bene e il male è indissolubilmente intrecciata.
Forse il frutto con cui il serpente tenta gli abitanti del Giardino primigenio non rappresenta la conoscenza tout court. -Rappresenta invece una conoscenza “orizzontale”, l’adesione a una razionalità meccanica che esclude i salti cognitivi e per questo esclude Dio e la sua presenza ab origine. Esattamente come Persinger, nelle sue affrettate conclusioni sui risultati sperimentali ottenuti con il “casco di Dio”.
Il peccato originale è un primo amalgama tra razionalismo e riduzionismo. La mela è l’intelligenza orizzontale, parziale, escludente, basata su una analisi puramente aritmetica del reale. La sua stessa essenza esclude la visione verticale, la conoscenza complessiva del Giardino. Una volta simbolicamente mangiata, genera istantaneamente le categorie che danno l’illusione della comprensione, forti di un legame in apparenza stringente con il reale.
La mela crea il labirinto orizzontale, privo di elevazione, che esclude dalla visione generale, dalla conoscenza totale. Il labirinto è quello della logica strutturata per concatenazioni incapaci di fare salti. La tentazione è forte. Mostrare la validità del proprio processo logico cognitivo facendo leva su parametri gestibili a distanza ravvicinata che pretendono di mostrare una concretezza inoppugnabile mentre evidenziano una profonda cecità di fondo.
Mangiare la mela della razionalità orizzontale significa rinunciare al proprio destino di umanità compiuta che funziona per logiche tutt’altro che lineari. Per fortuna. Rinunciare consapevolmente alla speranza del compimento del proprio destino significa autodegradarsi in nome di una conoscenza che diventa invece scissione.
Separazione dal Giardino.
Il “peccato” originale è stato questo. Scegliere di muoversi nella realtà come cavie da laboratorio, così impegnate nella progressiva risoluzione dei problemi e dei test da perdere la cognizione della possibilità del salto e della visione d’insieme. La visione di insieme, il Giardino, non sono aritmetici. Sono come un territorio incongruo, apparentemente eterodosso, la cui comprensione richiede un susseguirsi di sfide cognitive che possono essere tentate solo con una continua scommessa, intuibile ma ignota, che risponde a una matematica del mistero, se vogliamo chiamarla così.
Non vi è contraddizione tra intelligenza e divino. Il sapere, in alcuni momenti della storia, ma anche oggi negli anfratti delle sottoculture cristiane e non, viene visto come interferenza nell’ascesi, una sorta di tentativo di capire ciò che non si può capire e quindi tentativo di “essere Dio”.
Invece l’intelligenza è parte integrante del Giardino e dei suoi abitanti. A patto che sia una intelligenza verticale. Perché unico vero strumento per compiere la propria umanità.
L’esclusione dal Giardino non viene irrogata come punizione da un arbitro intransigente per un fallo di gioco. La esclusione è coincidente con la scelta della razionalità orizzontale che degrada gli esseri umani a meccanismi e li tenta semplicemente perché dà loro la impressione di controllare e poter essere controllata.
Non credo che si possa scegliere il proprio tipo di intelligenza. Forse non è neanche un processo volontario. Volontaria è la esibizione della razionalità come teoria di informazioni legate una all’altra, strumento di controllo, potere, narcisismo. Volontario è rivendicare una conoscenza che si crede di poter dimostrare assoluta perché limitata. Il problema è lo stesso delle geometrie euclidee e non euclidee. Con Euclide si può costruire un muro, e non è poco. Ma non si può in alcun modo mettere fuori la testa di più di dieci centimetri a contemplare l’universo di cui Euclide come l’intelligenza orizzontale non è altro che una minima manifestazione.
La mela è la tentazione mortale di fare di un particolare il tutto, rinunciando alla fiducia della scommessa cognitiva dentro la quale, solo, può essere contemplato il Giardino della propria e altrui realizzazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO"
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766. Invito alla rilettura dell’opera del 1766, "I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Frontiere.
Se iI dolce veleno della tecnologia ci fa dimenticare che siamo corpo
L’illusione della smaterializzazione è un sintomo mortale, l’evidenza di una progressiva sconfitta del senso del cammino che è vita
di Raul Gabriel (Avvenire, giovedì 10 ottobre 2019)
Nello sviluppo delle tecnologie vi è un processo inevitabile di cui credo sia necessario avere piena coscienza. L’esempio perfetto viene dalla possibilità abbastanza recente di un corpo umano perfettamente riprodotto in 3D in grado di sostituire i corpi in carne e ossa per lo studio dell’anatomia umana, disponibile su un tavolo operatorio di dissezione virtuale. Realtà già attiva in Italia in alcuni distretti ospedalieri e scientifici avanzati, rappresenta solo l’inizio di cosa può significare la virtualizzazione e le sue possibili applicazioni.
Poter effettuare indagini ed esperienze senza avere a che fare con gli effetti più sgradevoli di tutto ciò che ci tiene in vita è certamente un grande passo avanti. Per qualche motivo la tecnologia sembra avallare e incoraggiare la tendenza comune a tutta la società moderna. Sanitizzare e rendere asettico tutto ciò con cui abbiamo a che fare, dai comportamenti, con l’avvento della relazione digitale, agli edifici, tutti sempre più simili a cattedrali purificate da ogni elemento che ricordi lontanamente l’uomo.
Un passaggio simile è quello delle armi. Dalla lotta diretta e il confronto fisico, con mazze, spade, lance, alla possibilità di polverizzare insediamenti e vite umane con l’utilizzo dei droni. Dall’esperienza diretta degli effetti della violenza esercitata alla distanza rarefatta di un sangue remoto, senza odore né colore e quindi in apparenza privo di umanità.
La contemporaneità è tale da promuovere un mestiere abbastanza infame come quello del cecchino a una dimensione epica da templare, dal momento che ha creato la possibilità di essere cecchini a migliaia di chilometri di distanza, pilotando strumenti di distruzione come i droni da un ambiente con tutti i comfort, aria condizionata e sedie confortevoli dove magari tra un cubalibre e un manhattan si annientano vite umane e compounds che per l’operatore di turno non sono altro se non "pixel" in "ultrahd" su uno schermo militare.
Non voglio essere in alcun modo catalogato tra i tanti che elaborano prefiche e invettive furiose e scandalizzate quanto ipocrite in nome di fedi o credi vari guidati unicamente dal senso di inadeguatezza. Qualcuno potrebbe obiettare che la realtà è ormai dimostrato essere questione di dimensione, che le immaginette di gente che cammina, svolge la sua vita quotidiana, con tutte le sue complesse mediocrità è meno realtà di un video realtime ad alta definizione.
Proprio qui come si è detto per altre questioni, l’umanità si divide in due. Qui si apre un varco insanabile tra chi annulla la dignità umana in nome di allucinazioni ideologiche e chi rispetta la carne come regalo ineguagliabile della provvidenza. Sembra essere una divergenza irrisolvibile quella tra tecnologia e esistenza corporale. Eppure la cronaca e la vita di tutti i giorni ci parlano inequivocabilmente di quanto siamo destinati al legame col nostro sangue, i nostri ormoni, i nostri corpi. La realtà è che qualunque sia la tecnologia di cui saremo dotati, il nostro rapporto col corpo è ineludibile.
La tecnologia stessa nasce dal fatto che siamo corpo. Non può trasformarsi in uno strumento che lo nega perché sarebbe una negazione ontologica, impossibile. Allora? Il fatto è che tendiamo a semplificare e ad abituarci a idee precostituite a cui amiamo adeguarci. La perdita di corporeità è come un veleno dal sapore dolce. Dal momento che la corporeità comporta una serie di effetti collaterali non sempre "presentabili" tendiamo a immaginare una vita senza corporeità, e la cosa spesso peggiora con la vecchiaia.
Ma cercare la smaterializzazione è un segno di senilità e quello che è peggio è una senilità dello spirito. È la perdita di un istinto alla lotta che deve essere mantenuto perché la lotta dell’esistenza è lo stesso districarsi della vita. L’illusione della smaterializzazione è un sintomo mortale, di una progressiva sconfitta del senso del cammino, che è vita. Deve essere chiaro. La lotta per la smaterializzazione è già la sconfitta di chi la conduce. Ciò che è presentato come sublimazione è solo la dichiarazione della propria velleità di controllo.
Avere un corpo virtuale a disposizione può essere di grande utilità, ma non potrà mai portare allo stadio in cui sostituisce quello reale. Gestire il corpo a distanza richiede una coscienza profonda del fatto che quella distanza è un diaframma inesistente e la vita che tocchiamo attraversandolo verrà inevitabilmente a chiederci il conto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
STORIA, FILOSOFIA, E SCIENZA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero 7giugno 2019 ...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
Il marrano, quel «corpo» politico della rivolta
Scaffale. Donatella Di Cesare riattualizza la figura esoterica dell’ebraismo diasporico
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.07.2018)
Nella filosofia italiana esiste la tendenza a individuare figure esemplari e liminari per descrivere la nostra attualità. È stato così per l’Homo Sacer di Giorgio Agamben, formula del diritto romano che indica un essere umano uccidibile senza che si compia un reato. Così oggi è il migrante affogato nel Mediterraneo o recluso nei campi di concentramento in Libia. Donatella Di Cesare ha delineato i tratti di una figura filosofica e l’ha definita straniero residente. Nel suo ultimo libro Marrani. L’altro dell’altro (Einaudi, pp.113, euro 12) aggiunge a questa figura che travalica la distinzione tra migrante e autoctono una genealogia che scava nella nostra identità politica.
PARTE DELLA PIÙ AMPIA filosofia delle migrazioni che la filosofa romana sta sviluppando, questo agile libro riattualizza una figura esoterica dell’ebraismo diasporico e lo considera come l’occasione di un pensiero radicale per reinventare una democrazia internazionalista, solidale, conflittuale. Nella filosofia contemporanea il marranesimo è un riferimento etico, politico, religioso. Dalla mistica di Teresa d’Avila - suo nonno Juan Sánchez era un convertito dall’ebraismo alla fede cattolica - alle campiture dell’Etica di Spinoza - ebreo oggetto del cherem (bando o scomunica), gravissimo e mai revocato, fino alla grazia tormentata di Jacques Derrida alle prese con la sua identità ebraica rimossa, molte sono le storie raccontate nel libro.
Il marrano è la figura iniziale di una nuova era della storia ebraica e di una tradizione politica di rivolta ancora in corso. È considerato come il primo migrante nella modernità politica. Cacciato dalla Spagna e dal Portogallo sciamò in tutta Europa, da Amsterdam fino a Livorno. E formò una «nazione anarchica», nel massimo segreto ideò un «progetto messianico mondiale». Era un senza terra, e senza religione, reinventò un credo religioso e un’idea di convivenza.
Da questa fonte sgorgò uno degli elementi del pensiero politico radicale del XX secolo: il messianismo. Quello che ha ispirato anche Walter Benjamin e il suo originalissimo pensiero marxista. O lo stesso Marx. Materialista, ateo, ebreo e comunista, anche il filosofo tedesco ha criticato nella Questione ebraica la separazione tra pubblico e privato in cui si dibatte il cittadino moderno, la stessa a cui è costretto il marrano obbligato a reinventare in privato l’identità che non può mostrare in pubblico. Marx ne dedusse l’inimicizia per la democrazia liberale e la sua idea di astratta uguaglianza. La tensione al superamento dell’alienazione per ritrovare l’unità caratterizza il «laboratorio politico della modernità».
PER DI CESARE tale ricerca è destinata allo scacco e, proprio per evitare che il soggetto resti scisso e irrisolto, bisogna rivendicare la dissonanza. Un progetto politico è tale quando resta aperto e incompiuto. Così ha una speranza di durare. In fondo questa è l’idea del «movimento che abolisce lo stato di cose presenti»: il comunismo.
Il marranesimo non è dunque solo la storia di violenze e coercizioni, né la rivendicazione della purezza di un’identità religiosa. È l’opposto. Il perservare dei marrani nel loro inconfessabile segreto - l’essere ebrei anche se convertiti a forza - la speranza recondita di un ritorno a un’origine che mai si ripeterà come tale, traducono la condizione di chi è senza radici, spaesato, e alla ricerca di una terra da costruire con chi si trova nella stessa condizione. Estranei allo Stato, ma capaci di costruire politica oltre la sovranità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. Atene....
JACQUES DERRIDA. LA DEMOCRAZIA, IL PRINCIPIO-FANTASMA ARCAICO DELLA SOVRANITA’, E LA LIBERTA’ INCONDIZIONALE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Idee
Ebraismo. Il sale dell’umanesimo
di Massimo Giuliani (Avvenire, Agorà, 08.07.2018)
Non è un caso che l’ormai ottuagenario filosofo e rabbino Emil Fackenehim avesse suggerito, per le sue memorie autobiografiche (pubblicate dopo la sua morte una decina di anni fa), il titolo secco di Epitaffio. Un epitaffio per il giudaismo tedesco, anzi una pietra tombale sull’ ultimo e forse il più grandioso esperimento di simbiosi tra i valori della tradizione ebraica e una cultura moderna, un tempo chiamata "germanesimo", che per rigore scientifico e creatività artistica era divenuta un faro della coscienza europea.
Oggi, in mezzo a una profonda crisi di identità europea, nella quale la Germania svolge ancora un ruolo centrale sull’ onda di quell’ emergenza epocale che chiamiamo "flussi migratori" dal Sud verso il Nord del mondo, cosa possiamo imparare dalla parabola degli ebrei tedeschi e dal loro sforzo di "integrarsi" e di "contribuire" all’ umanesimo europeo? Due volumi, editi da Morcelliana nella collana voluta da Paolo De Benedetti, stimolano la nostra rivisitazione di quel "dialogo interculturale".
Il primo, curato da Irene Kajon, raccoglie i Dialoghi filosofici di Moses Mendelssohn (pagine 86, euro 10,00), il padre dell’ haskalà o illuminismo ebraico, amico di Kant, Lessing e Jacobi, come a dire il meglio della cultura europea di fine XVIII secolo. Mendelssohn può essere considerato l’ apripista, l’ inizio della simbiosi ebraico-tedesca in un duplice senso: aprì gli ebrei alla lingua e alla cultura di Lutero e soprattutto all’ amore per la filosofia, per la matematica e per l’ estetica; ma insieme aprì le élite culturali di lingua tedesca all’ apprezzamento dell’ umanesimo ebraico della Torà, contribuendo ad abbattere pregiudizi inveterati e mostrando che gli ideali di integrazione sociale e di tolleranza politica verso le "minoranze" avrebbero ben servito la causa che Kant chiamava della "pace perpetua".
Il secondo volume, curato da Roberto Bertoldi, si intitola Kant e l’ebraismo (pagine 116, euro 12,00), ed è proprio del maggior cultore della filosofia kantiana della seconda metà del XIX secolo, Hermann Cohen, il primo ebreo ad avere una cattedra nell’ accademia tedesca senza doversi convertire al protestantesimo (cosa che persino i figli di Mendelssohn si sentirono di dover fare, per non deludere quell’ élite berlinese di cui volevano far parte).
Cohen, che muore emblematicamente nel 1918, cent’ anni fa, è il canto del cigno dell’ ebraismo tedesco: crede con tutto se stesso che i valori insegnati da Mosè e dai profeti di Israele non siano sostanzialmente diversi o altri rispetto ai valori dell’ umanesimo filosofico europeo. Anzi, vede molti fili di continuità tra il razionalismo ebraico di Maimonide e gli ideali di Kant e di Goethe. Emblema di questa sintesi sarà il suo testo La religione della ragione dalle fonti del giudaismo, dove cercherà di mostrare l’ intrinseca convergenza tra questi due mondi. Ma tale convergenza ideale, se mai è davvero esistita, sarebbe implosa di lì a poco, sarebbe stata spazzata via da un’ ondata di irrazionalismo filosofico e di idolatria razziale e nazionalistica, che nel giro di un quarto di secolo avrebbe dissolto non solo quello sforzo simbiotico ma anche gli individui che avrebbero dovuto incarnarlo.
Mendelssohn e Cohen sono dunque i due poli, l’ incipit e lo zenit, nonché l’ inizio della fine di una parabola di feconda integrazione, non senza rischi di assimilazione e a volte perdita di identità, tra mondo ebraico e cultura cristiana europea, tra etica biblico-rabbinica e filosofia occidentale. E tutto ciò non in astratto, sui libri e in austere aule universitarie, ma nella vita quotidiana.
Come mostra il primo dei due saggi di Cohen qui tradotti, che è la commemorazione di un tipico ebreo berlinese, Salomon Neumann. Chi era costui? Un medico ma anche uno studioso di fonti ebraiche, che rivestì il ruolo di assessore nella giunta comunale di Berlino per circa cinquant’ anni, dunque un amministratore pubblico che però si dava da fare affinché gli ebrei potessero avere le loro istituzioni di studio, dove coltivare la propria identità "illuminata" dal metodo storico-critico delle scienze umanistiche del suo secolo.
Agli occhi di Hermann Cohen, Neumann incarna il meglio del germanesimo e il meglio dell’ ebraismo, e costituisce l’ evidenza che non vi è contraddizione di valori tra le due civiltà; di più, decidendo di curare gratuitamente i poveri di Berlino, il medico Neumann - che sembra uno dei personaggi del romanzo La famiglia Karnowsky di Israel Joshua Singer - addita nella generosità filantropica e nel cosmopolitismo religioso-culturale gli orizzonti più alti della stessa cultura europea, l’ esatto contrario di quell’ egoismo etnico- nazionalista che sarebbe diventato l’ inconfessato idolo della propaganda nazista. E il pionere della medicina sociale Neumann non era solo, se si pensa al medico e pedagogista polacco Janusz Korczak, che sacrificò la sua vita per difendere gli orfani del ghetto di Varsavia.
Scrive esplicitamente Hermann Cohen: «È l’ opposizione all’ egoismo, all’ amor proprio e in generale all’ orizzonte dell’ individuo, ad essere caratterizzata e fondata da Dio e dalla sua legge. E questa opposizione, nel significato della legge, accomuna Kant all’ebraismo. È, in ultima analisi, l’ antichissimo pensiero dell’ uguaglianza degli uomini davanti a Dio, che trova espressione metodica nel concetto della legge universale».
La crisi dell’ identità europea, alla luce di questa parabola, è una crisi di fede nelle sue radici religioso-umanistiche; è sfiducia nel valore della legge; è l’ oblio della lezione etica che sempre bilancia o si sforza di compendiare i diritti dell’ io con i diritti del tu, le istanze dell’ individuo con il bene comune, in un’ ottica di pietas universale che per la filosofia ebraica è l’ essenza della Torà e di ogni etica umana: ama il tuo prossimo. Il testo biblico in ebraico aggiunge kamoka, ossia "come te stesso".
Cohen suggerisce di tradurre, altrettanto bene e forse meglio così: "perché è come te", è uguale a te. Se poi la lezione non fosse chiara e qualcuno interpretasse che, in fondo, si tratta pur sempre di un altro ebreo, di un correligionario, di uno della tua tribù, ecco l’ intervento del Talmud e dei maestri di Israele, che correggono quest’ interpretazione (pur legittima) sostenendo che nella Torà c’ è un versetto ancor più importante: «Questo è il libro della storia dell’ uomo ».
Lo spiega ancora Hermann Cohen, in queste pagine: «La Torà, la Bibbia, la rivelazione sono la storia dell’ uomo, scritta dalla legge dell’ uguaglianza degli uomini e dell’ amore per il prossimo. È il preambolo di ogni storia, o costituisce il suo poscritto». I trattati europei possono essere rivisti e riscritti, ma se si nega l’ ethos comune, il preambolo etico che li ispira e la pietas che li illumina, non resta che preparare un epitaffio.
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade , ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
L’epistemologo...
Kant contro la metafisica
Una nuova traduzione dei «Prolegomeni», scritti per rispondere alla accuse di idealismo rivolte alla «Critica della ragion pura»
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.10.2016)
Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. La Critica della ragion pura di Immanuel Kant fu un vero e proprio spartiacque, destinato a cambiare, se non il mondo, quantomeno la filosofia occidentale. Eppure, quando fu pubblicata nella primavera del 1781, incontrò un silenzio quasi assoluto. Anzi, peggio: ai primi lettori, compresi gli amici più stretti di Kant, come i filosofi Moses Mendelssohn e Johann Georg Hamann, l’opera apparve oscura e incomprensibile. Erano rilievi che lo stesso Kant considerava non del tutto infondati, ma che andavano attribuiti, a suo avviso, alla natura estremamente innovativa della Critica che peraltro, pur avendo alle spalle undici anni di lavoro molto intenso, era stata scritta quasi di getto, nel giro di quattro o cinque mesi. Così, fin dall’epoca della sua pubblicazione, egli aveva pensato di darne un’esposizione più breve e popolare. Questo progetto però, agli inizi del 1782, subì un profondo cambiamento.
A determinarlo fu un’anonima recensione, uscita appunto il 19 gennaio di quell’anno nelle «Göttingische Gelehrte Anzeigen», che accusava Kant di aver riproposto, senza alcuna originalità, l’idealismo di Berkeley. È in questo contesto che nacquero e videro la luce, nell’aprile 1783, i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza. Che nelle intenzioni di Kant dovevano senz’altro chiarire e difendere la dottrina presentata nella Critica, rispondendo a quanti ne avevano biasimato l’oscurità e la complessità. Ma che sarebbe fuorviante considerare come un’esposizione divulgativa o un mero riassunto della Critica. I Prolegomeni sono infatti un libro autonomo che, anche per il metodo specifico di cui si avvalgono, vanno letti come tali.
Ed è quanto ci invita a fare Renato Pettoello nell’introduzione alla sua nuova traduzione dei Prolegomeni, che riesce a conciliare un rigoroso rispetto per il testo originale con la massima leggibilità possibile. È bene precisare tuttavia che i Prolegomeni rimangono pur sempre un’opera difficile, faticosa e a tratti perfino involuta. Non solo: in diversi luoghi Kant si richiama esplicitamente alla Critica, presupponendone così la conoscenza. Tutti ostacoli resi comunque sormontabili dall’ampio commento di Pettoello che, oltre a spiegarne i passi più ambigui, mostra come i Prolegomeni siano stati anche «un banco di prova per la revisione della Critica in vista della seconda edizione (1787)».
Un commento dunque prezioso, che ci aiuta sia a seguire il filo conduttore dei Prolegomeni, sia a comprendere quella «rivoluzione copernicana» che Kant pensava di aver introdotto in filosofia e che consiste nel collocare al centro del processo conoscitivo non l’oggetto, bensì il soggetto, capovolgendone il rapporto tradizionale. Fu proprio questa rivoluzione nel modo di pensare a disorientare i primi lettori della Critica e a far dire all’anonimo recensore delle «Göttingische Gelehrte Anzeigen» che Kant in fondo non aggiungeva niente di veramente nuovo rispetto all’idealismo di Berkeley, poiché anche lui finiva per ridurre il mondo a mera parvenza.
Kant si irritò molto per questo accostamento, e nell’appendice ai Prolegomeni replicò infatti con inconsueta durezza, considerandolo un grossolano fraintendimento del suo pensiero. Di qui il tono polemico, se non addirittura sprezzante, che pervade l’intera opera e che la rende, a tutti gli effetti, «un libro di battaglia».
Prendere le distanze da ogni idealismo distruttivo della realtà era una questione talmente centrale da spingere Kant a inserire, nella seconda edizione della Critica, un’esplicita e ferma «Confutazione dell’idealismo». Un aspetto cui Pettoello dedica tutta la sua introduzione, evidenziando l’infondatezza dell’accusa rivolta al filosofo di Königsberg che, a differenza degli idealisti, non sostiene che sia il soggetto a produrre ontologicamente l’oggetto, ma afferma soltanto che nel processo gnoseologico gli oggetti - o, meglio, i fenomeni - devono essere organizzati dal soggetto.
I Prolegomeni però sono «un libro di battaglia» anche da un’altra, forse più importante, prospettiva: intendono demolire le pretese della vecchia metafisica, che crede di poter fare affermazioni conoscitive sul mondo indipendentemente dall’esperienza. E che si tratti appunto di pretese, osserva Kant, lo dimostra la sua lunga storia di fallimenti, dove la metafisica ruota sempre intorno allo stesso punto, senza mai fare un passo avanti, «mentre ogni altra scienza progredisce incessantemente».
I Prolegomeni prendono dunque le mosse dal riconoscimento che esistono forme effettive di conoscenza scientifica, come la matematica e la fisica, e si chiedono poi quali siano le loro condizioni di possibilità. E si pongono ovviamente anche una terza domanda, implicita nel lungo titolo: «com’è possibile la metafisica come scienza»? La risposta a quest’ultima domanda dipende così dal confronto tra ciò che rende possibile la matematica e la fisica e ciò che dovrebbe essere la metafisica se potesse essere anch’essa scienza. La matematica, secondo Kant, è possibile come scienza perché è costituita da giudizi sintetici, giudizi cioè che ampliano la nostra conoscenza, le cui condizioni a priori sono le forme pure della sensibilità, lo spazio e il tempo. La fisica è possibile come scienza perché è costituita da giudizi sintetici le cui condizioni a priori sono le categorie e i principi dell’intelletto, il più decisivo dei quali è quello di causalità.
In entrambi i casi, queste componenti del nostro apparato conoscitivo hanno un uso limitato, nel senso che valgono soltanto in relazione all’esperienza. Ma ciò non vuol dire, diversamente da quello che sosteneva Hume a proposito della causalità, che tali concetti «siano tratti dall’esperienza» e che la loro necessità sia da imputare a «una lunga abitudine» psicologica. Kant pensava infatti che Hume - il filosofo cui attribuiva il merito di aver posto fine al suo «sonno dogmatico» - si sbagliasse perché questi concetti sussistono invece «a priori, prima di ogni esperienza» e hanno «una loro indubitabile esattezza oggettiva».
Il problema della metafisica quindi, può essere posto con speranza di soluzione soltanto dopo aver stabilito che il concetto di causa è a priori e oggettivo, prendendo atto, nello stesso tempo, della sua validità nei limiti invalicabili dell’esperienza. L’esito però è tutt’altro che positivo: affinché possa presentarsi come scienza, la metafisica deve servirsi di questo concetto, ma deve anche, per costituirsi come totalità, farne un uso trascendente che va oltre i limiti di ogni possibile esperienza. Di conseguenza, la metafisica, a differenza della matematica e della fisica, è condannata a non essere scienza.
L’esigenza della metafisica di spingersi oltre l’esperienza tuttavia, assicura Kant ai lettori dei Prolegomeni, è così radicata nella ragione umana che non può mai andar perduta. Bisogna pertanto capire per quale fine la natura abbia predisposto nella nostra ragione questa tendenza a formare concetti trascendenti. Che è precisamente quello che Kant, pochi anni dopo, cercherà di fare nella sua filosofia morale.
Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza , a cura di Renato Pettoello, Editrice La Scuola, Brescia, pagg. 309, € 16,50
___________________________________________
...e il filosofo morale
La libertà di essere un fine
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.10.2016)
Benché Kant abbia tenuto, tra il 1767 e il 1788, dodici corsi universitari sul diritto naturale, a noi è rimasta una sola trascrizione manoscritta: quella del semestre estivo del 1784 (nota come Naturrecht Feyerabend, dal nome del suo possessore), che esce ora per la prima volta in traduzione italiana (presso Bompiani), a cura di Gianluca Sadun Bordoni, il quale ha premesso al testo kantiano una acuta introduzione e vi ha apposto un ricco apparato di note.
Il cosiddetto Naturrecht Feyerabend è un testo di grandissimo interesse: infatti, mentre svolgeva tale corso, Kant ultimò la redazione della Metafisica dei costumi: di qui i numerosi parallelismi tra le due opere, a volte assai stretti, che meritano di essere considerati attentamente.
Al centro della meditazione kantiana è il nesso libertà-ragione. Già nelle lezioni di filosofia morale degli anni settanta Kant aveva detto che «la libertà è il grado più alto della vita» ed è «il valore intrinseco del mondo». Il manoscritto del 1784 svolge su questo punto considerazioni assai importanti. «Il valore intrinseco dell’uomo - dice il filosofo - si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà. Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro».
Anche gli animali hanno una volontà, ma non hanno una volontà propria, bensì la volontà della natura. La libertà dell’uomo, invece, è la condizione sotto la quale l’uomo può essere un fine in se stesso, nel senso che egli regola le proprie azioni secondo fini degni di lui, e quindi non tratta (non deve trattare mai) i propri simili come mezzi. Perciò alla libertà umana è indissolubilmente connessa la ragione. Infatti, “senza ragione un ente non può essere fine in se stesso: perché non può essere cosciente della sua esistenza, non può riflettere su di essa”.
Ma attenzione: la ragione non costituisce ancora la causa per cui l’uomo è scopo in se stesso. Noi vediamo infatti che la natura produce negli animali attraverso l’istinto ciò che la ragione scopre attraverso tortuosi cammini. Separata dalla libertà, la ragione può ricadere interamente nel meccanismo della natura: in tal modo noi non saremmo migliori degli animali. Dunque, soltanto la libertà fa sì che noi siamo scopi in sé. «Qui abbiamo la capacità di agire secondo il nostro proprio volere», e quindi di perseguire le finalità più alte.
Kant non esita ad affermare di non sapere «come io possa comprendere tale libertà». E tuttavia, egli dice, essa è un’ipotesi necessaria, se devo pensare enti razionali come scopi in sé. Se l’ente umano non è libero, allora egli è nelle mani di un altro, dunque è sempre scopo di un altro, cioè è un semplice mezzo. «La libertà quindi non è solo la condizione suprema, ma anche quella sufficiente».
La libertà diventa così la chiave di volta tanto del mondo morale quanto del mondo etico-politico. Infatti per Kant uno dei princìpi a priori sui quali deve essere fondato lo Stato in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice il filosofo, che «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)».
Sicché Kant affermava in modo perentorio che un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti ad aspettare che il Capo dello Stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Immanuel Kant, Lezioni sul diritto naturale (Naturrecht Feyerabend), a cura di Norbert Hinske e Gianluca Sadun Bordoni, Bompiani, Milano, pagg. 305, € 50
Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni
di Giuseppe O. Longo (Avvenire, 15.06.2016)
Due secoli fa, nel 1816, uscivano i Racconti notturni di Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann, esponente geniale e bizzarro del romanticismo, scrittore, compositore, pittore e giurista, noto soprattutto per la sua narrativa, il cui tratto più originale è l’introduzione nelle normali situazioni quotidiane di elementi fantastici e soprannaturali: sdoppiamento della coscienza, telepatia, follia, magia e occultismo.
Nei primi decenni dell’Ottocento questi temi esoterici e inquietanti erano largamente coltivati: non dimentichiamo che proprio nel 1816 Mary Shelley concepisce il suo Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo e John Polidori il suo Vampiro. Nei Racconti notturni si assiste all’angosciosa disgregazione della realtà, che trapassa in un mondo assurdo e grottesco. Come dice Ladislao Mittner, in Hoffmann «il rapporto tra l’entusiasmo e la follia, fra il sogno e la smorfia, più che poetico, cioè spontaneo, è deliberatamente provocato; provocato con grandissima abilità. L’alternarsi capriccioso, rapidissimo, spesso quasi inavvertibile, del sogno e della realtà distrugge questa e quello; conseguenza ne è il vuoto, unico vero esito artistico dell’opera hoffmanniana». I Racconti notturni furono preceduti e seguiti da molte altre opere, in cui l’autore diede libero sfogo alla sua fervida e tumultuosa fantasia, che tuttavia era ancorata a profonde intuizioni psicologiche.
Italo Calvino scrisse che la scoperta dell’inconscio avvenne «nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne fosse data una definizione teorica». A Hoffmann si ispirarono molti scrittori, da Stevenson a Poe, da Dostoevskij a Gogol. Anche la musica, passione straripante del nostro, gli deve molto: non solo per le sue composizioni, ma anche per l’influenza esercitata su altri musicisti, in particolare su Jacques Offenbach.
Hoffmann nacque nel 1776 a Königsberg, nella Prussia orientale, e morì ancora piuttosto giovane a Berlino nel 1822. Aveva ereditato dal padre, pastore luterano e giurista, una forte attitudine artistica e dalla madre, ipersensibile e soggetta a depressioni, un carattere incline al fantastico e al visionario. Dopo la precoce separazione dei genitori, visse con la soffocante famiglia materna, in un clima cupo e bigotto che lascerà nel bambino un’impronta indelebile. Conseguita la laurea in legge, intraprese una carriera di funzionario in Germania e poi a Varsavia. Irrequieto e sognatore, fervido lettore, s’interessò di disegno e di medicina, e, in modo professionale, di musica.
Nel 1809 pubblicò il suo primo racconto fantastico (Il cavalier Gluck), seguito da molti altri in cui si riflettono i traumi psichici della sua infanzia (Racconti fantastici alla maniera di Callot) e il suo interesse per l’occultismo e l’ipnotismo (Gli elisir del diavolo).
Perseguitato dal timore di diventare pazzo, Hoffmann approfondì l’argomento della follia studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino.
Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva di continuo il confine tra sogno e realtà: tipico in questo senso è L’uomo della sabbia, il più famoso dei Racconti notturni, nel quale il giovane Nataniele, anch’egli come lo scrittore segnato precocemente da incubi e terrori infantili, s’innamora perdutamente di Olimpia. Ma Olimpia è una bambola meccanica di cui Nataniele non riesce a scorgere la vera natura, nonostante le tante prove che agli occhi degli altri sono evidenti. Fin dalle prime righe si respira un’atmosfera orrorifica, fomentata dagli aggettivi (spaventoso, orribile, minaccioso) disposti in un crescendo magistrale che allude alla pazzia, alla magia, agli spettri e che prelude alla tragedia: quando scopre la verità, Nataniele si ammala e poi, in una crisi di follia, si precipita da una torre. Già questi pochi cenni possono spiegare il grande interesse che L’uomo della sabbia suscitò in due studiosi vissuti cent’anni dopo.
Nel 1906 lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch (1867-1919) pubblicò il saggio Sulla psicologia del perturbante, in cui afferma che il minaccioso, l’angoscioso, il perturbante (Unheimlich), scaturisce dall’incertezza che si prova di fronte a certe entità o in certe situazioni. Secondo Jentsch, tra tutte le incertezze che possono generare un senso di perturbante, ve n’è una in grado di produrre «un effetto regolare, potente e generale, cioè il dubbio se un essere apparentemente vivo sia davvero animato e, viceversa, il dubbio se un oggetto che sembra privo di vita possa in realtà essere animato».
Jentsch indica in Hoffmann un narratore che ha impiegato questo artificio psicologico con notevole abilità, in particolare nell’Uomo della sabbia, dove il lettore viene tenuto sapientemente in uno stato di indecisione sulla vera natura dell’automa Olimpia.
Anche il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), s’interessò a questo racconto. Nel saggio del 1919 Das Unheimliche, Freud si richiama esplicitamente al lavoro di Jentsch, ma trova limitata la sua interpretazione del perturbante fondata sull’incertezza, e preferisce la definizione del filosofo Friedrich Schelling (1775-1854): si dice heimlich ciò che dovrebbe restar nascosto e che invece è affiorato. C’è dunque un chiaro legame tra il perturbante, il sinistro, l’angoscioso e il meccanismo psicoanalitico della rimozione.
Il perturbante si manifesta quando il confine tra fantasia e realtà si intorbida e quando ciò che era considerato fantastico si presenta nella realtà: ciò accade nelle pratiche magiche, ma anche in quell’oscuro reame della meccanica onirica in cui vivevano gli automi descritti da Hoffmann, automi a quell’epoca realmente costruiti da abilissimi artigiani e che, già molto prima dell’avvento dei robot moderni, incarnavano, con esiti goffi e vagamente minacciosi, l’antico sogno di costruire l’uomo artificiale, tentando di imitare l’opera creatrice di Dio.
Jonathan Israel.
La fiaccola dei philosophes
«La Rivoluzione Francese» avrebbe origine nei ragionamenti dei più radicali fra gli Illuministi:
In un Saggio Einaudi Jonathan Israel istituisce una corrispondenza precisa,
Anzi meccanica, tra riferimenti intellettuali e scelte politiche
di Francesco Benigno (il manifesto, Alias, 24.01.2016)
Dopo aver dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan Israel, notissimo professore di storia moderna a Princeton, irrompe ora con un libro, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che promette di épater les historiens. Malgrado un paio di secoli di investigazioni, infatti, gli storici non avrebbero capito nulla della Rivoluzione francese, o almeno, della sua natura profonda.
Le origini del più grandioso terremoto politico dell’età moderna sono state variamente attribuite: vuoi a una crescita economica dirompente, capace di travolgere un sistema politico fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi congiunturale, un micidiale cocktail di finanza statale dissestata e di carestia; allo stesso modo, il tormentato ma resiliente percorso della Rivoluzione è stato spiegato facendo riferimento al radicalismo ideologico giacobino, oppure, alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento inesorabile indotto dalla «forza delle cose».
Dopo due secoli e passa d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal, si è ora diffusa - scrive Israel - una certa stanchezza e la tendenza a propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali, sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una sezione della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo radicale.
Torna tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo storico inglese in un precedente e assai discusso volume, Una rivoluzione della mente (Einaudi, 2011).
Negli ultimi venti anni Israel, già autore di importanti studi sull’ebraismo europeo - Gli ebrei d’Europa nell’età moderna (Il Mulino 1991) e sull’Olanda - The Dutch Republic (Clarendon Press 1995), si è dedicato a tratteggiare una tradizione di pensiero democratico e critico che fa risalire a Baruch Spinoza. In una serie di poderosi saggi è venuto delineando, così, l’evoluzione secolare delle idee dell’Illuminismo radicale come fondatrici della tolleranza, del laicismo e della democrazia. Proprio queste idee diventano ora la causa causans della Rivoluzione, che dunque non sarebbe tanto - come era parso a molti contemporanei prima ancora che a molti storici - un inatteso e sconvolgente evento, capace di evocare la tempestosa forza della natura (il fortunale, il cataclisma) e di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien régime al punto da renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un copione già scritto, o almeno di un canovaccio per una recita a soggetto. Le idee, insomma, precedono e rischiarano la strada agli avvenimenti, che, come la salmeria, seguono.
Da Daniel Mornet in poi la storiografia ha lungamente dibattuto il tema delle origini intellettuali della rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier, quello delle sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione, ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali e sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è stato anzi chi - tra loro Robert Darnton - ha provato a legare direttamente la diffusione della stampa clandestina, satirica e iconoclasta, alla crisi dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se non, con tutt’altri intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato tanto strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della monarchia dei Borbone.
Ma - e sta qui la principale innovazione proposta da Israel - queste idee, non sono, come tante volte si è affermato genericamente, quelle dell’Illuminismo: sono invece i ragionamenti di una sua specifica sezione, quella radicale, corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach e di Helvétius: idee perciò democratico-repubblicane, materialiste e atee, le sole capaci di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente, sia sul piano filosofico e logico. Per rendere credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero azzardata e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata, priva di sostegni documentari.
Piuttosto che immaginare la rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di trasformare gli individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha bisogno di sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo fossero in qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano esattamente con chi si era dotato di «buone» letture.
Israel sostiene infatti che la rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione e dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a Montesquieu, nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero monarchico-costituzionale e liberale, mentre da quelle di Mably e di Rousseau originerà il populismo autoritario dei giacobini e in primo luogo di Robespierre.
C’è dunque una corrispondenza precisa e anzi meccanica tra riferimenti intellettuali e scelte politiche, una coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di privilegiare il gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano che la trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.
Liquidata la stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che emerge all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento della Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è l’unica rivoluzione che possiamo ancora rivendicare - insinua Israel ammiccando al lettore contemporaneo - quella dei veri philosophes, e con loro dei diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli ebrei, della rivendicazione della cittadinanza femminile e dell’abolizione della schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione sanguinaria inaugurata coi massacri del successivo settembre e sfociata poi nel Terrore. La prima è l’opera esclusiva di una pattuglia di filosofi e politici idealisti, chiamati brissotins o girondini, sostenitori del cosmopolitismo e dell’uso della ragione in politica, laddove la seconda è il prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e demagogica di cui sono responsabili i giacobini, adoratori della volonté générale.
Lo scenario storico che ne discende, malgrado l’enorme mole di fonti mobilitate in quasi mille pagine di testo, suona artificiale, senza sfumature, una sorta di rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra.
Israel non sembra preoccuparsi troppo dei rischi di anacronismo interni a una simile contrapposizione e anzi arriva al punto di affermare che il populismo autoritario di Robespierre prefigurerebbe «il moderno fascismo». Ora, mettere sulle spalle dell’avvocato di Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe, anche il gravoso fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo reale», sembra già - all’altezza di questo nostro 2016 - inappropriato; ma aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.
C’è poi un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare, ed è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese, prima repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo capito ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la fiaccola della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione, la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una sorta di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la forza della democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect. Dunque, non solo approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare il paese in una guerra sanguinosa e interminabile - portatrice di infiniti lutti e, in ultima analisi, della trasformazione della prima repubblica in una dittatura militare e poi in una monarchia imperiale - ma accredita la spedizione del generale Bonaparte in Egitto come finalizzata a convertire gli egiziani e le popolazioni arabe confinanti agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda bonapartista diviene così canone interpretativo.
Ora, come si sa, il risveglio nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del XIX secolo non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del vecchio continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in Spagna) avrebbe dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i teorici militari settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da allora si sarebbe chiamata guerriglia.
Meno noto è il fatto che la presenza di truppe straniere produsse effetti simili anche in Egitto. Israel, sulla scia di Napoleone, non nasconde la sua delusione per la scarsa penetrazione in Medio Oriente degli ideali democratico-radicali e per la contrarietà di quelle popolazioni a farsi «illuminare»; e sorvola sul fatto che anche in Egitto i francesi si trovarono a mal partito nel fronteggiare una tenace guerriglia, ispirata dalla «jihad» ordinata dal Califfato e rilanciata dagli ulema.
Già il giorno successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di Alessandria Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo l’inizio: la resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali - rafforzati da combattenti giunti dall’Arabia - lo condusse in ottobre a ordinare di bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di Brecht: «Su chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».
La libertà di chi non si rassegna
Due libri di Giulio Giorello
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 11.12.2015)
Il pensatore ebreo del Seicento Baruch Spinoza, precursore dell’Illuminismo, non è solo il «filosofo preferito» di Giulio Giorello, ma anche il protagonista del primo racconto incluso nel volume dello stesso Giorello Il fantasma e il desiderio (Mondadori): oltre al coraggio intellettuale, l’autore ne mette in luce il rifiuto di farsi suggestionare e la fiducia nella capacità dell’intelligenza di resistere alle credenze irrazionali, come quella relativa all’esistenza degli spettri.
Tuttavia Spinoza sapeva molto bene che «gli uomini sono guidati più dagli affetti che non dalla ragione». E qui veniamo al secondo libro che Giorello ha pubblicato di recente. Si tratta del saggio Libertà (Bollati Boringhieri), nel quale l’autore afferma con estrema risolutezza - senza se e senza ma, per così dire - il primato filosofico e politico del principio che più gli sta a cuore.
I racconti del volume mondadoriano, omaggi un po’ giocosi al grande scrittore inglese di ghost stories Montague Rhodes James, esprimono questa concezione indirettamente, rivendicando al regno della fantasia un’estensione sconfinata: «Una ragione che ci sequestrasse l’illusione - si legge nel prologo - sarebbe una piccola tiranna che vieta una certa esperienza della libertà». Invece nelle pagine del saggio tutto è più argomentato, sistematico. E Spinoza viene chiamato in causa di nuovo, ma per la sua concezione politica, molto avanzata per i tempi in cui visse, nella quale si possono trovare le premesse del moderno costituzionalismo.
Efficace e letterariamente suggestivo è il richiamo omerico contenuto nel Trattato politico del pensatore nato ad Amsterdam. Ogni governante, in un sistema equilibrato, dovrebbe porre vincoli di legge a se stesso, come fa Ulisse nel canto XII dell’ Odissea , quando ordina ai suoi compagni di tapparsi le orecchie con la cera e di legarlo all’albero della nave, per consentirgli di ascoltare il canto delle Sirene senza soccombere alla tentazione di dar retta alle loro lusinghe, che avrebbero potuto condurre l’imbarcazione alla rovina.
Allo stesso modo il costituzionalismo liberale si è sforzato di porre limiti e bilanciamenti all’attività del potere politico e allo stesso esercizio della sovranità da parte del popolo, in modo da garantire al massimo i diritti individuali. Ma che succede, si domanda a questo punto Giorello, quando la storia muta direzione ed emergono nuove esigenze, impensabili o comunque trascurate nel passato? Si tratta di decidere se «sacrificare la garanzia costituzionale per favorire l’irruzione delle novità o bloccare ogni evoluzione del dettato costituzionale».
Si tratta di un dilemma quanto mai angoscioso, perché una democrazia può benissimo finire per suicidarsi, se resta sorda ai cambiamenti o, al contrario, se si lascia trascinare sulla cattiva strada da pulsioni più o meno apertamente liberticide. Giorello non ha la ricetta in tasca, ma la bussola che ne orienta i giudizi è di schietta matrice libertaria, così come i fantasmi anticonformisti dei suoi racconti. Più dell’intricata questione filosofica riguardante il rapporto tra necessità e autodeterminazione nell’agire umano, gli interessa una «libertà pratica»: non « dal mondo, ma nel mondo». Una libertà che «fa aggio sulla verità», nel senso che le deve essere permesso di mettere in discussione ogni dato ritenuto acquisito, anche in campo scientifico, affinché «l’inquietudine della ricerca non venga meno». E forse in questo caso l’autore sottovaluta, almeno in parte, i pericoli provenienti dai truffatori della pseudoscienza, che spesso si proclamano eretici rispetto all’ufficialità accademica.
Quanto alla politica, Giorello non nasconde la sua ammirazione per lo spirito indomabile di chi rifiuta di sottomettersi: tra gli esempi, accanto a Spinoza, nel libro troviamo Bobby Sands, morto in carcere nel 1981, e un altro nazionalista irlandese, James Connolly; Malcolm X e lo schiavo insorto Babo, coprotagonista del racconto di Herman Melville Benito Cereno. Purtroppo nella storia i rivoltosi sono poi diverse volte diventati despoti. Ma è un rischio da correre, avverte Giorello, perché peggio sarebbe adagiarsi nella rassegnazione.
Se il Gps è “relativo”, led e laser sono figli di una nuova idea della luce
Einstein è anche uno dei padri (quasi sconosciuto) del nostro mondo high tech
di Guglielmo Lanzani (La Stampa - TuttoScienze, 11.10.2015)
Se orientarsi in terra e in mare non rappresenta più un problema, lo dobbiamo anche alla Relatività. Il sistema Gps, infatti, non può prescindere da questa teoria per il suo funzionamento.
La velocità relativa di spostamento rispetto alla Terra rallenta il tempo sul satellite di circa 7 microsecondi al giorno, mentre il potenziale gravitazionale, minore sull’orbita del satellite rispetto alla Terra, lo accelera di 45 microsecondi. Pertanto, il bilancio è che il tempo sul satellite accelera di circa 38 microsecondi al giorno. Senza queste correzioni (oltre a quelle dovute alla propagazione di segnale in atmosfera o ai ritardi dell’elettronica di bordo), il Gps genererebbe errori nell’ordine di km oppure di miglia marine, con le prevedibili conseguenze per il traffico terrestre e marittimo.
Moltissime ricadute tecnologiche che dobbiamo ad Einstein non derivano però dalla Relatività. Dalla sua mente, infatti, scaturirono molte altre idee nel campo della fisica della materia che hanno avuto un impatto ancora maggiore sulla nostra vita quotidiana. Proprio nell’anno in cui scrisse la Relatività ristretta, il 1905, Einstein diede alla luce anche un altro lavoro - che gli fruttò il Nobel nel 1921 - sulla spiegazione dell’effetto fotoelettrico, cioè come la luce induce corrente elettrica in alcuni materiali. Scoperto decenni prima, l’effetto fotoelettrico era un rompicapo per i fisici.
Nella sua spiegazione Einstein aveva pensato alla luce come costituita da pacchetti di energia, «i quanti di luce», anziché come un flusso continuo di radiazione elettromagnetica, come si era abituati a intenderla. L’interazione tra luce e materia avveniva quindi come un gioco di biglie: l’energia dei quanti di luce veniva trasferita agli elettroni del materiale. Se sufficiente, questi potevano essere emessi dalla superficie, altrimenti restavano all’interno del materiale ma liberi di muoversi.
Si tratta di una delle pietre miliari nel cammino che ha portato al superamento della fisica classica in favore della meccanica quantistica. Lo sviluppo di una teoria in grado di descrivere l’interazione della radiazione con la materia portò a nuove soluzioni tecnologiche quali laser, telecamere, tubi catodici, fotocellule e celle fotovoltaiche. Esistevano, allora, già diversi tipi di celle fotovoltaiche, le più note a silicio. Il fotovoltaico ha infatti una lunga storia.
Nel 1876 R. E. Day e William G. Adams scoprono che, illuminando una giunzione di selenio e platino, si genera una differenza di potenziale e la prima cella fotovoltaica al selenio viene realizzata un anno dopo. Inizialmente il dispositivo non riceve però molta attenzione, è considerato solo una curiosità. Le cose cambiano con l’avvento del silicio, utilizzato già nel 1940. Ai Bell Labs, all’epoca un punto di riferimento della scienza e della tecnologia, Gerald Pearson, fisico, costruisce per caso, una cella fotovoltaica al silicio che ha un efficienza di conversione molto maggiore di quella ottenuta con il selenio. La cella fotovoltaica al silicio dei Bell Labs raggiunge il record del tempo, 6% in una giornata di sole.
La teoria di Einstein spiega la relazione tra il tipo di materiale (il semiconduttore) e i colori della luce solare che possono essere assorbiti, rendendo conto dell’energia che può essere estratta. Con questi strumenti teorici, assieme allo sviluppo della fisica dello stato solido, è quindi possibile l’ingegnerizzazione del dispositivo e il miglioramento delle prestazioni. Intanto il dispositivo attira l’interesse di molti, tra cui gli ingegneri di Usa e Urss. Entrambi hanno un’idea in mente: l’alimentazione dei satelliti, cruciali per la conquista dello spazio in tempi di Guerra Fredda.
Sulla Terra, però, il primo cliente di questa tecnologia emergente è l’industria del petrolio. Le celle fotovoltaiche sono utilizzate nei pozzi di estrazione del Golfo del Messico per alimentare le lampade accese la notte. Le applicazioni si moltiplicano rapidamente, attirando anche organizzazioni no-profit per creare sorgenti di energia nelle aree più povere del Pianeta e non raggiunte dalle reti elettriche. Durante la siccità nel Sahel, in Africa negli Anni 70, padre Bernard Verspieren, un missionario, inizia un programma di estrazione dell’acqua dalla falda acquifera mediante pompe alimentate proprio da celle fotovoltaiche. Nel 1977 verrà installato il primo impianto. Ora ce ne sono decine di migliaia nel mondo.
Il processo inverso - la trasformazione di una corrente elettrica in luce - è invece l’elettroluminescenza. E anche in questo caso Einstein ha dato alcuni contributi fondamentali, combinando la nascente meccanica quantistica e l’idea di interazione quantizzata con la luce insieme con la termodinamica.
Sembra che di quest’ultima disciplina Einstein dicesse: «È la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che, nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base, non verrà mai superata». Anche questa ha oggi molte applicazioni, ma una ci accompagna quotidianamente. Sono gli schermi a Led o Oled che guardiamo continuamente e che da qualche tempo portiamo in tasca.
Dagli emettitori di luce, poi, il passo è breve per arrivare al laser, un’altra applicazione dei pensieri originali di Einstein, con applicazioni estese, dalla medicina alla ricerca, dall’industria alla metrologia, fino allo spettacolo. Sono altre prove di come le sue teorie si siano concretizzate su tempi lunghi, in sinergia con altre teorie e con lo sviluppo della tecnologia. È un esempio perfetto di come la conoscenza abbia un valore assoluto. Anche quando non ne vediamo un ritorno immediato.
I "QUADERNI NERI", HEIDEGGER, E HANNAH ARENDT:
LA DISPUTA DI AMORE, UNA CHIAVE INDISPENSABILE.
UN’INDICAZIONE DI LETTURA DALL’ART. DI DONATELLA DI CESARE
Heidegger no global. Il vero bersaglio del filosofo tedesco è l’orizzonte del liberalismo planetario:
[...] nell’eredità di Heidegger, più che i figli, hanno un ruolo decisivo le figlie - le prime donne filosofe, che sono figlie necessariamente ribelli, chiamate a contestare la linea patriarcale della filosofia. Ha un posto a sé Hannah Arendt.
Che cosa avrebbe detto Arendt leggendo le pagine dei Quaderni neri? Quelle in cui Heidegger tenta di definire l’Ebreo, parla dell’«ebraismo mondiale», e imputa agli ebrei una «assenza di mondo»? Non possiamo saperlo.
Avviene però qui quasi un gioco di specchi: la disputa d’amore tra Heidegger e Arendt diventa una chiave indispensabile per comprendere la riflessione sulla figura dell’Ebreo nei Quaderni neri, mentre questi ultimi gettano luce su quel rapporto.
Hannah - il nome ebraico che vuol dire «grazia» - è l’evento che spezza l’ordo amoris di Heidegger. Ma è anche la chance mancata, l’attimo fuggito, l’asilo rifiutato perché troppo inquietante e estraneo. Dopo di lei l’amore di Heidegger resterà spaesato, prigioniero nel regno della possibilità. La relazione dura solo pochi mesi. Heidegger sceglie il ritiro, la meditazione sull’Essere. Abbandona Hannah, aggira l’incontro, lascia che la sua figura svanisca, rifugge da quel che lei è concretamente. Così, in seguito, l’ebraismo può ritornare, come uno spettro, aggravato da un peso metafisico. E l’ombra dell’ebreo può proiettare l’ Ebreo figurale , accusato dell’abbandono dell’Essere. [...]
( PER LEGGERE TUTTO L’ART., CLICCARE QUI avanti, su -> La Lettura - Corriere della Sera, 08.11.2015)
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 31.10.2015)
Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.
L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.
L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.
Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.
L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.
La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.
MAESTRI. Galileo attaccò il filosofo greco, poi in tarda età se ne proclamò seguace
Aristotele che fisico!
Le sue teorie scientifiche godono di cattiva fama. Ma a torto: furono la base dei successivi progressi
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera-La Lettura, 18.10.2015)
Cadono alla stessa velocità oggetti di peso diverso? A scuola ci raccontano che Galileo Galilei avrebbe mostrato che la risposta è sì, lasciando cadere delle palle dalla torre di Pisa. Nel corso dei due millenni precedenti, invece, sarebbero stati tutti accecati dal dogma di Aristotele secondo cui oggetti più pesanti cadono più in fretta; curiosamente, a nessuno era mai venuto in mente di provare. Galileo e i suoi contemporanei osservano la natura, e si liberano dalla camicia di forza del dogmatismo aristotelico.
Bella storia, ma c’è un problema. Provate a buttare dal balcone una biglia di vetro e una pallina di carta. Neanche per idea arrivano assieme: la biglia pesante cade molto più veloce, esattamente come dice Aristotele. Qualcuno obietterà che questo avviene a causa dell’aria. Ma Aristotele non ha mai scritto che le cose cadrebbero a velocità diversa se togliessimo l’aria. Ha scritto che le cose cadono a velocità diversa nel nostro mondo, dove l’aria c’è. E non sbagliava. Aveva osservato la natura con attenzione. Meglio di generazioni di insegnanti e studenti moderni, che si bevono nozioni senza pensarci, e senza provare.
La fisica di Aristotele gode di cattiva stampa. Viene descritta come costruita a priori, svincolata dall’osservazione, palesemente sbagliata. È un giudizio largamente ingiusto. La fisica di Aristotele è rimasta a lungo la teoria di riferimento per la civiltà mediterranea: non perché fosse dogmatica, ma perché è ottima. Descrive bene la realtà, e offre uno schema concettuale così efficace che per due millenni nessuno è riuscito a fare di meglio. Il succo della teoria è che, in assenza di altre influenze, un oggetto si muove verso il suo «luogo naturale»: più in basso per la terra, un po’ più in alto per l’acqua, ancora più in alto per l’aria, ancora più in alto per il fuoco; la velocità del «moto naturale» cresce con il peso e diminuisce con la densità del fluido in cui l’oggetto è immerso. Una teoria semplice e generale che rende conto con eleganza di una grande varietà di fenomeni, per esempio perché il fumo va in alto, o perché un pezzo di legno scende in aria, ma sale in acqua. Ovviamente la teoria non era perfetta, ma se è per questo neanche la scienza moderna è perfetta.
Il cattivo nome di cui soffre la fisica di Aristotele è in parte colpa dello stesso Galileo, che nei suoi scritti attacca Aristotele a testa bassa, e fa apparire sciocchi i suoi seguaci. Ne aveva bisogno a fini polemici. In parte è dovuto alla separazione che si è scioccamente allargata fra le culture scientifica e umanistica-filosofica. Chi studia Aristotele in generale conosce poco la fisica e chi si occupa di fisica si interessa poco ad Aristotele. La genialità scientifica dei libri di Aristotele come il De Coelo, o la Fisica, il libro che ha dato il nome alla disciplina, passa facilmente inosservata.
Ma c’è un altro fattore per la cecità odierna alla genialità di Aristotele scienziato. Ed è quello più interessante: l’idea che non si possa, anzi non si debba, confrontare pensieri prodotti da universi culturali così lontani, come Aristotele e la fisica moderna. Molti storici oggi inorridiscono all’idea di guardare la fisica aristotelica come approssimazione della fisica newtoniana. Per capire l’Aristotele originale, sostengono, dobbiamo studiarlo alla luce del suo tempo, non con schemi concettuali successivi di secoli. Questo è vero se siamo interessati a meglio decifrare Aristotele, ma se siamo interessati a capire il sapere di oggi, come è emerso dal passato, sono le relazioni fra mondi distanti che ci interessano.
I filosofi e storici della scienza Karl Popper e Thomas Kuhn, che hanno avuto grande influenza sul pensiero odierno, hanno sottolineato l’importanza delle rotture nel corso dell’evoluzione del sapere. Esempi di tali «rivoluzioni scientifiche», dove si abbandona la vecchia teoria, sono i passaggi dalla fisica di Aristotele a Newton, o da Newton ad Einstein. Nel corso di tali passaggi ci sarebbe, secondo Kuhn, una ristrutturazione radicale del pensiero, al punto che le idee precedenti diventano irrilevanti, addirittura incomprensibili: «incommensurabili» con la teoria successiva, scrive Kuhn.
Popper e Kuhn hanno avuto il merito di mettere a fuoco questo aspetto evolutivo della scienza e l’importanza delle fratture, ma la loro influenza ha portato a una assurda negazione degli ovvi aspetti cumulativi del sapere. Peggio, a non voler vedere le chiarissime relazioni logiche e storiche fra teorie prima e dopo ogni passo avanti: la fisica di Newton è perfettamente riconoscibile come approssimazione della relatività generale di Einstein; la teoria di Aristotele è perfettamente riconoscibile come approssimazione all’interno della teoria di Newton.
Non solo, ma all’interno della teoria di Newton si riconoscono aspetti della struttura della fisica aristotelica. Per esempio, la grande idea di distinguere il movimento «naturale» di un corpo da quello «forzato», sopravvive intatta nella fisica newtoniana, e poi in quella di Einstein. Cambia il ruolo della gravità: causa di moto forzato in Newton (dove il moto naturale è rettilineo uniforme), parte del moto naturale in Aristotele, e, curiosamente, di nuovo in Einstein (dove il moto naturale, chiamato «geodetico», torna ad essere quello di un oggetto in caduta libera, come per Aristotele).
Gli scienziati non avanzano né per solo accumulo, né per rivoluzioni totali, in cui tutto è buttato e si ricomincia da zero. Avanzano piuttosto, come in una bella analogia di Otto Neurath spesso citata da Willard Van Orman Quine, «come marinai in mare aperto che devono ricostruire la loro barca, ma non possono farlo da zero: dove tolgono una trave devono subito rimpiazzarla (...), in questo modo, pezzo a pezzo avanza la ricostruzione». Nella grande nave che è la fisica moderna si riconoscono ancora antiche strutture - come la distinzione fra moto naturale e forzato - della vecchia barca del pensiero aristotelico.
Torniamo allora ai corpi che cadono nell’aria o nell’acqua, e vediamo cosa effettivamente succede. La caduta non è né a velocità costante e dipendente dal peso, come voleva Aristotele, né ad accelerazione costante e indipendente dal peso, come voleva Galileo (neanche se trascuriamo l’attrito!). Quando un corpo cade, attraversa una prima fase in cui accelera, per poi stabilizzarsi a velocità costante, maggiore per i corpi pesanti. Questa seconda fase è ben descritta da Aristotele.
La prima fase invece è di solito molto breve, difficile da osservare, e per questo è sfuggita ad Aristotele. L’esistenza di questa fase iniziale era già stata notata nell’antichità: nel terzo secolo prima della nostra era, per esempio, Stratone di Lampsaco (città sullo stretto dei Dardanelli) osserva che un filo d’acqua che cade si rompe in gocce: questo indica che le gocce cadendo accelerano, come una fila di auto che si sgrana man mano che le auto prendono velocità.
Per studiare questa fase iniziale, difficile da osservare perché tutto avviene in fretta, Galileo scova uno stratagemma geniale. Invece di osservare corpi che cadono, osserva palle che rotolano lungo una lieve pendenza. La sua intuizione, difficile da giustificare al suo tempo ma corretta, è che la «caduta rallentata» delle palle che rotolano riproduca il moto di oggetti che cadono liberi. In questo modo, Galileo riesce a notare che all’inizio della caduta è l’accelerazione ad essere costante, non la velocità. Forte di questa nuova capacità di interrogare la natura, e di una padronanza della matematica che mancava ad Aristotele, Galileo è riuscito a stanare il dettaglio quasi impercettibile ai nostri sensi dove la fisica di Aristotele funziona male. È come l’osservazione all’inizio del Novecento usata da Einstein per superare Newton: il movimento del pianeta Mercurio, a ben guardare, non segue esattamente le orbite di Newton. Il diavolo è nei dettagli.
Einstein farà di Newton quello che Galileo e Newton hanno fatto di Aristotele: mostrerà che nonostante la sua efficacia, anche questa fisica è solo buona in prima approssimazione. Oggi sappiamo che anche la fisica di Einstein non è perfetta: sbaglia là dove entra troppo in gioco la meccanica quantistica. Anche la fisica di Einstein ha bisogno di essere migliorata. Ma non siamo ancora ben sicuri di come.
Galileo non ha costruito la sua nuova fisica ribellandosi a un dogma o dimenticando Aristotele. Al contrario, ha saputo modificare aspetti della cattedrale concettuale aristotelica, imparando a fondo da Aristotele: non c’è incommensurabilità fra lui e Aristotele, c’è serrato dialogo.
Credo che sia lo stesso fra le culture, le persone, i popoli. Non è vero che, come oggi si ama ripetere, mondi culturali diversi sono intraducibili, impermeabili. È vero il contrario: le frontiere fra teorie, discipline, epoche, culture, popoli, persone, sono terribilmente permeabili, e il nostro sapere si nutre degli scambi attraverso questa permeabilità. Anzi, il sapere è il risultato in continua evoluzione di questa fitta rete di scambi. Quello che ci interessa di più è proprio questo scambio: confrontare, scambiare idee, imparare, costruire dalle differenze. Mescolare, non tenere separato.
C’è grande distanza fra l’Atene del IV secolo e la Firenze del XVII. Ma né rottura radicale, né incomprensione. È perché sa dialogare con Aristotele, e penetrare a fondo la sua fisica, che Galileo riesce a trovare il passaggio stretto dove correggerla e migliorarla. Lo dice splendidamente lui stesso, in una lettera scritta in tarda età: «Io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contraddizioni alla sua dottrina».
di Vincenzo Vitiello (l’Unità, 03.02.2013)
«CERTO È STRANO NON ABITARE PIÙ LA TERRA»: QUESTO MESTO VERSO DI RILKE DESCRIVE NON LA CRISI DEL NOSTRO TEMPO, MA IL SUO TRIONFO. Il trionfo dell’appropriazione umana della terra e del tempo, il trionfo della storia e della politica. A questa appropriazione, che, seguendo il racconto di Genesi (2, 19-20), inizia da quando Dio concesse all’uomo la facoltà di dar nome agli animali della terra e del cielo, la filosofia ha dato un contributo notevole, concependo la vita buona come quella vita che si realizza nella comunità degli uomini padroni della terra e di tutto quanto sulla terra cresce e vive. Mestizia di poeta separato dal mondo, quella di Rilke? O non piuttosto un sentimento, frustrato, di più profonda partecipazione alla vita del tutto? Forse la crisi della polis, sottraendo alla filosofia il suo tema principale - la res publica, come la suprema res humana - apre l’orizzonte del pensiero oltre la soglia dell’umano.
Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione in filosofia, che, in contrasto con quella «copernicana di Kant, definirei «tolemaica», dacché segna il passaggio dalla riflessione del mondo a partire dall’uomo alla considerazione dell’uomo muovendo dal mondo.
E qual filosofo della nostra modernità ha contribuito a questa trasformazione più e meglio di Spinoza?
Biagio de Giovanni, filosofo della politica che ha sempre accompagnato l’attività di studioso con l’impegno politico, in un suo recente libro, Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno, ha ampiamente argomentato che la risposta di Spinoza alla crisi del moderno - la scissione io-mondo - è più «avanzata» di quella hegeliana, perché non «redime» il finito, assorbendolo nel processo della universale ragione come suo momento necessario, ma lo «salva», e cioè lo «serba» nella sua finitezza, entro il «libero» spazio della sostanza eterna.
Altra volta ho rilevato la vicinanza di questa interpretazione della sostanza spinoziana all’Ereignis di Heidegger, l’evento puro che tutto pro-voca ed accoglie, e nulla impone. Vi torno su, in questa sede, perché Spinoza - lo Spinoza che de Giovanni non esita a dire «il mio Spinoza» -, pur teorizzando la razionalità dello Stato, procede oltre il «politico», verso quella fondazione etica della ‘comunità’ che non è in potere della comunità. Per l’autore del Tractatus teologico-politicus e del Tractatus politicus «sostanza» è il nome della «natura» in cui l’uomo abita, e solo perché abita in essa, può comunicare con altri, può, cioè, far comunità.
L’etica di Spinoza ha come tema la natura che non è solo punti, linee e figure geometriche, è sovratutto corpo vivente, Leib, e cioè: passione, sentimento, amore e odio, letizia e tristezza, immaginazione. È, nel linguaggio di Rilke, la Terra oltre la Città: la Terra che «salva» l’uomo nella sua finitezza e libertà. È questo il messaggio? Il nuovo messaggio della filosofia?
Nel 1991-92 - son passati vent’anni! - Carlo Sini tenne un corso alla Statale di Milano su La verità pubblica e Spinoza. Pubblicato la prima volta nel 2005, è stato riedito nel IV volume, tomo I, delle sue Opere, in questo inizio d’anno. Essendo stato già recensito su queste pagine, posso andar subito all’essenziale, che è già tutto nello stile del testo, che ha conservato l’andamento della lectio, della lettura. Della lettura non d’un libro, ma del mondo, quale si es-pone nel pensiero che si fa nell’atto stesso di dirsi, di scriversi. Questa la verità pubblica del mondo (e non sul mondo). Verità che non è, perché in via di farsi, come il mondo.
In questa pratica di pensiero Spinoza da «oggetto» diviene soggetto del pensiero, sorgente che non si conosce, meglio: che non è altrove che in ciò che essa alimenta. Pertanto non ha senso voler distinguere quello che è di Spinoza da quello che è di Sini - e non perché non lo si possa fare, ma perché facendolo, si cristallizza il pensiero, gli si toglie vita. Sini leggendo Spinoza, lo «continua» (per usare il verbo felicemente scelto da Massimo Adinolfi per il titolo del suo libro, appunto: Continuare Spinoza). Di qui l’arditezza delle analisi siniane, dalla negazione che gli attributi della sostanza siano due, pensiero ed estensione, o addirittura infiniti, alla affermazione che l’essenza della sostanza è «espressa» nel «sive» che congiunge-separa Dio e natura: Deus sive natura. Invero le due tesi dicono il medesimo: perché se «i due nomi (pensiero ed estensione) sono l’identico trascolorare della sostanza nella loro differenza», cosa mai può essere la sostanza fuor del «trascolorare»?
Il «sive» è il segno, la traccia che l’evento del trascolorare lascia nel pensiero, come nel corpo, in cui trascolora. Ma l’evento non è la traccia: pensieri e corpi, per dirla con Spinoza, non sono la sostanza. La verità pubblica del mondo non è il mondo. L’evento puro, il mondo, di cui il «sive» è segno o traccia, «non è pensabile (...)e non è da pensare».
L’evento puro del trascolorare dell’Indifferente nelle differenze non lo si pensa, lo si vive. In esso e di esso viviamo. Nella verità pubblica, oltre la verità pubblica: nella polis, oltre la polis. È un libero «trovarsi accanto» a uomini come a erbe e pietre e animali, oltre il «con-esserci» dell’ordine giuridico, delle leggi e della giustizia. Sini chiama mondo, quel che Rilke nomina terra. Pur nella grande differenza di metodo, intenti e scrittura, le analisi di de Giovanni e di Sini convergono nel risultato.
Lontani entrambi dal mito della terra incontaminata, trovano la terra, o, come entrambi amano dire, il mondo ciò che dà stabilità e potenza al fare nei conflitti della politica e pur nelle distruzioni delle guerre. Qui, nell’aiuola che ci fa feroci, e non altrove si «salva» il finito. O meglio: è già da sempre salvato. La nostra «salvezza» (de Giovanni), la nostra «eternità» (Sini), non è certo nella miseria delle nostra differenze, ma nella sovrabbondante ricchezza della sostanza, dell’evento, del mondo, che, peraltro, è solo in quelle differenze. Fuor di queste sarebbe solo Silenzio.
Mi chiedo se non sia questa un’ultima rassicurazione - necessaria all’uomo per non pensare alla morte: dell’uomo, del mondo, della Terra. Per Spinoza il filosofo pensa la vita, non la morte. Per Spinoza.
Continuando Spinoza per proseguire a scoprire il mondo
Un libro di Massimo Adinolfi riporta l’attenzione sul grande filosofo e sulla sua analisi
di Vincenzio Vitiello (l’Unità, 10.03.2013)
L’INTERESSE PER SPINOZA È IN COSTANTE CRESCITA: NE TESTIMONIANO LE RECENTI EDIZIONI ITALIANE DELL’OPERA OMNIA, QUELLA DI FILIPPO MIGNINI per Mondadori, e l’altra, con originale a fronte, di Andrea Sangiacomo, presso Bompiani; i fascicoli speciali del Pensiero (2011/1) e di Teoria (2012/2) dedicati appunto al filosofo olandese; i libri di Sini (Archivio Spinoza) e di de Giovanni (Hegel Spinoza. Dialogo sul moderno), di cui ci siamo occupati su questo giornale alcune settimane orsono, e più recentemente il saggio di Massimo Adinolfi, dall’impegnativo titolo: Continuare Spinoza . Un’esercitazione filosofica (Editori Internazionali Riuniti, 2012).
Un libro, questo, fuori degli schemi della cultura filosofica tradizionale. Adinolfi, infatti, non «analizza» Spinoza, non lo spiega, né lo «contestualizza»: lo continua. Fa filosofia con Spinoza. La sua «scrittura» è pienamente conforme all’esercizio: il libro non ha note, né divisioni in capitoli e paragrafi.
Certo discute le principali interpretazioni che del pensiero del filosofo olandese sono state date da filosofi e da storici, ma nella forma di un dialogo ininterrotto, meglio ancora di un transito continuo da pensiero a pensiero, senza pause come in un unico respiro; e senza ritorni, dacché riflettere per Adinolfi non è piegarsi sul già fatto, al contrario è andare-innanzi, proseguire.
Il pensiero come vita. Ove il primato spetta alla vita, non al pensiero. Di qui la critica radicale d’ogni logicismo e gnoseologismo: ciò da cui muove la filosofia non è il pensiero, ma il mondo. E mondo è ciò che Spinoza chiama «sostanza», che non attende il pensiero che la dimostri, perché è la dimostrazione che sta nella sostanza-mondo, e ne dipende.
Questo il senso della definizione spinoziana del pensiero quale attributo della sostanza. Attributo al pari del corpo (o estensione) pur esso espressione del mondo. Qui l’ordo e la connexio tra idee (pensiero) e cose (corpo), non indica un parallelismo tra due, ma l’esporsi della sostanza-mondo in forme diverse, che non sono due, più che una, essendo l’idea pensiero del corpo, nel senso soggettivo ed oggettivo del genitivo, e quindi il corpo espressione «materiale», estesa del pensiero.
Palese l’influenza della interpretazione spinoziana di Sini, che si mostra anche nell’insistenza di Adinolfi nell’affermare il carattere di evento della sostanza. Continuare Spinoza ha anche questo significato: togliere alla sostanza ogni e qualsiasi stabilità, fissità. Sostanza è movimento, divenire, transito. Dio, la sostanza spinoziana, è solo nei modi, nelle affezioni, e cioè: non genericamente nel mondo, bensì negli enti.
Ché mondo non è il contenitore degli enti, ma l’eterno transitare negli enti, eterni pur essi in e per questo transitare. In e per questo farsi ente del mondo, farsi cose della sostanza. Eterno è l’ente nel flusso della vita, nel flusso eracliteo della Lebenswelt, del mondo della vita.
Continuare Spinoza è quindi continuare a pensare, e continuare a pensare è continuare a vivere. In ciò il conatus di Spinoza: la volontà e la potenza di essere, di ek-sistere dell’ente nel mondo, del mondo nell’ente. Spinoza - afferma Adinolfi - ribalta il rapporto essenza-esistenza: è l’esistenza la base, il fondamento dell’essenza. «Viva chi vita crea!» - possiamo ripetere con Goethe a commmento di queste pagine personalissime, in cui avverti la potenza del pensiero di Spinoza.
E tuttavia a libro chiuso vien fatto di dire: propter philosophiam, philosophandi perdere causas. Come sempre nelle filosofie «arcontiche» - quelle che, a partire da Aristotele, s’afferrano a quel «primo» che non cade nel dubbio perché è ciò che ogni dubbio sostiene, che si sottrae al domandare perché è all’origine di ogni domanda -, anche in questa impegnata ed impegnativa esercitazione filosofica alla fine tutto si salva, tranne la filosofia. Tranne la domanda sul mondo. Perché sarà pur vero che la domanda sorge nel mondo, ma in filosofia ciò che anzitutto è in questione, è il luogo della domanda.
Un circolo non virtuoso, questo tra domanda e mondo, anzi vizioso, viziosissimo, perché nell’atto stesso di sottrarsi alla domanda il mondo ricade in essa, e nel punto in cui è oggetto di domanda vi si sottrae.
In questo circolo, volens nolens, è anche Adinolfi, quando distingue il pensiero dell’essere dall’essere del pensiero (l’essenza formale dell’idea dal suo contenuto obiettivo: p. 235 e ss.). Chi o che cosa opera questa distinzione? E dove? La ri-flessione torna ad imporsi. Torna ad imporsi il pensiero sempre in lotta con sé, diviso: inizio anche quando rifiuta d’esserlo.
Se il “vampiro” abbandona la Chiesa
di Ida Bozzi (Corriere della Sera, 31 luglio 2010)
«Seguire Cristo non vuol dire seguire i suoi seguaci»: con il suo rifiuto della «cristianità» - più propriamente della cattolicità - espresso però «in nome di Cristo», la scrittrice americana Anne Rice ha aperto su Facebook una discussione che ha provocato un terremoto. Il fatto, rilanciato con grande evidenza dall’influente Huffington Post e poi dal «Washington Post» e dal «Guardian», risale a mercoledì, quando l’autrice di bestseller come Intervista con il vampiro ha pubblicato un post inequivocabile: «Oggi smetto di essere cristiana. Ne sono fuori. Resto fedele a Cristo come sempre, ma non all’essere "cristiana"». Risultato: oltre 1.300 commenti e 2.900 «mi piace» (il contrassegno che esprime consenso su Facebook).
La svolta, per l’autrice dalla vita tormentata e segnata da dure esperienze, viene a pochi anni dall’altrettanto clamorosa (ed enfatizzata) conversione alla fede dopo 40 anni di ateismo. Di famiglia cattolica, orfana di madre da adolescente, la Rice ha perso nel ’71 la figlia Michelle di appena 5 anni, morta di leucemia, e nel 2002 il marito Stan, ucciso dal cancro. Ma nel ’98, risvegliatasi da un coma, la conversione: la scrittrice ritrova la fede e dedica i nuovi libri alla storia di Gesù. Uno choc per i fan del vampiro Lestat de Lioncourt (diventato film con Brad Pitt, Antonio Banderas e Tom Cruise) e di altri personaggi della Rice, atei tormentati e pessimisti dalla sessualità libera. Ora la nuova svolta, motivata però non da un cedimento di fede, ma da una presa di posizione contro quelli che indica come eccessi normativi della Chiesa e le sue posizioni sui diritti civili: «Rifiuto di essere anti-gay. Rifiuto di essere anti-femminista. Rifiuto di essere contro il controllo delle nascite. Rifiuto di essere anti-democratica. Rifiuto di essere contro la scienza». Quasi un manifesto.
Contro le gerarchie per un cristianesimo che viva di libertà
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 31 luglio 2010)
Anne Rice confessa lo stesso disagio che per secoli non solo grandi letterati, filosofi e scienziati hanno espresso con veementi parole di denuncia, ma che donne e uomini «comuni» hanno provato sulla propria pelle, a volte persino rimettendocela sul rogo o in qualche camera dei supplizi. Non deve dunque stupire che la protesta dell’autrice di una grande saga di vampiri, capace di conquistare milioni di lettori in tutto il mondo, venga da una persona che aveva aderito al cattolicesimo dopo un lungo e tormentato cammino. Le prime vittime di una religione che si manifesta attraverso coazione e gerarchia sono i suoi fedeli, e non i miscredenti di qualsiasi estrazione - siano essi libertini, agnostici, atei, o quel che volete.
Anne è colpita dall’eccessivo numero di regole imposte dalla Chiesa di Roma. Ora, non è che le altre religioni ne siano prive, anzi. Tuttavia, ogni associazione privata (e tali non possono che essere tutte le Chiese, almeno nel quadro di una democrazia liberale) si basa su un insieme di norme che ne definiscono l’identità: queste possono venire cambiate o sostituite nel corso del tempo, ma non possono esser tutte eliminate, pena lo sciogliersi dell’associazione stessa. La vera questione riguarda il contenuto di queste regole e il modo in cui sono imposte e recepite.
L’associazione nota come Chiesa cattolica ha sempre ridefinito il suo nucleo più profondo in una struttura autoritaria: come hanno fatto notare gli ultimi due pontefici, che hanno tenuto a ribadire (nel caso qualcuno si fosse illuso) che la loro Chiesa non è (e non può essere) una democrazia. Si potrebbe obiettare da parte cattolica che l’obbedienza data liberamente a chi si ritiene il custode della parola di Dio è la forma più alta di libertà. Ma questa è solo retorica, che giustifica la rinuncia a quell’autonomia che tipi come Voltaire o Kant ritenevano caratterizzasse gli esseri umani quando escono dallo stato di minorità: perché non dire tutti, come il Leporello alle dipendenze di Don Giovanni, «son prontissimo a servir»? Discriminazione della donna, cui tra l’altro è negato il sacerdozio, concezione rigida della famiglia «naturale» (senza alcuna concessione a persone di orientamento non eterosessuale), divieto di esercitare l’autodeterminazione nelle scelte sessuali e persino nelle decisioni che riguardano la propria fine. Per non dire dell’incapacità delle alte gerarchie di fare veramente i conti con l’individualismo economico, il libertarismo politico e con l’innovazione scientifica e tecnologica, che spazza via superstizioni e vincoli vecchi di secoli.
Anne Rice, dunque, colpisce nel segno. E vista la società in cui vive credo che provi una certa insofferenza anche per lo scollamento, che il mondo cattolico ben conosce, tra un insieme di norme in teoria rigidissime e una pratica che le elude con mille accorgimenti. Quest’ultimo mi pare un tratto ancor più evidente in un Paese come il nostro che non nel contesto anglosassone. È possibile una vita cristiana diversa da così? Senza guardare ai tanti esempi dell’Europa soprattutto settentrionale o del Nordamerica, anche in Italia c’è qualche esempio prezioso: basti pensare al tipo di Chiesa e di etica, non autoritario e non discriminatorio, realizzato nelle valli valdesi del Piemonte occidentale. Difeso, come sa la storia, con una coraggiosa resistenza a qualsiasi genere di oppressione e intolleranza.
ASTRONOMIA
Quanti gemelli della Terra
"Forse sono 100 milioni"
La sonda Kepler scova 140 mondi simili al nostro in un campione di 1160 sistemi. -Facendo le dovute proporzioni, significa che i pianeti che ci somigliano sono molti di più di quanto si pensasse. Cautela nella comunità scientifica
ROMA - E’ dai tempi di Copernico che l’uomo si domanda se nell’universo ci siano altri pianeti come la Terra. Oggi la scienza mette a segno una risposta interessante: non solo i pianeti simili al nostro ci sono, ma sono anche un bel po’. Su un campione di 1160 sistemi analizzati nella Via Lattea, ne sono stati individuati 140. Complessivamente, dunque, nella nostra galassia potrebbero esserci anche 100 milioni di gemelli della Terra.
Il dato proviene da "Kepler", la sonda Nasa da 600 milioni di dollari, lanciata nello spazio nel marzo 2009 proprio per setacciare l’universo alla ricerca di nuovi mondi. La notizia è stata data in anticipo sull’uscita dei risultati ufficiali, prevista per il prossimo febbraio. A parlarne è stato, durante una conferenza a Oxford, il ricercatore bulgaro Dimitar Sasselov, docente di astronomia e direttore del progetto "Harvard Origins of Life": "I pianeti come la Terra ci sono, la nostra galassia ne è piena", ha detto Sasselov dell’università di Harvard, intervenendo alla "TEDGlobal conference 1", un evento prodotto da un’organizzazione noprofit. "Solo che, con il nostro piccolo telescopio, nei prossimi due anni riusciremo ad analizzarne al massimo una sessantina".
Questi pianeti sono paragonabili al nostro non perché abitati o abitabili, ma perché di dimensioni similari, ovvero con un raggio inferiore al doppio di quello terrestre. La rivista "Science" riferisce che Sasselov ha mostrato un grafico che illustra la distribuzione di circa 265 pianeti esaminati da "Kepler", 140 dei quali etichettati come "simili alla Terra".
Una novità molto interessante, considerando che da quando la tecnologia ha cominciato, 15 anni fa, a intercettare pianeti anche al di fuori del nostro sistema solare, la stragrande maggioranza di quelli individuati sono stati classificati "giganti gassosi", come Giove, e non "mondi rocciosi", come la Terra o Marte.
L’intervento dello studioso si intitolava "On Completing the Copernican Revolution" ("sul completamento della rivoluzione copernicana") e ha scatenato un polverone nella comunità scientifica, che ancora tiene queste informazioni a distanza di sicurezza, in attesa di riscontri più approfonditi. Con l’inizio del 2012 potrebbe delinearsi un’idea concreta di quanti sono i pianeti simili al nostro nella galassia, ma è ancora presto per trarre conclusioni.
* la Repubblica, 28 luglio 2010
LE IDEE
La legge che zittirà i blogger
di JUAN CARLOS DE MARTIN* (La Stampa, 28/7/2010)
E’davvero singolare. Da circa 15 anni viviamo, grazie alla tecnologia, in un mondo che permette di realizzare - quasi perfettamente e con relativamente poco costo e fatica - un’aspirazione antica almeno quanto la Grecia classica. Un’aspirazione che con l’Illuminismo diventa diritto, diritto che, incastonato nelle costituzioni moderne, diventa quindi un pilastro delle nostre democrazie. Parlo della libertà di parola (e del suo diritto gemello, la libertà di informazione).
E’con la nascita del web, infatti, che diventa relativamente facile ed economico fare qualcosa che fino a quel momento aveva richiesto o grandi capitali o la possibilità - ardua - di trovare spazio nei mass media, cioè, far arrivare il proprio messaggio, qualunque esso sia, potenzialmente a chiunque. Il web, infatti, fin dalla nascita, a inizio anni 90, si presenta come un medium «leggi-scrivi», ovvero, bi-direzionale, che rende facile non solo consumare contenuti, ma anche produrne e condividerli potenzialmente con chiunque abbia accesso a Internet (1.8 miliardi di persone secondo le statistiche più recenti). Condivisione che con gli anni è diventata sempre più facile e intuitiva, grazie a innovazioni come i blog (commentari con gli interventi presentati in ordine cronologico inverso, ovvero i più recenti in cima - 130 milioni secondo i dati più recenti), i wiki (pagine web facilmente modificabili da chi le legge, come quelle dell’enciclopedia online Wikipedia) e le grandi piattaforme di aggregazione come YouTube o Vimeo per i video, Flickr per le fotografie e le reti sociali, che pubblicano ogni mese (anche se in genere a un pubblico ristretto ai loro utenti), miliardi di testi, foto e video.
Gli utenti della Rete hanno accolto entusiasticamente questa opportunità di esprimersi. A seconda, infatti, dei sondaggi (per esempio, quelli di Pew Research), dal 40 al 60% degli internauti pubblica contenuti di varia natura. Contenuti ovviamente molto eterogenei tra loro, ma ciascuno realizzazione tangibile di quell’antica aspirazione, ovvero, permettere a ciascun individuo di presentare il proprio punto di vista. Punto di vista che non raramente contribuisce al pubblico dibattito in vista di una deliberazione, realizzando quella che i greci chiamavano isegoria - il diritto di prendere la parola su questioni di interesse generale. Dire, quindi, che Internet rappresenta il più straordinario e ampio spazio pubblico della storia è semplicemente ricordare un dato di fatto. Tra l’altro uno spazio pubblico molto discreto, che non invade le case o le strade, che non ci assorda le orecchie e non ci occupa la visuale, se non quando noi, liberamente, scegliamo di consultarlo online.
Eppure, singolarmente, diversi politici italiani, anziché concentrare le loro energie su come estendere l’esercizio di questa libertà a tutti i cittadini (il «digital divide» italiano, infatti, riguarda ancora oltre metà della popolazione), o su come più efficacemente educare la popolazione ad un uso maturo e consapevole della Rete (non si impara, infatti, in un giorno a guidare una Ferrari se si è sempre solo andati in bicicletta), da circa due anni sembrano cercare il modo di rendere l’espressione del proprio pensiero online più difficile e gravosa. Dopo diversi tentativi, forse ci stanno finalmente per riuscire. Il comma 29 dell’articolo 1 del decreto sulle intercettazioni in discussione in questi giorni alla Camera, infatti, estende - nella sua forma attuale - a tutti i gestori di siti informatici l’obbligo di rettifica previsto dalla legge sulla stampa: qualora non si dia seguito entro 48 ore ad una richiesta di rettifica, si è soggetti a una sanzione fino a 12 mila e 500 euro. Indipendentemente dal fatto che dietro al sito ci sia una struttura professionale o un semplice individuo, ovvero, che si tratti del sito, per esempio, de «La Stampa» o del blog della signora Maria Rossi, del sito di una grande azienda o di quello di una scuola elementare.
La proposta è infondata nelle motivazioni e potenzialmente molto nociva negli effetti. La motivazione è che Internet non deve essere, secondo i proponenti, un territorio senza legge dove ognuno dice quello che vuole. Tuttavia, dire quello che si vuole è un diritto costituzionalmente garantito, anche se, come è ovvio, nei limiti previsti dalla legge (diffamazione, calunnia, eccetera). E la legge vale online esattamente come altrove - da sempre.
In merito agli effetti, l’eventuale approvazione di questa norma avrebbe un grave effetto sulla libertà di espressione e di informazione, dal momento che scoraggerebbe moltissime persone, aziende e istituzioni dall’esprimersi online. Quante persone, infatti - o anche piccole aziende, associazioni, scuole, università, eccetera - se la sentirebbero di correre il rischio di pubblicare qualcosa non potendo garantire, 356 giorni all’anno, di riuscire a intervenire tempestivamente in caso di richiesta di rettifica? E anche quei rari individui che se la sentissero di garantire una così assidua presenza alla tastiera, come potrebbero discriminare con efficacia tra le richieste di rettifica fondate e quelle infondate, se non addirittura apertamente censorie? I giornali hanno uffici legali abituati a vagliare questo tipo di richieste; un generico blogger certamente no. Non è, quindi, difficile ipotizzare che, nel dubbio, le richieste di rettifica verrebbero sempre accolte - con un grave impoverimento della libertà di parola e di informazione online del nostro Paese.
È, quindi, davvero singolare quanto sta accadendo in Parlamento. Oppure no, non lo è affatto. Il web ha, infatti, radicalmente decentralizzato la produzione di messaggi, col risultato che il controllo sulle informazioni che giungono ai cittadini si sta indebolendo ogni giorno di più. Ciò per alcuni è evidentemente un problema. Per tutti gli altri, però, è una conquista da migliorare ed estendere.
*docente del Politecnico di Torino
Immischiandosi nella politica, la grande meretrice ha recato indicibili sofferenze al genere umano.
Questo destreggiarsi della diplomazia cattolica illustra il tipo di meretricio praticato negli scorsi 4.000 anni dalla religione nel corteggiare lo Stato politico per acquistare potere e vantaggi. Questi rapporti fra religione e politica sono stati causa di guerre, persecuzioni e sventure su vasta scala. L’umanità può essere davvero felice che il giudizio di DIO.... contro la grande meretrice sia imminente. Possa esso venir presto eseguito! Siede su molte acque...."Popoli".....Come.... L’antica Babilonia sedeva su molte acque e queste stesse acque; di protezione.... furono progiugate in una sola notte fu’ catturata e distrutta; bruciata al suolo.
Le chiese: Dove sono dirette?... molte persone sincere si chiedono se le chiese non stiano deviando dalla missione affidata loro da Gesù. Esaminiamo le tendenze che hanno caratterizzato le chiese negli ultimi decenni.
“Tutte le principali denominazioni, che si tratti di Chiesa d’Inghilterra o Chiesa Cattolica, oppure di Chiesa Metodista o Chiesa Riformata Unita, stanno subendo un graduale declino”.
Le persone che in Europa vanno ancora in chiesa di solito non ci vanno per scoprire cosa Dio richiede da loro. Un articolo dall’Italia dice: “Gli italiani si costruiscono una religione su misura che sia adatta al loro stile di vita”. E un sociologo italiano afferma: “Dal papa prendiamo qualunque cosa ci sia congeniale”. Lo stesso si può dire dei cattolici in Spagna, dove la religiosità ha lasciato il posto al consumismo e alla ricerca di un paradiso da ottenere subito, quello economico! Queste tendenze sono in netto contrasto con il cristianesimo insegnato e praticato da Cristo e dai suoi seguaci. Gesù non offrì una religione “self-service” o “a buffet”, in cui ognuno prende ciò che più gli aggrada e scarta quello che non è di suo gradimento. Egli disse: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda di giorno in giorno il suo palo di tortura e mi segua di continuo”. Gesù insegnò che il modo di vivere cristiano richiedeva sacrificio e sforzo a livello personale.
(Rivelazione 18:4-5) E udii un’altra voce dal cielo dire: “Uscite da essa, o popolo mio, se non volete partecipare con lei ai suoi peccati, e se non volete ricevere parte delle sue piaghe. 5 Poiché i suoi peccati si sono ammassati fino al cielo, e Dio si è rammentato dei suoi atti d’ingiustizia.
(Con tutto il rispetto e il bene del mondo....fino a quando serve!)
Il vuoto delle religioni
di Moni Ovadia (l’Unità, 24 luglio 2010)
I tempi di crisi, a senso di logica, dovrebbero sollecitare pensieri e riflessioni che consentano agli esseri umani di proiettarsi al di là dei semplici aspetti materiali dell’esistenza per interrogarsi sul senso profondo della vita. La religione dovrebbe essere l’ambito ideale per siffatte interrogazioni ma non è così.
La questione sia chiaro non è tanto quella dello scandalo pedofilia che ha di recente travolto la Chiesa cattolica, né quella di rabbini dei partiti religiosi dello schieramento politico israeliano che tengono in scacco la democrazia dello stato ebraico con la scusa della religione dietro alla quale si mascherano biechi interessi di potere. E neppure l’islamismo politico con le sue derive terroriste è il vero punctum dolens.
Il vero problema è che le istituzioni religiose non hanno saputo cogliere le preziose opportunità offerte dal formarsi di società democratiche e aperte per farsi maestre di una spiritualità laica fondata sull’etica del primato della coscienza, della libertà, dell’uguaglianza della giustizia sociale, dell’amore.
Hanno continuato a baloccarsi col potere per garantirsi le solite rendite di posizione, o si sono accaniti con furori normativi sui i presunti fondamenti naturali della sessualità, non solo manifestamente falsi ma persino ridicoli, hanno preteso di confinare la famiglia entro schemi storicamente frusti, la famiglia, una struttura sociale in evoluzione e in particolare negli ultimi lustri in impetuosa evoluzione. Da tempo non esiste un solo paradigma di famiglia ma molti modelli di famiglie.
Le istituzioni religiose si ostinano a pretendere il potere della verità assoluta su l’origine della vita, sul senso ultimo della morte e solo a parole accettano il confronto laico delle opinioni sui grandi temi della bioetica. Ossessionate dal monopolio della verità, le religioni hanno abbandonato l’uomo al culto di Mamona.
PEDAGOGIA
Ragazzi, imparate a sbagliare
Festival dell’errore a Parigi
"Insegniamo l’importanza dei passi falsi". Se ne fa il bambino diventa un genio. Per gli esperti occorre spezzare il nesso logico tra risposte sbagliate e brutti voti
di ELENA DUSI *
ROMA - Dei 180 articoli scientifici pubblicati da Einstein, una quarantina contengono errori significativi. Se abbiamo penicillina e vaccini, lo dobbiamo agli sbagli commessi dai loro scopritori, che andavano in cerca di altro. La stessa evoluzione degli esseri viventi procede grazie ai piccoli difetti.
E se perfino il più grande scienziato della storia sbagliava spesso e volentieri, perché mai uno scolaro oggi dovrebbe trattenersi dall’alzare la mano e azzardare la risposta che ha in testa in quel momento, si chiedono gli organizzatori di "Détrompez-vous", il Festival dell’errore di Parigi. La manifestazione iniziata ieri nella sede dell’École normale supérieure per avvicinare i giovani alla scienza vuole incitare i più piccoli a osare, innovare, uscire dal seminato, proporre idee nuove. Perché errare, si spiega ai bambini, è una parola che nella radice significa deviare dalla solita strada. E non esiste grande scienziato che sia arrivato al successo senza salire su una gigante catasta di conclusioni sbagliate.
I passi falsi della storia della scienza sono il piatto forte del festival parigino, insieme alle false percezioni che il cervello ci suggerisce, insegnandoci ad accogliere con un sano scetticismo anche le osservazioni più evidenti. Che a una giusta conclusione si possa arrivare seguendo più strade, i visitatori del festival lo imparano cercando di combinare i vari ingredienti di una ricetta di cucina. "E per la maggior parte degli oggetti che ci circondano, non esiste un unico uso corretto. La fantasia e la capacità di innovare sono virtù importanti da coltivare" spiega Girolamo Ramunni, uno degli ideatori del festival e professore del Conservatoire national des arts et métiers.
La manifestazione francese, completamente gratuita, ha lo scopo di avvicinare i giovani alla scienza e frenare l’emorragia di studenti universitari di cui queste discipline soffrono. Per questo, nell’edizione di quest’anno, il suo obiettivo è spezzare il nesso logico fra errori e brutti voti e mostrare l’altro lato della medaglia di una risposta sbagliata: "Il potenziale fecondo che essa ha per il progresso della scienza", come recita la locandina della kermesse. La manifestazione è stata ideata proprio dopo un rapporto dell’Ocse che metteva in evidenza la paura degli scolari francesi di alzare la mano e rispondere a una domanda rischiando di essere presi in giro.
"Per scienza - precisa Ramunni - non intendiamo solo matematica e fisica, ma anche le discipline umanistiche. Pensiamo a quanta importanza abbia saper riconoscere i propri errori, riuscire ad ammetterlo con se stessi e con gli altri, il dire "mi sono sbagliato, devo cambiare strada". Il dialogo, la discussione e il confronto sono i mattoni basilari della scienza, ma anche uno degli ingredienti imprescindibili del vivere in comune".
Correggere un ragazzo che capovolge un cestino della carta per usarlo come sedia vuol dire, prosegue Ramunni, "sterilizzare la sua fantasia, costringerlo entro regole che si sono consolidate per pura e semplice pigrizia mentale. Troppo spesso l’insegnamento a scuola si limita alla ripetizione della "nozione esatta"". E i quiz a risposta chiusa sempre più utilizzati nella scuola in Francia ma anche in Italia sono quanto di peggio possa esistere per stimolare il pensiero creativo e fuori dalle righe. Per questo al festival degli errori e dei paradossi della logica nulla sarà impossibile, nemmeno realizzare un nastro senza il lato rovescio o riempire un bicchiere d’acqua senza versarvi nulla dentro.
* la Repubblica, 22 luglio 2010