Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l’ha cambiata dicendo il contrario. Ricco e frugale, soldato ed eremita, matematico e irrazionale, fu l’uomo che disse: "Ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere". Ora, a sessant’anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un’altra volta
I segreti di Wittgentein
Il professore, il filosofo e l’archivio ritrovato
A Berlino una mostra di oggetti tra cui la leggendaria giacca di tweed grigio
Da Sotheby’s all’asta gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello
di Riccardo Staglianò (la Repubblica, 29.05.2011)
La circostanza più paradossale, per un ossesso del linguaggio come Wittgenstein, che ha nella sua scarna bibliografia l’inespugnabile Note sul colore, è che si almanacchi ora sulla natura cromatica di un suo scritto ritrovato. «Può essere, come no, l’opera mancante chiamata Libro rosa o Libro giallo che gli studiosi cercano da tempo», commenta Arthur Gibson, l’uomo che ha trascorso gli ultimi tre anni su un colossale archivio inedito di uno dei più complessi e decisivi filosofi del Ventesimo secolo. Il professore di Cambridge si riferisce a un quadernetto da scolaro dalla copertina rosata che contiene nuovi testi del logico viennese. Un oggetto del desiderio per gli specialisti, forse il seguito ideale - seppur anteriore - delle Ricerche filosofiche con cui nella seconda parte della sua vita aveva demolito il Tractatus logico-philosophicus.
Chissà come avrebbe commentato lui («su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») di fronte a questa confusione di tonalità. Tuttavia sarebbe contento del rinvenimento del tesoretto da 150mila parole che contiene, oltre alla perla suddetta, l’unica versione vergata a mano del Libro marrone, ovvero appunti delle sue lezioni a Cambridge a metà degli anni Trenta. Con una sessantina di pagine aggiuntive e un’introduzione rivista. Oltre a un migliaio di calcoli matematici in cui l’allievo poi contestatore di Bertrand Russell si misura anche con il Piccolo problema di Fermat, in una dimostrazione lunga sei metri se si mettessero in fila i fogli. «È come se si fosse creduto di conoscere tutto il Dna e venisse fuori che ce n’era ancora un quarto ignoto. Oppure scoprire sia nuove opere che diversi arrangiamenti di Puccini. Quando ho aperto quelle scatole sono rimasto senza parole», confessa il curatore, «un intero mondo di manoscritti mai letti prima che aprono uno squarcio sui suoi processi mentali. Confrontando versioni, correzioni e aggiunte è come vedere il suo cervello all’opera».
Uno spettacolo, considerato il titolare della testa. Con tanto di illustrazioni e glosse sugli appunti che dettava al suo amanuense, nonché giovane amante, Francis Skinner. Nello spartano studio nella Great Court, dove Wittgenstein insegnava e Newton aveva vissuto, non c’era nient’altro che una sedia a sdraio, una stufa e Francis. «Il suo ruolo intellettuale esce molto rafforzato da queste carte, erano uno lo specchio dell’altro» spiega Gibson, «nei suoi confronti il filosofo aveva una relazione quasi bipolare, tra fortissima vicinanza emotiva e rigetto. Un amore-odio che già aveva provato verso il padre miliardario e ingombrante. E il fratello Paul, pianista di genio nonostante avesse perso un braccio in guerra, che non amava la sua filosofia più di quanto lui sopportasse la sua musica. Il numero degli studenti che aveva cacciato dalle lezioni cresceva di giorno in giorno. Alla fine in classe era rimasto solo lui».
Quel che non riuscivano a fare all’università lo finivano a casa. Convivevano, nonostante l’omosessualità fosse reato. Studiavano russo e vagheggiavano di trasferirsi in Unione Sovietica, abbandonando la filosofia per darsi alla medicina o all’allevamento. Indifferentemente. Così, quando nel ’41 la poliomelite uccide l’allievo, il maestro rischia di impazzire. Considera di lasciare l’insegnamento. E per sbarazzarsi dei ricordi spedisce per posta i tre pacchi di appunti a Reuben Goodstein, amico di Francis e suo studente. «Questi si impegna», spiega Gibson consegnando a Repubblica la copia della lettera, «a contattare il filosofo se avesse trovato materiali pubblicabili. E oggi, di fronte a testi di tale importanza resta il mistero del perché non l’abbia fatto».
Qui la trama epistemologica si intorbidisce di umanissime pulsioni. Da una parte il custode era stato vicino a Skinner, dall’altra venerava Wittgenstein («sua moglie ne era tanto gelosa da proibire che se ne pronunciasse il nome in casa») e potrebbe aver sottovalutato per rivalità la rilevanza degli scritti. Così si spiegherebbe forse il lungo letargo ermeneutico, continuato anche quando nel ’76 li affiderà alla Mathematical Association. Per concludersi infine negli ultimi anni, con la presa in cura di Gibson al Trinity College.
Nel sessantennale della sua morte lo Schwules Museum di Berlino gli dedica una mostra piena di diari e oggetti, compresa la leggendaria giacca di tweed grigio di tante foto, mentre Sotheby’s batte a quattromila sterline di base d’asta anche gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello.
Pochi pensatori possono vantare inversioni a U tanto radicali e tuttavia convincenti nel proprio tragitto intellettuale. Il Wittgenstein 1.0, quello del Tractatus (1921), studia la lingua come modo per conoscere. Solipsisticamente dice: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Al di fuori non c’è niente, dal momento che non si può dire. Il Wittgenstein 2.0 invece si concentra sulla sua natura più sociale, di strumento di comunicazione. è come se fosse uscito dalle trincee della Grande guerra e dal campo di prigionia italiano dove aveva terminato il Tractatus per mischiarsi col mondo.
Molte delle riflessioni che poi confluiranno postume nelle Ricerche (1953) sono concepite nello stesso periodo delle carte ritrovate. In quegli anni sostiene che il linguaggio va studiato non nella sua dimensione astratta (come di «ghiaccio puro») ma nei suoi usi pratici («la terra ferma»).
Spiega Gibson: «Da quest’archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po’ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l’idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell’uso ordinario del linguaggio, straordinariamente preciso e al contempo sorprendentemente arbitrario, vedeva somiglianze con la matematica pura avanzata. Nel solco delle Ricerche voleva indagare proprio i legami tra matematica e lingua, sostenendo che è dal loro incontro che deriva la logica. Che non si può estrarre dalla matematica soltanto, seguendo invece Russell e Frege». Che sia il Wittgenstein 2.1 o addirittura 3.0, resta la nuova entusiasmante puntata di un film teoretico dal finale ancora aperto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER KANT. IL RICONOSCIMENTO DI ARTHUR S. EDDINGTON
Federico La Sala
NEUROSCIENZE E FILOSOFIA: CRITICA DELLA RAGION PURA! Uscire dallo stato di minorità: Uscire bene fuori dalla coscienza, per capire di più e meglio il mondo - e la stessa coscienza .... *
Scienze.
Manzotti: «E se la coscienza non fosse dentro di noi?»
La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 4 febbraio 2020)
La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga. Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca.
La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25).
La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.
Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?
«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ’fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».
La sua proposta della ’mente allargata’ si presenta come ’rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?
«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è - cioè cellule, sangue, neuroni - diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».
Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?
«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ’strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».
Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?
«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO.
«LA RICERCA DELLA VERITÀ»: AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
Federico La Sala
Wittgenstein
Ciò che la parola non può dire si deve scrivere: Carlo Sini ci spiega perché
di Carlo Sini (l’Unità, 17.01.2013)
DICE WITTGENSTEIN NEL «TRACTATUS» CHE LE PROPOSIZIONI FILOSOFICHE SONO ILLUSTRAZIONI (ERLÄUTERUNGEN).Si potrebbe immaginare che le pagine che seguono, con la dovizia delle loro ingenue figurine, intendano prendere alla lettera, e certamente anche troppo alla lettera, il detto wittgensteiniano.
Le illustrazioni alle quali Wittgenstein si riferisce sono in realtà, nelle sue intenzioni, immagini logiche, non disegni; immagini logiche degli stati di cose che incontriamo o che potremmo incontrare nel mondo.
Il problema è quello dell’immagine in un senso logico-ontologico e non psicologico o empirico: il medesimo problema che Kant affronta nello schematismo trascendentale; e più in generale il problema della logica, sottratto alla miopia e ingenuità filosofica della mera disciplina formale. Il modo in cui Wittgenstein tratta nel Tractatus l’immagine logica fa giustizia di tutte le superficiali opposizioni tra figura e parola, oralità e scrittura, simbolo e concetto, razionale e irrazionale, intuizione e dimostrazione, fede e sapere e così via.
Per esempio Wittgenstein chiede come sia possibile che tratti di penna in forma di parole o veri e propri disegni possano significare qualcosa (in proposito l’esempio è “bastimento”); e poi come un semplice gesto vocale e non solo vocale possa a sua volta significare; e insomma che cosa sono i segni, quei segni che ci fanno pensare e che sono pensieri.
Il suo domandare, genialmente disorientante, di fatto torna al problema primo di tutta la filosofia, cioè a come si debba intendere che l’essere e il pensare si coappartengono, che siano tauton, il medesimo, pur nella loro palese diversità e differenza. Come si sa, la soluzione è etica, non teoretica, sicché tutto il Tractatus logico-philosophicus è letteralmente un esercizio, il cui fine è vedere rettamente il mondo entro il limite del linguaggio, onde evitare di «parlare a vanvera».
E in effetti come esercizio sono state immaginate anche le pagine seguenti, che furono dapprima una sorta di esperimento didattico universitario: un tipo inconsueto di dispensa di un corso di lezioni. Non un’esposizione lineare riassuntiva del discorso del professore, ma una libera disposizione di materiali, citazioni, commenti, riferimenti e infine schemi e figure in differenti e meditati luoghi e colori, le cui connessioni erano affidate al lavoro di ricostruzione dello studente.
Una sorta di «ideografia» (l’espressione, come si sa, è proprio di Wittgenstein) che considera un testo filosofico come un oggetto sul quale esercitare e affinare il proprio talento filosofico (e qui è ancora Kant che parla, poiché a filosofare, egli diceva, si impara soltanto con l’esercizio e usando autonomamente la ragione).
Se ricordiamo che pertanto in filosofia siamo continuamente bisognosi di esercizio, cioè siamo sempre principianti, potremmo, con un po’ di buona volontà e di autoironia, considerare questo libro come una sorta di abbecedario, di testo per la scuola elementare di filosofia, essendo in filosofia sempre in gioco appunto gli elementi, e anzi gli elementi primi, che mai nessuno però può pretendere di stabilire una volta per tutte e per tutti.
Figure di un abbecedario ma anche, dicevo nella prima versione del presente testo, qualcosa di simile ai segni di una partitura da eseguire nel pensiero, facendosi scorta di figure atte a orientare la memoria del lettore; figure che imitano l’ufficio, meravigliosamente spiegatoci da Ivan Illich1, delle miniature nelle pergamene medievali.
Proprio seguendo questa linea di pensieri, alla fine rivendico, al di là del tacere di Wittgenstein, un nuovo modo di intendere lo scrivere in filosofia, anche sulla scorta della espressione di Peirce che suona foglio-mondo. Non che queste pagine si propongano di realizzarlo, ove mai fosse davvero questo il problema; ne sono anzi, già dicevo anni fa, sideralmente lontane. Se nondimeno saranno riuscite a stimolare qualcosa di simile a una effettiva esperienza di pensiero, le loro molte imperfezioni potranno forse ottenere una benevola assoluzione da parte del lettore di buona volontà.