Il silenzio dei teologi
di Paolo Prodi *
Uno dei detti più rappresentativi della politica moderna, ripreso da grandi pensatori come Carl Schmitt, è: «Tacete o teologi sulle cose per le quali non siete competenti» ("silete theologi in munere alieno"): questa frase è una rappresentazione molto acuta del processo della laicizzazione della politica negli ultimi secoli. Per poter aprire la strada alla libertà, alla democrazia, alla divisione dei poteri la politica si è liberata dalla teologia, si è de-ideologizzata divenendo tecnica di legislazione e di governo con un processo analogo a ciò che è avvenuto per le scienze dell’uomo e della natura nel corso della modernità.
Il problema è che ora assistiamo a due fenomeni abbastanza strani e nuovi per l’Occidente: i politici si sono fatti teologi e parlano sparlano dei supremi principi, della vita e della morte; la teologia in senso proprio, come discorso su Dio e sulle cose ultime, non parla più e non se ne sente la voce (o si sente una voce molto flebile che commenta in modo catechistico o divulgativo la voce del magistero romano).
Il primo fenomeno, della teologizzazione della politica, è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta soltanto degli "atei devoti": essi rappresentano la punta più avanzata di un vasto movimento che in Italia coinvolge praticamente tutti i partiti: è la politica tutta in qualche modo che, di fronte alle grandi tematiche emergenti dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie che permettono una manipolazione mai prima sperimentata dell’uomo e della natura, tende a proporsi, particolarmente nei campi della bioetica come una specie di nuova teologia o ideologia relativa agli ultimi "perché" circa la vita e della morte.
Abbiamo non soltanto l’emergere dei nuovi fondamentalismi a difesa dei grandi valori dell’Occidente ma anche l’emergere, dopo la crisi delle grandi ideologie, di numerose chiese o sette secolarizzate, ciascuna con un credo, un culto, una liturgia particolare: oltre ai nostalgici delle vecchie ideologie abbiamo pacifisti, riformisti, ambientalisti, devoti delle nuove biotecnologie, neo-liberisti ecc.
È in qualche modo un fenomeno parallelo a quanto è avvenuto nel campo religioso vero e proprio con la crisi delle grandi chiese tradizionali e il moltiplicarsi dei movimenti settari e spiritualisti basati su pseudoprofeti o capi carismatici. Anche in precedenti interventi ho cercato di mostrare come questa ideologizzazione della politica con il richiamo diretto e continuo dei partiti ai grandi temi etici del bene e del male, porta alla fine della politica dell’Occidente come scienza e tecnica, come è stata costruita negli ultimi secoli, alla crisi stessa dello Stato di diritto, della libertà e della democrazia: queste conquiste sono infatti fondate sulla laicità come distinzione del piano teologico da quello politico e su un doppio ordine di norme, quello etico e quello positivo statale, del peccato come colpa contro Dio e del reato disobbedienza alla legge degli uomini. Solo limitando i propri scopi e riconoscendo il dualismo che pone al di fuori dei propri confini il problema del bene e del male, della salvezza, la politica è diventata davvero laica.
Meno noto è il secondo dei fenomeni che ho sopra enunciato, il silenzio dei teologi. Effettivamente la teologia non è presente nel panorama culturale italiano, se si eccettua qualche intervento del cardinale Carlo Maria Martini, qualche benemerita divulgazione nella rubrica «Uomini e profeti» del terzo canale della Radio o simili, qualche casa editrice ai margini tra il circuito cattolico e quello laico.
Ernesto Galli della Loggia ha fornito una sua spiegazione di questo silenzio sul Corriere del 20 dicembre: alla forte, o troppo forte, presenza dei cattolici in politica non corrisponde una parallela presenza dei cattolici nel mondo culturale per la loro riluttanza a far trasparire in pubblico le proprie convinzioni personali e per la loro eccessiva politicizzazione. Questa spiegazione mi sembra generica e fuorviante: in realtà siamo di fronte a una vera crisi del pensiero religioso cattolico e si può dire anche cristiano in generale - considerando le aree protestanti-riformate e quelle ortodosse - che ha motivazioni storiche molto precise.
Dopo il Concilio Vaticano II la cultura cristiana - e con essa la ricerca teologica - è infatti entrata in una crisi dalla quale non sembra essersi ancora ripresa tranne per qualche voce isolata. Se la parte più vivace e radicale della "Chiesa di base" rimase allora attratta dalla cosiddetta "teologia della liberazione" cedendo alla tentazione perenne di costruire un regno di Dio in questo mondo, (con questo quindi negando la stessa funzione storica della Chiesa), la gerarchia romana ha reagito nel suo complesso ai possibili sbandamenti chiudendosi in difesa e riducendo il pensiero religioso ad una semplice esposizione catechistica o pastorale del magistero.
Abbiamo tante teologie per ogni realtà terrena ma non abbiamo più un discorso teologico. Gli stessi difensori ad oltranza del Vaticano II si sono chiusi a poco a poco in una difesa passiva dei testi conciliari senza accorgersi che se grande era stato il significato del Vaticano II come superamento dell’età della controriforma e apertura alla modernità, ciò avveniva proprio nello stesso tempo in cui la modernità stessa finiva e si annunciavano nuovi tempi e nuovi problemi, imprevedibili anche pochi anni prima, negli anni del Concilio. I pochissimi tentativi, condividibili o no, di uscire da questa spirale sono ben conosciuti e possono essere sintetizzati anche nei due diversi cammini dei colleghi teologi dell’Università di Münster Joseph Ratzinger e Hans Küng.
L’ultimo documento in cui si è difesa la necessità e la creatività della teologia è stato in Italia il cosiddetto «Manifesto dei 63 teologi» del 15 maggio 1989 nel quale, sottolineando la «varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità» si indicava che il compito dei teologi non si svolge solo «divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione» ma, piuttosto, «quando raccolgono e propongono le domande nuove (...) o quando percorrono (...) sentieri inesplorati».
In realtà il silenzio dei teologi, delle facoltà di teologia negli ultimi 20 anni è diventato assordante e la crisi è evidente anche ad occhio nudo sia in Italia che negli altri paesi cattolici ma anche in quelli protestanti e riformati non soltanto sul piano delle teologia teoretica o dogmatica ma anche della teologia biblica, dello studio dei Padri della Chiesa e della stessa storia della Chiesa: quello che un tempo era il nucleo centrale della formazione del sacerdote viene ora marginalizzato rispetto agli insegnamenti pratici di pastorale e delle teologie applicate alle diverse realtà antropologiche: del matrimonio, della sanità, del lavoro ecc.
Non si tratta di una cosa che riguarda soltanto pochi intellettuali: pensiamo ai riflessi che questo ha avuto nella formazione del clero e nella selezione dei vescovi ma anche nell’insegnamento di religione nelle scuole. Certamente sarebbe auspicabile un insegnamento di religione condotto in maniera a-confessionale, storico-comparata, superando lo schema concordatario: ma pensiamo oltretutto che l’insegnamento come viene condotto attualmente nella parte maggiore dei casi danneggi anche la formazione del senso religioso del popolo italiano.
Si tende a ripetere formule senza tempo o a parlare soltanto dei problemi del sesso e della morale spicciola senza una presenza della Bibbia e della tradizione cristiana, dai Padri della Chiesa ad oggi: la tradizione in senso forte, passata dagli Apostoli sino a noi, da generazione in generazione, come diceva il concilio di Trento. Anche la religione viene presentata ai giovani senza storia. Ma se l’assenza della storia è micidiale in generale per la società, essa diventa mortale per la Chiesa perché senza la tradizione lo stesso senso della Chiesa si spegne. Non sono discorsi riservati alle sagrestie. Una politica laica ha bisogno per vivere anche di una teologia che faccia il suo mestiere.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.01.07, Modificato il: 07.01.07 alle ore 13.08
«GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO AUGUSTI. EDITTO AL POPOLO DELLA CITTÀ DI COSTANTINOPOLI.
Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.
DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO».
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
“Il sacramento del potere” di Paolo Prodi
di Andrea Raffaele Aquino (Pandora Rivista, 26 Agosto 2018)
Il sacramento del potere dello storico Paolo Prodi, pubblicato per la prima volta nel 1992, si configura come un tentativo di indagine del rapporto tra il cristianesimo e il processo costituzionale dell’Occidente, mediante la presa in esame dell’istituto del giuramento.
Il saggio, che sarebbe limitato definire come una mera storia del giuramento, utilizza un approccio multidisciplinare, rimanendo prevalentemente un’opera di carattere storico-costituzionale, ma non disdegnando la menzione di contributi provenienti dalla filosofia, dall’antropologia, dalla teologia e, naturalmente, dalla giurisprudenza.
Il lavoro di Prodi, che rappresenta il primo tentativo organico di analisi del giuramento all’interno della storia occidentale e che rimane ancora oggi un contributo attuale e prezioso, offre esplicitamente al lettore numerosi spunti di ricerca, interstizi creatisi dalla constatazione, espressa dall’autore, di non poter approfondire in toto questioni che si discostassero più o meno sensibilmente dall’argomento principale dell’opera: il giuramento politico.
La de-sacralizzazione della politica
Il giuramento viene definito da Paolo Prodi, da un punto di vista antropologico, come “invocazione della divinità come testimone e garanzia della verità/veracità di un’affermazione-dichiarazione o dell’impegno/promessa di compiere una certa azione o di mantenere un certo comportamento in futuro, invocazione con la quale il singolo accende un rapporto con il gruppo a cui appartiene, ponendo in gioco la propria vita corporale e spirituale in base a comuni credenze che attingono alla sfera della meta-politica”[1], ma lo stesso autore chiarisce più volte la necessità di considerare l’istituto del giuramento in Occidente come realtà dinamica e in continua evoluzione, soprattutto dall’avvento del cristianesimo in avanti, in virtù di una costante dialettica sull’argomento interna all’istituzione ecclesiale e allo stesso tempo diretta verso i poteri temporali.
Data la definizione sopracitata, appare immediatamente evidente come il controllo (e il monopolio) del giuramento rappresenti un potente elemento di stabilità per qualsiasi potere, motivo per cui, prendendo momentaneamente la Grecia classica come esempio, il “con-giurato” (sinomote) viene reputato pericoloso indipendentemente dai programmi eversivi che medita, giacché lo stesso atto di minaccia verso il monopolio del giuramento esercitato dalla polis risulta essere eversivo.
È interessante osservare la varietà dell’istituto in epoca pre-cristiana: da un antico Egitto teocratico, che contemplava un giuramento eseguito nel nome del faraone-divinità, fino alla fondamentale menzione del giuramento giudaico, prestato dallo stesso Jahvè per la stipulazione del patto col proprio popolo, a differenza delle divinità delle altre culture antiche confinanti, come quelle della già citata civiltà greca classica, chiamate unicamente a testimoniare o a punire il trasgressore. Il cristianesimo fa il proprio ingresso nella storia nel momento in cui il giuramento della civiltà romano-ellenistica comincia a svuotarsi del proprio significato sacrale[2] (sacramentum). A proposito dell’argomento, Gesù Cristo, nel discorso della montagna, contenuto nel Vangelo di Matteo[3], impone un divieto piuttosto netto, che rimarrà il problema contro cui dovrà combattere l’autorità religiosa (in contrasto con i gruppi più radicali) per legittimare il proprio uso del giuramento, da Agostino in avanti. Fino al III secolo, la comunità dei cristiani si opporrà nettamente al giuramento, ma, nella prassi, continuerà a prestarlo per svariate ragioni concernenti la stabilità sociale e civile.
Comincia a svilupparsi quel dualismo tra politica e religione, che produrrà la distinzione tra un giuramento di fedeltà e/o per la salute dell’imperatore, accettato dai cristiani ed un giuramento per genium Caesaris, da rifiutare per non violare il primo comandamento. Dopo una prima fase di incertezza dottrinale, attraverso l’opera di Agostino[4], Girolamo[5] e Ambrogio[6], il sacramentum diviene uno strumento cristiano, immagine imperfetta del giuramento del Dio veterotestamentario, utilizzabile in alcune situazioni, interpretando le parole di Gesù Cristo come un invito alla moderazione, piuttosto che un rigido divieto. Nel giro di pochi secoli, la Chiesa assurgerà a custode del giuramento, giungendo a sancirne l’eventuale nullità in casi specifici, come riporta Isidoro di Siviglia: “tolerabilius est enim non implere sacramentum quam permanere in stupri flagitio”[7], e successivamente provando a renderlo “sacramentum iuris”[8], vero e proprio sacramento (in un momento storico nel quale non si era ancora chiarito il loro esatto numero) del potere, attraverso cui si genera il diritto. Come afferma Prodi: “La teologia e la prassi della Chiesa d’Occidente hanno accettato il giuramento romano, ma lo hanno nello stesso tempo desacralizzato introducendo il giudizio di merito sui suoi contenuti e lo hanno sottratto al potere politico rivendicando la sua realtà sacramentale”[9], soprattutto durante l’età post-carolingia, caratterizzata dall’assenza di un forte potere temporale in grado di appropriarsi del sacramento-giuramento, e dalla necessità di pace, che solo la Chiesa, mediante il controllo del giuramento (il cui abuso, secondo Agobardo di Lione[10], aveva determinato il collasso dell’impero carolingio) poteva assicurare.
A questo punto il ragionamento di Paolo Prodi si fa più complicato da seguire per la necessità di uno sguardo panottico su molte questioni inevitabilmente intersecate tra di loro, ma lo stesso autore, con uno stile alle volte didattico, riesce a prendere per mano il lettore nel susseguirsi delle pagine, aiutandolo a non perdere il bandolo della matassa.
Nel corso del Medioevo il giuramento rimane istituto controllato dalla Chiesa, ma muta profondamente i propri caratteri. Da sacramentum diviene res sacra, “sottratto ad ogni automatismo derivante da un rapporto diretto con Dio, ma sottoposto al potere di giurisdizione della Chiesa”[11] e, di conseguenza, si produce un dualismo tra forum ecclesiae e forum coscientiae, tra crimine e peccato. In relazione a ciò, sul piano politico, Gregorio VII e i suoi successori cercarono di scindere completamente potere temporale e spirituale, sancendo la superiorità di quest’ultimo, mediante il “Dictatus Papae” (1075) e l’istituto, tra gli altri, del patronato sancti Petri, attraverso il quale venivano creati nuovo diritto e nuovi Stati in cambio del giuramento di obbedienza al pontefice[12].
Il giuramento, non più sacramento, si trasforma in contratto e i due poli protagonisti della lotta per le investiture, ovvero per l’egemonia nella gestione della cristianità (intesa come) unita, affrontano un dibattito interno sulla natura del proprio potere, che condurrà alla promulgazione della “Bolla d’Oro” di Carlo IV (1356) e al Concilio di Costanza (1414-1418), all’interno del quale venne formulata, e bocciata, la rivoluzionaria proposta di sottomettere il papa ad un giuramento. In questo quadro emergono, ormai svincolati dall’autorità papale, gli Stati nazionali, con le proprie Chiese nazionali, ma la natura del giuramento è ormai mutata e la politica è ormai definitivamente de-sacralizzata.
Le sorti del giuramento
Nella seconda parte del saggio, Paolo Prodi indaga il processo di costruzione dell’assolutismo monarchico ponendo al centro della propria riflessione ancora una volta il giuramento, non più creatore di diritto, bensì strumento di rafforzamento dei poteri esistenti. Per un suddito d’età moderna prestare giuramento al monarca significa unicamente confermare ciò che è stato affermato con la nascita (il “giuramento naturale”). La cristianità, ormai divisa, prende vie differenti: il cattolicesimo non accetta il iuramentum religionis, particolare forma di giuramento politico e religioso allo stesso tempo, che, invece, alcune correnti riformate (il calvinismo, ma anche la Chiesa d’Inghilterra sotto Giacomo I Stuart, che Prodi tratta molto approfonditamente) adottano. Sintetizzando: “Il giuramento [...] si rivela una cartina di tornasole abbastanza efficace per misurare il cammino compiuto, nel frastuono delle polemiche sul diritto di resistenza e il tirannicidio, e sulle origini del contrattualismo e della democrazia”[13].
Il nodo cruciale della questione, per arrivare alla contemporaneità, viene espresso da Baruch Spinoza nel “Tractatus politicus”[14]: la proposta di trasformazione dal rapporto a tre del vecchio giuramento (singolo-patria-Dio) a un rapporto a due (singolo-patria), che diverrà realtà dalla rivoluzione francese in avanti, anche se non si ebbe il coraggio, fatti salvi alcuni sporadici casi, di cancellare il nome di Dio, come proponeva Spinoza. Prodi, infine, getta uno sguardo lucidissimo sul presente e sulla pericolosità del rapporto giuramento-potere totalitario, senza uno spazio religioso a fare da contrappeso. Proprio questo spazio, usurpato dalla politica, ha permesso a quest’ultima di ri-sacralizzarsi, colpendo il principio cristiano della doppia appartenenza, elemento costitutivo della civiltà occidentale e potenziale àncora di salvezza contro ogni totalitarismo.[15]
Il pensiero che Prodi espresse nel 1992 risulta essere sempre più attuale per la civiltà occidentale, motivo per il quale l’opera merita una rilettura attenta. Oggi non c’è più posto per il giuramento, praticato in rare circostanze, ma percepito come un relitto ambiguo di un mondo scomparso, con un significato e una ritualità difficili da comprendere.
Il lavoro di Prodi, negli anni, è stato oggetto di apprezzamenti e lodi da parte di molte personalità del mondo accademico, che ne hanno approfondito aspetti diversi. Massimo Cacciari, con cui Prodi scrisse il suo ultimo saggio “Occidente senza utopie”, si è soffermato sulla problematicità del rapporto religione-coscienza-potere ne Il sacramento del potere tornando al problema “weberiano” relativo ai caratteri peculiari e unici dell’Occidente, in termini politici, ma anche economici.[16] Michele Nicoletti, invece, ha analizzato il saggio di Prodi in relazione al pensiero di Carl Schmitt, uno dei filosofi più apprezzati dallo storico emiliano, evidenziandone la continuità di vedute in alcuni ambiti[17]. Il critico Gerhard Dilcher, nella sua recensione del testo, ne ha apprezzato particolarmente la “profonda dimensione storica e la grande quantità di riferimenti concreti”[18], mentre Alain Boureau l’ha definito “uno dei più grandi libri di storia politica del nostro tempo”[19].
Quello di Prodi, in conclusione, è il classico saggio che, ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla sua prima edizione, ogni storico dovrebbe tenere a portata di mano, oltre che per le importanti teorie proposte, anche, come ha sottolineato Carlo Galli, per la vasta documentazione che esso riporta, la quale denota un’attenzione meticolosa dell’autore verso il dettaglio, specie se riguardante la filosofia del diritto.
[1] “Il sacramento del potere”, Paolo Prodi, Bologna, II edizione, 2017, p.22
[2] Interessante leggere Seneca, p.510, ad Elvia “de consolatione” 10,7; cit. in Prodi, 2017
[3] Matteo, 5, 33-37
[4] Augustinus, in particolare “Epistulae”: n.157, III, pp.478-488 e n.125, III, p.6; cit. in Prodi 2017
[5] Hieronymus, in particolare “In Jeremiam prophetam” (I, 4), col. 706; cit. in Prodi, 2017
[6] Ambrosius, in particolare “Expositio”, pp.99-100; cit. in Prodi, 2017
[7] Isidorus, Opera (Sententiarum libri II, 31), col.634; cit. in Prodi, 2017
[8] Pascasius Radbertus, “De corpore”, cap III, pp.23-24; cit. in Prodi, 2017
[9] Prodi, 2017, p.104
[10] Agobardus (“De divisione imperii ad Ludovicum”), pp.247-250; cit. in Prodi, 2017
[11] Prodi, 2017, p.161
[12] Si veda a tal proposito Flori, “La guerra santa”, Bologna, 2003, cap. VI
[13] Prodi, 2017, p. 403
[14] Baruch Spinoza, “Tractatus politicus” (c.8), p. 346, cit. in Prodi, 2017
[15] Si veda a tal proposito Pasolini: “Il folle slogan dei jeans Jesus”, in “Scritti Corsari”, 1975
[16] Massimo Cacciari: “Ricordando Paolo Prodi. Un’indagine serrata sulle origini del nostro presente”, ne “La Repubblica”, 19/12/2016
[17] Michele Nicoletti: “Il sacramento del potere. Una storia del giuramento politico”, ne “Il Margine”, n.2/1993, pp. 16-20
[18] Gerhard Dilcher recensione a “Il sacramento del potere”, ne “L’Indice”, 1992, n.6
[19] Alain Boureau: “Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente” in “Annales”, 1995, 50-3, pp. 599-602
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
"PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI", 0GGI.. In memoria di (Benedetto Croce), alcune note a margine del discorso di Papa Francesco, all’Angelus del 12 agosto 2018 d. C. ... *
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 agosto 2018
Cari fratelli e sorelle e cari giovani italiani,
buongiorno!
Nella seconda Lettura di oggi, San Paolo ci rivolge un pressante invito: «Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30).
Ma io mi domando: come si rattrista lo Spirito Santo? Tutti lo abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quindi, per non rattristare lo Spirito Santo, è necessario vivere in maniera coerente con le promesse del Battesimo, rinnovate nella Cresima. In maniera coerente, non con ipocrisia: non dimenticatevi di questo. Il cristiano non può essere ipocrita: deve vivere in maniera coerente. Le promesse del Battesimo hanno due aspetti: rinuncia al male e adesione al bene.
Rinunciare al male significa dire «no» alle tentazioni, al peccato, a satana. Più in concreto significa dire “no” a una cultura della morte, che si manifesta nella fuga dal reale verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro. A tutto questo, “no”. La vita nuova che ci è stata data nel Battesimo, e che ha lo Spirito come sorgente, respinge una condotta dominata da sentimenti di divisione e di discordia. Per questo l’Apostolo Paolo esorta a togliere dal proprio cuore «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenza con ogni sorta di malignità» (v. 31). Così dice Paolo. Questi sei elementi o vizi, che turbano la gioia dello Spirito Santo, avvelenano il cuore e conducono ad imprecazioni contro Dio e contro il prossimo.
Ma non basta non fare il male per essere un buon cristiano; è necessario aderire al bene e fare il bene. Ecco allora che San Paolo continua: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (v. 32). Tante volte capita di sentire alcuni che dicono: “Io non faccio del male a nessuno”. E si crede di essere un santo. D’accordo, ma il bene lo fai? Quante persone non fanno il male, ma nemmeno il bene, e la loro vita scorre nell’indifferenza, nell’apatia, nella tiepidezza. Questo atteggiamento è contrario al Vangelo, ed è contrario anche all’indole di voi giovani, che per natura siete dinamici, appassionati e coraggiosi. Ricordate questo - se lo ricordate, possiamo ripeterlo insieme: “E’ buono non fare il male, ma è male non fare il bene”. Questo lo diceva Sant’Alberto Hurtado.
Oggi vi esorto ad essere protagonisti nel bene! Protagonisti nel bene. Non sentitevi a posto quando non fate il male; ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto. Non basta non odiare, bisogna perdonare; non basta non avere rancore, bisogna pregare per i nemici; non basta non essere causa di divisione, bisogna portare pace dove non c’è; non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno: fermare il chiacchiericcio: questo è fare il bene. Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene, “camminando nella carità” (cfr 5,2), secondo il monito di San Paolo.
Cari giovani, in questi giorni avete camminato molto! Perciò siete allenati e posso dirvi: camminate nella carità, camminate nell’amore! E camminiamo insieme verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. La Vergine Maria ci sostenga con la sua materna intercessione, perché ciascuno di noi, ogni giorno, con i fatti, possa dire “no” al male e “sì” al bene.
Dopo l’Angelus
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti da tante parti del mondo.
In particolare saluto i giovani delle diocesi italiane, accompagnati dai rispettivi Vescovi, dai loro sacerdoti ed educatori. In questi giorni, avete riversato per le strade di Roma il vostro entusiasmo e la vostra fede. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra testimonianza cristiana! E ieri, nel ringraziare, ho dimenticato di dire una parola ai sacerdoti, che sono quelli che vi sono più vicini: ringrazio tanto i sacerdoti, ringrazio per quel lavoro che fanno giorno per giorno, ringrazio per quella pazienza - perché ci vuole pazienza per lavorare con voi! La pazienza dei sacerdoti ... - ringrazio tanto, tanto, tanto. E ho visto anche tante suore che lavorano con voi: anche alle suore, grazie tante.
E la mia gratitudine si estende alla Conferenza Episcopale Italiana - qui rappresentata dal Presidente Cardinale Gualtiero Bassetti - che ha promosso questo incontro dei giovani in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi.
Cari giovani, facendo ritorno nella vostre comunità, testimoniate ai vostri coetanei, e a quanti incontrerete, la gioia della fraternità e della comunione che avete sperimentato in queste giornate di pellegrinaggio e di preghiera.
A tutti auguro una buona domenica. Un buon rientro a casa. E per favore, non dimenticate di pregare per me! Buon pranzo e arrivederci!
* Appunti di commento sul tema, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
Il Concilio di Nicea
di Arnaldo Casali *
No, non è stata decisa la divinità di Cristo, al Concilio di Nicea; con buona pace di Dan Brown che l’ha scritto nel [Codice Da Vinci (**), scomodando centinaia di intellettuali per smentire la solenne baggianata e facendo conoscere anche ai più sprovveduti in materia religiosa il più importante Concilio della storia.
Se non ha votato la proposta di trasformare in Dio un profeta mortale (non ce ne era bisogno visto che la divinità di Cristo è già dichiarata nei Vangeli e predicata dagli apostoli) il Concilio di Nicea, aperto solennemente nel palazzo imperiale il 20 maggio dell’anno 325, ha stabilito in compenso la data della Pasqua, prodotto il Credo ancora oggi recitato durante ogni messa e scatenato la più grande eresia del Medioevo: l’unica - fino alla Riforma luterana - capace di uscire dalla dimensione della setta per trasformarsi in una vera e propria Chiesa alternativa a quella cattolica.
Eppure al primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa il Papa non ha partecipato, e a convocarlo e presiederlo è stato un laico che non era nemmeno battezzato: l’imperatore Costantino.
Non c’è nulla di così strano, in realtà. A quel tempo il Papa non era il capo della cristianità ma semplicemente il vescovo di Roma; il suo potere aumenterà progressivamente, nel corso del Medioevo, quando - venuto meno l’impero romano - andrà di fatto a colmare il vuoto lasciato dai Cesari.
Nel 325, però, l’impero è ancora saldo e sul trono siede uno dei più grandi sovrani della storia romana che, dodici anni prima, dalla nuova capitale Milano ha emanato l’editto con cui viene garantita la libertà religiosa a tutti i cittadini, mettendo fine alle persecuzioni e segnando una svolta radicale nella storia del Cristianesimo.
Costantino non è un cristiano vero e proprio: si farà battezzare solo dodici anni dopo, in punto di morte, promuove il culto del dio Sole ed è il Pontefice Massimo della religione romana; all’indomani del Concilio farà uccidere suo figlio e sua moglie, mentre nella sua nuova capitale farà edificare vari templi a divinità pagane.
Certo, già dalla battaglia di Ponte Milvio che il 28 ottobre 312 lo aveva visto trionfare contro Massenzio, Costantino aveva ostentato la sua simpatia per la nuova religione, rifiutando i rituali divinatori degli aruspici e preferendo affidarsi alla protezione del “Sommo Dio”. Quando era entrato trionfante in Roma, poi, non era nemmeno salito in Campidoglio, dove c’era il tempio più sacro della città.
Negli anni successivi la politica religiosa nei confronti dei cristiani è passata dalla tolleranza al sostegno e l’imperatore, che ha progressivamente abbandonato i culti di Ercole e Giove, ha iniziato a far inserire simboli cristiani su vessilli, statue e monete. Nel 321 ha introdotto la settimana e stabilito che la domenica debba essere riconosciuta come giorno festivo (chiamandola però con il nome pagano di “Giorno del Sole”) e nel 324 ha messo al bando i rituali di magia e vietato le esecuzioni dei condannati a morte durante i giochi circensi. Tutto questo, però, senza proibire i culti pagani, continuando a manifestare rispetto per i fedeli dell’antica religione e mantenendo una certa ambiguità sulla sua fede personale.
Si tratta senza dubbio di una strategia politica, che mira a pacificare l’impero e a venire a patti con il sempre più potente movimento religioso, dopo il fallimento delle persecuzioni di Diocleziano. L’obiettivo di Costantino è quello di trasformare la forza potenzialmente disgregante delle energiche comunità cristiane in una forza di coesione per l’impero, che sarà ancora più forte sotto la protezione dell’unico vero Dio e con il sostegno dei suoi devoti.
Ma non si tratta solo di gestione di potere: l’interesse religioso dell’imperatore è sincero e sposare apertamente una religione che conta ancora appena il 10% dei cittadini non è certo una scelta popolare.
Tuttavia, più che seguace di Gesù Cristo, Costantino è un convinto monoteista.
Non è tanto il Vangelo ad affascinarlo, quanto l’idea di un Dio unico, che non necessariamente si identifica con la trinità: di fatto il primo imperatore cristiano promuove un sincretismo che tende a unire il cristianesimo con i culti mitralici e solari. Insomma quello che interessa a Costantino è che ci sia un solo Dio e che questo Dio non sia egli stesso (come pretendevano i suoi predecessori) ma un’entità superiore e onnipotente a cui affidarsi; tanto che nello stesso Editto di Milano si parla della “divinità che sta in cielo, qualunque essa sia” che “a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”. E senza dubbio il Sole è la più tangibile forma di un Dio padre e re dei cieli, che illumina e dà vita e che ogni giorno muore e ogni mattino risorge, vincendo le tenebre e donando nuova luce al mondo.
In alcune lettere private Costantino afferma di voler convertire tutti alla religione cattolica, ma di fatto la sua azione politica punta ad un ecumenismo che faccia confluire in un’unica forma le credenze religiose di tutti i popoli sottomessi a Roma.
D’altra parte se l’unico Dio è il sovrano dei cieli, sulla terra il padrone è lui. E a lui spetta, quindi, assumersi la responsabilità di gestirne il culto assicurando la benevolenza al suo popolo. Per questo Costantino, mentre mantiene le più alte cariche religiose pagane, si assume anche il compito di guidare il popolo cristiano.
Nel 325, dunque, con il singolare ruolo di “vescovo di quelli che sono fuori dalla Chiesa” ha convocato a Nicea la prima assemblea plenaria della Chiesa Cattolica dai tempi del Concilio di Gerusalemme (la riunione raccontata negli Atti degli Apostoli a cui avevano partecipato - pochi anni dopo la morte di Gesù - il fratello Giacomo, gli apostoli e san Paolo, per decidere se mantenere il cristianesimo nell’ambito dell’ebraismo o farne una religione nuova).
Al primo Concilio ecumenico vengono quindi convocati tutti i vescovi del mondo; quello di Roma, però, non si presenta perché la città turca è decisamente fuori mano e manda due preti in sua rappresentanza.
Costantino, d’altra parte, si prepara a trasferire in oriente la capitale stessa dell’impero, ma la scelta costa al Concilio l’adesione delle chiese occidentali: se l’imperatore ha invitato i vescovi di tutte le 1800 comunità del mondo cristiano a Nicea se ne presentano solo 300, e tutti provenienti dall’oriente o dal nord Africa, con sole tre eccezioni: Marco di Calabria dall’Italia, Osio di Cordova dalla Spagna e Nicasio di Digione dalla Gallia.
È vero anche che il principale problema che la riunione deve risolvere, per il momento, riguarda il Medi Oriente: si tratta del dibattito sulla natura di Cristo che ha spaccato la comunità di Alessandria e rischia di dilagare in tutto il mondo.
Dan Brown, nel suo stile, ha semplificato al massimo la questione parlando di una contrapposizione tra chi sosteneva che Cristo fosse un semplice uomo e chi lo venerava come Dio. In realtà il nodo era piuttosto se Gesù fosse stato creato o generato da Dio Padre. In parole più semplici, se Gesù è una creatura di Dio (ed è quindi nato in un preciso momento) o è la manifestazione storica di Dio stesso, ed è quindi eterno.
Da questo punto di vista i Vangeli non sono molto coerenti: se Marco, Matteo e Luca presentano Cristo come un personaggio storico nato a Betlemme di Giudea e rivelatosi in seguito essere il Messia e il figlio di Dio, Giovanni ne parla come del “Verbo” divino incarnato.
Il principale sostenitore della tesi secondo cui Gesù - in quanto figlio - è stato creato in un preciso momento storico è il prete e teologo libico Ario, che già nel 300 era stato scomunicato dal patriarca di Alessandria Pietro. Nel 311 Ario era stato riabilitato dal nuovo patriarca Achilla, e alla sua morte - nel 312 - era diventato il principale candidato alla successione.
Ario era stato però sconfitto alle elezioni da Alessandro, che nel 318 aveva convocato un sinodo appositamente per scomunicare di nuovo il rivale. Fuggito dalla città, il teologo eretico aveva trovato nuovi seguaci in Siria e in Palestina, raccogliendo il consenso anche di illustri teologi come Eusebio di Cesarea. Nel 321 un sinodo di cento vescovi egiziani ha di nuovo condannato le sue tesi e chiesto la convocazione di un concilio per fare maggiore chiarezza in materia cristologica.
Sotto il profilo squisitamente teologico non è in discussione la divinità di Cristo, quanto piuttosto se il Padre e il Figlio siano composti dalla stessa sostanza (nel senso aristotelico del termine) o se il Figlio sia stato creato dal Padre e si trovi dunque in una posizione subordinata.
Tutta la diatriba ruota intorno alla differenza terminologica tra “generato” e “creato”; differenza sostanziale secondo Alessandro e inesistente secondo Ario. 800px-constantine_burning_arian_books
I promotori della Consustanzialità credono che seguire l’eresia ariana significhi spezzare l’unità della natura divina e rendere il Figlio diverso dal Padre, in palese contrasto con le Scritture (“Io e il Padre siamo una cosa sola”, dice Gesù in Giovanni 10,30). Gli ariani, dal canto loro, rispondono citando il passo 14,29 dello stesso Vangelo: “Io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me”. Gli uni replicano dicendo che la trinità è eterna, quindi il Padre è sempre stato Padre e il figlio è sempre stato il figlio indipendentemente dalla sua incarnazione, gli altri ribadiscono che Cristo è una creatura elevata ad uno status divino. Lo scontro, come è evidente, riguarda elucubrazioni di teologia estrema riservate a dotti filosofi, e che non hanno alcuna ripercussione pratica sulla vita cristiana; eppure la diatriba, sempre più aspra, rischia di lacerare la Chiesa; per questo Costantino vuole che la questione venga risolta prima che sfugga di mano.
Ma quello dell’arianesimo non è l’unico nodo della matassa cristiana che l’imperatore si trova a dover sciogliere con i padri conciliari. C’è una questione ancora più delicata che va chiarita una volta per tutte: la data della Pasqua.
Quando bisogna celebrare le principali feste cristiane, infatti, ci si trova di fronte a un paradosso: della nascita di Cristo non si sa assolutamente nulla, eppure - per volontà dello stesso Costantino - la data del Natale è stata stabilita convenzionalmente il 25 dicembre, proprio per farla coincidere con la festa del Sole Invitto e identificare così le due divinità. All’opposto, del momento più importante della vita cristiana - la Resurrezione - la data si conosce con esattezza eppure ogni comunità la festeggiava in un giorno diverso.
Questioni di calendario: secondo i Vangeli Cristo è risorto il giorno 14 del mese di Nisan. Il problema è che i mesi ebraici seguono un calendario lunare dalla redazione molto complessa, anche perché legata alle osservazioni astronomiche e alla maturazione dell’orzo (per la festa degli azzimi, strettamente legata alla Pasqua ebraica); di conseguenza il 14 di Nisan cade ogni anno in un giorno diverso e con notevoli sfasamenti di anno in anno e persino di luogo in luogo. Inoltre, nei Vangeli è scritto che Gesù è risorto il giorno dopo il sabato, per questo ogni domenica i cristiani celebrano la resurrezione, che è - di fatto - una Pasqua settimanale. Il giorno di Pasqua deve quindi cadere necessariamente di domenica.
La confusione creata da tutte queste variabili aveva visto affermare, nel corso dei secoli, prassi molto diverse tra loro: lo scontro principale era tra quelli che celebravano la Pasqua insieme agli ebrei (detti Quatrodecimani) e quelli che la celebravano la domenica successiva. Altri ancora si erano svincolati dal calendario ebraico - giudicato inattendibile per le troppe variabili che conteneva - e avevano calcolato autonomamente le fasi lunari. Ma di fatto poteva capitare persino di celebrare due volte la Pasqua nello stesso anno solare.
Secondo alcuni cronisti, Costantino in persona si esprime per una presa di distanza dal calendario ebraico, con argomentazioni antisemite: “Fu prima di tutto dichiarato improprio il seguire i costumi dei Giudei nella celebrazione della santa Pasqua, perché, a causa del fatto che le loro mani erano state macchiate dal crimine, le menti di questi uomini maledetti erano necessariamente accecate” scrive Teodoreto di Cirro. “Non abbiamo nulla in comune con i Giudei, che sono i nostri avversari evitando ogni contatto con quella parte malvagia. Quindi, questa irregolarità va corretta, in modo da non avere nulla in comune con quei parricidi e con gli assassini del nostro Signore”.
Il Concilio di Nicea stabilisce così che la Pasqua venga festeggiata ogni anno la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera. E così viene calcolata ancora oggi.
Nel frattempo Ario ed Eusebio di Nicomedia, il suo principale sostenitore, si ritrovano in poco tempo in minoranza. E come sempre accade in questi casi, non tanto per le argomentazioni quanto per il caratteraccio: l’arroganza dei due teologi, infatti, è così insopportabile da indisporre la fazione moderata e indurla a votargli contro. Alla fine la teoria del Figlio della stessa sostanza del Padre vince con una larghissima maggioranza: persino Eusebio cambia posizione e solo Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide votano a favore di Ario.
Il nuovo dogma viene inserito nella Professione di fede che i cristiani reciteranno da quel momento in poi durante ogni celebrazione liturgica, in cui si precisa così che Gesù Cristo è “generato, non creato della stessa sostanza del Padre”.
Tuttavia il turbolento clima conciliare per niente conciliante, degenera al punto che san Nicola di Bari, vescovo di Mira, arriva a prendere a schiaffi Ario.
Uno schiaffo che il teologo sconfitto avrebbe restituito con gli interessi ai vincitori.
Sconfessato ufficialmente, infatti, Ario non si arrenderà: appena tre mesi dopo il Concilio, Eusebio di Nicoledia e Teognis di Nicea saranno esiliati in Gallia perché - pur avendo firmato gli atti dell’assemblea - riprenderanno a predicare la teologia ariana, guadagnando alla loro causa anche il Custode degli atti stessi.
Non solo, ma persino l’imperatore Costantino negli ultimi anni di vita finirà per passare al nemico, riabilitando Ario e ricevendo il battesimo ariano da Eusebio (e giocandosi così il titolo di santo, che verrà assegnato invece alla madre Elena).
Nei decenni l’eresia ariana continuerà a crescere fino a diventare una vera e propria chiesa alternativa a quella cattolica.
Se di eresie ce ne erano state già sin dall’inizi del Cristianesimo (dagli gnostici ai manichei, dai meleziani ai novaziani) e il Medioevo ne vedrà sorgere di importantissime (basti pensare ai catari, contro cui Innocenzo III bandirà addirittura una crociata, e i valdesi - che riusciranno a sopravvivere fino al Cinquecento ed entreranno nella Riforma protestante arrivando fino ad oggi) gli ariani saranno gli unici a conquistare intere nazioni, tanto da diventare - nell’alto medioevo - una vera e propria seconda Chiesa cristiana, a cui aderiranno la maggior parte delle popolazioni germaniche, tanto che a Ravenna esiste ancora la cattedrale ariana fatta costruire da Teodorico con tanto di battistero.
L’ariano resterà così nell’immaginario cristiano l’eretico per antonomasia, tanto che durante le crociate in occidente gli stessi musulmani verranno chiamati “ariani” e così continueranno ad essere chiamati per secoli.
A dare testimonianza di come il termine, ancora nel Seicento, venisse usato per indicare gli arabi è Alessandro Manzoni nel capitolo XIV dei Promessi sposi: Renzo si è ubriacato in una locanda e l’oste gli chiede le generalità come prescritto da un’apposita legge. Alle rimostranze di Renzo gli mostra la circolare, in cui campeggia lo stemma del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova con il volto di un re moro incatenato per la gola.
“Lo conosco quell’arme - risponde il nostro - so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo. Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole”. E così sia.
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini).
** DAN BROWN, IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI (LA VITA SENZA EQUILIBRIO - LIFE OUT OF BALANCE).
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
RIPENSARE COSTANTINO ... *
Perché Dio viene presentato al maschile?
risponde il teologo Pino Lorizio (Famiglia Cristiana, 11/05/2017)
La Bibbia ci autorizza a pensare Dio anche nel suo volto “materno”. E ci dice che se anche una donna si dimenticasse di suo figlio, il Signore non potrà mai dimenticarsi di noi, né abbandonarci. In tempi nei quali assistiamo a episodi inauditi di violenza non solo di padri, ma anche di madri, su bambini inermi, ricordarcelo non è fuori luogo.
Né dobbiamo dimenticare che pensare Dio come sessuato è un antropomorfismo, che potrebbe risultare fuorviante, se inteso in termini esclusivi. Dio è oltre le differenze sessuali, perché è fuori del tempo e delle contingenze mondane.
Quando però il Figlio si incarna, entra in questa differenza e non può che assumere una delle modalità in cui l’umano si esprime. Se si fosse incarnato al femminile, si sarebbe potuta avanzare la stessa obiezione dal punto di vista maschile. E allora, siccome la storia non si fa con i se e i ma, stiamo dentro l’evento, non alimentiamo inutili fantasie ispirate a machismo o femminismo, e lasciamoci guidare dalla tenerezza materna di Dio, incarnata in Cristo Gesù e vissuta nella madre Chiesa.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA.
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima . Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia. Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
LEGGI ANCHE: Fatima, mistero e profezia del Novecento
LEGGI ANCHE: Il Terzo Segreto di Fatima: dati certi, dubbi e retroscena
* www.lastampa.it, 10.05.2017.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico (=cattolicesimo costantiniano....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto. Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota sul Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare"
I POLITICI SI SONO FATTI TEOLOGI E LA TEOLOGIA, IN SENSO PROPRIO, NON PARLA PIU’. Una riflessione di Paolo Prodi.
LETTERA a Paolo VI - Abbattere i muri, costruire i ponti
di Giorgio La Pira *
Beatissimo Padre,
in questi giorni sto leggendo (e per una ragione storica, politica e religiosa evidente ed urgente) Chiesa e Stato attraverso i secoli: il problema del mondo, oggi, è questo: «rivedere» -vedere «riemergere» in questa età nuovissima del mondo- la Chiesa quale soggetto essenziale dell’ordine storico, giuridico e politico mondiale: quale essenziale protagonista (il più importante, in certo senso) della edificazione del nuovo universo delle nazioni: quello che si costituisce in questa età della inevitabile unificazione e pacificazione delle nazioni!
Bisogna riprendere coscienza di questa «soggettività» eminente della Chiesa Cattolica (romana!) nell’ordine giuridico e politico del mondo: soggettività che i secoli, -la storia!- chiaramente indicano (essa, in un certo senso, la creatrice dell’ordine giuridico internazionale) e che costituisce il problema fondamentale dell’attuale situazione storica e politica delle nazioni.
Il problema del concordato sta tutto qui: «l’altra parte» (la Chiesa) è un soggetto giuridico e in certo senso politico che regge, insieme con lo Stato (con gli Stati) l’ordine totale e la storia totale del mondo! Leone XIII vide questa realtà con tanta luce! «Immortale Dei». Quello del concordato non è un piccolo, marginale, problema: esso si eleva proprio a questa alternativa: la Chiesa suprema oggetto giuridico e politico, centro di gravità dell’universo delle nazioni! «La Chiesa, il vessillo elevato sulle Nazioni».
Ecco, Beatissimo Padre, il grande problema storico e politico di oggi: -«chi dicono gli uomini che io sia?» Questa è la domanda che la Chiesa, ripetendo le parole del Signore proprio oggi -in questa età nuovissima, atomica, spaziale, demografica, millenaria, scientifica ecc.- invita i popoli e le nazioni (non solo i singoli) a porsi questa domanda, ed a trarre da essa tutte le implicazioni storiche, politiche, culturali, spirituali etc. che essa comporta!
La «fiacchezza» della polemica occidentale (postconciliare, come si dice) sta nel mettere «in disparte» (per così dire) questa soggettività giuridica e politica della Chiesa: questa soggettività che fa di essa il «pernio» dell’equilibrio delle nazioni, il punto unificante del mondo!
Bisogna rimeditare tutta la storia della Chiesa: da Paolo che «punta» sulla casa di Cesare, a S. Silvestro che «negozia» con Costantino, a Leone Magno che «negozia» con Attila etc. etc. sino a Paolo VI che parla all’ONU e che si volge a Pekino! Unificare il mondo: ecco il problema - unico - di oggi: unificarlo facendo ovunque ponti ed abbattendo ovunque muri: ebbene, questa unificazione non è possibile -quasi non ha senso- se non passa (in certo modo) da Pietro: se, cioè, questa unificazione giuridica e politica fra gli Stati non è accompagnata dal rapporto unificante -giuridico e politico (in senso profondo)- fra gli Stati e la Chiesa!
Questo il grande problema di oggi: rivedere la Chiesa come centro di gravità delle nazioni e come soggetto «l’altra parte» essenziale dell’ordinamento giuridico e politico del nuovo universo dei popoli e delle nazioni.
Ecco, allora, Beatissimo Padre, l’immenso valore -la grande attualità ed urgenza- dei contatti e dei rapporti della Chiesa con tutto il mondo «dell’Est» e «del Sud»: qui essa trova i nuovi interlocutori, «l’altra parte», capace -malgrado «l’ateismo ufficiale»- di vederne la struttura storica e giuridica, politica e spirituale, destinata a fare da «ossatura» al corpo delle nazioni.
A me pare che la Chiesa vincerà la Sua grande battaglia odierna (anche interna) proprio all’Est ed al Sud: solo «attraverso i barbari» essa potrà ricomporre (per così dire) «l’impero romano in decadenza» e potrà ricomporre (per così dire) «il nuovo impero», «l’unità nuova dei popoli»! Forse queste non sono illusioni: forse è questo il punto della storia -Pace inevitabile, unificazione del mondo inevitabile; emergenza dell’Est e del Sud inevitabile- nel quale avrà luogo la grande riemergenza storica, giuridica e politica della Chiesa: «la Chiesa il vessillo elevato sulle nazioni». Filialmente nel Signore
La Pira
27-2-70 S. Pier Damiani!
Preparo alla luce di questo «tessuto storico e giuridico e politico» il mio viaggio (in aprile) a Mosca! Queste cose, del resto, da vario tempo esplicitamente e vigorosamente dico nei miei rapporti (a tutti i livelli) con i paesi dell’Est (Germania, Cina, Urss, Ungheria, Polonia etc.).
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http://www.giorgiolapira.org/it/content/paolo-vi-abbattere-i-muri-costruire-i-ponti
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016]) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
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[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
Morto a Bologna Paolo Prodi, fratello di Romano
Docente e fondatore de ’Il Mulino’, fratello ex premier Romano
di Redazione ANSA *
(ANSA) - BOLOGNA, 17 DIC - Scomparso a Bologna nella serata di ieri, a 84 anni, Paolo Prodi, fratello dell’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea, Romano Prodi. Storico, intellettuale, è stato docente universitario a Trento, Roma e all’Alma Mater di Bologna, oltre ad essere fondatore della casa editrice ’Il Mulino’ e ex deputato.
Una cerimonia in ricordo di Paolo Prodi è in programma all’Archiginnasio di Bologna alle 10.30 di lunedì 19 dicembre. Seguirà il funerale religioso, probabilmente alle 11.30, nella Chiesa di San Benedetto in via Indipendenza 64. "ll professor Paolo Prodi era uno storico di riferimento dell’Alma Mater - ricorda -. Nel suo percorso di ricerca aveva posto al centro due poli distinti quello del sacro e quello del potere politico considerando la dialettica tra di essi un elemento chiave per interpretare la storia dell’Occidente. Alla passione per gli studi e per l’insegnamento aveva saputo coniugare una passione per le istituzioni universitarie avendo ricoperto il ruolo di Rettore all’Università di Trento e di Preside all’Università di Bologna. Alla famiglia l’abbraccio sincero di tutta la comunità accademica bolognese".
Molti i mesasaggi di cordoglio del mondo politico ed accademico.
"Partecipo con animo commosso e con profondo rispetto al cordoglio per la scomparsa del Professor Paolo Prodi. È stato personalità eminente della cultura italiana del Novecento per l’accuratezza e finezza dei suoi studi, e in particolar modo di quelli dedicati alla storia della Chiesa cattolica, e allo stesso tempo per il suo forte impegno civile e democratico in rapporto dialettico con la politica nazionale ed europea e in una indefettibile dedizione ad ogni causa di progresso. Le mie condoglianze ai suoi famigliari ed il mio più caldo abbraccio a Romano". Lo scrive il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.
"Esprimo il cordoglio di tutto il Partito Democratico per la scomparsa di Paolo Prodi. La sua figura di storico, di docente universitario e intellettuale appassionato alla politica lascia un contributo importante di idee e valori per il Paese. Alla sua famiglia esprimiamo tutta la nostra vicinanza". Così Lorenzo Guerini, vicesegretario nazionale del Pd.
Egregio Professore,
condivido la sua riflessione e vorrei condividere con Lei un breve assaggio della mia esperienza. Sono una giovane teologa entusiasta per l’esegesi biblica e per la riflessione teologica, non necesseriamente finalizzata alla pastorale (che oggi somiglia più a un indottrinamento superficiale e forzato). Contemporaneamente vivo con sconcerto l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi delle giovani come me: infatti, non investe nulla sulla formazione dei giovani che dimostrano interesse per la tradizione teologica (mentre potrebbero benissimo occuparsi d’altro) .
La stessa freddezza e lo stesso scetticismo nei confronti della formazione teologica l’ho trovato nelle Facoltà di Filosofia che ho frequentato (provengo, infatti, dall’Università Statale e da un Liceo che più a sinistra non si può). Per me la Teologia costituiva un completamento della Filosofia e, contemporaneamente, un ampliamento dei miei orizzonti. Quando i miei docenti della Statale hanno scoperto che frequentavo anche la Facoltà di Teologia, l’unica cosa che hanno saputo chiedermi era se per caso volessi farmi suora (e Le assicuro che non ho mai dato segnali in questa direzione). Per loro, studiare teologia significava due cose: prendere i voti o creare pericolosi contatti con l’ambiente cattolico. Alcuni docenti cattolici, al momento di prendere posizione riguardo alla mia scelta (perché evidentemente non potevano rimanere neutrali) hanno assunto l’atteggiamento dell’antiquata sinistra anticlericale (però quando servono i voti come sanno diventare compiacenti!). Insomma: non hanno valutato l’aspetto culturale e formativo della mia scelta, ma solo quello politico che rischiava di destabilizzare gli affari del Dipartimento (neanche fossi la figlia segreta di qualche cardinale) .
Ho continuato per la mia strada e sono felicissima di averlo fatto. Non ho preso i voti e non ho amicizie nelle alte gerarchie ecclesiastiche. Rimane solo una profonda amarezza per la povertà di spirito che alcune delle persone che hanno contribuito alla mia formazione hanno dimostrato di avere e l’orgoglio di non essermi lasciata influenzare da loro rinunciando a ciò che mi appassiona.
Cordiali saluti
Lucrezia