Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l’ha cambiata dicendo il contrario. Ricco e frugale, soldato ed eremita, matematico e irrazionale, fu l’uomo che disse: "Ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere". Ora, a sessant’anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un’altra volta
I segreti di Wittgentein
Il professore, il filosofo e l’archivio ritrovato
A Berlino una mostra di oggetti tra cui la leggendaria giacca di tweed grigio
Da Sotheby’s all’asta gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello
di Riccardo Staglianò (la Repubblica, 29.05.2011)
La circostanza più paradossale, per un ossesso del linguaggio come Wittgenstein, che ha nella sua scarna bibliografia l’inespugnabile Note sul colore, è che si almanacchi ora sulla natura cromatica di un suo scritto ritrovato. «Può essere, come no, l’opera mancante chiamata Libro rosa o Libro giallo che gli studiosi cercano da tempo», commenta Arthur Gibson, l’uomo che ha trascorso gli ultimi tre anni su un colossale archivio inedito di uno dei più complessi e decisivi filosofi del Ventesimo secolo. Il professore di Cambridge si riferisce a un quadernetto da scolaro dalla copertina rosata che contiene nuovi testi del logico viennese. Un oggetto del desiderio per gli specialisti, forse il seguito ideale - seppur anteriore - delle Ricerche filosofiche con cui nella seconda parte della sua vita aveva demolito il Tractatus logico-philosophicus.
Chissà come avrebbe commentato lui («su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») di fronte a questa confusione di tonalità. Tuttavia sarebbe contento del rinvenimento del tesoretto da 150mila parole che contiene, oltre alla perla suddetta, l’unica versione vergata a mano del Libro marrone, ovvero appunti delle sue lezioni a Cambridge a metà degli anni Trenta. Con una sessantina di pagine aggiuntive e un’introduzione rivista. Oltre a un migliaio di calcoli matematici in cui l’allievo poi contestatore di Bertrand Russell si misura anche con il Piccolo problema di Fermat, in una dimostrazione lunga sei metri se si mettessero in fila i fogli. «È come se si fosse creduto di conoscere tutto il Dna e venisse fuori che ce n’era ancora un quarto ignoto. Oppure scoprire sia nuove opere che diversi arrangiamenti di Puccini. Quando ho aperto quelle scatole sono rimasto senza parole», confessa il curatore, «un intero mondo di manoscritti mai letti prima che aprono uno squarcio sui suoi processi mentali. Confrontando versioni, correzioni e aggiunte è come vedere il suo cervello all’opera».
Uno spettacolo, considerato il titolare della testa. Con tanto di illustrazioni e glosse sugli appunti che dettava al suo amanuense, nonché giovane amante, Francis Skinner. Nello spartano studio nella Great Court, dove Wittgenstein insegnava e Newton aveva vissuto, non c’era nient’altro che una sedia a sdraio, una stufa e Francis. «Il suo ruolo intellettuale esce molto rafforzato da queste carte, erano uno lo specchio dell’altro» spiega Gibson, «nei suoi confronti il filosofo aveva una relazione quasi bipolare, tra fortissima vicinanza emotiva e rigetto. Un amore-odio che già aveva provato verso il padre miliardario e ingombrante. E il fratello Paul, pianista di genio nonostante avesse perso un braccio in guerra, che non amava la sua filosofia più di quanto lui sopportasse la sua musica. Il numero degli studenti che aveva cacciato dalle lezioni cresceva di giorno in giorno. Alla fine in classe era rimasto solo lui».
Quel che non riuscivano a fare all’università lo finivano a casa. Convivevano, nonostante l’omosessualità fosse reato. Studiavano russo e vagheggiavano di trasferirsi in Unione Sovietica, abbandonando la filosofia per darsi alla medicina o all’allevamento. Indifferentemente. Così, quando nel ’41 la poliomelite uccide l’allievo, il maestro rischia di impazzire. Considera di lasciare l’insegnamento. E per sbarazzarsi dei ricordi spedisce per posta i tre pacchi di appunti a Reuben Goodstein, amico di Francis e suo studente. «Questi si impegna», spiega Gibson consegnando a Repubblica la copia della lettera, «a contattare il filosofo se avesse trovato materiali pubblicabili. E oggi, di fronte a testi di tale importanza resta il mistero del perché non l’abbia fatto».
Qui la trama epistemologica si intorbidisce di umanissime pulsioni. Da una parte il custode era stato vicino a Skinner, dall’altra venerava Wittgenstein («sua moglie ne era tanto gelosa da proibire che se ne pronunciasse il nome in casa») e potrebbe aver sottovalutato per rivalità la rilevanza degli scritti. Così si spiegherebbe forse il lungo letargo ermeneutico, continuato anche quando nel ’76 li affiderà alla Mathematical Association. Per concludersi infine negli ultimi anni, con la presa in cura di Gibson al Trinity College.
Nel sessantennale della sua morte lo Schwules Museum di Berlino gli dedica una mostra piena di diari e oggetti, compresa la leggendaria giacca di tweed grigio di tante foto, mentre Sotheby’s batte a quattromila sterline di base d’asta anche gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello.
Pochi pensatori possono vantare inversioni a U tanto radicali e tuttavia convincenti nel proprio tragitto intellettuale. Il Wittgenstein 1.0, quello del Tractatus (1921), studia la lingua come modo per conoscere. Solipsisticamente dice: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Al di fuori non c’è niente, dal momento che non si può dire. Il Wittgenstein 2.0 invece si concentra sulla sua natura più sociale, di strumento di comunicazione. è come se fosse uscito dalle trincee della Grande guerra e dal campo di prigionia italiano dove aveva terminato il Tractatus per mischiarsi col mondo.
Molte delle riflessioni che poi confluiranno postume nelle Ricerche (1953) sono concepite nello stesso periodo delle carte ritrovate. In quegli anni sostiene che il linguaggio va studiato non nella sua dimensione astratta (come di «ghiaccio puro») ma nei suoi usi pratici («la terra ferma»).
Spiega Gibson: «Da quest’archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po’ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l’idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell’uso ordinario del linguaggio, straordinariamente preciso e al contempo sorprendentemente arbitrario, vedeva somiglianze con la matematica pura avanzata. Nel solco delle Ricerche voleva indagare proprio i legami tra matematica e lingua, sostenendo che è dal loro incontro che deriva la logica. Che non si può estrarre dalla matematica soltanto, seguendo invece Russell e Frege». Che sia il Wittgenstein 2.1 o addirittura 3.0, resta la nuova entusiasmante puntata di un film teoretico dal finale ancora aperto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER KANT. IL RICONOSCIMENTO DI ARTHUR S. EDDINGTON
Federico La Sala
RIFLESSIONI SULL’OCULISTICA TEOLOGICO-POLITICA:
SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT) E RICONSIDERARE IL PROGRAMMA DI RICERCA DI #WITTGENSTEIN: USCIRE DALLA #CAVERNA, DALLA TRAPPOLA POLIFEMICA DEL #CINEFORUM PLATONICO, E DALL’#INFERNO EPISTEMOLOGICO ...
IL #SOGGETTO "METAFISICO" ("TEOLOGICO-POLITICO") C’E’... MA NON SI VEDE!
«Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 632); «Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico?. Tu dici che qui sia proprio così come nel caso dell’occhio e del campo visivo. Ma l’occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.» ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 633).
#VISIONE, #DESIDERIO, E #ANTROPOLOGIA DELLA #COMUNICAZIONE: UNA "MEMORIA" DI #MARSHALLMCLUHAN. "[...] Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana. Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: "M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io". Noi abbiamo ceduto questi "punti d’appoggio" a società private [...]" ( "Gli strumenti del comunicare", Milano, Il Saggiatore, 1967 ).
Le parole della cura e la cura delle parole
di Agostino Racalbuto *
“Le parole della cura e la cura delle parole. E già, perché per reperire parole che curano è fondamentale avere cura delle parole, conoscerle, distinguere la specificità di ognuna di esse, viverne la trama affettiva, conservarle nel loro ampio potenziale di significazione. «Leggere» le parole della psicoanalisi è un tema fondamentale per ogni psicoanalista, a partire dalla lettura dei testi di Freud. Così come scrivere. Freud ha infatti potuto parlare della sua esplorazione dell’inconscio e del lavoro della cura solo a condizione di poterci testimoniare e trasmettere la sua familiarità e la sua sensibilità nei confronti delle parole.
Faccio riferimento a quella sensibilità che permette di ascoltare, di ascoltare in senso psicoanalitico.
Questo tipo di ascolto potrebbe essere forse un’invariante fra l’accaduto in seduta e il resoconto clinico, come se in entrambe le situazioni occorre contattare e «ascoltare» l’inconscio (ascoltarsi) per poter procedere nel recupero di emozioni, affetti, pensieri e parole appropriate a significare l’esperienza. Si presume possa infatti essere rintracciata un’analoga sensibilità di ascolto, quella con i propri pazienti in seduta e quella che, in un diverso contesto, ha presieduto alla scrittura di un lavoro psicoanalitico. O anche quella che occorre in fondo per leggerlo. Come se per scrivere, e per leggere, occorresse ascoltarsi, dicevo in un altro lavoro, e ascoltare quelle «voci» che, in una dialettica interna, ci permettono di pensare, di evocare immagini, di suggerire ritmi, di aprire a certe associazioni e non ad altre, di inventare le «forme» più appropriate per esprimere ciò che le parole vogliono dire.
La qualità e l’efficacia della comunicazione dipendono da come si ascoltano e si trascrivono le «voci» interne che presiedono ai nostri pensieri nella scrittura, da ciò che ne fa cioè un discorso «vivo»”.
* Agostino Racalbuto, "Le parole della cura e la cura delle parole",
in "Rivista di Psicoanalisi", 2004, (50)(Supplemento), pag. 275, 276.
Le parole della cura e la cura delle parole
di Agostino Racalbuto *
“Le parole della cura e la cura delle parole. E già, perché per reperire parole che curano è fondamentale avere cura delle parole, conoscerle, distinguere la specificità di ognuna di esse, viverne la trama affettiva, conservarle nel loro ampio potenziale di significazione. «Leggere» le parole della psicoanalisi è un tema fondamentale per ogni psicoanalista, a partire dalla lettura dei testi di Freud. Così come scrivere. Freud ha infatti potuto parlare della sua esplorazione dell’inconscio e del lavoro della cura solo a condizione di poterci testimoniare e trasmettere la sua familiarità e la sua sensibilità nei confronti delle parole.
Faccio riferimento a quella sensibilità che permette di ascoltare, di ascoltare in senso psicoanalitico.
Questo tipo di ascolto potrebbe essere forse un’invariante fra l’accaduto in seduta e il resoconto clinico, come se in entrambe le situazioni occorre contattare e «ascoltare» l’inconscio (ascoltarsi) per poter procedere nel recupero di emozioni, affetti, pensieri e parole appropriate a significare l’esperienza. Si presume possa infatti essere rintracciata un’analoga sensibilità di ascolto, quella con i propri pazienti in seduta e quella che, in un diverso contesto, ha presieduto alla scrittura di un lavoro psicoanalitico. O anche quella che occorre in fondo per leggerlo. Come se per scrivere, e per leggere, occorresse ascoltarsi, dicevo in un altro lavoro, e ascoltare quelle «voci» che, in una dialettica interna, ci permettono di pensare, di evocare immagini, di suggerire ritmi, di aprire a certe associazioni e non ad altre, di inventare le «forme» più appropriate per esprimere ciò che le parole vogliono dire.
La qualità e l’efficacia della comunicazione dipendono da come si ascoltano e si trascrivono le «voci» interne che presiedono ai nostri pensieri nella scrittura, da ciò che ne fa cioè un discorso «vivo»”.
* Agostino Racalbuto, Le parole della cura e la cura delle parole, in Rivista di Psicoanalisi, 2004, (50)(Supplemento), pag. 275, 276
Del coraggio. L’abc di Wittgenstein
di Federico Ferrari (Antinomie, 16/11/2020) *
Pensare significa avere coraggio. Affrontare le proprie paure, il proprio fondo di inautenticità. Non farsi mai sconti e, indifferenti al quieto vivere, non farli nemmeno agli altri. C’è della crudeltà nel coraggio, una forma di doloroso accanimento. L’impossibilità di tacere, di non dire esattamente quel che va detto, costi quel che costi. Il coraggio si paga. Rovina i rapporti umani. Spinge nella solitudine. Ma il coraggio ci rende un po’ meno pagliacci di quel che naturalmente siamo. Ci offre l’opportunità di diventare uomini e donne decenti - ein anständiger Mensch, scrive Wittgenstein, concependo il pensiero come un impietoso autosmascheramento. Il coraggio e la decenza sono due facce di una medesima medaglia. L’indecenza di ogni tempo nasce dalla mancanza di coraggio. Politici senza coraggio, intellettuali senza coraggio, uomini senza coraggio: la fine di una civiltà.
Poco importa se la lotta coraggiosa per difendere la propria dignità, le proprie idee, la propria esistenza non porterà a nulla, non cambierà il mondo. Il mondo non cambierà mai davvero. Il mondo è solo l’eterno confronto e scontro tra pavidi e coraggiosi. Tra coloro che salgono sul carro dei vincitori, in cerca di consenso, e coloro che percorrono il tempo sempre controvento, in cerca di se stessi. Questo scontro avviene in ogni luogo, in ogni momento e sempre, anche, in noi stessi.
La cosa più difficile non è essere all’altezza del mondo, ma all’altezza di se stessi. E’ abbastanza semplice non deludere gli altri. Molto più complesso non deludere se stessi. Pensare, dire, a volte, tacere coraggiosamente è un modo di darsi dignità, un modo di riconoscere la propria irripetibile unicità.
La dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere. Il resto è vanità.
* Questo testo è solo un eco (e un ricordo riconoscente) della prefazione di Aldo G. Gargani ai Diari segreti di Ludwig Wittgenstein (Laterza, 1987), letti molti anni fa e mai dimenticati..
CINEMA, PLATONISMO, E COSTITUZIONE.
L’occhio di Wenders
di Felice Cimatti (Fata Morgana web, 25 Aprile 2022)
«L’occhio» scriveva Jacques Lacan in un breve testo del 1961 dedicato a Maurice Merleau-Ponty, «è fatto proprio per non vedere» (Lacan 2013, p. 183). L’occhio, ovviamente, vede, tuttavia questo non vuol dire che sia fatto per vedere, nel senso usuale del verbo “vedere”. Il vedere, nella nostra tradizione, è il gesto sovrano attraverso cui il corpo del soggetto percettivo prende possesso del mondo; infatti, nella vista l’umano “abbraccia” con lo sguardo il campo del visibile che si offre a lui in tutta la sua estensione. Così lo spettacolo del mondo è l’oggetto che corrisponde al soggetto che lo contempla. Da notare che la posizione del soggetto dello sguardo è esterna rispetto a ciò che sta osservando, come se occupasse da una posizione privilegiata (secondo il Dizionario online Treccani vedere significa appunto “percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva”). Chi vede è nel mondo, ma come se, in fondo, non ne facesse parte in senso proprio. C’è il mondo, e c’è chi lo vede, il soggetto.
Questo radicale dualismo produce, tuttavia, un effetto inaspettato, e forse è proprio riferendosi a questo effetto che Lacan può sostenere che l’occhio non è fatto per vedere: siccome l’occhio che guarda non ritiene di fare parte del mondo che sta osservando, ne segue che quello stesso occhio, alla fine, non riesce a partecipare veramente a ciò che vede: quest’occhio sovrano finisce per essere un occhio disattento perché troppo lontano da ciò che sta vedendo. Come dice in un’intervista Wim Wenders: «Senza dubbio l’intorpidimento del pubblico si sta estendendo; e i film diventano sempre meno “visibili”, per così dire. Non è un caso che l’ironia o le sottigliezze siano merce sempre più rara. E questo deriva dalla sazietà, dalla mole delle immagini riversate sul pubblico, dal fatto che ascoltando e guardando troppo, tutte le nostre impressioni vengono eccitate al massimo. Ogni genere di complessità, di diversità viene spazzato via» (Wenders 2022, p. 30).
Per vedere la complessità serve tempo, attenzione, pazienza, soprattutto vicinanza. Qualità che l’occhio sovrano non si può permettere, ché anzi può dirsi sovrano solo se rifiuta ogni vicinanza con ciò che sta vedendo. In questo senso il vedere in senso proprio, il vedere tattile, ravvicinato, che si “sporca” con il visibile, è al contrario un vedere che si lascia trasformare da ciò che vede. Si tratta di un vedere che non sa già in anticipo che cosa è che si sta vedendo, un vedere, cioè, che è tanto più libero quanto più è disposto a rinunciare alla posizione esterna e sovrana che, invece, qualifica il vedere che si colloca fuori del visibile. Il cinema, per Wenders, è appunto questo esperimento in cui qualcosa si offre alla vita, ma senza predeterminare che cos’è che si sta offrendo alla vista:
Si tratta di offrire qualcosa alla vista dello spettatore, evitando però che quanto si offre sia così saturo di “visibile” - così pieno di immagini, di sequenze visive, di potenza immaginaria - da impedire, paradossalmente, di vederlo. Il cineasta, per Wenders, lavora con il visibile, ma non per guidare lo sguardo dello spettatore, al contrario, per liberarlo dall’illusione della visione sovrana, piena di sé, lontana e supponente. La posta in gioco è liberare lo sguardo. O, per usare ancora la curiosa formula lacaniana, per liberarlo dalla credenza che l’occhio sia fatto per vedere. È per questa ragione che per Wenders il cinema è così legato alla contingenza, perché il bisogno di evitare la «manipolazione» non vale solo nei confronti dello spettatore, ma anche del regista rispetto al “proprio” stesso film: «Ogni giorno, mi trovo con la macchina da presa in un luogo determinato che mi dà qualcosa, sono profondamente legato, anche esposto, a una realtà che mi nutre. C’è sempre un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa, c’è qualcuno dietro la macchina da presa, ci sono colori e forme, c’è sempre una realtà presente» (ivi, pp. 57-58). In questo senso il vedere non sovrano, distaccato e dualistico, è un vedere tattile, sempre esposto all’urto imprevedibile con un evento fortuito: «Un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa».
L’occhio, per Wenders, vede solo se tocca ed è toccato. Solo se, per così dire, si lascia sporcare dal visibile. Allo stesso tempo questo vedere tattile, da scultore più che da pittore, richiede un continuo esercizio di allontanamento dal rischio di assumere una posizione definitiva sul mondo: se il soggetto sovrano è fuori dal mondo, il vedere alla Wenders è un vedere mobile, vagabondo, irrequieto, perché il visibile è sempre più ricco del nostro bisogno di fissarlo in un’immagine, per quanto splendida e definitiva:
Per «poter vedere» occorre allontanarsi dal visibile, ma anche ritornarci. Si tratta di un vedere che riesce propriamente a vedere solo nel movimento fra queste due posizioni, solo oscillando fra partire e tornare, così come una mano, per esplorare un oggetto, lo deve percorrere in tutte le dimensioni. Wenders, così, può rimanere fedele all’esigenza fondamentale di non manipolare lo sguardo dello spettatore solo “costringendolo” (ed è curioso, perché anche questa è una forma di manipolazione) a non fermarsi su un’immagine, solo facendolo “viaggiare” fra le immagini. Si tratta sempre della stessa operazione, rinunciare alla posizione sovrana dello sguardo, rinunciare al proprio potere di tirarsi fuori dal mondo. Si tratta di stare nel mondo, raccontandolo attraverso le immagini. Si tratta, in sostanza, di mettere in movimento le cose, cioè, appunto, liberarle dalla fissità a cui lo sguardo sovrano le costringe:
«Come fare per mettere in movimento le cose?», è questa la domanda fondamentale, e non solo per il cinema di Wenders. Una domanda del tutto analoga a quest’altra: come fare per tornare a vedere il mondo? E quindi, rovesciandola? Che posizione deve assumere il soggetto dello sguardo sovrano perché il mondo possa farsi vedere? In effetti, come dice Wenders, «le città hanno reso invisibile la terra» (ivi, p. 136), ossia, il nostro modo di vedere il mondo come se fosse il nostro mondo, cioè come nient’altro che l’oggetto della nostra sovrana potenza visiva, ha finito per rendere invisibile la terra. Si tratta di invertire questo movimento, restituire la visibilità al mondo, e quindi destituire la posizione privilegiata dello sguardo umano sul mondo:
Torniamo, allora, alla paradossale affermazione di Lacan, di un occhio che non è fatto per vedere, al contrario, di un occhio che deve lasciare al mondo la possibilità di farsi vedere e, soprattutto, di un occhio che si destituisce affinché sia il mondo stesso a vedere. Lo sguardo sovrano vede cose, vede e costruisce oggetti: l’occhio di Wenders, invece, cerca - facendo muovere le cose - di immaginare il movimento contrario; così, parlando ad un congresso di architetti, li esorta a «creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro» (ivi, p. 137). Vedere il vuoto, cioè vedere il vuoto non come assenza di qualcosa, bensì vedere il vuoto come presenza, come pienezza di mondo e di vita: «Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, prenderne le distanze» (ivi, p. 72). A che il mondo sia, a questo serve l’occhio. "L’atto di vedere" di Wim Wenders
NOTA:
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO" DI COURBET. Due note
"PERVERSIONI". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
In cammino con Dante/24. Nella Regola il mito del Dante cristiano
Nei canti XXI e XXII del Paradiso insieme alla figura di Benedetto da Norcia si intrecciano quelle di san Romualdo e san Pier Damiani, due grandi anacoreti e riformatori della Chiesa
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 29 agosto 2021)
I versi eponimi
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano
(Paradiso XXI, 118-121)
Alla simmetria dei canti XI e XII del Paradiso, celebri per il doppio elogio di san Francesco e san Domenico, corrisponde, più in alto ancora nella scala Paradisi, il ritratto di san Pier Damiani e san Benedetto, ai canti XXI e XXII. Dopo aver tracciato le origini dell’ordine francescano e domenicano, Dante evoca ora, nel cielo di Saturno, le origini dei camaldolesi di Fonte Avellana e san Pier Damiani, e poi di san Romualdo e san Benedetto e del suo ordine che fu modello per lunghi secoli, nella stabilitas loci, di operosa conciliazione tra la preghiera e le opere.
È indubbio che Dante, estremamente severo sulla corruzione della Chiesa secolare del proprio tempo, non disdegnando di condannare papi all’inferno, sia molto sensibile alla linfa che alla stessa è venuta dagli ordini regolari, dei quali, nei canti citati, richiama le origini e celebra i fondatori. E il poeta stesso enfatizza questo ruolo privilegiato di ordini chiamati alla contemplazione, collocando proprio in quel cielo di Saturno la ’scala di Giacobbe’: «Vidi anche per li gradi scender giuso / tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume /che par nel ciel, quindi fosse diffuso» (Par., XXI, 31-33), secondo il racconto della Genesi: «Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: ’Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza’» (Gen., 28, 1013).
L’evocazione è fatta proprio perché quel simbolo è posto da san Benedetto alla base stessa della propria Regola: «E dunque, o fratelli, se vogliamo toccare la cima dell’eccelsa umiltà, e giungere a quella celeste esaltazione, a cui si ascende per l’umiltà della presente vita, e a condurre in alto le nostre azioni, è necessario innalzare quella scala, che apparve in sonno a Giacobbe, per la quale si mostravano a lui gli angeli scendere e salire. Quel discendere e salire non va da noi inteso in altro modo, se non che si discende coll’esaltarsi, e si sale su coll’umiliarsi» (Regula sancti Benedicti, cap. VII: De humilitate, 5-7).
È una dimensione nuova dell’ordine celeste, l’ordine della contemplazione, come aveva illustrato Cromazio d’Aquileia: «E fu mostrata quella scala di Giacobbe, la cui cima dalla terra toccava il cielo, attraverso la quale chi vi ascenda trova la porta del cielo, e varcandone la soglia, senza fine rimarrà in letizia al cospetto di Dio e lo loderà in eterno con tutti gli angeli» (Sermo de octo beatitudinibus, IX; in PL, 20, 328A).
La presentazione dantesca avviene, in questi due canti, in ordine cronologico inverso, iniziando da san Pier Damiani per terminare col fondatore e radice di tutti i rami del monachesimo benedettino, e cioè san Benedetto stesso. I termini geografici entro i quali Pier Damiani (Ravenna, 1007 - Faenza, 1072) incornicia la propria vicenda spirituale, incentrata su Fonte Avellana: «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi, / e non molto distanti a la tua patria, / tanto che ’ troni assai suonan più bassi, // e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consecrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria» (XXI, 106-111), sono simili e con pari solennità enunciati, a quelli con cui viene presentato san Francesco: «Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d’alto monte pende » (XI, 43-45).
Ma la ragione della predilezione dantesca è forse altra, e cioè l’avere il santo saputo unire vita contemplativa e vita attiva, rinunciando, dopo gli anni di priorato a Fonte Avellana (1043-1057), alla vita romita per divenire consigliere di papa Stefano IX, vescovo di Ostia e cardinale: «Poca vita mortal m’era rimasa, / quando fui chiesto e tratto a quel cappello / che pur di male in peggio si travasa » (XXI, 124-126), impegnandosi in una delle battaglie per Dante più essenziali all’avvenire della Chiesa, e cioè la lotta contro la simonia delle cariche. E tanto si legge anche nei primi Testimonia de vita Beati Petri Damiani ove si ricordano a un tempo le opere ascetiche e quelle riformatrici come il De avaritia praelatorum, e Contra episcopos simoniacos (PL, 144, 187C) che non potevano che essere care a Dante, ribadite nel suo polemico elogio: «Venne Cefàs e venne il gran vasello / de lo Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello. // Or voglion quinci e quindi chi rincalzi / li moderni pastori e chi li meni, / tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. // Cuopron d’i manti loro i palafreni, / sì che due bestie van sott’ una pelle: / oh pazïenza che tanto sostieni!» (XXI, 127-135). E soprattutto ammirabile appare, infine, nel suo uscire dagli onori e dalle pompe del mondo, dimessosi da tutte le cariche, ritornando (nel 1067) al monastero di Fonte Avellana: «episcopatui cessit, ut Deo liberius vacaret » (PL, 144, 188A).
Il desiderio di identificazione per Dante è tale che, nell’esprimerlo: «Io stava come quei che ’n sé repreme / la punta del disio, e non s’attenta / di domandar, sì del troppo si teme» (XXII, 25-27), si appropria delle parole stesse di Pier Damiani: «et in divinae contemplationis acumen totum desiderii sui figens affectum, gaudens, gaudet in Domino » (Sermones XXIX ; PL, 144, 661). Non diverso è il manifestarsi del fondatore di tutte quelle rinascite, san Benedetto, anch’esso ritratto tra i monti ove ancora vigevano culti pagani: «Quel monte a cui Cassino è ne la costa / fu frequentato già in su la cima / da la gente ingannata e mal disposta; // e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima» (XXII, 37-42). Dante qui segue fedelmente la Vita di Benedetto nei Dialogi di Gregorio Magno, in un elogio vigoroso di quella firmitas su cui è fondata ogni durata: «Qui è Maccario, qui è Romoaldo, / qui son li frati miei che dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» (XXII, 49-51). ’Fermar li piedi e tenner il cor saldo’: questo è il credere di Dante e, non meno, la sua visione della Chiesa: «ma Cristiani, in ferma fede » (Par., XX, 104).
LA SCALA DI WITTGENSTEIN, IL MANICOMIO, E LA SOVRANITA’ DI ARTAUD... *
Antonin Artaud (1896-1948), Poesie scelte, traduzione e commento di Marie Laure Colasson,
La crudeltà della parola
Un aneddoto.
Una sera mentre era internato in un manicomio psichiatrico (alla fine della sua vita che durò nove anni), Artaud si cala dal muro di cinta alla ricerca della libertà perduta. A un certo punto, ritorna al manicomio scalando all’incontrario il muro. Dei poliziotti accorgendosi dello scalatore vogliono arrestarlo. E lui risponde: “ma io sto tornando al manicomio, sono un pazzo”. Ho narrato questo aneddoto in quanto ci dà un profilo del geniale sovversivo, nero, Antonin Artaud il quale ha una importanza fondamentale per la poesia che prenderà corpo nel corso del novecento, una poiesis che fa della immaginazione il perno attorno al quale si può costruire una poesia moderna.
Per Deleuze l’immaginazione non è una facoltà della mente, ma una collezione di idee: «collezione senza album, messa in scena senza teatro, o anche flusso delle percezioni»;1 dunque, non qualcosa che funzioni seguendo un ordine, ma un processo delirante, libero, al quale le idee partecipano. E che cos’è l’idea? In questo senso, non è nient’altro che il dato, l’esperienza: un’impressione nell’immaginazione.
Per il tramite della immaginazione «la letteratura (ormai sarebbe meglio dire la scrittura), rifiutandosi di assegnare al testo (e al mondo come testo) un «segreto», cioè un senso ultimo, libera un’attività che potremmo chiamare contro-teologica, o meglio rivoluzionaria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale sostanzialmente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge. [...] Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Autore».2
1 G. Deleuze, Empirismo e soggettività, Orthotes, Napoli-Salerno, 2018, p. 13
2 R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988, p. 55
NOTE:
CUM GRANO SALIS (#KANT/#FOUCAULT, 1784/1984). BRILLANTISSIMO #ARTAUD! SUL SALIRE E SCENDERE (#DANTE2021), CONSIDERARE ANCHE LA LEZIONE DI #WITTGENSTEIN ("Tractatus", 6.54).
FLS
Del coraggio. L’abc di Wittgenstein
di Federico Ferrari *
Pensare significa avere coraggio. Affrontare le proprie paure, il proprio fondo di inautenticità. Non farsi mai sconti e, indifferenti al quieto vivere, non farli nemmeno agli altri. C’è della crudeltà nel coraggio, una forma di doloroso accanimento. L’impossibilità di tacere, di non dire esattamente quel che va detto, costi quel che costi. Il coraggio si paga. Rovina i rapporti umani. Spinge nella solitudine. Ma il coraggio ci rende un po’ meno pagliacci di quel che naturalmente siamo. Ci offre l’opportunità di diventare uomini e donne decenti - ein anständiger Mensch, scrive Wittgenstein, concependo il pensiero come un impietoso autosmascheramento. Il coraggio e la decenza sono due facce di una medesima medaglia. L’indecenza di ogni tempo nasce dalla mancanza di coraggio. Politici senza coraggio, intellettuali senza coraggio, uomini senza coraggio: la fine di una civiltà.
Poco importa se la lotta coraggiosa per difendere la propria dignità, le proprie idee, la propria esistenza non porterà a nulla, non cambierà il mondo. Il mondo non cambierà mai davvero. Il mondo è solo l’eterno confronto e scontro tra pavidi e coraggiosi. Tra coloro che salgono sul carro dei vincitori, in cerca di consenso, e coloro che percorrono il tempo sempre controvento, in cerca di se stessi. Questo scontro avviene in ogni luogo, in ogni momento e sempre, anche, in noi stessi.
La cosa più difficile non è essere all’altezza del mondo, ma all’altezza di se stessi. E’ abbastanza semplice non deludere gli altri. Molto più complesso non deludere se stessi. Pensare, dire, a volte, tacere coraggiosamente è un modo di darsi dignità, un modo di riconoscere la propria irripetibile unicità.
La dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere. Il resto è vanità.
Questo testo è solo un eco (e un ricordo riconoscente) della prefazione di Aldo G. Gargani ai Diari segreti di Ludwig Wittgenstein (Laterza, 1987), letti molti anni fa e mai dimenticati.
* Fonte: Antinomie, 24/11/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
NEUROSCIENZE E FILOSOFIA: CRITICA DELLA RAGION PURA! Uscire dallo stato di minorità: Uscire bene fuori dalla coscienza, per capire di più e meglio il mondo - e la stessa coscienza .... *
Scienze.
Manzotti: «E se la coscienza non fosse dentro di noi?»
La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 4 febbraio 2020)
La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga. Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca.
La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25).
La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.
Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?
«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ’fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».
La sua proposta della ’mente allargata’ si presenta come ’rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?
«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è - cioè cellule, sangue, neuroni - diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».
Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?
«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ’strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».
Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?
«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO.
«LA RICERCA DELLA VERITÀ»: AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
Federico La Sala
Wittgenstein
Ciò che la parola non può dire si deve scrivere: Carlo Sini ci spiega perché
di Carlo Sini (l’Unità, 17.01.2013)
DICE WITTGENSTEIN NEL «TRACTATUS» CHE LE PROPOSIZIONI FILOSOFICHE SONO ILLUSTRAZIONI (ERLÄUTERUNGEN).Si potrebbe immaginare che le pagine che seguono, con la dovizia delle loro ingenue figurine, intendano prendere alla lettera, e certamente anche troppo alla lettera, il detto wittgensteiniano.
Le illustrazioni alle quali Wittgenstein si riferisce sono in realtà, nelle sue intenzioni, immagini logiche, non disegni; immagini logiche degli stati di cose che incontriamo o che potremmo incontrare nel mondo.
Il problema è quello dell’immagine in un senso logico-ontologico e non psicologico o empirico: il medesimo problema che Kant affronta nello schematismo trascendentale; e più in generale il problema della logica, sottratto alla miopia e ingenuità filosofica della mera disciplina formale. Il modo in cui Wittgenstein tratta nel Tractatus l’immagine logica fa giustizia di tutte le superficiali opposizioni tra figura e parola, oralità e scrittura, simbolo e concetto, razionale e irrazionale, intuizione e dimostrazione, fede e sapere e così via.
Per esempio Wittgenstein chiede come sia possibile che tratti di penna in forma di parole o veri e propri disegni possano significare qualcosa (in proposito l’esempio è “bastimento”); e poi come un semplice gesto vocale e non solo vocale possa a sua volta significare; e insomma che cosa sono i segni, quei segni che ci fanno pensare e che sono pensieri.
Il suo domandare, genialmente disorientante, di fatto torna al problema primo di tutta la filosofia, cioè a come si debba intendere che l’essere e il pensare si coappartengono, che siano tauton, il medesimo, pur nella loro palese diversità e differenza. Come si sa, la soluzione è etica, non teoretica, sicché tutto il Tractatus logico-philosophicus è letteralmente un esercizio, il cui fine è vedere rettamente il mondo entro il limite del linguaggio, onde evitare di «parlare a vanvera».
E in effetti come esercizio sono state immaginate anche le pagine seguenti, che furono dapprima una sorta di esperimento didattico universitario: un tipo inconsueto di dispensa di un corso di lezioni. Non un’esposizione lineare riassuntiva del discorso del professore, ma una libera disposizione di materiali, citazioni, commenti, riferimenti e infine schemi e figure in differenti e meditati luoghi e colori, le cui connessioni erano affidate al lavoro di ricostruzione dello studente.
Una sorta di «ideografia» (l’espressione, come si sa, è proprio di Wittgenstein) che considera un testo filosofico come un oggetto sul quale esercitare e affinare il proprio talento filosofico (e qui è ancora Kant che parla, poiché a filosofare, egli diceva, si impara soltanto con l’esercizio e usando autonomamente la ragione).
Se ricordiamo che pertanto in filosofia siamo continuamente bisognosi di esercizio, cioè siamo sempre principianti, potremmo, con un po’ di buona volontà e di autoironia, considerare questo libro come una sorta di abbecedario, di testo per la scuola elementare di filosofia, essendo in filosofia sempre in gioco appunto gli elementi, e anzi gli elementi primi, che mai nessuno però può pretendere di stabilire una volta per tutte e per tutti.
Figure di un abbecedario ma anche, dicevo nella prima versione del presente testo, qualcosa di simile ai segni di una partitura da eseguire nel pensiero, facendosi scorta di figure atte a orientare la memoria del lettore; figure che imitano l’ufficio, meravigliosamente spiegatoci da Ivan Illich1, delle miniature nelle pergamene medievali.
Proprio seguendo questa linea di pensieri, alla fine rivendico, al di là del tacere di Wittgenstein, un nuovo modo di intendere lo scrivere in filosofia, anche sulla scorta della espressione di Peirce che suona foglio-mondo. Non che queste pagine si propongano di realizzarlo, ove mai fosse davvero questo il problema; ne sono anzi, già dicevo anni fa, sideralmente lontane. Se nondimeno saranno riuscite a stimolare qualcosa di simile a una effettiva esperienza di pensiero, le loro molte imperfezioni potranno forse ottenere una benevola assoluzione da parte del lettore di buona volontà.
I “cartigli” di Carlo Sini
di Rocco Ronchi (Doppiozero, 01 aprile 2021)
Perché il filosofo, ad un certo punto, si mette a disegnare? Di chi sta schizzando il ritratto? Uso l’espressione generalissima “filosofo”, sebbene intenda un ben determinato filosofo, Carlo Sini, perché il problema sollevato da Sini è il problema stesso della filosofia o, meglio, è la filosofia come problema per la filosofia. -Il suo problema è la “pietra di inciampo” (próblema) del “filosofico” come tale, in quel tempo, il nostro, in cui non è più possibile essere filosofi ingenuamente, senza porsi cioè la domanda critica sul diritto che la filosofia di ogni epoca ha sempre reclamato per sé: essere il luogo privilegiato in cui il sapere, tutto il sapere umano, viene infine a comprendersi. Quel certo punto in cui il filosofo si mette a disegnare “cartigli” è sia un punto della biografia intellettuale di Carlo Sini sia - ed è indubbiamente “per noi” il punto più rilevante - un punto della “autobiografia” della stessa pratica filosofica. Per quanto riguarda il primo punto lo localizzerei con una certa sicurezza negli anni ‘90 del secolo scorso. La sua più precisa e compiuta formalizzazione teorica è contenuta nelle pagine conclusive di Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, apparso per Laterza nel 1997. Sostanzialmente quel libro definisce l’orizzonte nel quale fino ad oggi si è mantenuta la riflessione di Sini.
Per datare, invece, quel punto relativamente alla “storia dell’essere” bisogna invece risalire molto più indietro nel tempo. Correndo il rischio di una certa arbitrarietà, ma affidandomi a indicazioni tratte dallo stesso Sini, lo collocherei idealmente «negli anni del grande bilancio e dell’ultimo cammino di Nietzsche», il biennio 1886-1887. Sono le pagine memorabili della Genealogia della morale (1887) in cui Nietzsche afferma che «noi uomini della conoscenza» siamo «ignoti a noi medesimi», che noi per noi stessi abdichiamo proprio a quella conoscenza che rivendichiamo come nostra dote essenziale. La domanda nietzscheana concerne la comprensione di ciò che facciamo in quanto uomini dediti disinteressatamente alla verità, in quanto “scienziati” nel senso più generale e più nobile di questo lemma. Quando la verità diventa problema per se stessa - perché è la nostra onestà scientifica, scrive Nietzsche, che ci fa dubitare della nostra «volontà di verità» - si pone, ineludibile, il problema della sua raffigurabilità. «Chi siamo noi in realtà?», chiede Nietzsche: ecco la domanda per rispondere alla quale ad un certo punto Carlo Sini si è messo a tracciare dei “cartigli” sconcertando, non poco, i suoi colleghi che ancora oggi non sanno bene come interpretare quei fogli scritti a mano in vari colori e costellati di miniature tanto eleganti quanto ostentatamente e orgogliosamente infantili nella loro ispirazione.
A riprova della centralità di Nietzsche nel percorso intellettuale di Sini, ricordo che il suo arrivo alla Università Statale di Milano, a metà degli anni 70, fu segnato proprio da un leggendario corso sul filosofo tedesco. Il suo “libro” interamente realizzato nella forma del cartiglio è quello dedicato, non a caso, al Tractatus di Wittgenstein che EGEA ha pubblicato nel 1994 (Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio). Dico “non a caso” perché quell’insolito libro è tutto imperniato sulla domanda witggensteiniana circa la raffigurabilità della verità. “Noi ci facciamo immagini dei fatti”, scrive Wittgenstein (Tractatus, 2.1) “e qui - commenta Sini in stampatello rosso - si apre improvvisa la grande voragine”.
La domanda iniziale si può porre in altri termini. Perché la filosofia, a un certo punto della sua storia, nel punto della sua “crisi”, esorbita dal testo, perché rinnovando un sospetto antico quanto lei diffida della sua modalità di comunicazione privilegiata, vale a dire la scrittura fonetica alfabetica, perché giudica severamente il Libro, grazie al quale per altro esiste e si tramanda, perché, infine, per essere fedele a se stessa è tentata da altre vie espressive? Perché, si potrebbe aggiungere, si trova così a disagio nelle aule universitarie preposte al suo insegnamento? Nietzsche rifiuta la carriera accademica che gli si era aperta in giovanissima età. Molti tra i filosofi che hanno segnato la modernità, da Marx a Kierkegaard, sono stati liberi pensatori allergici alla istituzione. Sini è stato invece un prestigioso professore dell’università italiana. Le sue lezioni milanesi sono rimaste impresse nella memoria degli studenti che affollavano fino all’inverosimile l’aula in cui teneva i suoi corsi. Il suo successo ha generato invidie che nemmeno il pensionamento ha tacitato del tutto. Tuttavia un leit-motiv dell’insegnamento universitario di Sini era la critica della filosofia “accademica”, intendendo con questo aggettivo non semplicemente il “dogmatico” e lo “scolastico” - quale professore, dopotutto, non inaugura il suo corso senza una retorica rivendicazione della propria autonomia intellettuale rispetto ad un qualche presunto “dogmatismo” - ma si riferiva alla forma stessa della comunicazione filosofica.
Se infatti a qualificare il moderno è la messa in questione del valore della verità, lo è anche inevitabilmente la problematizzazione radicale delle modalità della sua comunicazione. Il problema filosofico, cioè la filosofia come problema per la filosofia, incrocia così il problema pedagogico, cioè la grande questione della “formazione” delle anime, e, con esso, il problema politico, cioè il problema della comunità, della sua possibilità nell’orizzonte di una verità incrinata. Filosofia, pedagogia e politica sono dunque il medesimo, come Platone ben sapeva. Per questo Sini ha sempre vagheggiato «un altro modo di frequentare la prassi o di abitare le nostre pratiche, per esempio la pratica filosofica in cui concretamente ci troviamo» (Teoria e pratica..., p. 225) e ne ha visto la realizzazione, in questi ultimi anni, nell’Atelier di Filosofia Mechrí (avverbio greco che significa “fino a qui”) costituitosi a Milano intorno al suo insegnamento anche grazie all’infaticabile lavoro e alla determinazione della sua allieva, nonché curatrice della sua opera, Florinda Cambria. La casa editrice Jaca Book, che da molti anni sostiene il lavoro di Sini (si veda, appunto, la pubblicazione delle sue Opere giunta al quinto volume), ha pubblicato i materiali prodotti da questa libera comunità di ricerca sotto il titolo generale di Mappe del pensiero. Ricordo qui i titoli dei tre volumi, tutti a cura di Florinda Cambria, sui quali si concentrerà la mia attenzione: Vita, conoscenza del 2018, Dal ritmo alla legge del 2019 e Le parti, il tutto del 2020. Tutti riportano, con la dignità di un sottotitolo, la dicitura Con tavole di Carlo Sini (il primo dei volumi precisa che le tavole sono “a colori”)
Con tavole (a colori) di Carlo Sini: ecco dunque enunciata la loro specificità, nient’affatto insolita per chi ha avuto il privilegio di seguire nel corso degli anni il lavoro di Sini, ma spiazzante per il lettore medio di cose filosofiche che, se è familiare all’uso in filosofia di diagrammi, schemi o grafi esplicativi, non lo è alla miniatura di Galileo che guarda estasiato nel cannocchiale o al disegno, da sussidiario infantile, di sobri coniglietti copulanti posto a margine di una impegnativa discussione sulla differenza tra contiguo e continuo in Aristotele. La rubricazione complessiva dei materiali nella formula “Mappe del pensiero” può far pensare a una illustrazione a scopo didattico del testo “tradizionale” che nei volumi collettanei in questione precede i cartigli di Sini, ma credo che si commetterebbe così lo stesso errore di chi intende la grande iconografia religiosa come una volgarizzazione del testo sacro ad uso degli analfabeti che affollavano le Chiese. Sappiamo invece che essa era purissima teologia “figurale”. Non illustrava una tesi, ma mostrava all’opera la potenza di Dio, forte di una “evidenza” che il sapere concettuale, la ratio della fides, non poteva avere. Lo stesso credo si debba dire per questi “cartigli”. Essi certamente “mappano” il pensiero. In un certo senso “raccontano” la storia della filosofia e, più in generale, la storia del sapere umano.
Vogliono produrre una comprensione del mondo che usiamo nelle infinite pratiche del nostro sapere. Il pensiero che mappano non è però il pensiero pensato, il pensiero passato in giudicato, oggetto della acribia degli storici e del rigore dei filologi, ma è il pensiero pensante, il pensiero che qui e ora (Mechrí significa, lo ricordiamo, “fino a qui”) sta (ri)pensando l’intero della storia della filosofia e l’intero dei saperi umani, facendolo precipitare letteralmente nel punto di incisione dello stilo sulla tavoletta di cera. Presentano il tutto qui, ma il tutto che si presenta non è niente di compiuto, è un tutto che si sta facendo, che ha luogo come tutto mentre accade qui, vale a dire in ciò che, se visto con gli occhiali della metafisica, sembrerebbe essere solo una “parte” di un tutto già dato o a venire.
La correzione che Giovanni Gentile apporta al celebre detto vichiano verum factum convertuntur spiega allora, a mio parere, molto bene l’avventura intellettuale dell’Atelier filosofico di Sini: il vero non si converte con il fatto, dice Gentile, ma con il farsi, con il fieri, con lo star facendosi, si potrebbe dire ancora meglio, ma, aggiunge Gentile, tale conversione, per non essere l’ennesima riproposizione di una tesi metafisica (dove il divenire prenderebbe il posto dell’essere), va precisata con un “fino a qui”: il vero si converte con il fatto nella misura in cui “ha luogo”, quando accade, quando eviene: verum factum convertuntur quatenus fit. Quatenus, che è l’avverbio dell’evento, traduce latinamente il “fino a qui” con cui si aprono tutte le Introduzioni che Florinda Cambria fa precedere ai cartigli di Sini.
Se i cartigli di Sini sono mappe sono allora mappe assai strane. Esse sembrano partorite dalla fantasia perversa di Lewis Carroll. Di queste mappe sicuramente si sarebbe servita la sua Alice per orientarsi nel Paese delle Meraviglie. Non presuppongono, come ogni normale mappa, un territorio già dispiegato dinanzi a un soggetto in sorvolo su di esso (il “grafista”), ma sono le mappe paradossali di un passeggiatore zen che, mentre cammina (mentre “pensa”) traccia la propria deambulazione in corso, perché da buon meditante buddhista sa che il sentiero non preesiste all’atto che lo fa ma si costituisce “simultaneamente” ad esso. «You lay the path by walking on it» è l’apoftegma che l’Atelier filosofico Mechrí dovrebbe mettere sulla sua porta d’ingresso, quello che meglio enuncia l’esercizio che è richiesto ai suoi partecipanti. L’utopia di Mechrí, azzarda a un certo punto Sini, è una utopia «religiosa», l’utopia di una comunità di ricerca che si produce nell’atto in atto del pensare, una comunità che non è chiamata a condividere delle tesi, ma un gesto, un gesto indefinitamente replicato e ogni volta diverso, perché sempre “iniziale”, qual è, del resto, il gesto fenomenologico consistente nell’«andare alle cose stesse», al fenomeno, appunto, cioè alla cosa come si dà e nei limiti in cui si dà. Al metodo fenomenologico, appreso alla scuola del suo grande maestro, Enzo Paci, Sini è rimasto sempre fedele.
Che cosa o chi è allora ritratto nei cartigli siniani? Per rispondere ci soccorre una storia dell’arte e delle sue pratiche mediata però dalla riflessione filosofica. Mi verrebbe da dire che il cartiglio è una declinazione particolare della pittura di paesaggio, che condivide con la tecnica dell’acquarello, nella quale Sini eccelle, la stessa esigenza di immediatezza. Negli acquarelli, ricordiamolo, non si cancella, non si torna indietro, ma si procede solo in avanti facendosi guidare dai propri errori. Il paesaggio, raccontano gli storici dell’arte, è genere eminentemente moderno. Non se ne ha traccia prima del XVII secolo, l’età, guarda caso, del cogito cartesiano. Prima la natura fungeva da simbolo, come nel frontespizio della copia del Virgilio di Petrarca illustrato da Simone Martini (conservato a Milano alla Biblioteca Ambrosiana: in esso è contenuta vergata a mano dal poeta la notizia della morte di Laura...), non era un valore in sé. Il paesaggio è un genere così “moderno” da diventare un paio di secoli dopo il paradigma estetico della modernità, vale a dire la forma canonica, spesso al limite del Kitsch, del “bello naturale” (la cartolina illustrata). Fissando il suo cavalletto en plein air l’acquarellista non ha di mira la natura con i suoi oggetti ma la natura ed i suoi oggetti in quanto questi sono visti da lui e sono dati nel limite della sua visione attuale, nel loro “fino a qui” si potrebbe aggiungere.
Il filosofo direbbe che quel pittore ha di mira il “fenomeno” natura che non è la natura-cosa che interessa lo scienziato. La luce che lo inebria e che vuole fissare sulla tela è il suo stesso sguardo, il purissimo atto dello stare vedendo quello che di fatto sta vedendo. Un filosofo direbbe che è la pura esperienza il tema del suo dipingere anche se l’oggetto del suo dipingere (il “soggetto” della raffigurazione) sono le cose finite (montagne, valli, boschi...) di cui fa esperienza. La pittura di paesaggio è perciò, in ultima analisi, un autoritratto dello sguardo in atto, una pura impressione di luce (è una “fotografia” nel senso letterale del termine): l’urgenza a cui cerca di corrispondere è la stessa che guida la mano del pittore moderno (Rembrandt, per esempio) che si fa soggetto della sua stessa rappresentazione perché vuole inscriversi nella tela come coscienza incarnata, come coscienza vivente (“fino a qui”), e non più (o, almeno, non solo) in quanto espressione di uno status sociale, come un “oggetto” del mondo costituito, come avveniva invece nella ritrattistica classica. Se nuovamente si convoca il filosofo, questi non esiterà a riconoscere nell’autos dell’autoritratto, nella luce che inebria il pittore da cavalletto, l’indiscusso protagonista della modernità: il cogito cartesiano, quel pensiero sempre in atto, incondizionatamente certo di se stesso, che è tanto irriducibile alle cose pensate e alla loro pretesa di verità (2+2 = 4), quanto necessariamente sempre implicato in esse, dal momento che il pensare (come il vedere) è sempre inevitabilmente un pensare (vedere) qualcosa. Si noti bene: quella luce trascendentale non ci sarà mai “come tale”, mai potrà diventare un “oggetto raffigurato” come lo sono la montagna o il bosco.
Essa si inscriverà sulla tela solo nella forma paradossale di un infigurabile raffigurato. La vicenda storica della pittura di paesaggio conferma questa interpretazione. Essa avrà infatti due esiti: o il kitsch della cartolina illustrata, simulacro di una esperienza vissuta che si scambia come un gettone, o le ninfee di Monet e le marine di Turner nelle quali, come tutti sanno, l’evento della luce trova nell’informe la sua espressione adeguata.
Il paesaggio dei cartigli siniani non è la natura. Il suo è un paesaggio intellettuale, è il paesaggio dei saperi (delle “pratiche”) che ci hanno costituito quali siamo, come uomini coscienziosamente dediti alla ricerca del vero. Sono i vari saperi che usiamo nella vita associata (alle attività dell’Atelier Mechrí partecipano scienziati provenienti dalle più svariate discipline: biologi, matematici, antropologi ecc.). La luce che inebria questo particolarissimo paesaggista non è allora la luce sensibile del sole ma è quella ultrasensibile della Idea del Bene, causa, secondo Platone, dell’essenza e dell’esistenza delle cose del mondo, del reale e del sapere. Probabilmente l’Atelier Mechrí aspira ad essere il cavalletto del filosofo-pittore posto nel plein air del «lavoro sociale della conoscenza». Se il paesaggio del pittore-pittore è, in ultima analisi, un autoritratto dello sguardo in atto o, che è lo stesso, una impressione di pura luce (ricordo che la primissima occorrenza a noi nota del lemma “fotografia” descrive l’esercizio mistico di un santo stilita del Sinai che si lasciava impressionare, fino alla cecità, dal bruciante sole del deserto), il paesaggio mappato dal pittore-filosofo è un autoritratto del pensiero pensante colto nella sua differenza di natura e nella sua implicazione necessaria con i molteplici oggetti del sapere. Per questa peculiarissima “fotografia” del sapere Sini utilizza il lemma “autobiografia”.
I “cartigli” di Carlo Sini
di Rocco Ronchi (Doppiozero, 01 aprile 2021)
È dunque l’insonne attività del cogito quella che viene incessantemente mappata nei cartigli siniani. È la sua trascendenza o eccedenza rispetto a tutto quanto è dato a costituire il solo evento, un evento che è sempre il medesimo e che è sempre mancato nei “significati” del sapere, un “errore” che è però al tempo stesso feconda relazione al vero. La scrittura filosofica, scriveva Sini nel 1997, «si esterna in mappe che sono fogli-mondo allusivi di un foglio-mondo impossibile e nondimeno “cercato”: fogli impossibili da marginare e da scrivere correttamente. La scrittura filosofica è così un’opera che non basta a se stessa e che ogni volta allude ad una costitutiva “assenza d’opera”: atto mancato» (Teoria e pratica..., p, 225).
È convinzione di Sini e dei suoi compagni di avventura che su questa base sia possibile riaprire il dialogo tanto auspicato tra le scienze e la filosofia. Quelle “usano” il mondo generando degli oggetti teorici, di cui perdono di vista la “relatività”, questa produce una comprensione di quell’uso, riferendolo, in ultima analisi, ad un soggetto trascendentale sempre in atto. La filosofia è così molto più di una teoria o di una teoria delle teorie: è una trasformazione etica che rende il soggetto del sapere consapevole delle sue pratiche strappandolo alla superstizione di cui sarebbe invece vittima lo scienziato ingenuo che è soggetto, nel senso di “subordinato”, al sapere, che è agito irriflessivamente dalla sua pratica.
Mi sia concesso, in conclusione, di sollevare un dubbio circa questa soluzione elegante e, direi, straordinariamente “classica”, condivisa, per altro, seppure con “modi” differenti, dalla migliore filosofia teoretica italiana contemporanea (penso ad Agamben, ad esempio). Tralasciando la questione veramente spinosa di che cosa comporti questo guadagno di consapevolezza per la pratica scientifica reale (io, temo, nulla), essa sembra legare definitivamente il destino del pensiero pensante a quello della riflessione. Stando al modello della pittura di paesaggio (autoritratto e “autobiografia”), se ne dovrà infatti concludere che sul cartiglio ci sarà tutto ciò che ci può essere tranne il gesto che lo inaugura (“costitutiva assenza d’opera: atto mancato”). Ne risulta che, se applichiamo quel modello all’esperienza, l’esperienza si risolverà in un gioco di scatole cinesi rispetto al quale il soggetto si pone sempre in eccesso come una sorta di cornice irraffigurabile sempre presupposta. Wittgenstein e Lacan hanno utilizzato proprio l’esempio dalla pittura di paesaggio e/o dell’autoritratto per esemplificare l’impossibilità di principio per il soggetto di presentarsi nel quadro.
Ora, questa conclusione è ineccepibile sul piano della riflessione, vale a dire quando l’esperienza è rifratta nel prisma del dire predicativo, quando è passata al vaglio dell’analisi imposta dalla tecnologia alfabetica. “Logicamente” le cose stanno proprio così, inutile negarlo: la filosofia, che come “atto compiuto” è una gigantesca superstizione, la superstizione dell’Assoluto, è nel vero solo se praticata come “atto mancato”. Ma, mi chiedo, facendo appello a un’altra “linea” del pensiero alla quale sono stato introdotto proprio dal magistero di Carlo Sini, perché mai l’esperienza non possa essere in se stessa consistente, perché invece di essere sospesa a un soggetto assente, non possa essere lei stessa il soggetto, senza residui di sorta. Perché, tornando all’esempio paradigmatico della pittura di paesaggio, l’informe delle ninfee o delle marine deve funzionare come traccia, rinvio, allusione a una “costitutiva assenza d’opera”, e non essere quello che sicuramente era per Monet o Turner: una perfetta, cioè non mancante di nulla, impressione di luce? E lo stesso non può allora valere anche per l’agire ingenuo dello scienziato che “usa” il mondo senza “comprenderlo” riflessivamente?
NOTE. Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE [1991].
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam) [2000].
FLS
Il problema del senso della vita: la lezione di Wittgenstein
di hashtagfilosofia, 20 marzo 2021
Se si pensa che il senso della vita possa trovarsi in qualche risposta della scienza o in una proposizione metafisica, si fallisce inesorabilmente. Il senso della vita è nella vita, non nelle cose della vita ma nel fare la vita. È questa la lezione di Ludwig Wittgenstein.
nel Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein afferma: “La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo”, il filosofo stabilisce così un nesso tra “l’enigma della vita”, espresso da domande come “Qual è il senso della vita (o del mondo)?”, “Ha la vita (o il mondo) un senso?, e la vita umana come collocata nello spazio e nel tempo.
Riportiamo per intero la proposizione 6.4312: “L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non sono non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è perseguito. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale”.
Wittgenstein introduce un tema che riguarda l’etica e ci dice che l’enigma della vita nello spazio e nel tempo non può essere risolto né dalla scienza né dalla metafisica, intesa come l’insieme di quelle posizioni che ritengono che la filosofia abbia un proprio oggetto d’indagine, ad esempio il mondo sovrasensibile di Platone, distinto dagli oggetti su cui indagano le scienze, come la fisica, la biologia, la chimica ecc.
La risposta alla domanda sul senso della vita dunque non può arrivare né dall’ampliamento della conoscenza scientifica della vita e del mondo, ossia non possiamo trovarla in una più estesa conoscenza della struttura biologica o psicologica dell’uomo, né della storia dell’uomo.
D’altro canto, tale risposta non può essere fornita dalla metafisica attraverso l’accesso a un “altro” mondo, una sorta di ultra-mondo o retro-mondo che appunto starebbe dietro il mondo dei fatti studiato dalla scienza. Se anche ci fosse una metafisica, essa starebbe in relazione all’etica, dunque al problema del senso della vita, come una fisica, poiché pretende di trovare in sé la soluzione a tale questione. Ma, sostiene Wittgenstein, l’etica è del tutto indifferente alla scienza e alla metafisica, così come la religione è indifferente a qualsiasi prova dell’esistenza di Dio.
Quindi la soluzione del problema del senso della vita "è un modo di vivere che fa scomparire ciò che rappresenta un problema".
IL CONSIGLIO FILOSOFICO: Ci spiega Wittgenstein, la soluzione del problema del senso della vita è pratico-vitale, non speculativa o scientifica. Solo cambiando maniera di vivere, adottando una maniera di vita diversa da chi vive la vita come problematica rispetto al suo senso, il senso della vita può diventare chiaro e la vita cessa di apparire senza senso. Scrive il filosofo austriaco: “Se la vita è problematica, è segno che la tua vita non si adatta alla forma della vita. Devi quindi cambiare la tua vita; quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che è problematico”.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Perissinotto, L., Il tempo e il senso della vita nella filosofia di Wittgenstein, in Tempo, evento e linguaggio, a cura di M. Ruggenini e L. Perissinotto, Carocci, Roma, 2002.
Wittgenstein, L., Tractatus logico-philosophicus, a cura di G. Conte, Einaudi, Torino.
Wittgenstein, L., Pensieri diversi, a cura di G. H. von Wright, M. Ranchett, Adelphi, Milano.
Nota/Tweet:
#ANTHROPOLOGY #METAPHYSICS #MATHEMATICS. #WITTGENSTEIN E IL MISTERO PROFONDO: UNA #QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5215). #CRITICADELLARAGIONPRATICA: LA SOLUZIONE IN UN ANEDDOTO DI ANTONIN (#MarieJoseph) #ARTAUD E NELLA #DIVINACOMMEDIA (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2432).
FLS
Wittgenstein e la distruzione del cogito cartesiano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 7 maggio 2023)
Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l’esperienza per cui si è desiderato avere delle parole speciali per descrivere un momento speciale. Le parole a disposizione erano insufficienti e si avrebbe voluto avere un proprio linguaggio creato appositamente per la sensazione che si stava vivendo. Il desiderio sarebbe stato sensato? Sarebbe pensabile cioè un linguaggio in cui si potesse esprimere le proprie esperienze per uso personale? In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze interiori? In che modo designo le mie sensazioni con le parole?
Tutte domande che Wittgenstein si pone continuamente, non solo nelle sue Ricerche Filosofiche. E la sua risposta è negativa: un linguaggio privato non solo non si costituisce ma non è nemmeno pensabile. Nel suo stile irrequieto, frenetico, mai sistematico, egli utilizza almeno tre blocchi di argomenti: la definizione ostensiva (“questo è S”), la sensazione del dolore e la natura dei colori. In tutti questi casi, il filosofo austriaco intende demolire alla radice l’idea che un soggetto, nominando qualcosa, voglia indicare qualcosa che a sua volta si possa distinguere in reale ed irreale. Non esiste cioè una prospettiva ontologica che parta dal soggetto: l’idealismo, come dice in una sua lezione, si lega soprattutto ai dati di senso visivi. In parole più chiare, per chi è abituato a ragionare in filosofia aiutandosi con la storia della filosofia, Wittgenstein ha come riferimento polemico Cartesio e il cogito cartesiano, il cuore stesso dell’idealismo.
Lo scarabeo, il dolore e Sant’Agostino Wittgenstein, vera e propria fabbrica di metafore secondo lo stile di Schopenhauer, utilizza diversi esempi o esperimenti mentali, il più suggestivo dei quali è quello dello scarabeo.
«Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so che cosa significa la parola dolore, non debbo dire la stessa cosa anche degli altri? E come posso generalizzare quest’unico caso in modo così irresponsabile? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso. Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘scarabeo’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere cos’è uno scarabeo soltanto guardando il suo scarabeo. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola ‘scarabeo’ avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota. Questo vuole dire: se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello oggetto e designazione, allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante» (Wittgenstein 1953, 293).
In queste ultime righe riecheggia un’altra polemica, quella contro la dottrina tradizionale del linguaggio di Sant’Agostino in cui le parole denominano oggetti. Si tratta della rappresentazione primitiva del linguaggio che descrive un sistema di comunicazione o meglio, una forma di addestramento. Il problema, osserva Wittgenstein, è che non tutto ciò che chiamiamo linguaggio rientra in quella spiegazione: forse per gli oggetti, ma non certo per le sensazioni. Il tentativo di spiegare il linguaggio secondo la dottrina tradizionale non basta. «Ma che cos’è dare un nome a una sensazione? Diciamo che è pronunciare il nome mentre si ha la sensazione e forse concentrarsi su di essa; ma, e con ciò? Forse che per questo il nome riceve poteri magici? E perché mai chiamo questi suoni il nome della sensazione? (...) Dare un nome a una sensazione non significa nulla a meno che non si sappia già in che tipo di gioco va usato questo nome» (Wittgenstein 1936, 41)
Contro il razionalismo cartesiano Ma, come accennato, è soprattutto il modello del cogito cartesiano l’oggetto principale della critica. Cartesio era partito dal presupposto di dubitare di tutto, ad eccezione dei suoi stati interni che coincidono con il suo pensare. Dubito di tutto, afferma Cartesio, ma non dubito del fatto che parole come “dubbio”. “pensare”, “verità”, “genio ingannatore” ed altre conservino il loro significato. Di fatto, sostiene Wittgenstein, Cartesio arriva a scoprire la base incrollabile di ogni certezza tramite un linguaggio privato basato su sensazioni e ricordi di sensazioni.
Tutto ciò è un nonsenso. Intanto una riflessione di carattere generale: come è pensabile che qualcosa, che non ha nulla in comune con un’altra cosa, si metta in comunicazione con quest’altra cosa? Se il cogito ha natura diversa rispetto a quella del mondo esterno, come può il cogito giungere da sé ad una conclusione sulla natura del mondo esterno? Il soggetto potrà assumere come valido il mondo esterno solo con l’intervento di un deus ex machina che lo dichiari come valido (ed è esattamente quello che fa Cartesio, incorrendo nel cosiddetto circolo vizioso).
La motivazione di Wittgenstein per rifiutare il cogito è che il linguaggio è governato da regole ed è essenzialmente pubblico, incorporato, per così dire, nella nostra pratica, nelle nostre “forme di vita”. Di conseguenza l’idea di un linguaggio privato, un linguaggio cioè che solo una persona può capire, è incoerente e va in cerca della certezza nella direzione sbagliata. È quindi del tutto impossibile che il cogito possa essere il punto di partenza di ciò che possiamo conoscere. Quella del filosofo francese, commenta in modo ironico Wittgenstein, è una superprivatezza, una privatezza metafisica che si aggiunge a quella fisica. L’Io è il vero problema di cui bisogna liberarsi: «L’idea da abolire di un ego che abita in un corpo» (Wittgenstein 1936, 25)
L’impossibilità di un’esperienza privata Wittgenstein ritiene che l’esperienza non è mai qualcosa di privato e di soggettivo. Riconoscere le sensazioni come private significa riconoscere che le sensazioni sono incomunicabili. Il che significa fare due affermazioni errate (Wittgenstein 1953, 246).
La prima è quella per cui si dice che io soltanto posso sapere che provo dolore: questa affermazione è falsa in quanto io non posso dire di apprendere un dolore, quanto piuttosto che ce l’ho. In quanto ho un dolore, non so di sapere di avere un dolore: non ha senso dire che io dubito di provare dolore, perché il dolore o ce l’ho o non ce l’ho; il dubbio è proprio della conoscenza e quindi esclude il dolore.
La seconda affermazione, quella in cui si dice che un altro non può sapere che io provo dolore, è invece insensata. Questo perché se io non posso dire di apprendere il dolore (in quanto ce l’ho, come detto sopra) anche degli altri non si può dire che essi apprendono il dolore attraverso il mio comportamento. Il dolore di una certa persona è solo il suo dolore, esattamente come lo scarabeo chiuso nella sua scatola è solo il suo scarabeo. Il linguaggio però è qualcosa che mette in relazione gli esseri umani. Se una certa parola per me significa qualcosa, essa deve significare lo stesso anche per gli altri; se le cose non stessero così non esisterebbe comunicazione, quindi neppure linguaggio.
Riferimenti bibliografici
Wittgenstein, Ludwig. 1936. Esperienza privata e dati di senso, Torino, Einaudi.
Wittgenstein, Ludwig. 1953. Ricerche Filosofiche. Torino: Einaudi.