intervista a Giulio Tononi
La coscienza? Si può misurare
Intervista allo studioso italiano che sta lavorando negli Usa a un «registratore» delle nostre emozioni
Tononi: con una macchina inseguo grado e qualità della consapevolezza
di Massimo Piattelli-Palmarini (Corriere della Sera, 19.10.10)
Ciò che il neuropsichiatra italiano Giulio Tononi, da anni professore all’Università del Wisconsin, si prefigge di realizzare può essere riassunto in una sola, strana, parola: un coscienziometro. Pensiamolo pure come una macchinetta che misura il grado di coscienza in un soggetto umano. Zero per cento è assoluta assenza di ogni coscienza, 100% lo stato di coscienza pieno, quello in cui sono io che adesso sto scrivendo e quello in cui siete voi che adesso state leggendo.
Ovviamente tutto l’interesse dell’impresa di Tononi e collaboratori sta nello studio e nella misurazione dei gradi intermedi. Per esempio, quelli che insorgono nei vari stadi del sonno e del sogno, nell’anestesia parziale o totale, in vari stati patologici vegetativi e negli stati indotti appositamente mediante la cosiddetta stimolazione magnetica transcranica, registrati quando si inviano impulsi magnetici dall’esterno, mediante la stimolazione magnetica transcranica. Sia nel primo sonno che sotto l’effetto del midazolam, questi impulsi esterni producono reazioni cerebrali solo locali e di breve durata, a differenza di quelle assai più diffuse e sostenute registrate durante la veglia.
In un «manifesto» sulla coscienza «in quanto informazione integrata», ricco di modelli matematici, pubblicato due anni fa da Tononi nel Biological Bulletin, si legge che ciascuno sa cos’è la coscienza, ma capirla a fondo resta per adesso al di fuori dei limiti della scienza. Beh, il suo manifesto si qualifica come «provvisorio», ma sottolinea l’importanza capitale dell’integrazione dell’informazione come chiave della coscienza.
Tononi usa un termine del gergo filosofico, un termine preso dal latino: i qualia, cioè la sensazione intima, cosciente, di avere, ad esempio, l’esperienza di una luce che si accende. I qualia sono la luminosità della luce, il rossore del rosso, la dolorosità del dolore, la sonorità di un suono e così via. Nessuna macchina, nessun computer, per quanto sofisticati, sentono dentro di loro tali qualità, anche se possono registrare colori o suoni, ma non, appunto, provare dolore. La differenza sta tutta, mi dice Tononi, nel tipo particolare di complessità che caratterizza gli esseri umani e magari anche, in modo ridotto, altre specie.
«Il cervelletto - precisa Tononi - ha circa 50 miliardi di neuroni, più dei circa 30 della corteccia cerebrale. La complessità biochimica e l’intrico di contatti neuronali sono del tutto comparabili. Ma bloccando il cervelletto si preserva la coscienza, mentre alterando la corteccia no. La chiave è l’enorme numero e i tipi di stati interni diversi tra i quali la corteccia può discriminare, la ricchezza del suo spazio di informazioni e il modo in cui queste sono integrate».
Gli chiedo se la sincronizzazione tra gli impulsi nervosi sia, come molti sostengono, la chiave della coscienza. «No - controbatte Tononi -, è solo un correlato della coscienza, interessante, certo, ma non è la chiave di volta. Nelle crisi epilettiche c’è enorme sincronizzazione, addirittura ipersincronizzazione, ma la coscienza svanisce».
Intervisto anche un altro esperto, Stuart Hameroff, capo di anestesiologia all’ospedale universitario dell’Arizona e direttore del centro di studi sulla coscienza, che tiene a Tucson un megaconvegno internazionale sulla coscienza. Dissente da Tononi su diversi punti. La chiave della coscienza non sta in tanti contatti tra tanti neuroni.
Chiedo a Tononi quando ha cominciato a occuparsi della coscienza. «Da quando ero al liceo». Cosa progetta di fare adesso? Studiare meglio i pazienti in stati vegetativi e semivegetativi e abbordare il problema anche al livello dell’evoluzione della coscienza, come stato evolutivo adattativo in altre specie. La fotocellula ha due soli stati: luce e non luce. Noi abbiamo dentro migliaia di miliardi di stati, per questo avvertiamo la luminosità della luce e la sonorità del suono.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA, PSICOLOGIA, E STORIA: ALCUNE NOTE A MARGINE SULLE "VOCI PERDUTE DEGLI DEI" E "SULLE ORIGINI DELLA COSCIENZA" DI JULIAN JAYNES.
NEL LODEVOLE TENTATIVO DI CONTRIBUIRE A UNA MIGLIORE COMPRENSIONE DEL SUO LAVORO SU "IL CROLLO DELLA MENTE BICAMERALE E L’0RIGINE DELLA COSCIENZA" (ADELPHI, 1976/1991), E, ANCORA, PRECISANDO SU "LA NATURA DIACRONICA DELLA COSCIENZA" (ADELPHI, 2014), JULIAN JAYNES (1920-1997), nella raccolta di saggi, intitolata "Le voci perdute degli dèi. Sulle origini della coscienza" e pubblicata negli anni scorsi dalle Edizioni Tlon (Città di Castello, 2021), scrive e precisa:
ALLA LUCE di tali considerazioni, e, proprio seguendo il filo della "letteratura", visto che Jaynes, dopo gli studi, trascorse diversi anni in Inghilterra come attore e drammaturgo, e che, nel suo "quadro" teorico e storico, non ho trovato alcuna menzione di Shakespeare, sul tema affrontato, forse, vale la pena ricordare la "forte" esclamazione dall’ «Amleto» di Shakespeare: "O my prophetic soul! My uncle?" (Hamlet, I.5) e richiamare l’attenzione su una importante "imprecisione" relativa alle "profezie" delle Sibille e, in particolare, al numero della loro "presenza" negli affreschi della Volta della Cappella Sistina realizzati da Michelangelo:
"[...] Le sibille. L’epoca degli oracoli occupa l’intero millennio successivo al crollo della mente bicamerale. [...] Come agli oracoli, anche alle sibille veniva chiesto di
prendere decisioni su questioni di varia importanza, uso che
continuò sino a III secolo d. C. Le loro risposte erano così
pervase di fervore morale che persino i primi Padri della Chiesa
e gli ebrei ellenistici si inchinarono ad esse come a profetesse di
livello pari a quello dei profeti dell’Antico Testamento.
La Chiesa
cristiana antica, in particolare, ne usò le profezie (spesso dei
falsi) per dare un sostegno alla propria autenticità divina.
Ancora
un millennio dopo, in Vaticano, quattro sibille furono dipinte in
posizioni prominenti, sul soffitto della Cappella Sistina, da
Michelangelo.
E secoli dopo ancora, copie di queste donne
muscolose, con i libri oracolari aperti dinanzi a sé, erano solite
osservare lo stupefatto autore di questo libro in una scuola di
catechismo unitariana nel New England. Tale è la sete di
autorizzazione delle nostre istituzioni.
E dopo che anche le sibille ebbero smesso di far sentire la
loro voce, dopo che gli dèi ebbero cessato di calarsi in forme
umane viventi nella profezia e nell’oracolo, l’umanità cominciò a
ricercare altre forme per riannodare i legami fra il cielo e la terra.
Sorsero così nuove religioni, il cristianesimo, lo gnosticismo e il
neoplatonismo [...]" (J. Jaynes, "Il crollo della mente bicamertale..., cit., 1976, pp. 393-394).
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E STORIOGRAFIA. RICORDANDO CHE SETTE SONO I PROFETI (Zaccaria, Gioele, Isaia, Ezechiele, Daniele, Geremia, Giona) E CINQUE LE SIBILLE (Sibilla Delfica, Sibilla Eritrea, Sibilla Cumana, Sibilla Persica, Sibilla Libica) PRESENTI NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, a ulteriore approfondimento, forse, è bene (da un punto di vista antropologico, filologico, e storico-critico) riflettere ancora sul tema della "sopravvivenza degli antichi dèi" (Jean Seznec) , e in questo caso, sul richiamo fatto dallo stesso Jaynes a "Mammona", ripreso da "Percy Bysshe Shelley (1792-1822), che "dice che il «sé è Mammona della letteratura»".
"SAPERE AUDE!" (KANT): DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS"). A ben rileggere l’antica parabola evangelica (Luca. 16. 1-16=C.E.I.]), probabilmente, Shelley non ha tutti i torti: si tratta di far buon uso del proprio "denaro" ("Mammona") come della propria "intelligenza" e della "facoltà di giudizio" (Immanuel Kant):
Federico La Sala
NEUROSCIENZE E FILOSOFIA: CRITICA DELLA RAGION PURA! Uscire dallo stato di minorità: Uscire bene fuori dalla coscienza, per capire di più e meglio il mondo - e la stessa coscienza .... *
Scienze.
Manzotti: «E se la coscienza non fosse dentro di noi?»
La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 4 febbraio 2020)
La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga. Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca.
La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25).
La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.
Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?
«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ’fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».
La sua proposta della ’mente allargata’ si presenta come ’rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?
«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è - cioè cellule, sangue, neuroni - diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».
Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?
«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ’strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».
Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?
«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO.
«LA RICERCA DELLA VERITÀ»: AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA... *
Recensendo un volume dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa.
Per sostenere tale tesi ha offerto una descrizione caricaturale del lavoro degli storici, cui attribuisce il tentativo di «entrare» nella «testa» dei personaggi e la pretesa di «sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione». Fa quindi dipendere in generale gli studi storici (e con essi anche il diritto, e implicitamente la filosofia e le scienze umane in genere) dalle «narrazioni» e dalla «ricerca delle motivazioni di un comportamento», e li destituisce così di credibilità fino a definirli «falsi».
Questa presa di posizione ignora totalmente la rilevanza che la questione della prova, la critica delle narrazioni e delle testimonianze, la distinzione fra storia e memoria hanno avuto e hanno nella riflessione storiografica. Fin dai tempi di Lorenzo Valla gli storici sono impegnati a mettere a punto quegli «approcci controllabili» che Corbellini li accusa di ignorare, e gli ultimi decenni li hanno visti partecipi di una significativa riflessione epistemologica, in sintonia con le altre scienze sociali, tesa a superare rigide dicotomie metodologiche quali, ad esempio, quantitativo/qualitativo o struttura/soggettività. E d’altro canto ipotizzare, come si propone nell’articolo, l’opportunità di dimenticare eventi estremi quali i genocidi sminuisce il significato dell’elaborazione e dell’interpretazione, spesso conflittuale, della memoria per la costruzione dei valori della nostra cultura.
Come studiosi e studiose di discipline storiche e umanistiche del Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale del CNR intendiamo esprimere la nostra preoccupazione per queste affermazioni. Si tratta dichiaratamente di una «provocazione» e come tale, se provenisse semplicemente da un autorevole studioso, ci si potrebbe limitare a trarne spunti di riflessione o a lasciarla cadere. Il professor Corbellini, tuttavia, non è un qualsiasi storico della medicina che si rivolge alla propria comunità scientifica e all’opinione pubblica, ma ha la responsabilità di dirigere il nostro Dipartimento, al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Le sue parole, che implicano una delegittimazione pubblica del lavoro degli storici e non solo, investono quindi in pieno il senso della presenza stessa delle nostre discipline all’interno del maggiore ente di ricerca italiano.
Se oggi in Italia i saperi storici e umanistici appaiono quanto mai marginalizzati, un intervento come questo, tanto più per il ruolo istituzionale di elevata responsabilità del suo autore, sembra essere più il sintomo di un profondo problema culturale e scientifico che non un contributo al suo superamento. Esso offre quindi l’occasione per sollecitare ai vertici del CNR un pronunciamento in merito al ruolo e alle prospettive delle discipline umanistiche all’interno dell’ente e per aprire in proposito un dibattito all’interno della comunità scientifica e della società.
Grazia Biorci (IRCRES-CNR)
Olga Capirci (ISTC-CNR)
Geri Cerchiai (ISPF-CNR)
Gemma Colesanti (ISEM-CNR)
Gabriella Corona (ISSM-CNR)
Roberto Evangelista (ISPF-CNR)
Amedeo Feniello (ISEM-CNR)
Ida Maria Fusco (ISSM-CNR)
Stefano Gallo (ISSM-CNR)
Patrizia Grifoni (IRPPS-CNR)
Paolo Landri (IRPPS-CNR)
Maurizio Lupo (ISSM-CNR)
Daniela Luzi (IRPPS-CNR)
Fabio Marcelli (ISGI-CNR)
Armando Mascolo (ISPF-CNR)
Marina Montacutelli (ISSM-CNR)
Michele Nani (ISSM-CNR)
Anna Maria Oliva (ISEM-CNR)
Walter Palmieri (ISSM-CNR)
Claudia Pennacchiotti (IRPPS-CNR)
Leonardo Pica Ciamarra (ISPF-CNR)
Mariarosaria Rescigno (ISSM-CNR)
Giovanni Rota (ISPF-CNR)
Alessia Scognamiglio (ISPF-CNR)
Luisa Simonutti (ISPF-CNR)
Luisa Spagnoli (ISEM-CNR)
Alessandro Stile (ISPF-CNR)
Antonio Tintori (IRPPS-CNR)
Pina Totaro (ILIESI-CNR)
Mattia Vitiello (IRPPS-CNR)
* ALFABETA-2: Per chi desiderasse mettersi in contatto con gli autori della lettera, l’email di riferimento è storiascienza.cnr@libero.it.
*
STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein ...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein”, Avvenire, 29.05.2019). Buon lavoro!
Federico La Sala
La scoperta
I ricordi? È provato che si possono trasferire con l’Rna. L’esperimento dello scienziato tra due lumache
«La sede delle memorie nelle cellule nervose». Il test realizzato da David Glanzman dell’Università della California a Los Angeles con una molecola di Rna
di Anna Meldolesi *
Parafrasando Shakespeare, siamo fatti della stessa sostanza dei ricordi. Ma i ricordi di preciso di cosa sono fatti? La rivista della Society for Neuroscience (eNeuro) ha provato a rispondere, scommettendo sull’Rna. Insomma su quelle piccole molecole che parlano lo stesso linguaggio del Dna, senza possederne la tipica struttura a doppia elica. L’ipotesi sta già agitando le acque della scienza e se venisse confermata da gruppi indipendenti scatenerebbe una tempesta. Se la memoria si affida a molecole trasportabili, anziché alle connessioni tra i neuroni del cervello, diventerà più semplice risvegliare nei malati i ricordi perduti o cancellare quelli traumatici?
Le reazioni
Scioccante, sconvolgente, incredibile. Questi sono gli aggettivi usati dalla comunità dei neuroscienziati per i primi commenti a caldo. L’autore del lavoro è David Glanzman, un ex allievo del padre degli studi sulla memoria, il grande Eric Kandel. Protagonista è ancora una volta l’Aplysia, la lumaca di mare che, nonostante l’aspetto poco seducente, è una stella delle neuroscienze. Si può dire che il Nobel vinto da Kandel spetti in parte a lei. Una creatura grossa quanto il palmo di una mano, violacea e suscettibile. Se viene disturbata si difende spruzzando un liquido purpureo, che tinge l’acqua tutto intorno. Come modello animale è entrata di diritto nel XXI secolo, grazie alle sue doti di semplicità e reattività. Perché è possibile imprimerle dei ricordi negativi e poi verificare dal suo comportamento per quanto tempo resta sulla difensiva.
L’esperimento
Nel suo laboratorio di Los Angeles, all’Università della California, Glanzman ha indotto un riflesso di contrazione stimolando la coda di alcuni esemplari con degli choc elettrici, senza far loro del male. Una scarica ogni venti minuti, per cinque volte, ripetendo lo schema 24 ore dopo. A questo punto basta sfiorarli e il ricordo dei dispetti subiti si fa subito sentire: gli animali già infastiditi reagiscono restando contratti quasi un minuto, mentre i compagni più fortunati si rilassano nel giro di un secondo. Nella speranza di decifrare il codice di questa memoria, i ricercatori si sono concentrati sull’Rna, una classe di molecole multiformi e versatili, capaci di veicolare messaggi chimici. L’idea era che potessero funzionare come una chiavetta, salvando file mnemonici per poi trasportarli da un computer all’altro. Pardon, da una lumaca all’altra. Per verificare l’ipotesi l’Rna è stato estratto dal sistema nervoso delle lumache ansiose e iniettato in esemplari indisturbati. Questi ultimi hanno preso a comportarsi come se avessero subito lo choc, insomma come se la memoria si fosse trasferita insieme alle molecole. L’Rna delle lumache tranquille, invece, non ha sortito alcun effetto. Il lavoro è stato accolto dagli esperti con un mix di cautela e di stupore, Glanzman del resto sapeva a cosa andava incontro.
La teoria
La teoria classica colloca la memoria in corrispondenza delle connessioni tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. L’ultimo esperimento invece la porta fin dentro il nucleo delle cellule nervose. Qui le molecole messaggere modulerebbero l’attività dei geni, anche se è presto per ipotizzare come. Una lumaca dotata di 20.000 neuroni non può certo riprodurre fedelmente ciò che succede in un cervello umano da 100 miliardi di elementi. Ma l’organismo che ora prova a scardinare il dogma sinaptico è lo stesso che ha contribuito a fondarlo. Una bella responsabilità per questo mollusco di mare simile a una melanzana. Insegnarci a dire: io sono le mie sinapsi. E poi instillare amleticamente il dubbio. Oltre alle sinapsi, forse, c’è di più.
* Corriere della Sera, 16 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Svelato il confine tra coscienza e incoscienza
E’ nell’equilibrio delle connessioni dei neuroni *
Il confine tra coscienza e incoscienza si trova in un delicatissimo punto di equilibrio delle connessioni tra i neuroni. A individuare la ’firma’ della coscienza è l’esperimento condotto in Germania dal ricercatore italiano Enzo Tagliazucchi, dell’Istituto di fisiologia medica di Kiel, nel quale sono stati osservati gli effetti di un anestetico sull’attività del cervello.
Lo studio pubblicato su Journal of the Royal Society Interface svela che la rete neurale funziona al limite tra il caos e l’ordine e potrebbe aiutare a capire come risvegliare chi si trova nello stato di coma.
Per riconoscere quale sia la sottile linea rossa tra coscienza e incoscienza i ricercatori hanno creato delle mappe dell’attività dei neuroni in 12 persone usando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMri). Le reti neurali sono state monitorate durante la fase di coscienza, durante e dopo la somministrazione di un anestetico usato in chirurgia per indurre l’incoscienza.
Durante la fase di veglia i dati mostrano "una continua raffica di attività in evoluzione", ha spiegato Tagliazucchi, dovuta all’elaborazione dei dati provenienti dall’ambiente esterno, una sorta di ’flusso di coscienza’. Poco dopo la somministrazione del farmaco il numero di connessioni delle reti neurali si sono ridotte sempre più, mostrando meno variabilità, come se il cervello fosse bloccato in dei ’solchi’ ripetendo sempre gli stessi percorsi.
I risultati suggeriscono che esista nel cervello un livello ’ottimale’ di connessioni e che lo stato di coscienza possa essere immaginato come il risultato dell’esplorazione del maggior numero possibile di percorsi. Queste reti non devono però essere troppo uniformi ne attive allo stesso modo (altrimenti sarebbe tutto troppo omogeneo) ma piuttosto un ’caos controllato’, quello che viene definito un punto critico.
I «fagioli» in movimento che conservano i ricordi
Le nuove scoperte sull’architettura dei neuroni
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 09.03.2012)
Andiamo per un attimo con il pensiero a una vicenda che ben ricordiamo e che è vecchia di cinque o dieci anni o ancor più. Come fa il nostro cervello a ricordare quanto ci è successo tanto tempo fa? Se è per questo, come fa perfino a ricordare qualcosa che risale a poche ore addietro? Le neuroscienze hanno a lungo studiato i processi della memoria, mietendo una mole impressionante di eccellenti risultati. Restano, però, molti problemi di fondo ancora aperti e perfino dei paradossi. L’articolo oggi pubblicato sulla rivista scientifica internazionale «PLoS Computational Biology» da due fisici canadesi, Travis Craddock e Jack Tuszynski (Università di Alberta) e da un neuroscienziato e anestesiologo americano, Stuart Hameroff (Università dell’Arizona), promette di aprire una nuova frontiera in questo settore.
Detto molto semplicemente, questi studiosi offrono un modello teorico e sperimentale di quello che succede dentro i neuroni. Sì, abbiamo capito bene, hanno sondato quello che succede all’interno dei singoli neuroni responsabili della fissazione e della successiva salvaguardia delle tracce mnemoniche. Occorre, qui, forse, fare un passo indietro. Nel lontano 1949, uno dei padri delle moderne neuroscienze, il canadese Donald Olding Hebb, aveva individuato l’autografo cerebrale della memoria: la fissazione stabile dei ponti che si creano incessantemente tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Il motto che lo ha reso famoso è «i neuroni che sparano insieme si sposano insieme» (in inglese è più grazioso: «neurons that fire together wire together»). In altre parole, due neuroni che si attivano allo stesso tempo, in uno stesso preciso momento, stabiliscono tra di loro un’alleanza stabile per il futuro. Attivate uno di questi, e anche l’altro risponderà prontamente all’appello.
Questo tipo di sinapsi si chiama, da allora, una sinapsi hebbiana. Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti. Nel 1966, all’Università di Oslo, Terje Lomo e Timothy Bliss, studiando il consolidamento della memoria nell’ippocampo del coniglio, scoprirono il fondamentale meccanismo chiamato potenziamento a lungo termine (in gergo internazionale Ltp). Lo sposalizio tra i neuroni veniva da loro certificato su precise basi molecolari. Il problema, però, mi spiega Stuart Hameroff, è che molte di queste molecole della memoria (delle speciali proteine) vivono solo pochi minuti o poche ore, mentre i ricordi vivono molto più a lungo. Un paradosso, questo, che il lavoro oggi pubblicato conta di poter risolvere.
Entriamo, allora, con Hameroff e collaboratori dentro questi benedetti neuroni e dentro queste benedette sinapsi. Scopriamo un’architettura di grande complessità e di grande bellezza: i cosiddetti microtubuli, parte dello scheletro delle cellule, ma che, nei neuroni, assumono proprietà particolari. Sono colonne di forma esagonale, formate da moltissime molecole, le tubuline, che hanno ciascuna all’incirca la forma di un fagiolo. Questi fagioli possono essere ripiegati su se stessi o invece aprirsi. E lo fanno in modo contagioso, facendo aprire o chiudere altre tubuline lungo tutto il tubulo. Il loro passaggio dalla forma aperta a quella chiusa racchiude informazione e questa informazione si propaga lungo l’intero tubulo e può poi trasmettersi a un neurone successivo. Il processo è assai simile a quanto avviene in un microcalcolatore. È così che l’immagazzinamento e la trasmissione di informazione possono restare stabili anche su lunghi periodi, in certi neuroni anche lungo molti anni. La quantità di energia consumata è bassissima. L’articolo oggi pubblicato spiega tutto ciò in grande dettaglio, con illustrazioni degne di un grande disegnatore. Ecco quindi trovata, secondo questi scienziati, la soluzione del paradosso della memoria.
Lascio la parola a Hameroff: «Abbiamo scoperto quello che sembra proprio essere il sito della memoria, il codice del ricordare, all’interno dei neuroni. Abbiamo scoperto la memoria, senza alcun paradosso». Poi aggiunge: «È forse solo un primo passo, ma le conseguenze possono essere molto importanti per capire il funzionamento del cervello, perfino per capire i fondamenti del linguaggio e della coscienza». Mi descrive anche le possibili applicazioni pratiche: «Il trattamento dell’Alzheimer e di altri disturbi del sistema nervoso, compresi i disturbi da stress post-traumatico. Diventerà forse possibile in futuro potenziare la memoria o, all’opposto, eliminare ricordi traumatici». Hameroff è autore di numerosi articoli e libri scientifici su quello che succede all’interno dei neuroni, uno di questi scritto a quattro mani con il noto fisico e matematico inglese Sir Roger Penrose (autore del discusso saggio La mente nuova dell’imperatore).
Nel comunicato stampa rilasciato ieri congiuntamente dall’Università dell’Arizona e dall’Università di Alberta, Hameroff non ha peli sulla lingua: «Molti articoli tecnici di neuroscienze concludono promettendo cure per l’Alzheimer e altri disturbi. Anche noi ora lo facciamo, ma questa volta potrebbe essere vero».
Tronchiamo di colpo l’intervista, perché deve andare in sala operatoria ad amministrare l’anestesia. Il camice che indossa e la mascherina che ora si porta davanti a bocca e naso sono verdi, un colore che ben si addice alle sue speranze.
Ecco la macchina che "legge" il funzionamento cerebrale anche nei pazienti che non possono più comunicare
Inventata dal neuroscienziato Giulio Tononi, viene presentata oggi al convegno "The Future of Science" a Venezia
Coscienza senza segreti così potremo misurarla
La scoperta potrebbe essere utilizzata anche in tema di testamento biologico
di Carlo Brambilla (la Repubblica, 20.09.2011)
Un "coscienziometro". Uno strumento capace di misurare i diversi livelli della coscienza umana. Una sorta di "macchina della verità" in grado di stabilire, anche in pazienti che non possono più comunicare, il funzionamento cerebrale superiore. Non tanto la capacità di reagire a singoli stimoli fisici, ma la possibilità di pensare in modo complesso. Una scoperta che potrebbe rivoluzionare le teorie sul funzionamento del cervello e avere anche un utilizzo in tema di testamento biologico. È la nuova frontiera della neuropsichiatria che verrà presentata oggi a Venezia al convegno internazionale "The Future of Science" promosso dalla Fondazione Veronesi, dedicato quest’anno alla mente. A illustrarla sarà il suo scopritore, il neuroscienziato trentino Giulio Tononi, che da vent’anni vive a lavora negli Stati Uniti, dove è attualmente docente di Psichiatria a Madison, nel Wisconsin.
Più della macchina è importante la teoria sviluppata da Tononi per spiegare cos’è la coscienza, quella che ha definito "teoria dell’informazione integrata". «La coscienza è quella cosa che sparisce ogni notte quando ci addormentiamo di un sonno senza sogni - spiega Tononi. Tutti sappiamo cosa vuol dire. Se veniamo svegliati in quella fase non ricordiamo niente di particolare. Una cosa diversa è il sonno nella fase Rem, quando si sogna, quando una forma di coscienza è attiva». Secondo Tononi la coscienza avrebbe sede nella corteccia cerebrale. E si dovrebbe a una complicatissima serie di relazioni tra i neuroni: non sarebbe tanto la quantità di informazioni possedute dal cervello a determinare la coscienza, quanto la capacità di integrare tra loro le diverse informazioni. Una capacità che può essere misurata utilizzando la stimolazione transcranica magnetica (Tms).
«Il "coscienziometro", come lo abbiamo soprannominato, in collaborazione con Marcello Massimini, docente di neurofisiologia all’Università Statale di Milano, non è altro che una macchina che genera un campo magnetico capace di generare a sua volta un campo elettrico nel cervello», spiega Tononi.
Alla testa del paziente viene avvicinata, in modo non invasivo, una sorta di farfalla di plastica a forma di otto che determina una piccola corrente, completamente indolore, nel cervello. La corrente attiva una parte di corteccia cerebrale. È come andare a bussare al cervello. Grazie a un elettroencefalogramma con 64 elettrodi, capaci di registrare ogni reazione, si vede come risponde a quello stimolo. Se il cervello risponde con una singola entità, ma con tanti stati diversi allora il paziente è cosciente. Se invece quando bussiamo si frammenta in tanti pezzi indipendenti, senza integrazione, il paziente non è cosciente.
Misurando la capacità di integrazione delle informazioni cerebrali il "coscienziometro" è in grado di determinare il grado di coscienza. Che può essere vicino a zero, come nel sonno senza sogni o sotto anestesia farmacologica, o in casi di coma, oppure più elevata, in altre fasi del sonno, o nei casi di torpore.
Tononi non vuole entrare nel merito della eventuale prognosi del paziente. Ma, senza dubbio, i neurologi potranno avere uno strumento in più nelle loro mani per fare diagnosi nei casi più difficili. Ma quale parte del cervello è necessaria per sviluppare il pensiero? «Dagli studi sulle lesioni e sulle stimolazioni ci siamo persuasi che, per esempio, l’attività di alcune regioni cerebrali, come la corteccia e il talamo sia più importante dell’attività di altre regioni - spiega Tononi. Mentre il cervelletto non avrebbe un ruolo importante nella coscienza».
Il cervello resta una giungla in gran parte inesplorata, che pesa circa 1300 grammi, ma contiene cento miliardi di cellule nervose. La corteccia cerebrale, da sola, ha un milione di miliardi connessioni, le sinapsi. «Se contassimo una sinapsi al secondo - ricorda Tononi - finiremmo il nostro conteggio fra 32 milioni di anni».
Giulio Tononi, professore di psichiatria all’Università del Wisconsin-Madison
Il “coscienziometro” del novello Galileo
di Chiara Beria Di Argentine (La Stampa, 17.09.2011)
Ha già vinto lo scetticismo di molti scienziati con le sue ricerche sui moscerini della frutta. «Ho passato 13 anni a studiarli e altri 3-4 anni per riuscire a convincere i miei colleghi - era il 2000 - che anche le mosche dormono!», sorride Giulio Tononi, 50 anni, professore di psichiatria all’Università del Wisconsin-Madison. «Il sonno è uno dei grandi misteri irrisolti. Eppure ogni notte, dalla culla fino alla tomba, tutti dormiamo. In quegli anni - ricorda Tononi - sapevamo dei mammiferi ma non conoscevamo nulla degli invertebrati. Così, decidemmo di studiare i moscerini, tra gli invertebrati più piccoli: ebbene, fanno come noi; dormono una fetta della giornata! Dopo il nostro studio, vari gruppi di ricercatori hanno dimostrato che anche altri invertebrati dormono; in seguito, abbiamo scoperto anche la prima mosca mutante che dorme pochissimo».
Fu così che il neuroscienziato sviluppò una teoria sulla funzione del sonno chiamata «Ipotesi dell’omeostasi sinaptica». Semplificando il Tononi pensiero: durante il giorno incamerando sempre più informazioni le sinapsi (connessioni fra i neuroni, ovvero la parte più importante e che impiega il 75% d’energia consumata dal cervello) diventano sempre più «pesanti». Fino a saturarsi.
«È come ritrovarsi la sera con un’auto a 6 cilindri invece di quella a 4 cilindri che hai di giorno. Anche se vai in folle consumi sempre di più. Senza interruzioni il cervello esploderebbe letteralmente; occorre quindi un sistema che faccia “dimagrire” le sinapsi. E questo sistema è il sonno». Diventato un super esperto di stati alterati della coscienza («Nel sonno senza sogni l’annichilimento della coscienza è quasi completo») Giulio Tononi, novello Galileo, si è spinto a esplorare nel più lontano e affascinante dei cieli alla ricerca dell’Io. «La coscienza è il problema scientifico per eccellenza, il mistero dei misteri legato alla condizione umana. Coscienza è sinonimo d’informazione, senza coscienza non c’è niente. Ma cos’è la coscienza? Qual è il suo ruolo? Come si genera? Che relazione ha con la materia che, più o meno tutti, siamo convinti esista nell’universo?».
Interrogativi che hanno inciso sulle scelte di vita di Tononi fin dai tempi del liceo. «Non riuscivo a darmi risposte dettate solo dall’etica». A differenza del padre Giorgio, per anni sindaco di Trento, e dei suoi fratelli (Massimo, il più noto, ex Goldman Sachs e sottosegretario all’Economia nel 2˚ governo Prodi, è presidente della Borsa), Giulio ha preferito la scienza a politica& affari. Laurea in Medicina e specializzazioni in psichiatria e neuroscienze alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, Tononi, è un supercervello italiano che studia il cervello all’estero. «Nessuna fuga dall’Italia! Ho solo valutato dove potevo meglio fare ciò che m’interessava». Dagli Anni 90 è a New York, al Neurosciences Institute; poi, a San Diego; infine, dal 2001, a Madison dove dirige il Center for Sleep and Consciousness. Anni e anni di test e ricerche e - a soli 15 minuti di auto dal suo laboratorio - vivere in una baita isolata nel bosco. «Non ho neanche la tv. La mattina sono circondato da cervi e tacchini selvatici», racconta Tononi prima di partire per l’Italia. Relatore a «The Future of Science», settima conferenza mondiale della Fondazione Umberto Veronesi (Venezia, 18-20 settembre; riunisce alcuni dei maggiori protagonisti della ricerca sulla mente umana) il geniale Tononi parlerà di cos’è la coscienza secondo la sua rivoluzionaria «teoria dell’informazioneintegrata» (nell’ultimo anno ne hanno scritto, tra gli altri, «TuttoScienze» della «Stampa» e il «NewYork Times»).
La coscienza tradotta in una formula matematica che ha definito «Phi»: eresia? Se le intuizioni dello scienziato italiano si dimostreranno giuste si potrà anche arrivare a misurare (come si fa con il termometroper la febbre) il livello di coscienza nei pazienti con gravi lesioni cerebrali. Tononi lo chiama il «coscienziometro». Non è fantascienza; i primi test sono già iniziati, anche in Italia.
Giulio Tononi Neuroscienziato
RUOLO: È PROFESSORE DI PSICHIATRIA ALL’UNIVERSITÀ DEL WISCONSIN DOVE DIRIGE IL «CENTER FOR SLEEP AND CONSCIOUSNESS» IL SITO: WWW.SLEEPCONSCIOUSNESS. ORG/PEOPLE/GIULIOTONONI.HTML
Intervista
“Con la formula Phi prendo le misure all’Io”
Da una serie di test nasce la “teoria dell’informazione integrata”
“Il prossimo passo è mappare tutte le connessioni cerebrali”
I COLLEGHI AMERICANI «Questa è l’unica ipotesi promettente su cos’è la coscienza»
di Silvio Ferraresi (La Stampa/TuttoScienze, 15.06.2011)
Solo 20 anni fa la coscienza era considerata una materia impalpabile ed effimera, inconcepibile come oggetto della scienza. Giulio Tononi - professore di psichiatria all’Università del Wisconsin a Madison - la pensava diversamente già al liceo. Era convinto che fosse svelabile, come negli Anni 50 era accaduto con la realtà della vita. E prima a Pisa e a New York e poi a La Jolla con Gerald Edelman, e ora a Madison, ha perfezionato la sua «teoria dell’informazione integrata», che Christof Koch - il più stretto collaboratore di Francis Crick - ha definito «l’unica teoria promettente sulla coscienza».
Professore, come nasce la sua teoria?
«Dall’esperimento mentale del fotodiodo - il sensore che si attiva o si disattiva in presenza di luce e di buio -: l’ho concepito quando ancora studiavo medicina».
In che cosa consiste il test?
«Immaginiamo di condividere una stanza buia con il fotodiodo. Sia noi sia lui registriamo l’assenza di luce. La differenza è che noi “vediamo” il buio - ne abbiamo un’esperienza cosciente - mentre quasi certamente il fotodiodo no. Dove sta la differenza tra la sua organizzazione e i circuiti coscienti del cervello, mi sono chiesto? La risposta è la teoria della informazione integrata».
Che cos’è l’informazione integrata?
«Cominciamo definendo l’informazione. Confrontando il fotodiodo e il cervello, sappiamo che il primo può assumere solo due stati, attivo e disattivo. Per noi, invece, ogni esperienza cosciente - per esempio un’ esperienza di puro buio - è quello che è per come si distingue da miliardi di altri stati possibili, i miliardi di immagini diverse che potrebbero presentarsi ai nostri occhi. L’informazione, in questo senso, non è una quantità trasmessa o archiviata, ma una misura di quanto si riduce l’incertezza, quando vediamo una particolare immagine, anziché infinite altre immagini possibili. Inoltre è un’informazione che dipende dal continuo riassestamento dei collegamenti interni».
E’ qui che entra in scena l’integrazione?
«Possiamo spiegarla con l’esempio della fotocamera digitale. Per quanto la fotocamera, a differenza di un fotodiodo, possa avere miliardi di stati diversi - uno per ciascuna immagine possibile - questa manca di integrazione: i suoi elementi, i pixel, sono milioni di piccoli moduli non connessi e pertanto non integrati. La coscienza, invece, è integrata: ogni esperienza cosciente è quello che è come un tutto non riducibile alle sue parti: in un’immagine cosciente non esiste la sinistra senza la destra, la forma senza il colore, e così via. In sintesi, la fotocamera genera molta informazione, ma nessuna integrazione; il fotodiodo pochissima informazione e nessuna integrazione; il nostro cervello cosciente molta informazione e molta integrazione. Negli anni ho cercato di tradurre queste intuizioni sulla coscienza - l’informazione e l’integrazione - in una forma matematica e in una misura che ho definito Phi».
Che cosa indica Phi?
«Il valore è elevato quando un sistema è costituito da elementi che sono sia specializzati, ossia svolgono funzioni diverse, sia integrati, ossia comunicano in modo efficace. I sistemi modulari, invece, hanno una bassa informazione e una bassa integrazione».
Phi può esistere in un sistema artificiale creato dall’ uomo?
«E’ una quantità che, in linea di principio, può associarsi a qualsiasi sistema fisico e non solo al cervello, a condizione di avere una particolare organizzazione interna. Perciò non è fuori luogo concepire entità coscienti, fatte di silicio o di altre sostanze diverse da quelle dei neuroni».
Quanto è compatibile l’architettura del cervello umano con la sua teoria della coscienza?
«Alcuni dati sul cervello sembrano confermarla. Emblematico è il cervelletto, una struttura dell’encefalo che ha miliardi di neuroni e di connessioni e che, tuttavia, non origina la coscienza. La ragione, pensiamo, è che ha una struttura regolare e svariati moduli separati, che lo rendono poco integrato e quindi con un valore di Phi molto basso».
Più il cervello è attivo più siamo coscienti?
«Non necessariamente. Ci sono aree della corteccia molto attive pur in assenza di coscienza. Succede, per esempio, durante le crisi epilettiche, in cui la maggioranza dei neuroni nella corteccia cerebrale è intensamente attiva all’unisono, ma si riduce il repertorio di stati possibili e così l’informazione».
Siamo davvero in grado di capire se una persona è cosciente?
«Come primo passo, con Marcello Massimini, ora all’Università di Milano, e Fabio Ferrarelli, abbiamo dimostrato che durante il sonno senza sogni, in cui perdiamo la coscienza, l’attività cerebrale perde le caratteristiche dell’informazione integrata. Inoltre, pur ricevendo stimoli sensoriali ed essendo i suoi neuroni attivi, la corteccia si scompone in moduli separati (perde quindi integrazione) e riduce anche il repertorio di risposte (perde informazione). E’ un’indicazione che l’impianto della teoria va nella direzione giusta e il primo passo per sapere se il cervello di una persona o un sistema fisico sono coscienti. Attualmente sono in corso, in collaborazione con il “Coma Science Group” dell’Università di Liegi studi su pazienti con gravi lesioni cerebrali, dei quali è difficile stabilire il livello di coscienza».
La sua teoria riesce a spiegare le proprietà qualitative della coscienza, come l’aroma di un vino o il suo colore rosso?
«I filosofi li chiamano “qualia”: nella teoria dell’informazione integrata ogni esperienza cosciente è una forma nello spazio dei “qualia” stessi, uno spazio multidimensionale definito dagli stati del sistema e dalle loro relazioni informazionali. E, poiché le nostre esperienze cambiano da un singolo istante a quello successivo, cambia anche la forma generata in questo spazio, un solido che può assumere infinite configurazioni, ben più complesso di un solido platonico. Se disponessimo di un “qualiscopio”, vedremmo nel cervelletto non cosciente tante piccole strutture informazionali scollegate. Invece, nei circuiti tra la corteccia e il talamo - implicati nella coscienza - vedremmo emergere forme straordinariamente complesse, come una cattedrale, una sorta di Sagrada Familia, la cui struttura si modifica in continuazione».
Per stabilire la qualità e la quantità della coscienza dovremo conoscere come variano le connessioni del cervello?
«Sarà un passaggio inevitabile. Nel 2005, con Olaf Sporns e Rolf Kötter, proponemmo l’idea del connettoma, preconizzando il “Progetto connettoma” finanziato dall’Istituto statunitense della Salute Mentale: un giorno ci permetterà di capire in dettaglio come sono organizzate le connessioni tra aree cerebrali, dato fondamentale per comprendere meglio non solo le basi neurali della coscienza ma anche di disturbi mentali come l’autismo o la schizofrenia».
Secondo lei, com’è nata la coscienza?
«Le strutture complesse possono nascere in due modi: in base a un progetto o per selezione post hoc di strutture formatesi per caso. In futuro i progettisti potremmo essere noi; finora ha lavorato la selezione: darwinianamente».