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Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO*
di Federico La Sala
I
Verso l’Eden. - Tra il 1304 e il 1308 Dante scrive, più o meno contemporaneamente al Convivio, il De vulgari eloquentia**: lo scopo di quest’opera, come dell’altra, entrambe lasciate incompiute, è pur nella differenza lo stesso, pedagogico e “illuministico”. Quello del Convivio - la prima opera in volgare in Italia in cui sotto forma di commento a canzoni “sì d’amore che di virtù materiate” si affrontano complessi problemi dottrinali (configurazione dei cieli, scienze del trivio e del quadrivio, nobiltà, Impero) - è imbandire un banchetto di sapienza per tutti coloro che non conoscono il latino (“volgari e non letterati”) e che non possono saziare l’umano desiderio di sapere perché impediti o dalla “cura familiare e civile” o dal vivere in un luogo “da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano”. Quello del De vulgari eloquentia è “illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze” e “giovare alla lingua della gente illetterata” (I, i, l).
Proposito primo di tale opera, essendo scritta in latino e destinata pertanto ai “letterati” (a quelli che conoscono il latino), è, però, “insegnare la teoria dell’eloquenza volgare” (I, xix, 2). Cosa che per Dante significa non solo indicare la via e il modo per elaborare “da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli” quel volgare italiano che è “cosi nobile, cosi limpido cosi perfetto e cosi urbano come mostrano”(I, xvii, 3), Cino da Pistoia e il suo amico (Dante stesso), ma anche e soprattutto “chi riteniamo degno di usarlo, e per quali materie, e, come, nonché dove, e quando, e a chi vada rivolto” (I, xix, 2). Cioè, semplicemente, la trattazione dell’eloquenza volgare vuol essere al contempo una trattazione dell’intellettuale volgare.
Col De vulgari eloquentia ai “letterati” italiani (in particolare a quelli che sono o vogliono essere “versificatori in volgare”, perché - nonostante “il volgare illustre italiano può legittimamente manifestarsi sia in prosa che in versi” - “il volgare che è stato organizzato in poesia sembra rimanere come modello ai prosatori, e non viceversa») Dante vuole indicare decisamente quale spazio si è aperto, e, quali prospettive e quali compiti si vengono a porre nella realtà del tempo; e, ancora, come tutto questo ruoti intorno al nodo dell’eloquenza volgare. Ciò che egli propone, di fronte alle vaste ed eccezionali trasformazioni della realtà contemporanea, - si tenga presente che tra il secolo XI e il XIII “nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante”, che “nuovi mestieri nascono e si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza” (1); e, che, ad es., la popolazione di Firenze, “di appena 6000 abitanti nella prima metà del secolo XII, saliva nel 1300 a molto di più di 30.000, e, pochi decenni dopo, a quasi 100.000”(2), - non è una prospettiva né un compito affatto semplice: cambiare registro linguistico e forgiarne uno nuovo e più degno.
Abbandonare il latino (“usato sole”) che ormai dà “lo suo beneficio a pochi” e mettersi al lavoro dentro quel processo già in atto di formazione della lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre - la lingua che sarà, scrive Dante nel Convivio, “luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritate” - comporta tanto impegno quanto una radicale trasformazione della figura del dotto, richiede innanzi tutto uomini capaci di essere all’altezza della situazione, di schierarsi a fianco di quanto sta emergendo nella realtà politica e sociale italiana: “ognuno - scrive Dante - affronti con cautela e discernimento ciò di cui parliamo [...] è qui che sta l’impresa e la fatica, perché non è cosa che possa darsi senza vigore d’ingegno e assidua frequentazione della tecnica e possesso della cultura [...]. E allora resti dimostrata e svergognata la stoltezza di coloro che, privi di capacità tecnica e di cultura, fidando nel solo ingegno, si precipitano sui sommi temi che vanno cantati in forma somma; e la smettano con una simile presuntuosità e, se la natura o la fannullaggine li ha fatti oche, non pretendano di imitare l’aquila che si slancia verso gli astri” (Il, iv, 9-11).
Nel momento storico in cui viene a sgretolarsi la realtà economica e sociale del mondo feudale e si va invece consolidando fortemente la realtà delle città, e lo stesso volgare si sta evolvendo in modo vertiginoso, Dante giunge a percepire in tutta la sua importanza quel processo che sta portando gli individui a essere sempre più dominati da astrazioni e sempre più bisognosi (“quest’arte dell’eloquenza volgare è necessaria a tutti - tant’è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura”) della lingua di secondo grado (“definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono grammatica. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri popoli, non tutti però”), - cioè di un volgare regulato, - e sollecita i dotti a farsi carico di tale problema, perché, se è vero che l’arte dell’eloquenza “è necessaria a tutti”, è altrettanto vero che “sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo” (I, i). E, in questo, li sollecita a muoversi nella direzione sua e di Cino da Pistoia, perché essi hanno conseguito ottimi risultati nello sforzo di elaborazione della lingua regulata, e li hanno conseguiti proprio perché nel loro fare poetico “mostrano di appoggiarsi maggiormente alla grammatica che è comune a tutti” (I, x, 2), vale a dire a quella “ben determinata forma di linguaggio” che “in una con la prima anima fu creata da Dio” (I, vi, 4) e che fu propria a tutti gli uomini fino alla costruzione della torre di Babele (3).
Le ragioni del programma e della proposta politico-culturale esposte nel De vulgari eloquentia sono da ritrovare nella scoperta che Dante fa nella realtà storico sociale del tempo - e per di più nel giardino dell’Impero, in Italia - di una tensione ontologica verso l’Universale, e nella consapevolezza che egli mostra della necessità di collocarsi in questo spazio se si vuole cogliere quella tensione stessa e regolarla. Infatti l’ipotesi-guida nella ricerca dell’oggetto, della lingua illustre tra i vari volgari, e, insieme, nell’opera “di sradicamento o di estirpazione che dir si voglia” di “cespuglia aggrovigliati e rovi” per la selva italica (I, xi, 2) è il punto di vista logico e politico dell’Universalità o, come egli la chiama, della curialità: “la curialità non è altro che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza viene chiamato curiale» (I, xviii, 4). Ed è questo punto di vista che, sollecitando - una volta che dall’indagine spedita e “spietata” delle principali varietà di volgari non si è salvato alcuno, né regionale né municipale alla destra come alla sinistra del “giogo dell’Appennino”; chi si è salvato sono solo alcuni poeti “che si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo nelle loro canzoni, i vocaboli più degni della curia” (I, xii, 8), che si sono sforzati “di distaccarsi dal volgare materno e di tendere a quello curiale” (I, xiv, 7) - a proseguire la ricerca con strumenti più adeguati, diviene l’oggetto da cui partire, il punto di partenza stesso: “Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d’Italia e non abbiamo trovato la pantera che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali, sicché, applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” (I, xvi, 1).
Per catturare finalmente la pantera (la lingua illustre) “che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” sono necessari, dunque, mezzi più razionali. Tra questi lo strumento più idoneo è il principio che “in ogni genere di cose ce ne deve essere una in base alla quale paragoniamo e soppesiamo tutte le altre che appartengono a quel genere, e ne ricaviamo l’unità di misura”, o, detto altrimenti, potendosi tale principio applicare “a qualsiasi predicamento, anche alla sostanza”, “ogni cosa insomma è misurabile, in quanto fa parte di un genere, in base a ciò che vi è di più semplice in quel dato genere”. “Perciò nelle nostre azioni, nella misura in cui si dividono in specie, occorre trovare - prosegue Dante - l’elemento specifico sul quale anch’esse vengono misurate”. E dopo aver declinato tale principio - «in quanto operiamo in assoluto come uomini, c’è la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale infatti giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini di una città, c’è la legge, secondo la quale un cittadino è definito buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini dell’Italia, ci sono alcuni semplicissimi tratti, di abitudini e di modi di vestire e di lingua, che permettono di soppesar e misurare le azioni degli Italiani. Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli Italiani non sono specifiche di nessuna città d’Italia, bensì comune a tutte; e fra queste si può a questo punto individuare quel volgare di cui sopra andavamo in caccia, che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna. E tuttavia può spargere il suo profumo più in una città che in un’altra, come la sostanza semplicissima, Dio, dà sentore di sé più nell’uomo che nella bestia, più nell’animale che nella pianta, più in questa che nel minerale...” - così conclude: “Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati” (I, xvi, 2-6).
In un’epoca in cui profonde trasformazioni hanno dato luogo a nuove realtà sociali e molteplici spinte sollecitano a ristrutturare le vecchie forme di potere, Dante mostra di essere bene attento a quel movimento che agli albori aveva già fatto dire a Eraclito che “è necessario che coloro che parlano adoperando la mente si basino su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge, ed in modo ancora più saldo. Tutte le leggi umane infatti traggono alimento dall’unica legge divina: giacché essa domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza per di più” (4), e che nel futuro invece porterà Hegel ad affermare - in riferimento a quell’evento cruciale che fu la Rivoluzione Francese, per esser divenuta la società borghese Soggetto politico - che “all’improvviso, il pensiero, il concetto del diritto, si fece valere e il vecchio edifico di iniquità non gli poté resistere. Allora, nel pensiero del Diritto, si costruì una costituzione, mentre ormai tutto doveva poggiare su questa base. Da quando il sole ruota nel firmamento, e i pianeti intorno a lui, non si era mai visto l’uomo mettersi con la testa in basso, cioè fondarsi sull’Idea e costruire la realtà partendo da essa [...]. Questa dunque è un’alba stupenda. Tutti gli esseri hanno celebrato questo tempo. Allora regnava una sublime emozione, l’entusiasmo dello spirito ha fatto fremere il mondo, come se, solo allora, si fosse arrivati alla vera conciliazione del divino col mondo”(5). E altrettanto mostra che la cattura della lingua - pantera - nel momento stesso in cui in Italia dai vari volgari sta emergendo il volgare curiale - e questo sta emergendo come un al di là degli stessi volgari - è possibile solo partendo dall’ Universale, cioè involandosi nella regione nebulosa del mondo religioso ed eguagliando il rapporto tra Volgare e volgari con il rapporto Dio e mondo.
L’orizzonte ideologico entro cui Dante si muove (6) rende nel contempo forte, perché gli permette di intuire e cogliere il legame che corre tra processi sociologici e politici e religione, e, debole, perché gli impedisce di cogliere quale realtà sollecita a tale connessione. Egli comprende misticamente che il vincolo sociale come il vincolo linguistico tra gli uomini va ponendosi e sviluppando come oltremondano, cioè che il vincolo stesso - l’unità linguistica e sociale - va acquistando un’esistenza propria e indipendente, e che bisogna collocarsi decisamente su questo piano, il piano dell’Universale; e ne trae tutte le conseguenze, coerentemente.
Il suo punto di vista, non a caso, gli consente di elaborare un modello di lingua e di intellettuale di grande densità ideologica e politica. Gli attributi (illustre, cardinale, regale e curiale) della lingua più decorosa d’Italia, infatti, non dicono solo l’intrinseca qualità della lingua illustre, ma delineano anche i tratti della figura del nuovo dotto: “quando usiamo il termine illustre, intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare [...] Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l’onore e la gloria [...] Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio [...]. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui ciò,è si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro il cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge [...] così l’intero gregge dei volgari municipali si volge e rivolge, si muove e si arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? [...]. Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve abitare necessariamente nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di un cosi nobile inquilino [...]. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale [...] poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli italiani [...]. Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli italiani sembra una burla, dato che siamo privi di una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata - come quella del re di Germania - tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, cosi le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa» (I, xvii-xviii).
La proposta di Dante non vuole essere affatto né semplicemente poetica né politicamente ambigua. Con la sua opera egli vuole indicare non solo come sia possibile superare la natura “saussuriana” del segno linguistico - “fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio” (I, iii, 3) - e quale lavoro occorra per elaborare una lingua naturale-universale, ma anche e soprattutto come e quanto profondamente siano legati tra di loro nuova lingua e nuovo dotto, e, a quale grande funzione sono entrambi chiamati: “Questo volgare esige in verità persone che gli assomigliano, come avviene per tutti gli altri nostri atteggiamenti morali e modi di vestire: cosi la magnificenza esige persone capaci di grandi azioni, la porpora individui nobili; e allo stesso modo anche il volgare in questione cerca coloro che eccellono per ingegno e cultura, e disprezza tutti gli altri [...]. E dato che la lingua è lo strumento necessario di ciò che concepiamo non altrimenti che il cavallo lo è per il cavaliere, e ai migliori cavalieri convengono i migliori cavalli, come si è detto, alle concezioni più alte converrà la lingua migliore” (II, i, 5-8).
A ben vedere, la genialità di Dante non è inferiore a quella di Platone. Egli giunge a riscoprire quello stesso processo che in un’analoga congiuntura economica e sociale aveva indotto Platone ad attribuire ai filosofi - “poiché filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante, mentre coloro che non ci riescono, ma si perdono nella molteplicità del variabile non sono filosofi” - la funzione direttiva dello Stato (La Repubblica, VI, 484a). Cosi come è la filosofia, o, meglio, l’amore per la Sapienza (“Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quel che t’amò tanto / che uscì per te de la volgare schiera?” -Inf. II, 103-5) ad aprirgli la strada alla contemplazione de ”la gloria di colui che tutto move” - quella gloria che “per l’Universo penetra, e risplende / in una parte piu e meno altrove” (Par., I, 1-4) - e a fargli conseguire quell’alto magistero e quel potere che lo innalzano a guida e a giudice del suo tempo.
Fatto da vivo l’itinerarium in Deum e raggiunta “la felicità della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio (alla quale l’uomo non può elevarsi da sé senza il soccorso della luce divina) ed è raffigurata nel paradiso celeste”, egli è degno di indicare “la diritta via” per raggiungere “la felicità di questa vita” che è “raffigurata nel paradiso terrestre” (Monarchia, IlI, xv). Il De vulgari eloquentia, benché sia di poco precedente alla stesura della Commedia, s’iscrive entro questo orizzonte: vuoI essere un programma politico e culturale per la riconquista del Regno, non solo d’Italia - per l’instaurazione della monarchia temporale o, che è lo stesso, dell’Impero. La lingua d’Amore della Vita Nuova (XXIV, 3), divenuta lingua di Salvezza Amore e Virtù (Salus Venus e Virtus), nel De vulgari eloquentia vuol essere infatti - proprio perché ha reso possibile il recupero di quella “ben determinata forma di linguaggio” creata da Dio, di cui “farebbero uso tutti i parlanti nella loro lingua, se essa non fosse stata smembrata per colpa dell’umana presunzione” (I, vi, 4) - la restaurata lingua prebabelica (7).
L’orizzonte ideologico del tempo non può far vedere (né tanto meno nominare) a Dante come alle forze sociali emergenti il nuovo per cui essi lottano. Nel momento in cui la società borghese comincia a prendere coscienza di sé e lotta per i propri obiettivi, non può farlo se non con gli strumenti a disposizione, come attesta questo documento del 1257:
Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...] (8).
Alla luce di questo atto di manomissione (9) molte cose si fanno più chiare. Il progetto di una restaurata lingua prebabelica, la collocazione del simbolo dell’Impero nel paradiso terrestre, la connessa profezia di Beatrice sul rapporto Chiesa e Impero (“Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch’ io veggio certamente, e però il narro, / a dame tempo già stelle propinque, / secure d’ogni intoppo e d’ ogni sbarro, / nel quale un cinquecento dieci e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” - Purg. XXXIII, 37-45), cosi come l’accostamento di fede-moneta che San Pietro fa nell’esaminare Dante - ”indi soggiunse: Assai bene è trascorsa / d’ esta moneta già la lega e il peso; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa. / Ond’io: sì, l’ho, sì lucida e sì tonda / che nel suo conio nulla mi s’inforsa» (Par., XXIV, 83-7) - appaiono meno metaforici e simbolici di quanto sembrino. Esprimono la connessione tra orizzonte ideologico e processi socio-politici propri del tempo, e insieme indicano la profonda complementarità che si va instaurando tra nascente capitalismo e Cristianesimo, tra processi economico-politici e religione. Dante come le nuove forze sociali del tempo lottano si per la riconquista del paradiso terrestre, ma lottano soprattutto - non sanno di farlo, ma lo fanno - per il paradiso politico della società borghese, di cui essi sono già espressione.
In un’epoca in cui la Chiesa ha ancora un enorme potere politico e ideologico (specie in Italia), in un’epoca in cui le città affrancano “pagando in danaro” i servi della gleba (10) dai loro padroni e si pongono esse stesse come paradiso, Dante - pur tra le molteplici mediazioni della sua coscienza - coglie tutta la portata del nuovo e si colloca decisamente su tale terreno: in ciò sono la sua forza, il suo genio e il suo dramma.
Chi per primo si scoprì e si pose come persona dell’Universale - mostrandosi profeta di quel processo che porterà Hegel a concepire “l’elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”, l’Assoluto come Spirito (11) - non poteva non avere altra sorte che quella di andare “peregrino, quasi mendicando”, per l’Italia, a mostrare contro sua voglia “la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato essere imputata” (Convivio).
Lo stesso De vulgari eloquentia non doveva avere migliore sorte: smarrito, e recuperato agli inizi del ‘500, fu continuamente frainteso fino a Manzoni. Del resto il tortuoso e intricato percorso socio-politico che la realtà italiana doveva fare per giungere al suo paradiso politico non permise altrimenti. Ancora nel 1816 nella Lettera semiseria di Crisostomo, Giovanni Berchet, riecheggiando (e a destra, per cosi dire) Dante, scriveva: “E se noi non possediamo una comune patria politica [...] chi ci vieta di crearci intanto, a conforto delle umane sciagure, una patria letteraria comune?”.
Solo Gramsci intuirà che “il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della lingua’” (12). E non a caso, la sua ottica ancora e in parte democratico-borghese lo induce a concepire i propri problemi all’interno del paradigma elaborato da Dante e al fondo di tutta la cultura moderna. Come non a caso - nel momento stesso che la configurazione imperniata su Dio (Universale), Intellettuale, Lingua e Politica, è andata disarticolandosi ed è stata messa in crisi - è possibile rendersi conto oggi di quanto moderna fosse la ‘visione’ di Dante.
II
Un paradigma per i posteri. - Con la Monarchia***, “opera ardua e superiore” alle sue forze, pur non confidando nelle sue capacità “quanto nella luce di quel Dispensatore che dà a tutti abbondantemente e non lo rinfaccia mai” e tuttavia includendosi tra gli uomini “che la natura superiore ha resoincliniall’amoredellaverità”,Dante vuole consegnare al futuro - ai “posteri, perché la posterità possa servirsi del frutto” delle sue fatiche (I, i) - il suo ideale e il suo testamento teologico-politico. Con esso, convinto che “la conoscenzadellaMonarchiaUniversale[temporalis Monarchie] è particolarmenteutile, ma pochissimo nota e da nessuno ricercata perché non offre un guadagno immediato”(l, i), due contributi decisivi e fondamentali vuole offrire: sottrarre all’oscurità e allaconfusioneilproblemaappuntodellamonarchiaenel contempo - sempre “sorretto dal braccio di Colui che ci liberò col suo sangue dal potere delle tenebre” - scacciare “dal campo, in faccia al mondo, l’empio e il bugiardo” (III, i), in particolare (“essenzialmente tre categorie di persone ”si accaniscono contro la verità “a cui vogliamo arrivare”) il sommo Pontefice (è la prima delle tre, le altre due sono quelli “la cui ostinata cupidigia ha spento il lume della ragione” - cioè quelli che strumentalmente e per i loro guadagni sostengono le tesi ierocratiche - e i decretalisti, cioè quelli che si basano “caparbiamente” solo sugli atti della Curia pontificia, le Decretali appunto) che si «oppone forse per zelo delle chiavi» (III, iii).
Con audacia straordinaria, l’audacia di un laico che ha fatto grazie al suo amore per la Sapienza (Beatrice) l’itinerarium in Deum, e, dall’interno della Chiesa, Dante specie nel III libro impugna e mette in radicale discussione i capisaldi di quella dottrina ierocratica che da Bonifacio VIII era stata formulata nel modo più esplicito e tracotante, che nella “Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale”; che “ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale” e che “una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale”; e, infine, di enorme rilevanza, che, “se erra il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini” e che “chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio si oppone ai comandi di Dio, a meno che non pretenda, come Manichei, che ci sono due principii”(13).
Contro ogni pretesa ierocratica (senza essere per questo partigiano dell’imperatore) come contro le pretese ghibelline e realistiche, e contro la secolare concezione che voleva in contraddizione la vita terrena e la vita celeste, Dante lotta strenuamente e da cristiano (senza essere per questo partigiano del papa) per rivendicare e fondare “in un difficile ed arduo equilibrio, il nuovo senso dell’autonomia mondana dell’ordine politico e la fedeltà ad una visione assolutamente spirituale e religiosa della storia umana consegnata ai due ‘ideali’ dell’unico Impero e dell’unica Chiesa» (14).
Troppo spesso, dimenticando tutto questo, e, portando all’assoluto particolari estratti da vari contesti, si è finito con l’appiattire la posizione di Dante nell’orbita del mondo medievale - a quella di un uomo nostalgico del passato e reazionario o a un ghibellino tout court - annullandone cosi la specificità (guelfo bianco), che è quella di muoversi con grande lucidità e per equilibrio instabile dentro il suo orizzonte logico-storico, verso il moderno.
Il suo progetto politico (da non dimenticare, teologico), senza far violenza, anzi schierandosi a fianco, al nuovo emergente ed emerso nella realtà sociale - nella profonda convinzione morale (ma con forte valenza ontologica) e religiosa che “l’esser uno è la radice dell’esser buono, mentre la molteplicità è invece la radice dell’esser male”, che «peccare non è altro che disprezzare l’uno per tendere al molteplice»(I, xv) - è quello di ripristinare e salvaguardare il nesso onto-teo-logico tra particolare e Universale, e di conservare tale nesso nel suo fondamento, Dio stesso.
Nel momento in cui in Europa nascono e si affermano unità cittadine e nazionali autonome, sovrane nel loro territorio, Dante non prospetta affatto una restaurazione pura e semplice dell’Impero. La sua posizione, teologica e razionale insieme, è molto più articolata e complessa. Egli nel porre con grande e vera originalità il fondamento della società umana nel diritto e nel postulare l’identità di questo con la volontà divina ((“siccome in Dio la volontà e la cosa voluta si identificano, ne consegue ulteriormente che la volontà divina è lo stesso diritto, e ancora, che, nel mondo, il diritto non è altro che un’immagine della volontà divina”, II, ii), con l’idea di monarchia temporale vuole ripristinare, salvare e custodire proprio l’unità onto-teo-logica tra Universale e particolare, senza sopprimerne la differenza ma difendendola.
Per Dante, infatti, le nazioni, i regni e le città, avendo caratteristiche proprie, “devono essere regolate da leggi diverse” (I, xiv), ma, affinché non restino nel loro isolamento e possano realizzare le aspirazioni universali, quelle comuni a tutto il genere umano, devono essere rette e guidate da uno solo, dal Monarca “secondo una regola universale” (I, xiv) alla pace, alla libertà e alla giustizia.
Nel coniugare aristotelismo e teologia, ciò che anima Dante - quest’uomo che dice di sé: “sono quel che sono non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e ‘lo zelo della sua casa mi divora’” (Epistola XI) - è una tensione inaudita: all’interno dell’orizzonte cristiano e di una realtà piena di lacerazioni e contrasti enormi, con la sua idea di Monarchia vuol indicare il modo per porre e mantenere le innumerevoli molteplicità, che sempre più nascono e premono nel tessuto sociale dell’Europa del ’300, sulla diritta via. Riconquistare il paradiso terrestre è l’obiettivo che egli pone - in sintonia con le più avanzate forze sociali economiche e politiche contemporanee - all’umanità del suo tempo. È in questo obiettivo che la teoria dei due poteri trova la sua necessità e la sua funzione, storico-politica e salvifica insieme; “se l’uomo fosse rimasto nello stato di innocenza in cui fu creato da Dio”, di questi due poteri (papa e imperatore) l’umanità non “avrebbe avuto bisogno; questi poteri sono dunque rimedi contro l’infermità ! derivata dal peccato» (III, iv).
Con lucidità e coerenza egli sviluppa la sua argomentazione. Premesso che “la Monarchia temporale, detta anche ‘Impero’, è fra le istituzioni che si trovano in una prospettiva temporale, l’unico principato - superiore a tutti gli altri principati nel tempo” e, prima di affrontarne i tre nodi ritenuti cruciali - “se l’istituzione sia necessaria al benessere del mondo”; “se il popolo romano si sia assunto a buon diritto la funzione di Monarca”; “se l’autorità del monarca dipenda direttamente da Dio o da qualcun altro vicario o ministro di Dio” (I, ii) - definisce ambito, finalità e modi della ricerca:
a) “l’argomento in esame è di carattere politico, ed anzi riguarda la fonte e il principio di ogni retto ordinamento politico”;
b) la politica, al contrario delle realtà “matematiche, fisiche e divine” che non sono in nostro potere e che “possono essere per noi soltanto oggetto di speculazione e non di attività pratica”, dipende da noi e, come tale, “risponde a finalità innanzitutto pratiche” (e interne allo stesso ambito della ricerca);
c) “la presente trattazione è sostanzialmente una ricerca sillogistica”, cioè impostata in modo ipotetico deduttivo (“è necessario, in ogni ricerca sillogistica, aver preliminare cognizione di un principio a cui poter ricorrere deduttivamente a sostegno di tutte le proposizioni successive”).
E chiarita questa mobile e circolare connessione metodologica - “dato che nella pratica principio e causa di ogni azione è il fine ultimo che spinge l’agente ad operare, ne viene di conseguenza che il motivo di tutte le azioni che convergono al raggiungimento di un fine, sia rintracciato dallo stesso fine [...]. Perciò, se vi è qualcosa che costituisce il fine dell’universale consorzio umano, questo sarà il principio su cui tutte le nostre successive argomentazioni fonderanno la propria validità” (I, ii) - si muove a determinare il “principio direttivo” della ricerca.
Per Dante, sulla scorta del commento di Averroè al De Anima di Aristotele, la potenza specifica dell’intera umanità è “l’essere capace di apprendere per mezzo dell’intelletto possibile, capacità che invero non compete a nessun altro che all’uomo, né al di sopra né al di sotto di lui” (I, ii): e il singolo non può attuare la sua potenza specifica se non e solo insieme con tutto il genere umano (“altrimenti bisognerebbe ammettere una potenza separata, il che è impossibile”).
Per questo il fine (“quel fine, migliore di tutti gli altri, per il quale l’eterno Dio dà l’esistenza a tutto il genere umano, servendosi della sua arte, che è la natura”) di tutta l’umana società così come “l’attività specifica del genere umano, preso nella sua totalità, consiste nell’attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo nella direzione della speculazione, in secondo luogo, per estensione, nella direzione dell’attività pratica in funzione del1a speculazione” (I, iv).
Ciò che egli postula, entro il suo orizzonte teologico razionale, è una circolarità che si pone e vuole essere, in teoria e in pratica (o, meglio, in potenza e in atto), unitariamente e articolatamente onto-teo-logica: “La potenza intellettiva di cui parlo non è rivolta soltanto alle forme universali o specie, ma anche, per estensione, alle forme particolari, per cui si suol dire che l’intelletto speculativo diventa, per estensione, pratico, ed il suo fine è l’agire e il fare. E mi riferisco all’agire che è regolato dall’esperienza politica, e al fare che è regolato dall’arte: l’uno e l’altro sono strumento della speculazione, che è il fine più alto per il quale la Prima Bontà ha dato l’esistenza al genere umano” (I, iii).
Ora se “l’intento di Dio è che ogni cosa creata sia simile a Lui, nei limiti, s’intende, delle possibilità della propria natura”, è evidente che “il genere umano raggiunge la perfezione quando attua tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura” (I, viii). E poiché “Dio è la sola vera unità”, l’umanità perviene al grado massimo di somiglianza con Dio quando raggiunge il suo più alto grado di unità. E dal momento che “l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le incorruttibili” e, quindi, “partecipa dell’una e dell’altra natura” (III, xv), risulta evidente tanto la necessità che l’uomo “sia ordinato a due fini ultimi, ad uno in quanto corruttibile, all’altro in quanto incorruttibile)) (III, xv) tanto che questi due fini come le due guide abbiano il loro fondamento in Dio.
Questa è la diritta via che Dante indica: il genere umano può attuare tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura, solo movendosi all’interno e a partire dall’Identità e insieme salvando e rispettando la Differenza. E questo è l’orizzonte entro cui egli stesso si muove con estrema lucidità, e che gli permette di combattere la sua battaglia con strenua intransigenza logica e morale senza essere né partigiano dell’imperatore né del papa né tanto meno un eretico:
Due fini pertanto l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio - a cui le capacità proprie dell’uomo non possono elevarsi da sé senza l’aiuto della luce divina - ed è raffigurata nel Paradiso celeste. A queste beatitudini, come a termini diversi, bisogna giungere con mezzi diversi. Infatti arriviamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo effettivamente operando secondo le virtù morali e intellettuali; arriviamo invece alla seconda per mezzo degli ammaestramenti dello spirito, che trascendono l’umana ragione, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità [et karitatem]. Queste mete, e i mezzi per raggiungerle, ci sono state indicate rispettivamente dalla ragione umana, che i filosofi ci hanno reso interamente palese, e dallo Spirito Santo, il quale, per mezzo dei profeti e degli agiografi nonché per mezzo di Gesù Cristo, figlio di Dio a Lui coetaneo e dei suoi discepoli, ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria (III, xv).
Per questo, dato che, “quando più elementi sono ordinati ad un unico fine, è necessario che uno di essi diriga e gli altri siano diretti” (I, v) - a riguardo dello specifico ordinarsi del genere umano “bisogna sapere che il fondamento primo della nostra libertà è la libertà d’arbitrio, che molti hanno sulle labbra, ma pochi comprendono” (I, xii), e, nello stesso tempo, che la cupidigia umana “farebbe dimenticare mete e mezzi se gli uomini, come cavalli erranti in preda alla loro bestialità, non fossero raffrenati nel loro cammino terreno ‘con la briglia e il morso’” - l’uomo ha “bisogno di due guide in vista del suo duplice fine: il sommo Pontefice, che, seguendo le verità rivelate, [guidi] il genere umano alla vita eterna e l’Imperatore che, seguendo invece gli insegnamenti della filosofia, lo [indirizzi] alla felicità temporale. E siccome - prosegue Dante - a questo porto della felicità terrena, nessuno o pochi - e questi con estrema difficoltà - possono giungere se il genere umano, calmati i tempestosi allettamenti della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, ecco che questo è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che si chiama Principe Romano: far sì, cioè, che in questa aiuola dei mortali si viva in pace e in libertà” (III, xv).
L’Imperatore, però, per poter “applicare utilmente gli insegnamenti della libertà e della pace in modo adatto ai luoghi e ai tempi” - dato che “l’ordinamento di questo mondo è in rapporto con la rotazione dei cieli”, - è necessario che “sia ordinato da Colui che vede direttamente la totale disposizione dei Cieli”; e “questi può essere soltanto Colui che l’ha preordinata”, Dio stesso: “solo Dio elegge, solo Dio conferma”. Cioè, “l’autorità del Monarca temporale deriva, senza alcun intermediario, dalla Fonte stessa di ogni autorità”.
E, per evitare ogni ulteriore equivoco a riguardo, Dante spiega e conclude: questa soluzione non va “interpretata così alla lettera da escludere assolutamente che il Principe Romano soggiaccia in qualcosa al Sommo Pontefice, perché questa nostra felicità terrena è ordinata in certo qual modo in funzione della felicità eterna. Cesare usi dunque verso Pietro quella riverenza che il figlio primogenito deve al padre, affinché irraggiato dalla luce della grazia paterna, illumini con maggiore efficacia il mondo al quale è stato preposto da Quello che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali” (III, xv).
Per Dante questa è la via: i due poteri - l’uno e l’altro indispensabile per porre rimedio all’infermità derivata dal peccato - devono cooperare in modo unitario ma distinto e in consonanza con la volontà divina, da cui deriva la loro stessa autorità; solo così essi possono contribuire a ristabilire il giusto rapporto dell’uomo con Dio e a riconquistare ciò che è stato perduto, il paradiso terrestre innanzitutto e, con esso, il paradiso celeste. Ed è questo l’orizzonte che gli permette non solo di postulare la distinzione e l’autonomia dell’agire politico dalla dimensione spirituale, ma soprattutto di restituire al presente un valore di temporalità salvifica, o, che è lo stesso, di coniugare in modo attivo e articolato - contro una tradizione negativa e (tendenzialmente) dualistica - il tempo con l’Eternità e il particolare con l’Universale.
La soluzione dantesca, anche se può apparire poco rigorosa e instabile, è tuttavia una soluzione ancora oggi “praticamente viva e operante; il che dimostra che, se Dante loico è in difetto, il politico aveva intuito felice» (15). Anzi, alla luce di quanto è emerso, si può dire che Dante è “alle soglie di un’odissea culturale altamente segnata da un Machìavelli, da un Guicciardini, da un Vico, da un Gramsci - l’avo della riflessione politica in Italia” (16).
Inoltre, il sogno di un’aiuola dei mortali dove si potesse vivere secondo giustizia in pace e in libertà era sì impraticabile e utopistico per il suo tempo, ma non per questo fu abbandonato o trascurato; dopo aver attraversato secoli ed essere stato l’asse portante dell’ideologia borghese, non ha forse attraversato e attraversa ancora il nostro presente? Non è stato ed è forse anche il nostro massimo sogno?
E, in questa prospettiva, oggi, il nostro problema più complesso - in un orizzonte segnata dalla ‘morte di Dio’ e insieme dall’esplosione di innumerabili identità - non è forse lo stesso affrontato da Dante, quello della costruibilità di un nesso tra particolare e generale? E, ancora, se per questo nodo passa la nostra stessa “possibilità di mantenere la problematica ereditata da Marx” (17), non è forse necessario tenere nel debito conto che Marx è “il solo che citi Dante come momento cardine del calendario per lui pensabile”?(18).
NOTE:
* Per non dimenticare la lezione di Dante, ripropongo qui un piccolo lavoro del 1982. Esso è stato pubblicato in Èuresis, Notizie e scritti di varia indole del Liceo classico “M.Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Boccia editore, Salerno 1988.
I
** Per il De vulgari eloquentia è stato utilizzato il testo curato e tradotto da P.V. Mengaldo, in Dante Alighieri, Opere Minori a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, V, 2, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979. Dei passi citati sono stati dati in parentesi il libro, il capitolo e il capoverso.
1. J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, p. 59.
2. G. Luzzatto, Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966, p. 447.
3. Sui problemi connessi alla “forma di linguaggio” (forma locutionis), cfr. il prezioso contributo di M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Libreria Commissionaria Sansoni, 1981, specie le pp. 46-52.
4. Eraclito: fr. 114. Cfr. I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1981, p. 219.
5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia, Firenze, La Nuova Italia, 1966, IV, pp. 204-5.
6. Su questo, precisazioni importanti sono in M. Corti, op. cit., pp. 9-31.
7. A riguardo, cfr. M. Picone, Vita Nuova e tradizione romanza, Padova, Liviana editrice, 1979, specie pp. 14 ss.; e, ancora, M. Corti, op. cit., pp. 70 ss.
8. Per il testo originale, in latino, cfr. P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano, ISPI, 1939, pp. 45-7; la traduzione qui riportata è ripresa da F. Gaeta - G. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1978, I, pp. 214-5.
9. Si è preferito riportare l’Atto del Comune di Bologna, sia perché è uno dei primi di questo genere (quelli di Firenze saranno di alcuni anni dopo, a partire dal 1289) sia perché estremamente esemplare dal punto di vista ideologico. Per gli Atti fiorentini di affrancazione, cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 58 e ss.
10. Al primo posto, in ordine di tempo, di questo processo di affrancamento dei servi della gleba sono Bologna e Firenze, ma presto e a ruota seguono Siena, Lucca, Pisa, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Ravenna, Pistoia, Vercelli, Genova (cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 21-55.).
11. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, “Prefazione”, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 19.
12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, III, p. 2350.
II.
*** Per la Monarchia (non De Monarchia, titolo estraneo alla tradizione manoscritta) è stata utilizzata la traduzione condotta sul testo dell’edizione nazionale da L. Adamo, cfr. Dante Alighieri, Tutte le opere, a c. di L. Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 247-316. Dei passi citati si sono dati in parentesi il libro e il capitolo.
13. Le citazioni sono riprese dalla bolla Unam Sanctam data da Bonifacio VIII in Laterano nel novembre 1302; cfr. Gaeta - Villani, Documenti e testimonianze, cit., I, pp. 242-4.
14. C. Vasoli, La Filosofia Medievale, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 409.
15. S. A. Chimenz, Dante, in “Letteratura Italiana. I Maggiori”, Milano, Marzorati, I, p. 45.
16. P. Renucci, La cultura, in “Storia d’Italia”, Torino, Einaudi, 1974, 2/II, p. 1178.
17. P. A. ROVATTI, Contro la separazione, in “aut aut”, 186, Firenze, La Nuova Italia, 1981.
18. Ph. Sollers, Io e Dante, in “Spirali», 30, 1981.
Su Dante, si cfr.:
L’ASTRONAUTA E LA METAFORA DEL TETRAGONO. Luca Parmitano racconta i suoi 166 giorni in orbita
MEMORIA POETICA, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA: "IL DANTE D(E)I CAPRONI", "LES FLEURS DU MAL" DI BAUDELAIRE, E LE "TESI" DI WALTER BENJAMIN:
"[...] L’intreccio fra Dante, Leopardi, Baudelaire, Caproni, si fonda su un’immagine mentale, su un’icona emozionale: e l’alternativa «Enfer ou Ciel» sintetizza, annullandola immediatamente («qu’importe?»), l’opposizione fra «ire in giù» e «com’altrui piacque» [...].
Già in Baudelaire d’altronde si era costituita una fondamentale linea tematica di memoria poetante, in cui la Commedia esercita un ruolo che definirei di asse di rotazione. La lirica di chiusura delle Fleurs sembra davvero rileggere come in uno specchio la conclusione della Commedia. Baudelaire dovette avere luminoso negli occhi e nella memoria il fulgore, l’éclair della visione finale di Dante (così rendevano il vocabolo le versioni francesi del poema, e così anche Walter Benjamin tradurrà il verbo aufblitzen traducendo le sue Tesi di filosofia della storia, per indicare «il lampo in cui l’immagine dialettica balena») [...]"(cfr. #CorradoBologna, in «Tutti riceviamo
un dono». Giorgio Caproni trent’anni dopo, a cura di Corrado Bologna, EDIZIONI DELLA NORMALE, 2024 , pp. 148-149).
POESIA, LETTERATURA, STORIOGRAFIA E FILOLOGIA CRITICA:
BAUDELAIRE, DE QUINCEY, E "LES SEPT ViEILLARDS" ( E I "SETTE DORMIENTI DI EFESO").
SE E’ VERO, COME E’ VERO, CHE IL SIGNIFICATO della figura dei "Sept vieillards" rimane "enigmatico. Qui, l’altrove (alle) a cui la figura rimanda o da cui parla (agoreuo) si sottrae al dominio della ragione (“vainement ma raison voulait prendre la barre”, v.49), è un mare “mostruoso e senza limiti” (v.52). [...] Baudelaire ci descrive gli effetti dell’apparizione dei vecchi [2]: la ragione non riesce più a governare ciò che vede, deve arrendersi al suo nauseante “sdoppiamento”; una tempesta si oppone ai suoi sforzi, ma lo fa en jouant, come per gioco; quel gioco crudele sembra contagiare anche l’anima che, invece di opporglisi, si mette a danzare come una vecchia scialuppa senza alberi né vele",
E’ ALTRETTANTO VERO CHE, COME E’ DETTO NELLA NOTA "[2]", "L’immagine presenta non poche analogie con un passo di De Quincey sulla “tirannia del volto umano” che Baudelaire cita nei Paradisi artificiali: «Allora sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli; la mia agitazione diventò infinita e il mio spirito balzò e rotolò con le onde dell’Oceano»”.
MESSO A FUOCO QUESTO LEGAME E, AMPLIANDO LO SGUARDO SULLO SPAZIO LETTERARIO E STORICO, A CUI RINVIANO PER LA LORO STESSA FORMAZIONE SIA BAUDELAIRE SIA DE QUINCEY, FORSE, E’ IL CASO DI RIAPRIRE LA DISCUSSIONE SUL TEMA E RIPENSARLO ALLA LUCE DELLA #LEGGENDA DEI "SETTE DORMIENTI DI EFESO"".
PROBABILMENTE, un indizio per la risoluzione dell’enigma del significato della figura dei "Sept viellards" è da rintracciarsi nella sintesi "storiografica" (e "teologico-politica") dello "chá timent de l’orgueil" ("L’orgoglio punito" di "Les Fleurs du Mal", XVI) e, al contempo, al ’fatto’ segnalato già da De Quincey, che "sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli".
GIOVANNI MACCHIA: "Baudelaire aveva ragione. La nostra epoca è divenuta sempre più «baudelairiana». E’ divenuta baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo" (Charles Baudelaire, "Poesie e Prose", Milano 1973).
I "PARADISI ARTIFICIALI", UN "MANGIATORE D’OPPIO", E IL "RIDUZIONISMO" CRITICO DELL’INDAGINE ANTROPOLOGICA DEL "VISIONARIO" THOMAS DE QUINCEY DA PARTE DI CHARLES BAUDELAIRE.
Un “invito” alla ri-lettura delle opere dell’uno e dell’altro...*
Alcuni "appunti" dai "paradisi artificiali"
A) "UN FALSO EPILOGO". Nella seconda parte dei "Paradisi artificiali", dedicato a "Un mangiatore d’oppio", in un capitoletto intitolato "un falso epilogo", Baudelaire così scrive: "De Quincey ha stranamente abbreviato la fine del suo libro, così come, almeno,
apparve nell’edizione primitiva. Ricordo che la prima volta che lo lessi, molti anni fa (e
non conoscevo la seconda parte, Suspiria de profundis, che non era stata d’altronde
pubblicata), mi chiedevo di tanto in tanto: Quale può essere la conclusione di un libro
simile? [...] mi dicevo: Robinson alla fine può lasciare la sua isola; una nave può approdare a una riva,
per quanto ignota, e riportarne il solitario eremita; ma quale uomo può uscire dall’impero dell’oppio? Così,
continuavo a pensare tra me e me, questo libro singolare, confessione veritiera o puro
parto della fantasia (quest’ultima ipotesi era del tutto improbabile per quell’aura di verità
che aleggia su tutto l’insieme e per l’inimitabile accento di sincerità che accompagna ogni
dettaglio), è un libro senza conclusione.
[...] mi ricordavo che il mangiatore d’oppio aveva annunciato da qualche parte, all’inizio, che era finalmente riuscito
a sciogliere, anello per anello, la catena maledetta che vincolava tutto il suo essere. Dunque, la
conclusione mi era del tutto inattesa, e confesserò con franchezza, che, quando la conobbi,
malgrado tutto l’apparato di minuziosa verisimiglianza, istintivamente ne diffidai. Non so
se il lettore condividerà la mia impressione a questo proposito; ma dirò che l’espediente
sottile, ingegnoso, attraverso cui l’infelice esce dal labirinto stregato dove per sua colpa
s’era perduto, mi parve un’invenzione in favore di un certo cant britannico, un sacrificio in
cui la verità era immolata per onorare il pudore e i pubblici pregiudizi. Ricordate quante
precauzioni ha preso prima di cominciare il racconto della sua Iliade di mali, e con quale
attenzione ha rivendicato il diritto di procedere in confessioni addirittura salutari. Un
popolo vuole epiloghi morali, un altro epiloghi consolanti. [...]
De Quincey ha forse pensato allo stesso modo e vi si è adeguato. [...] Sia come si voglia, ecco l’epilogo. Dopo parecchio tempo, l’oppio non faceva più sentire il suo potere con incantesimi, ma con tormenti, e tali tormenti (il che è perfettamente credibile e in accordo con tutte le esperienze relative alla difficoltà di rompere con le vecchie abitudini, a qualunque genere appartengano), erano cominciati con i primi sforzi per liberarsi di questo quotidiano tiranno. Tra due agonie, l’una dovuta all’uso continuo, l’altra al regime interrotto, l’autore, ci narra, preferì quella che comportava una possibile liberazione [...].
[...] La morale del racconto si rivolge solo ai mangiatori d’oppio. Che imparino a tremare, e che sappiano, con questo straordinario esempio, che è possibile rinunciare a questa sostanza, dopo diciassette anni di uso e otto di abuso dell’oppio. Possano, egli aggiunge, riporre una maggiore energia nei loro sforzi, e raggiungere alla fine il medesimo successo! «Jeremy Taylor suppone che forse ugual dolore è nel nascere come nel morire. Credo che sia molto probabile; e durante il lungo periodo dedicato alla diminuzione dell’oppio, provai tutti i tormenti di chi passa da una regola di vita a un’altra. Il risultato non fu la morte, ma una specie di rinascita fisica... Mi resta ancora come un ricordo della mia prima condizione; i miei sogni non sono perfettamente calmi; il temibile turgore e l’agitazione della tempesta non si sono perfettamente placati; le legioni di cui erano popolati i miei sogni indietreggiano, ma non tutte sono partite; il mio sonno è tumultuoso, e, simile alle soglie del Paradiso quando i nostri primigeni genitori si rivolsero a contemplarle, è sempre, come dice il verso terrificante di Milton:
L’appendice (che data dal 1822) è destinata ad avvalorare più minuziosamente la verisimiglianza di questo epilogo, a offrirle per così dire una rigorosa fisionomia medica. [...]".
B) "IL GENIO BAMBINO". Le Confessions portano la data del 1822, e i Suspiria, che le seguono e le completano,
sono stati composti nel 1845. Anche il tono, di conseguenza, è, se non completamente
diverso, almeno più serio, più triste, più rassegnato. Scorrendo più e più volte queste
singolari pagine non potevo impedirmi di fantasticare sulle diverse metafore di cui si
servono i poeti per raffigurare l’uomo che è ritornato dalle battaglie della vita, è il vecchio
marinaio dalle spalle curve, dal volto solcato da un viluppo inestricabile di rughe, che
riscalda davanti al suo focolare un’eroica carcassa scampata a mille avventure [...]
L’Introduction dei Suspiria ci insegna che per il mangiatore d’oppio vi è stata una
seconda e una terza ricaduta, malgrado tutto l’eroismo dimostrato nella sua paziente
guarigione. È ciò che egli chiama a third prostration before the dark idol. [...].
Le Confessions ci hanno narrato gli eventi giovanili che avevano potuto render legittimo l’uso dell’oppio. Ma ci sono ancora due importanti lacune, l’una che include le fantasie generate dall’oppio durante il soggiorno dell’autore presso l’Università (è ciò che chiama le sue Visioni d’Oxford); l’altra, il racconto delle sue impressioni d’infanzia. Così, nella seconda parte come nella prima, la biografia servirà a piegare e a verificare, per così dire, le misteriose avventure del cervello. Ed è negli appunti che si riferiscono all’infanzia che troveremo la causa delle strane fantasie dell’uomo adulto, e per meglio dire, del suo genio. [...]"
C) "L’opera (Confessions of an english opium-eater, being an extract from the life of a scholar) è
divisa in due parti: l’una, Confessions, l’altra, che la completa, Suspiria de profundis. Ognuna
è ulteriormente suddivisa in differenti parti [...] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi [...] la sua vera vocazione, la filosofia, era del tutto trascurata. [...] È nel 1804 che per la prima volta ha conosciuto l’oppio. Otto anni sono passati, felici
e nobilitati dallo studio. Siamo adesso nel 1812. Lontano, molto lontano da Oxford, a una
distanza di duecentocinquanta miglia, confinato in un eremo alle falde dei monti, cosa fa,
ora, il nostro eroe (certo, merita proprio questo titolo)? Prende oppio, ovviamente! E che
altro? Studia la metafisica tedesca; legge Kant, Fichte, Schelling [...] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi.
[...] La filosofia e la matematica richiedono un’applicazione costante e continua, e adesso la sua
mente indietreggiava di fronte a questo compito giornaliero con un’intima e desolante
coscienza della sua debolezza. Una grande opera, a cui aveva giurato di sacrificare tutte le
sue forze, e il cui titolo gli era stato suggerito dalla reliquiae di Spinoza: De emendatione
humani intellectus, non veniva portata a termine, abbozzata e sospesa, con l’aspetto
desolato di quei grandi edifici intrapresi da governi prodighi o da architetti imprudenti.
[...] Tuttavia un amico di Edimburgo, nel 1819, gli inviò un libro di Ricardo, e prima d’aver terminato il primo capitolo, ricordandosi che egli stesso aveva
profetizzato la venuta di un legislatore di quella scienza, esclamò: «È lui!». Lo stupore e la
curiosità erano resuscitate [...]
Il nostro sognatore, pieno di entusiasmo, ringiovanito, riconciliato con la riflessione e il lavoro, si mette a
scrivere, o meglio detta alla sua compagna. Gli sembrava che l’occhio scrutatore di Ricardo
avesse lasciato sfuggire qualche importante verità, la cui analisi, ridotta dai procedimenti
algebrici, poteva diventare argomento di un interessante volumetto. Il risultato di questo
sforzo di malato furono i Prolegomeni a tutti i futuri sistemi di economia politica.* Aveva preso
accordi con un tipografo di provincia, che abitava a diciotto miglia dalla sua casa; al fine di
stampare più in fretta l’opera, aveva assunto, addirittura, un tipografo supplementare; il
libro era già stato annunciato due volte; ma, ahimè! restava da scrivere una prefazione (la
fatica di una prefazione!) e una magnifica dedica a Ricardo; che fatica per un cervello
debilitato dai piaceri di un’orgia permanente! O umiliazione di un autore nervoso,
tiranneggiato dall’interiorità! L’impotenza si levò, terribile, invalicabile, come i ghiacci del
polo; tutti gli accordi furono disdetti, il tipografo licenziato, e i Prolegomeni, vergognosi, si
adagiarono a lungo, vicino al loro fratello maggiore, il famoso libro suggerito da Spinoza. [...]
(cfr. Charles Baudelaire, "Paradisi artificiali").
* Sul tema, nel sito, si cfr. LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
INVERTIRE IL PRESENTE. CON FERNANDO PESSOA, SEGUENDO OMERO VIRGILIO E DANTE, RITORNO AL FUTURO: "NON BASTA APRIRE LA #FINESTRA".
CAMBIARE ROTTA E SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT): #INVERTIRE LA #DIREZIONE (#CarloRovelli) E USCIRE DALLA TRAGICA E "LUCIFERINA" #CAVERNA DI #PLATONE (E DI TUTTI I #PLATONISMI PER IL #POPOLO), DALLA #FILOSOFIA "COSMOTEANDRICA" DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" DI OGNI #UOMOSUPREMO:
"Non basta aprire la finestra *
Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo là fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che ai è quello che si vede quando la finestra si apre.
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
#AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
#COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
IL DIO "VERTUMNO", IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE "GIARDINIERE". LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO E IL SOGNO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI RODOLFO II D’ASBURGO. Appunti sul tema:
A) - "LA CITTA’ DEL SOLE" (TOMMASO CAMPANELLA) E L’IDEA DEL "PARADISO TERRESTRE" DELLA "MONARCHIA" (DANTE ALIGHIERI): "[...] La curiosità per il pomodoro e le altre piante in arrivo dal Nuovo Mondo è evidente nel fantasioso, emblematico, spiritoso e ormai famoso ritratto che Giuseppe Arcimboldo fece all’imperatore Rodolfo II. In questo quadro, dipinto nel 1560, Arcimboldo ritrae l’imperatore nei panni di Vertumno, il dio romano dell’abbondanza e dell’alternanza delle stagioni. Le opere di Rodolfo vengono rappresentate sotto forma di frutti maturi, fiori e ortaggi. Il labbro inferiore dell’imperatore è formato da due pomodorini a ciliegia. Un’altra pianta nuova, il mais, forma l’orecchio e due peperoncini rossi adornano il suo mantello. Rodolfo aveva ereditato un vastissimo giardino dal nonno, Ferdinando I. Di quel terreno, che doveva essere un «teatro del mondo», un’enciclopedia vivente di alberi e piante, era stato fatto un giardino all’italiana per opera di un grandissimo esperto, Mattioli, che l’aveva anche curato. Rodolfo condivideva con il nonno la fascinazione per la natura, la scienza e la magia. Aveva una raccolta di «curiosità» provenienti da tutto il mondo conosciuto, famosa per la sua varietà e il suo valore. Il milanese Arcimboldo era stato il «ritrattista di corte» di suo padre e di suo nonno, anche se il ruolo che occupava effettivamente andava ben oltre l’incarico ufficiale. Rodolfo si affidava ad Arcimboldo come suo agente, e negli anni Ottanta l’aveva mandato in Germania a caccia di opere d’arte e di oggetti rari. Quindi, non c’è da sorprendersi se Arcimboldo ha inserito dei prodotti del Nuovo Mondo nel suo fantasioso ritratto. Quest’opera è simile alle varie serie delle Quattro stagioni che Arcimboldo aveva iniziato a dipingere quasi tre decenni prima. Ma facendo maturare tutti i frutti, i fiori e gli ortaggi insieme, Arcimboldo ci presenta un’allegoria del potere imperiale, ricordandoci le pretese di dominio globale di Rodolfo, oltre a prospettare il ritorno di una «età dell’oro» sotto il suo governo. "(DAVID GENTILCORE, "LA PURPUREA MERAVIGLIA. Storia del pomodoro in Italia", Garzanti, 2010, pp. 36-37).
B) - RODOLFO II, ARCIMBOLDO, E IL DIO "VERTUMNO": "[...] Giuseppe Arcimboldi o Arcimboldo ( 1526-1593 ). Figlio del pittore Biagio che era stato in contatto con Bernardino Luini e quindi con la scuola di Leonardo, lavorò all’inizio con il padre in opere decorative come pannelli d’organo, vetrate, cartoni per arazzi, Dopo essersi fatto conoscere ed apprezzare si trasferì alla corte di Praga al servizio del principe Massimiliano divenendo artista ufficiale di corte. Dopo aver realizzato composizioni antropomorfe con frutti e vegetali che ebbero subito grande successo ( le Quattro stagioni dal 1563 al 1577 ) , lasciò la corte imperiale del principe Rodolfo a cui prestava servizio dopo la morte di Massimiliano, per tornare nel 1587 a Milano dove si stabilì definitivamente. Qui dipinse il Ritratto dell’imperatore in veste di Vertunno databile intorno al 1589-90. Le composizioni di Arcimboldo erano definite al suo tempo illusionistiche ed erano costituite, se così possiamo dire, da figure umane con un insieme di prodotti di mercato e cucina: il personaggio raffigurato era composto dall’insieme degli elementi naturali che costituivano il suo mestiere, così, per esempio, un ritratto di cuoco, era formato dai cibi collocati dalla testa ai piedi. Un aspetto delle figure "illusionistiche" comico-grottesche di Arcimboldo è la reversibilità nel senso che possono essere viste sia in forma antropomorfa che, rovesciate, in forma vegetale pur essendo composte, entrambe, degli stessi elementi naturali.
Dovendo omaggiare l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, pensò di creare, nel 1590, un proteiforme ritratto frontale a mezzo busto in cui appariva come il dio Vertumno, dio delle stagioni, formato dalla straordinaria giustapposizione di frutti, ortaggi e fiori. Si trattava del punto di arrivo delle sue opere destinate alle stagioni che qui si riassumevano in un insieme delle quattro, ricche di tutti i prodotti della terra. L’opera naturalmente era elogiativa, voleva essere un’esaltazione dell’abbondanza che sotto il regno di Rodolfo si godeva in tutte le stagioni dell’anno, come in una nuova età dell’oro. L’ammasso ordinato e composito dei frutti, ortaggi e fiori non sminuiva l’impatto che doveva fornire l’imperatore: l’impressione di vigore fisico e potenza politica, né ne sviava l’interpretazione accentuando il senso del grottesco o del comico, ma invece ne forniva una vera e propria potenza figurativa che dava proprio quell’idea di floridezza e abbondanza che un sapiente e regolato governo sapeva dare. [...]" (cfr. Giangiacomo Scocchera, "La Sindrome di Stendhal Due": Il primo tempo: Musici, fioriere e fruttiere...).
Federico La Sala
VITA E #FILOSOFIA: KANT ("LA FINE DI TUTTE LE COSE", 1794) E L’HEGELIANO " #DESTINO DEL #CRISTIANESIMO" (ERMANNO #OLMI, 2011). Appunti sul tema.
"VA’, RIPARA LA MIA CASA": LA SOLLECITAZIONE FATTA A FRANCESCO D’ ASSISI (SENZA PIU’ NEMMENO LA CHIARIFICAZIONE DI QUELLA DI DANTE ALIGHIERI), E’ RIMASTA NELLA "CADUTA", ALL’INFERNO, NELL’ORIZZONTE DELLA #TRAGEDIA.
"CENTOCHIODI"(Ermanno Olmi, 2007): UNA INDICAZIONE PER L’ USCITA DAL MILLENARIO CIRCOLO VIZIOSO DEL TRADIZIONALE #ANDROCENTRISMO DELLA TEOLOGIA PLATONICO-PAOLINA E COSTANTINIANA (DEL "CRISTO RE DELL’UNIVERSO", DEL "PADRONE GESù", DEL "DOMINUS IESUS") E PER L’APERTURA DI UN CIRCOLO VIRTUOSO DI UNA #ANTROPOLOGIA E DI UNA TEOLOGIA DEGNA DELL’ "ECCE HOMO" ("#ANTHROPOS"), CAPACE DI INVITARE A FARE "COME DIO", A "DIVENTARE #UOMO", E A FAR SI’ CHE OGNI ESSERE UMANO, OGNI #PERSONA, SAPPIA E POSSA DIRE ALLA LUCE DEL SOLE: "IO SONO L’ALFA E L’OMEGA".
ANTROPOLOGIA (KANTIANA) E CHIESA CATTOLICA (COSTANTINIANA): #NICEA 325 ED #EUROPA 2025. Lezione di #ErmannoOlmi:
RECENSIONE
La lezione di Dante nell’Epistola a Cangrande: Ci vuole audacia per scalare la Commedia
Una nuova edizione critica della lettera con cui il poeta dedica il Paradiso allo Scaligero riaccende il dibattito critico È una dichiarazione di poetica, un’introduzione, ma anche il memoriale difensivo proprio di un momento di crisi
DI EDOARDO RIALTI (La Stampa, 17 febbraio 2014)
«Il nostro problema sta nel fatto che non abbiamo ancora narrazioni pronte non solo per il futuro, ma nemmeno per l’oggi concreto, per le trasformazioni ultrarapide del mondo di oggi. Mancano il linguaggio, mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo». Sono le parole di Olga Tokarczuk al conferimento del Nobel da cui forse è possibile prendere le mosse per riflettere sull’unicità e la rilevanza di Dante per le sfide della scrittura oggi, sollecitati anche dall’edizione monografica della sua Epistola a Cangrande (Antenore), a cura di Luca Azzetta. Montale definì quanto ottenuto dall’Alighieri l’ultimo miracolo della poesia, e magari aveva ragione nel sancirne l’irrepetibilità. Il recente centenario ha visto iniziative, convegni, pubblicazioni, e ciò resta giusto e doveroso, sebbene talvolta insidiato dal tarlo della retorica monumentale che sigilla una voce in catafalco o la riduce a marchio d’esportazione. Dante funziona sempre, notava Paolo Poli, come il nero, sfila e fa fare bella figura. Resta tuttavia un salto tra scrivere bene e scrivere davvero di qualcosa, così come tra il leggere bene e il leggerlo davvero. Prendi e mangia, intimava l’angelo dell’Apocalisse a Giovanni porgendogli un libro. Poesia e visione si accolgono con le viscere, permettendole di impattare i nodi più profondi e oscuri della nostra attuale posizione sulla terra. È proprio la capacità di Dante di coinvolgerci ancora in un sogno collettivo - un inconscio più antico del linguaggio stesso, nelle parole di McCarthy, riesponendoci a una capacità penetrativa del presente storico e concreto, particolare, che consente al contempo di proferire i verbi del futuro - a mettere in discussione l’asfissia di tanta scrittura e comunicazione, in pendolo perenne tra l’egotismo rattrappito di un io superficiale - dal narcisismo scriviamo per diventare ancora più narcisisti - e le narrazioni massificanti di qualche noi partitico, ottuso e violento. Il tutto in una prospettiva comunitaria ridotta a mera sopravvivenza, dove l’unico valzer ballabile resta quello del consumismo rapace e l’autorevolezza è stata barattata con la visibilità.
La lupa dell’avidità dopo ogni pasto ha più fame di prima. Rispetto a questo ricatto Dante sa ancora mostrare cosa vuol dire tatuarsi l’anima, come ha dichiarato Mircea Cartarescu, sfidarci a un diverso modo di vedere, e quindi di scrivere, l’io e il noi saldati fin dai primi due versi dell’Inferno. Nostra vita... mi ritrovai... Forse quella porta rimane sbarrata alle nostre spalle, ciò che l’ha consentita resta effettivamente inaccessibile. Pure, tornando a fissare quanto non può essere ripetuto, possiamo comunque attingere forze ed enzimi per esprimerlo in altro modo.
Si deve dunque sottolineare l’importanza d’una nuova pubblicazione monografica di un testo così decisivo, in cui l’autore medesimo - e che autore - fornisce categorie e appigli su come poterlo scalare, in quale relazione porsi con l’esperienza della Commedia - con ampia introduzione e commento a ripercorrere il dibattito sulla controversa attribuzione e illustrare i rapporti dell’epistola al signore di Verona con la precedente e coeva ars dictandi delle dediche, e le circostanze contingenti che indussero Dante a offrire questa introductio operis, questa chiave per schiudere la Commedia che è anche «un memoriale difensivo proprio di un momento di crisi», negli ultimi anni dell’esilio e del lavoro al poema che ha fatto macro e grigio il poeta.
Ma tutto ciò resta in fondo per tornare a fronteggiare «una sconcertante dichiarazione di poetica» in virtù della quale Dante stesso ci chiede di leggerlo «con un’audacia che non ha riscontro in alcuno degli antichi esegeti» come faremmo con la Bibbia o il Maharabatha, secondo quattro sensi che vanno dal letterale all’anagogico, come un prisma che si rigiri tra le mani e resti lo stesso nelle sue varie sfaccettature. In una clamorosa declinazione laica, storica e in italiano volgare dell’esperienza visionaria e profetica di Paolo, degli apostoli con Cristo e delle invettive di Ezechiele sulla corruzione di preti e politici - «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis».
Trasportare, strappare i lettori dalla miseria e condurli, nuovo Mosè, alla felicità stessa. In questa vita - hac vita, non dopo. Forse non c’è davvero più stata una così radicale fiducia nel valore trasformativo dell’esperienza poetica. Che si creda o no all’eternità dell’anima e nel giudizio di Dio, resta l’interrogativo su quale sia il fondamento che ci possa consentire di mettere in discussione realtà e società, realizzando opere capaci di abbracciare gli affanni e gli struggimenti delle esistenze altrui. Come constatò una mia studentessa messicana all’università «Sembra che Dante abbia sempre saputo che lo avremmo letto a secoli di distanza».
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
STORIA E LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA, E MEMORIA DELLA TERRA PROMESSA, DEL PARADISO TERRESTRE:
WALTER BENJAMIN, LA MUSICA DEGLI ANGELI (E DELLE SIRENE), E LA METASTORIA "COSMICOMICA".
MEMORIA COSMICOMICA DI ITALO CALVINO E DANTE ALIGHIERI. STORIA, LETTERATURA E ANTROPOLOGIA:
USCIRE DALLA CADUTA "COSMOLOGICA", DALL’ ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, DALL’INFERNO (DIVINA COMMEDIA),
CON RAPIDITA’ (ITALO CALVINO):
"FESTINA LENTE ("Lezioni americane"), "NATI A FORMAR L’ANGELICA FARFALLA (Purg. X, 125).
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?"
(Dante Alighieri, Purg., 121-126).
«La madre di Leonardo da Vinci? Schiava, esule nel Mediterraneo»
L’italianista Carlo Vecce narra la vita di Caterina in un libro che si fonda pure su molteplici scoperte di carattere scientifico, sul ritrovamento di documenti (ma non solo) in grado di riscrivere la storia dell’origine del genio
di Maria Pirro (Il Mattino, Martedì 14 Marzo 2023
Profuga, schiava, esule per il Mediterraneo. Così viene descritta la madre di Leonardo da Vinci nel romanzo storico firmato da Carlo Vecce per Giunti editore. L’italianista, professore universitario all’Orientale di Napoli, narra la vita di Caterina in un libro che si fonda pure su molteplici scoperte di carattere scientifico, sul ritrovamento di documenti (ma non solo) in grado di riscrivere, appunto, la storia dell’origine del genio, risolvendo un mistero lungo 600 anni.
APPROFONDIMENTI
Un’opera, "Il sorriso di Caterina", destinata ad aprire un dibattito importante tra i maggiori studiosi. «Tutto quello che c’è nel volume è reale, a partire dai loro nomi, la fiction interviene per connettere le loro storie», assicura l’autore, mostrando un manoscritto in latino, datato 2 novembre 1452, che ricostruisce la liberazione (con alcuni errori e sviste), ritrovato nell’archivio di Stato di Firenze e scritto da ser Piero da Vinci: suo padre dell’artista.
Com’è arrivata a Firenze Caterina? Grazie al marito della sua padrona, monna Ginevra: un vecchio avventuriero fiorentino di nome Donato, già emigrato a Venezia, dove aveva al suo servizio schiave provenienti dal Levante, dal Mar Nero e dalla Tana. Prima di morire, nel 1466, l’anziano lascia i suoi soldi al piccolo convento di San Bartolomeo a Monteoliveto, fuori Porta San Frediano, per la realizzazione della cappella di famiglia e della propria sepoltura. Il notaio di fiducia è sempre lui, Piero. E Leonardo esegue la sua prima opera proprio per quella chiesa: l’Annunciazione. «Non è un caso», è la tesi.
«Io, per primo, non avevo dato credito all’ipotesi che la madre di Leonardo potesse essere una schiava, e così mi sono messo a cercare, tentando di dimostrare il contrario», ammette Vecce. Per arrivare a sostenere, invece, che la ragazzina venne catturata alla Tana, ultima colonia veneziana alla foce del Don, dove iniziò il suo viaggio tra il mar Nero e il mare nostrum. «Una storia anche di oggi», aggiunge Vecce, che spiega così «l’urgenza di narrarla in questa maniera, per aprire gli occhi». Un legame evidente dalla foto di una profuga in copertina.
«A questo punto Leonardo è italiano solo per metà, e non lo è per la sua parte migliore, perché figlio di Caterina. Sì, è figlio di una straniera: una schiava al più basso gradino sociale. Una donna senza voce, scesa da un barcone, che a stento parlava la nostra lingua», conclude il professore, indicando le conseguenze che ha tutto questo sulla vita di Leonardo. L’idea di libertà assoluta, innanzitutto, e probabilmente l’amore immenso per la natura, visto che la mamma proviene da quel mondo selvaggio, per l’esattezza caucasico, in cui è molto diffusa l’attitudine proprio al disegno. Da qui deriva l’universalità di Leonardo, che non appartiene a una sola cultura e paese, «e lui lo sente. Lo sa, perché sa da dove proviene».
Alla presentazione del libro Paolo Galluzzi, accademico dei Lincei, con Antonio Franchini, direttore editoriale, e Sergio Giunti. E la storia continua anche ora, in questi giorni, oltre le pagine del volume. A Milano, dietro Sant’Ambrogio, nei lavori per la nuova sede dell’Università Cattolica, sta ricomparendo la cappella dell’Immacolata Concezione, quella della Vergine delle rocce dipinta da Leonardo: tornano alla luce il muro vicino all’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. Confusi tra loro, resti umani di antiche sepolture. Forse anche quelli di Caterina, morta a Milano tra le braccia di suo figlio nel 1494, e sepolta in quello stesso luogo.
La madre di Leonardo era schiava e straniera, del Caucaso. Trovato un documento che lo conferma
di Costanzo Gatta (Stile Arte, 14 Marzo 2023)
Un documento trovato nell’archivio di Stato di Firenze da parte del professor Carlo Vecce dell’Università di Napoli conferma le origini straniere di Caterina, la madre di Leonardo. La donna era una circassa, di origini Caucasiche, che fu portata a Firenze da un uomo di nome Donato. Il suo lungo viaggio, prima di arrivare alla capitale fiorentina, la portò, in stato di schiavitù, prima sul mare di Azov, in Russia, poi a Bisanzio, quindi a Venezia. Successivamente, Caterina fu acquistata dalla famiglia Da Vinci.
Il documento ritrovato riguarda un atto di affrancamento dalla servitù, emesso da Piero da Vinci, padre di Leonardo e compagno transitorio della donna. La rinunzia a Caterina come a un “oggetto di proprietà” avvenne sei mesi dopo la nascita del grande artista. Il ritrovamento conferma ciò che già indicavano le indagini sulle impronti digitali di Leonardo stesso, condotte nel passato. riproponiamo ora un’importante intervista.
di Costanzo Gatta
Sangue mediorientale nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina. Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. A quei tempi i risultati furono negativi.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori, notaio.
La storia - prima della scoperta del 2023 - dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata - secondo il costume dei paesi sulle colline toscane - a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa - nero su bianco - da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo...”. Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”. Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.
Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5”. Albiera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire. Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Madonna Litta Dell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il 26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.
Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio - pare certo - nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele...”. Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell’Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
Proprio nelle macchie d’inchiostro sono state scoperte numerose impronte digitali, anche se parziali, che hanno portato alla ricostruzione di un intero polpastrello dell’artista.
“L’impronta - ha aggiunto Capasso - ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto - ha affermato Vezzosi - si rafforza l’ipotesi che la madre del genio fosse orientale: nello specifico, secondo i miei studi, una schiava”.
Spiritualità.
La guerra e la lezione dei sette dormienti
Dai sepolti di Mariupol all’apologo sui cristiani perseguitati. Che suscita una speranza: nessuna morte può sfigurare tanto un corpo da fargli perdere la forma gloriosa
di Carlo Ossola (Avvenire, 3 maggio 2022)
Tra le atrocità della guerra in corso, gravida di angoscia è quella dei sepolti vivi - militari e civili - delle acciaierie Azovstal di Mariupol; non sembra per ora esserci soluzione se non tragica. E lo sguardo sulla nostra umanità si fa cupo, incapaci come siamo di evadere dal male, di esimerci da pensare il male, dal commettere il male, dall’accettare il male. Spesso, in queste settimane, è emersa l’impotenza del credere. Eppure le religioni più profetiche, in profondo, non consolano con parabole eudemonistiche, ma accolgono e rovesciano ciò che nell’uomo è più inumano, ciò che nei secoli ha sfigurato il volto dell’umanità.
Di questa “vocazione” si fa testimone un’antica tradizione: chi entri nello splendido e austero duomo di Crema, troverà sul lato destro dell’abside un frammento di affresco medievale che incornicia, superstiti, i profili dei sette dormienti di Efeso (raffigurati anche nella Crypta Balbi a Roma e in forma lignea nella Cappella dei Santi Cosma e Damiano ad Angri).
La tradizione cristiana, trasmessa in Occidente da Gregorio di Tours e da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, fu soprattutto diffusa dalla Legenda aurea ed ebbe una larga fortuna figurata. I santi “dormienti”: Costantino, Dionisio, Giovanni, Massimiano, Malco, Marciano e Serapione sono venerati anche dalla tradizione ortodossa. Ed un’eco è non meno presente nella sura XVIII del Corano, detta appunto “sura della caverna”.
Narra dunque la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (XIII secolo) che sotto Traiano Decio (201-251 d.C.; imperatore dal 249 al 251) ripresero le persecuzioni anticristiane; sette giovani di Efeso, funzionari di corte, non volendo sacrificare agli idoli, distribuiti i beni ai poveri, si ritirarono in preghiera e digiuno sul monte Celion; ogni mattino uno di essi, travestito da mendicante, andava in città per il pane. Un giorno Malco apprese che Decio, vedendo la loro impavida resistenza, volesse arrestarli; fece infatti murare la caverna in cui erano rifugiati. Ma essi, per volontà divina, si erano già chiusi nel sonno.
Secoli dopo, al tempo di Teodosio II (401-450; imperatore dal 408 alla morte), un possidente di Efeso, volendo costruire stalle sul monte Celion, fece abbattere il muro che ostruiva la grotta. I dormienti si svegliarono, si salutarono, come la sera precedente, preoccupati di essere perseguitati; Malco prese con sé una moneta per comprare il pane in città ove, giunto, trovò dappertutto i segni della croce cristiana e il nome di Cristo liberamente pronunciato. Pagando il pane con la sua moneta, se la vide rifiutata, come da secoli scaduta. Cercò nella folla volti noti e non trovò che facce sconosciute. Portato in giudizio per frode, assicurò di aver visto Decio ancora il giorno prima e che anche gli altri compagni della caverna avrebbero potuto testimoniarlo. Così fu e il vescovo e il proconsole, presa coscienza del miracolo, avvertirono Teodosio che da Costantinopoli si recò a Efeso, salì alla caverna e si prosternò, in pianto e in giubilo: «“Nel vedervi, è come se io vedessi il Signore che risuscita Lazzaro”. Allora Massimiliano gli disse: “È per te che Dio ci ha risuscitati prima del giorno della Grande Risurrezione, affinché tu non abbia più dubbi sulla sua realtà!”
Poi, detto questo, tutti e sette si addormentarono di nuovo, reclinando il capo, e resero la loro anima a Dio». L’imperatore voleva dar loro sepoltura in bare dorate, ma la notte stessa i sette risorti gli apparvero in sogno e gli fecero sapere che per secoli avendo dormito nella terra, dalla terra erano risorti, e così nella terra ancora volevano riposare sino al giorno del Giudizio finale e della Risurrezione.
Sin qui la leggenda, che ha ispirato molti scrittori contemporanei (tra gli altri: Jorge Luis Borges e Michel Butor); ma essa parla anche a noi, in queste settimane di guerra, di sepolti vivi e di fosse comuni. L’apologo certo venne diffuso per contrastare le eresie avverse alla risurrezione dei corpi, ma ci insegna anche altro: non c’è morte che sfiguri o mutili il corpo umano così tanto che non possa riprendere la sua forma gloriosa. Torneranno comunque alla luce, dal ventre dell’acciaieria: vivi ora, se prevarrà ragione; ma vivi sempre nella gloria dei corpi ritrovati e colmi di splendore: perché, per Dante, anche i beati attendono di ritrovare i loro corpi terreni: «Che ben mostrar disio d’i corpi morti: / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» (Paradiso, XIV, 63-66). L’apologo dei “sette dormienti” vale anche più in profondo: risorti per un istante, chiesero la grazia di tornare alla terra sino al giorno del Giudizio: troppo avevano già visto di persecuzioni, di miseria, di abominio. Anche di quella pace hanno bisogno i morti, e i vivi: sugli uni e gli altri reclini posano, a Crema e sulla nostra terra feroce, i “sette dormienti di Efeso”.
Sul tema, in rete, si cfr.:
SILVIA MERICO, I SETTE DORMIENTI DI EFESO Incanti di una leggenda tra Oriente e Occidente (Comune di Crema).
MASSIMO CAMPANINI, La Sūrah della caverna. Meditazione filosofica sull’unicità di Dio Firenze, La Nuova Italia, 1986
FLS
GIORNATA DELLA TERRA (22 aprile 2022): SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CONCORDIA.
In memoria del "discorso sulla dignità dell’uomo" (1486) di Giovanni Pico della Mirandola...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGIA. "Tutti dobbiamo contribuire a fermare la distruzione della nostra casa comune e ripristinare gli spazi naturali: governi, aziende e cittadini dobbiamo agire come fratelli e sorelle che condividono la Terra, la casa comune che Dio ci ha affidato" (Papa Francesco).
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Memoria di Anselmo d’Aosta (21 aprile): riprendere il lavoro sul "Cur Deus Homo" e portarlo oltre l’orizzonte della Dotta Ignoranza (1440) e della Scuola di Atene: meglio seguire l’indicazione di Michelangelo già presente nel Tondo Doni e ripensare il cammino delle Sibille e dei Profeti.
USCIRE DALLA TERRA (CAVERNA)... E, FINALMENTE, VEDERE DALLO SPAZIO, DALLA LUNA, IL SORGERE DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE DELLA CASA COMUNE DELL’INTERO GENERE UMANO: L’ALBA DELLA MERAVIGLIA.... E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA!
Federico La Sala
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO VALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 25 MARZO 2022: https://www.latinatoday.it/attualita/sermoneta-epigrafe-visita-imperatore-1452.html) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
FILOLOGIA STORIA FILOSOFIA TEOLOGIA ARTE PSICOANALISI...
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! In principio era il Logos... o il Logo?!
HOMO HOMINI DEUS EST: ECCE HOMO. Tutto dipende se si pensa in ANTROPOLOGIA o in ANDROLOGIA TEBANA (EDIPO): nel primo caso SIA l’essere umano (uomo/maschio) SIA l’essere umano (donna/femmina) è "come Cristo/Dio", nel secondo caso tutto cambia... e al messaggio evangelico cosa è capitato nel suo viaggio attraverso i secoli dei secoli?
NON "è significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
NON è bene cercare di sapere come e perché "Così parlò Edipo a Cuernavaca" (Franca Ongaro Basaglia, 1982)!?
Non c’è più tempo per nascere a noi stessi e a noi stesse e ammirare il Sorgere della Terra.
È ora di decidersi di salire a bordo...
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E QUESTIONE ANTROPOLOGICA: UT UNUM SINT... *
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 14 febbraio 2001
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
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NOTA:
PER UNA RICAPITOLAZIONE ANTROPOLOGICAMENTE "INTERA" IN GESU’ ("ECCE HOMO"), NON ANDROLOGICAMENTE "DIMEZZATA" IN PAOLO ("ECCE VIR")!
DUE SOLI IN TERRA E UNO SOLE IN CIELO. La Monarchia di Dante è una lezione di antropologia prima che di politica: il giardino dell’intera umanità (impero e chiesa) è uno solo - o l’aiuola della guerra o il paradiso terrestre
FLS
Categoria: Il filosofo e la città
Il Discorso del Re
Con l’Enrico V Shakespeare completa il ritratto del nuovo principe machiavellico (non senza sottolineare le sue contraddizioni) e si prepara per i grandi drammi successivi.
di Maurizio Morini *
Enrico V viene annoverato tra i grandi re d’Inghilterra, colui che ha impresso lo slancio decisivo per la nascita dello Stato moderno inglese. Al centro della sua azione la teoria medievale del doppio corpo del re: quello naturale, soggetto alla morte, e quello mistico che non può morire. Una teoria che garantisce la continuità del sovrano riassunta in uno slogan che avrà fortuna: The king is dead, long live the King.
Nel dramma storico, questa retorica è rappresentata dal coro che, ad ogni atto, anticipando in modo solenne gli eventi, proclama le gesta e le virtù del re. Cosa che garantisce popolarità alla sua azione (Enrico è il sovrano che raccoglie i frutti di una piena legittimità) ma non l’autenticità di fronte al tribunale della storia: dopo ogni intervento del coro, Shakespeare colloca delle scene che, facendo da contrappunto a quanto raccontato, finiscono di fatto per rendere meno credibili gli eventi.
Nel primo atto «la Musa di fuoco che si eleva al cielo più fulgido dell’immaginazione», è frustrata dai sotterfugi dei due vescovi che, per interessi economici, spingono il sovrano alla guerra; nel secondo, il racconto che tutta la gioventù d’Inghilterra è a fuoco e che l’ambizione dell’onore regna esclusiva nell’animo di ogni uomo, è contraddetto con un alterco da osteria; nel terzo, le vele spiegate della Marina inglese a Southampton in direzione della Francia, incontrano i desideri di alcune voci dell’equipaggio di tornare piuttosto in un’osteria a Londra; nel quarto, il regale capitano che passa in rassegna le sue truppe per infondere coraggio, le visita in incognito finendo pure per essere contestato; nel quinto, all’immagine di Enrico che torna trionfante in Inghilterra accolto dalle folle assiepate a Dover, si contrappone la realtà di un sovrano che finisce al capezzale di Caterina di Borgogna per chiederle la mano, riunire i regni e chiudere le ostilità.
Una continua giustapposizione, tipica peraltro del filosofo inglese, tesa a marcare la differenza tra retorica e realtà, ideologia e verità effettuale, dover essere ed essere. Sicché, «ciò che è in questione non è la trasformazione del corpo politico bensì una serie di effetti politici, forse una serie di illusioni, operate attraverso mezzi politici mondani, in particolare attraverso la continua manipolazione retorica di Enrico» (Lake, 2016)
L’irresponsabilità del sovrano e il fucile di legno
Al centro di questa manipolazione si colloca il dialogo che il re conduce in incognito con i suoi soldati e il successivo monologo sull’essenza del potere regale. Enrico V è un re che ha qualità che lo rendono particolarmente popolare, come l’abitudine di visitare i suoi soldati chiamandoli fratelli, amici e compatrioti. Ma si tratta di qualcosa di studiato, una parodia dice lo stesso coro, se il re sente il bisogno di visitare i suoi sudditi, mascherato da semplice soldato, per avere conoscenza dei suoi veri umori. Così, nel dialogo notturno che precede la battaglia, Enrico si aggira nel campo militare esibendo la vecchia giustificazione secondo la quale il re non è altro che un uomo, lamentando di non poter vivere una vita tranquilla. Sembra improvvisamente di assistere al dialogo di Senofonte tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone sulla natura della tirannia. Ma, evidentemente, quello del re solitario non è argomento adatto per rincuorare dei soldati che, all’addiaccio, rischiano la propria vita mentre il re se ne sta nelle retrovie o nel caldo del suo palazzo.
Ecco allora che il discorso si sposta sulle cause della guerra. Ma anche in questo caso i soldati rispondono picche. A parte il fatto che il problema delle cause è qualcosa che va oltre quello che essi devono sapere, dimostrandosi più realisti del re nell’attenersi (in quanto sudditi) alla dottrina degli arcana imperii; il punto, come afferma uno di loro, è che «se la causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re cancella in noi la macchia di qualsiasi colpa». Infatti, prosegue un altro, «se la causa non è onesta, il re stesso sarà chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte quelle gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si riuniranno il giorno del giudizio (...) Ora, se questi uomini non fanno una buona morte, sarà un brutto affare per il re che li ha portati a quel passo, e disobbedire al quale sarebbe contrario a tutti i giusti doveri della sudditanza».
Ma il re respinge gli argomenti in merito alle responsabilità del sovrano: «Il re non è tenuto a rispondere della fine che fanno i suoi singoli soldati, né il padre del figlio, né il padrone del servitore», in quanto «solo la guerra è il suo ufficiale fustigatore, la guerra è l’esecutore della sua vendetta; sicché gli uomini vengono puniti ora, per la causa del re, perché hanno violato anteriormente le leggi del re. (...) Se dunque muoiono impreparati, il re non è colpevole della loro dannazione». Per cui, conclude Enrico, «l’obbedienza d’ogni suddito appartiene al re, ma l’anima appartiene al suddito».
Da un punto di vista teologico si tratta di un principio ineccepibile che segna tuttavia l’assoluta irresponsabilità dei reggitori dello Stato per le proprie azioni. Viene così anticipato il principio di Hobbes secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi (Leviatano, cap.XVIII).
I soldati sono quasi convinti dalle argomentazioni retoriche del re. Uno di loro però insiste con il suo scetticismo e finisce per innervosire il re mascherato il quale, rispondendo in modo goffo e ingenuo, non riesce di meglio che suscitare lo scherno dell’interlocutore. Così, una volta usciti, ecco un monologo del re in cui vi è una vera e propria difesa dei sovrani le cui ansie non sono nemmeno da paragonare alla tranquillità dei cittadini: di fatto, protesta Enrico, la pace che egli acquista per il contadino è pagato a prezzo di dolorose veglie notturne. Torna il Gerone di Senofonte ma questa volta con una differenza: il denaro che Enrico offre, volendo ricompensare il soldato per la coraggiosa franchezza della notte, viene rifiutato con uno sdegnato «non so che farmene». -Shakespeare è filosofo per il quale le esigenze dell’individuo vengono prima di quelle dello Stato; non disconosce quest’ultimo (perché sa che i rimproveri di un individuo contro un monarca sono pericolosi «quanto lo sparo di un fucile di legno») ma lo tiene costantemente sotto il controllo critico.
«We few, happy few, band of brothers» uniti dall’azione criminale
Secondo il giudizio di Churchill (ma non solo), la battaglia di Agincourt dell’ottobre del 1415 contro il ben più numeroso esercito francese, è la più eroica delle battaglie combattute dall’Inghilterra nella storia. Tuttavia, ricorda lo statista, quella vittoria (che pure fece di Enrico V il sovrano più celebre d’Europa) fu seguita da una delle più sanguinose guerre civili che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e tale da controbilanciare gli apparenti successi. Il tentativo di trasferire all’estero i conflitti interni è risultato fallimentare, addirittura controproducente.
Shakespeare rappresenta questa verità attraverso la drammatizzazione. Nel quarto atto, il re chiama a raccolta i sudditi nel celebre discorso di San Crispino nel quale incoraggia allo scontro imminente attraverso la classica mozione degli affetti. «Noi pochi, pochi e felici eletti, banda di fratelli...» Ma anche in questo caso i fatti che seguono gettano discredito sulle parole. I soldati, piuttosto che combattere per la gloria, cercano non solo di assicurarsi un riscatto in denaro per i futuri prigionieri, ma pianificano la vita civile successiva al ritorno in Patria al pari di criminali dediti al furto. Il sovrano, piuttosto che dare prova di virtù e generosità, ordina di far sgozzare a freddo tutti i prigionieri francesi contravvenendo ad una consolidata regola morale e di diritto internazionale. È a questo punto che un soldato equipara il re ad Alessandro il grande: peccato però che (con abile stratagemma) la persona in questione ha un difetto di pronuncia (scambia la b con la p) e il re viene ribattezzato Alexander the pig, Alessandro il maiale.
Che cosa voleva comunicare Shakespeare con questa strategia drammaturgica? Prendendo a prestito Strauss, diremmo che la sua opera è impregnata di retorica socratica, strumento indispensabile per fronteggiare, da un parte, la minaccia della società e dei governanti, e, dall’altra, mezzo per condurre chi ne è capace alla filosofia. La retorica politica si combatte con la retorica filosofica: la cautela non è mai troppa. Diventa interessante a questo punto sapere o immaginare che cosa abbia potuto pensare il competente pubblico che assisteva ai drammi di Shakespeare e che ne decretò subito il più grande successo.
Lo specchio deformato dei re cristiani e il passaggio a quelli pagani
Enrico si crede lo specchio dei re cristiani. Prima di ogni sua azione, tanto privatamente quanto pubblicamente, egli invoca l’aiuto e la protezione di Dio come mai nessun re che lo aveva preceduto aveva fatto. Ma dopo la rottura dello specchio del principe, avvenuta con la fine del regno di Riccardo II, lo specchio di Enrico è completamente deformato: si tratta di un’altra contraddizione posta nel cuore di un regno per sua natura machiavellico che sa fare uso della religione per i suoi fini e finanche di addossare la colpa della guerra allo stesso clero se l’arcivescovo risponde al re che essa può ricadere sul suo capo. Agire senza portarne la responsabilità è il capolavoro politico più volte ripetuto da Enrico.
L’astro di Inghilterra (Star of England), come lo chiama il coro alla fine dell’opera, esce però presto di scena a causa della morte prematura. Il novello Cesare, come lo aveva definito Shakespeare, lascia spazio al vero Giulio Cesare la cui opera (siamo ormai nel 1599) comincia ad essere scritta proprio nel momento in cui si chiude quella dedicata al mitico quanto controverso sovrano inglese.
* Fonte: Ritiri Filosofici, 2 Gennaio 2022
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NOTA: LA TEORIA MEDIEVALE DEL "DOPPIO CORPO DEL RE", LA "MONARCHIA" DI DANTE, E IL PROGETTO INGLESE DI PRENDERE LA FIACCOLA DELL’IMPERO DALLE MANI DELLA SPAGNA. Appunti per un’analisi dei drammi storici di Shakespeare:
a) Enrico V è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1598 ed il 1599. Il dramma prende spunto dalle vicende di Enrico V d’Inghilterra, re che si distinse per aver conquistato la Francia ed aver vinto la battaglia di Azincourt. È l’opera conclusiva della tetralogia shakespeariana enrieide (o tetralogia maggiore); iniziata con Riccardo II e proseguita con Enrico IV, parte 1 e Enrico IV, parte 2.
b) La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi) si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.
c) Giarrettiera, ordine della(ingl. Order of the Garter) Supremo ordine cavalleresco inglese, istituito da Edoardo III nel 1349. [...] Come lo stesso nome suggerisce, lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto Honi soit qui mal y pense (fr.: "Sia vituperato chi ne pensa male"), presente inoltre sul rovescio delle sterline in oro (sovereign) della serie 1817-1820 recanti sul dritto l’effigie di re Giorgio III. La Giarrettiera è indossata dai membri dell’Ordine durante le occasioni formali. Il motto Honi soit qui mal y pense è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in Tirant lo Blanch, un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. Nel romanzo si trova un intero capitolo dedicato alla leggenda della fondazione dell’Ordine. [...] Il primo straniero a essere insignito della Giarrettiera fu il duca di Urbino Federico da Montefeltro nel 1474 [...].
d)STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
e) RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA E FILOLOGIA: IL "DISCORSO DEL RE" E LA VITA CONTRO LA MORTE...
UCRAINA. "Volodymyr Zelensky was driven neither by nationalism nor ideology. Nor was he a revolutionary. He was Everyman" ("How Volodymyr Zelensky found his roar", The Economist, 26 febbraio 2022): dopo millenni, ancora non abbiamo capito la differenza tra il legame democratico e il legame autoritario dell’ Uno con i Molti e dei Molti con l’Uno?!
COSTITUZIONE (E "TEOLOGIA"). Nel fatto che un popolo, con il suo Presidente, combatta "per la sua legge come per le mura della città“ (Eraclito, fr. 44 DK), non ha per caso un rapporto con il "capo" simbolico della Città, la figura che splende alta nel cielo di Kiev, san Michele?
ANTROPOLOGIA (EVERYMAN / "ECCE HOMO"). San Michele? La parola Michele significa: "Chi è come Dio?" (Quis Ut Deus?) e il suo messaggio - prima di tutto - vale come un urlo antropologico, nei confronti di ogni essere umano che pretende di ridurre in stato di minorità un altro essere umano! Forse è bene considerare anche questa piccola traccia filologica per orientarsi nel pensiero e nella realtà.
Federico La Sala
Dante e Guido, chiave per la Commedia
A colloquio con Enrico Malato sul saggio dedicato al Canto X dell’Inferno: «Svela i motivi per cui vari passaggi del poema fanno riferimento a Cavalcanti, amico ma non troppo».
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 17 giugno 2020)
La prima ’anticipazione per estratto’, dedicata al canto I dell’Inferno, risale al 2007. Alla vigilia del settimo centenario della morte di Dante (1265-1321), Enrico Malato si sofferma ora su un altro canto del-l’Inferno, il X. L’orizzonte complessivo è sempre quello della Necod, la ’Nuova edizione commentata delle opere di Dante’ che lo stesso Malato - professore emerito di Letteratura italiana alla Federico II di Napoli e presidente del Centro Pio Rajna - ha avviato nel 2012 presso la casa editrice Salerno. Otto i tomi già pubblicati, al quale se ne aggiungerà un nono in autunno. A coronare il progetto sarà poi la Commedia, di cui si annuncia un’edizione basata sullo storico testo stabilito da Giorgio Petrocchi, ma riveduto in centinaia di luoghi, con introduzioni di varianti e rettifiche di punteggiatura, accompagnato da un commento di forte originalità metodologica. Sono i criteri già seguiti, sia pure in modo sintetico, nella Divina Commedia ’tascabile’ curata nel 2018 da Malato per i ’Diamanti’.
Adesso è la volta del saggio dedicato a Il canto X dell’Inferno (Salerno, pagine 56, euro 12), al quale Malato riconosce una funzione cruciale. Ma è la complessità del rapporto tra i vivi e i morti a colpire, una volta di più, il lettore di Dante. «Una sentenza di Cicerone asserisce che la vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi; ma anche i vivi si nutrono del ricordo dei morti - afferma Malato -. In questa dialettica si trovano le ragioni profonde della fortuna della Divina Commedia. Che naturalmente trova altre motivazioni, nell’opera in sé, nel fascino della sua poesia, nei modi suggestivi della scrittura, nell’imponenza della costruzione.
Perché questo canto è così importante?
È uno snodo fondamentale, un architrave dell’intero poema. Nel canto X dell’Inferno Dante fa i conti con Guido Cavalcanti, il «primo amico» della giovinezza, dedicatario della Vita nuova, col quale è insorto in seguito un dissidio che ha portato forse a una frattura, certo a una contrapposizione che filtra fin nella Commedia. Tutto ciò è rimasto oscuro all’esegesi tradizionale. Che ancora nel ’900 avanzato discettava di quanto i due fossero amici per la pelle, Dante e Guido.
In questo canto Guido è fatto comparire surrettiziamente sulla scena infernale, non di persona, perché ancora vivo al momento del viaggio, ma evocato dal padre Cavalcante, dannato, che sviene alla malintesa notizia della sua morte. Ciò che provoca il collasso è però il pensiero che Guido, se morto prima di aver maturato la consapevolezza del peccato ed essersene pentito, possa essere a sua volta dannato. Così Dante fa dichiarare al padre l’errore del figlio.
Ma il protagonista del canto non è Farinata degli Uberti?
Sì, tradizionalmente è ’il canto di Farinata’: e in quanto tale, dall’esaltazione del condottiero che salvò Firenze dalla distruzione decretata dai nemici vincitori, ha tratto il simbolo dell’amor di patria e della passione politica. Che Dante e Farinata ebbero comune e assai viva, benché apparentemente contrapposta (uno guelfo, l’altro ghibellino), ma in realtà meno distanti di quanto potesse apparire. Il nuovo commento mette in rilievo un aspetto non adeguatamente approfondito nella lettura storica, che poi si rivela di straordinaria portata. Al ’gigante’ Farinata viene infatti affiancata una figura esibita come minore, Cavalcante, che in realtà è solo una controfigura del figlio Guido, punto focale del canto e per molti riflessi, dell’intera Commedia.
Che cosa divideva Dante e Guido?
Partiti da posizioni più o meno comuni, più o meno coerenti con i principii dell’amor cortese, pervengono a concezioni diverse e addirittura opposte: per Dante l’amore è una forza virtuosa, beatifica, che eleva a Dio e porta alla salvezza dell’anima; per Guido è, al contrario, forza tormentosa, impetuosa, ’mortifera’. La divergenza investe l’ideologia di sostegno del fedele su un principio fondamentale del credo cristiano, dominante nella coscienza del XIV secolo. E diventa scontro aperto. Alla teorizzazione di Dante, nella canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, poi nucleo della Vita nuova, Guido oppone, in contestazione, la sofisticatissima Donna me prega per ch’eo voglio dire. Il dissidio esplode pubblicamente. Poi Guido muore. Ma Dante non rinuncia alla replica di puntuale confutazione, trasferita nella Commedia e diluita in tutto il poema.
La rispondenza tra i testi è fittissima.
La Commedia è una ’rete mirabile’ di echi, riprese, intrecci di testi antichi e contemporanei di ogni genere, di cui nel commento è data ampia documentazione. Ma qui conviene mettere l’accento sulla continuità degli echi in replica a Guido, anch’essi sparsi in forma più o meno accentuata in tutte le cantiche. Per dare appena un’idea, basti rilevare che nel canto V dell’Inferno c’è l’episodio, costruito con la forza dell’exemplum medievale, di Francesca e Paolo che, per aver creduto nei principii dell’amor cortese asseverati da Guido, si trovano dannati all’Inferno.
Mentre nel Purgatorio, dopo che Virgilio avrà corretto la definizione di Francesca («Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende, Amor ch’a nullo amato amar perdona») in chiave cristiana («Amore acceso di virtù sempre altro accese»), verrà l’incontro con Stazio, che per aver conosciuto e praticato quei principii ebbe salva l’anima pur essendo pagano.
I dannati possono vedere il futuro ma ignorano il presente: come mai?
Il concetto fondamentale è che la vita è un dono di Dio, concesso all’uomo perché lo impieghi al meglio, con la promessa della beatitudine dopo la morte. Chi non sa meritarla, anche dannato non perde la memoria e la nostalgia di quel bene perduto, con una sofferenza che si rinnova e si esalta osservando ciò che ancora avviene nella vita dei viventi, in quello che non senza precisa ragione è definito «il dolce mondo». Questa facoltà viene meno nel presente: il momento in cui può intervenire il pentimento, e con esso il recupero della grazia di Dio e la salvezza dalla dannazione, evento la cui visione non può essere concessa ai dannati. Perciò è preclusa a Cavalcante, lasciando volutamente oscuro il destino di Guido. Dante, come acutamente aveva intuito Contini, non esprime un giudizio di condanna, ma lascia abilmente aperta la possibilità che, senza un atto di pentimento, l’altro poeta sia infine dannato.
In cammino con Dante/18.
La cattedrale dell’arte vince l’oblìo
Il fascino perenne del Purgatorio è anche nel continuo trapassare la barriera della morte grazie all’immaginazione poetica che congiunge i tempi umani all’eterno
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 18 luglio 2021)
Il Purgatorio è la cantica delle arti, a cominciare dal musico Casella (canto II) che intona la canzone del Convivio: «Amor che ne la mente mi ragiona», sino al poeta Bonagiunta che nuovamente rende omaggio a Dante poeta: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ’Donne ch’avete intelletto d’amore» (XXIV, 49-51), per compiersi nell’elogio di Guido Guinizzelli e di Arnaut Daniel al canto XXVI.
A ben vedere - a parte Brunetto Latini, condannato tra i sodomiti - gli amici e sodali di Dante son tutti a purificarsi nel Purgatorio, quasi le arti fossero - come additava don Giuseppe De Luca - quell’«imbastitura in bianco» che ancora non è abito di salvezza ma già ne annuncia la forma: «per me i poeti sono i maestri, non delle verità da credere, ma delle verità con cui credere. Più di ogni altro artista, il poeta si getta vivente nel suo fuoco, e dentro vi arde senza lasciar traccia d’estraneo né scoria» (G. De Luca, La poesia, paradiso artificiale, 1955; poi in “Archivio italiano per la storia della pietà”, X, 1997).
L’arte è quell’ordinata forma che il divino dipintore dà all’intero creato: «Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida, e da lui si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi» ( Par., XVIII, 109-111); e che l’artefice umano imitando manifesta come “sorriso” e “miniatura” dell’eterna bellezza: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. // “Frate”, diss’elli, “più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”» (Purg., XI, 79-84).
La forma stessa delle cornici che cingono la montagna del Purgatorio, con gli exempla di vizi e di virtù scolpiti a monito e incitamento, è parte di questo processo: nel canto XII Dante posa i propri piedi come su lastre sepolcrali della storia e del mito (quasi percorresse la navata di un’antica cattedrale) e vi vede scolpiti, in tredici terzine mirabili, figurazioni di superbia punita: da Lucifero a Nembrot, ai piedi della torre di Babele, da Niobe a Roboamo. L’arte “fa segno”, rappresentando addita: «Mostrava ancor lo duro pavimento /... Mostrava la ruina e ’l crudo scempio / ... Vedeva Troia in cenere e in caverne». La sua conclusione arriva a quella perfetta fusione di rappresentazione e verità: «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero» (XII, 67-68), che già il poeta aveva illustrato, con ammirato stupore, nel canto X, appena entrato nella prima cornice del Purgatorio: «Là sù non eran mossi i piè nostri anco, / quand’io conobbi quella ripa intorno / che dritto di salita aveva manco, / esser di marmo candido e addorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno» (X, 28 33). Vi è - come nelle vetrate delle cattedrali medievali - incisa tutta la storia della salvezza, a iniziare dall’Ave dell’Annunciazione: «L’angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, / dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. / Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”» (X, 34-40).
Dante fa qui dell’arte lo «spazio dei tempi» (Friedrich Ohly, La cattedrale come spazio dei tempi. Il Duomo di Siena, 1979), il tramite tra la vita e la memoria quale ancora ci offrirà Marcel Proust: «Essi [gli uomini del Medioevo] entravano nella chiesa, vi prendevano quel posto che avrebbero conservato dopo la morte e dal quale essi potevano continuare, come in vita, a seguire il divino sacrificio, sia che - sporgendosi dalla loro sepoltura di marmo - volgessero lievemente la testa dal lato dell’Evangelo o da quello dell’Epistola, [...] sia che nel fondale delle vetrate, nei loro mantelli di porpora, o dell’azzurro oltremare che trattiene il sole, riempissero di colore i suoi raggi trasparenti, [...]; nel loro splendore, nella palpabile irrealtà, restano i donatori che avevano meritato la concessione d’una preghiera perpetua» (La morte delle cattedrali).
Non diversamente contempla Dante la storia raffigurata al vivo, che l’arte trasforma in presenza da una lontana storia biblica: «I’ mossi i piè del loco dov’io stava, / per avvisar da presso un’altra istoria, / che di dietro a Micòl mi biancheggiava » (X, 70-72). Il fascino inobliabile del Purgatorio è tanto nel commercio di intercessione e suffragio che lega le anime dei vivi a quelle dei defunti, quanto nel continuo trapassare la barriera della morte e dell’oblio che l’arte intraprende unendo i tempi umani all’eterno: «Intorno a lui [“i’ dico di Traiano imperadore”] parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno» (X, 79-81).
Il dialogo con Forese Donati dunque (canto XXIII), con Bonagiunta (XXIV), con Guinizzelli (XXVI) dilata il potere “vivificante” della poesia; più che stabilire priorità e successioni di fama e di prestigio - che pure Dante puntigliosamente annota - giova osservare quel prorompere palpitante di vita che dà carne e affetti a quelle ombre: «sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meno sen veniva, / dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”» (XXIV, 73-75), riportandole sul proscenio terreno, tra voli incantati di geometrie celesti: «Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, // così tutta la gente che lì era, / volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera» (XXIV, 64-69). -Non diversamente, nel presentare al canto XXVI, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (e nel porre in bocca a quest’ultimo tre terzine in provenzale che saranno care a T.S. Eliot), non tanto conta la certificazione del canone esibita dal primo: «“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno / col dito”, e additò un spirto innanzi, / “fu miglior fabbro del parlar materno. // Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti [...]”» (XXVI, 115-119); bensì quel ravvivarsi, nel crogiolo dell’analogia, del mondo delle ombre e del creato, essendo ogni parvenza nell’unico grembo del Vivente: «Poi, forse per dar luogo altrui secondo / che presso avea, disparve per lo foco, / come per l’acqua il pesce andando al fondo» (XXVI, 133-135).
È, direbbe Eugenio d’Ors, quella «naturalezza del sovrannaturale» che Dante riserva ai suoi più cari; come qui l’immagine tornerà parimenti in Paradiso per segnalare l’allontanarsi, silente e dolce, di un’altra figura familiare, quella di Piccarda Donati: «Così parlommi, e poi cominciò “Ave, / Maria” cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» (Par., III, 121-123). Identico raccoglimento, di limpidi affetti, è a noi richiesto come lettori, per ben seguire la poesia di Dante: «Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo, / metter potete ben per l’alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l’acqua che ritorna equale» (Par., II, 10-15).
DANTE: ATTACCO A GUIDO CAVALCANTI ’SCOPERTO’ NELLA ’COMMEDIA’ NEL CANTO XVIII DEL PURGATORIO L’AMICO VIENE DEFINITO ’’CIECO’’
Roma, 31 lug. [1997] (Adnkronos) - C’e’ un duro attacco a Guido Cavalcanti nella ’’Divina Commedia’’, finora passato inosservato. Dante Alighieri avrebbe definito ’’cieco’’ il suo migliore amico, il piu’ grande poeta dello Stil Novo, in uno dei passi piu’ ambigui e misteriosi del Purgatorio. Lo ha ’’scoperto’’ lo storico della letteratura italiana Enrico Malato dell’universita’ di Viterbo, autore di un recente saggio nel quale ha ricostruito l’evoluzione dell’amicizia tra i due massimi poeti del Duecento, fino alla traumatica rottura.
Accanto alle due citazioni di Guido (nel decimo canto dell’Inferno e nell’undicesimo canto del Purgatorio), lo studioso ne ha individuata una terza in cui il nome di Cavalcanti non e’ esplicitamente formulato ma sembra ’’assolutamente evidente’’ il riferimento a lui. La polemica allusione si troverebbe nel diciottesimo canto del Purgatorio, dove il Sommo Poeta parla dell’’’error de’ ciechi che si fanno duci’’. Malato contesta l’interpretazione accettata finora dai critici e presente in tutti i commenti della ’’Commedia’’, secondo la quale questi versi sarebbero un’accusa contro i falsi maestri che si fanno condottieri.
Per lo studioso, che sull’argomento sta preparando un nuovo saggio di prossima pubblicazione, e’ ’’inverosimile un generico riferimento ai falsi maestri che avrebbero diffuso false dottrine, mentre un’attenta lettura dell’intero canto fa apparire che l’unico cieco, cioe’ privo della luce della verita’, che abbia preteso di insegnare cio’ che egli stesso non era in grado di vedere, non puo’ essere altri che Guido Cavalcanti: bersaglio innominato della contestazione di Dante’’. (segue).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
Federico La Sala
La casa o, l’itinerario di tutti i viventi
di Mauro Garofalo (Il Sole-24 Ore, nòva, 13 maggio 2021).
E su cosa sia la casa. Se queste quattro mura che ci hanno accolto, distratto, fatto sognare, i mostri, il cuore. Su cosa sia il concetto che ci lega a uno spazio, la fatica, il rumore, l’assorto silenzio della concentrazione. Le quattro mura entro le quali abbiamo atteso passasse la pandemia globale, inimmaginabile, un virus mortale: all’inizio intimoriti, poi soffusi, infine passati al contrattacco della risoluzione. L’abitazione che ci permette di essere ciò che siamo. Amare, distruggere, piangere, rinascere.
Con La casa vivente (add editore, 14 euro) Andrea Staid - docente di antropologia culturale e visuale presso la NABA di Milano, direttore della biblioteca/antropologia Meltemi editore e co-direttore di Field work-travel writing Milieu edizioni - trasferitosi a vivere da qualche anno sui monti della Liguria, ci consegna una riflessione e uno slancio che fa il paio con una delle domande-chiave di questo inizio millennio: cosa è, casa?
Per alcuni persone, per altri memorie, il passato che preme, la viralità da cui ci si protegge eppure quanto abbiamo faticato in era pandemica a restare uniti, tenerci per mano, re-inventandoci una quotidianità infranta.
De-quotidianizzazione e disabitudine. Allo stesso tempo, rilancio, opportunità. Perché, ci dice l’autore, una casa è prima di tutto un piano di scivolo, una sopraelevata sulle esistenze.
L’antropologo è andato in giro per il mondo, poiché la prima regola per chi scopre è sempre la stessa, cammino dunque penso: Sudest asiatico, dalla Thailandia fino al Laos, visitando Myanmar, Vietnam, Cambogia, Cina, India, Nepal, Mongolia.
In ognuno di questi posti Staid sofferma e schiude un uscio, che è soglia e habitat, dunque habitus, abitudine. In ogni luogo del mondo la casa è un coefficiente diverso e pure sempre uguale, l’uomo per gli antropologi è tutto nel senso morfologico, fisiologico, psicologico delle vite troppo spesso ridotte, inscatolate dentro lamine e muri, tessere di un domino che non riusciamo a smorzare. La casa-prigione in cui viviamo in occidente.
Il punto è la natura umana. Il genio, il nucleo tematico, il fuoco attorno al quale Staid costruisce la sua analisi è quel che tutti avvertiamo in questo momento senza sapere che non siamo soli.
La caverna di Platone, le ombre lì fuori spaventano, spettri di asocialità e perdita ci attraversano, in fondo alla galleria il freddo si è insinuato nelle ossa. Scegliamo meno, vediamo poco il futuro, non riconosciamo più l’altro come alternativo, di fronte, ma piuttosto siamo tornati primigeni, l’altra riva, rivus, il rivale, lo straniero, l’estraneo, siamo straniti noi stessi, rinchiusi e disabituati a una vita che non è più.
Per questo occorre ripartire dalla, casa. Palafitta, villa con giardino, rurale, appartamento in città, squat, case galleggianti. Questo di Staid è un inno alla scoperta: “il nostro modo di abitare è una costruzione simbolica che orienta le scelte, plasma i gesti, influenza i linguaggi, così come accade nelle relazioni con lo spazio che condividiamo non solo con altri esseri umani, ma anche con gli animali e le piante. La casa è un luogo di produzione e di consumo in cui si articolano sia le dimensioni del privato sia del pubblico esprimendo in maniera pregnante le relazioni fra il luogo in cui si vive e le persone che ci vivono”, scrive l’autore. Ed è lapalissiano e stimolante riscoprire.
Su cosa sia il linguaggio che codifichiamo quando siamo ‘dentro’, e come quello stesso linguaggio lo portiamo all’esterno, nella comunicazione che ci porta al mondo, nel lessico che costruiamo per edificare pensieri, relazioni, volti a cui attribuire voci. Il nome con cui gli altri ci chiamano, la persona-casa che siamo.
Tornare a costruire, tetti, l’uso delle mani, matericità e pensiero, contro la caducità dell’istante capitalistico, effimero per definizione: il capitalismo - talis capus, “voglio” proprio quella cosa là, spasmodicamente, ne determino un prezzo - il capitalismo massimizza l’istante, pensa al breve periodo. Forse è questo il criterio che ci suggerisce l’antropologia ai tempi dell’antropocene. Se casa è dove sono, l’essere si auto-determina per durata, il vincolo della media dei giorni di cui parlava pure Robert Musil.
Coniugando il Terzo Paesaggio di Gilles Clément, maestro giardiniere, urbanista delle erbe vagabonde, alle nuove tendenze critiche di autrici affermate come Donna Haraway, Staid restringendo il campo semantico allarga il criterio delle competenze necessarie all’uomo che voglia oltrevivere questo istante temporale, riappropriarsi delle forme-futuro: “All’omogeneità, le città del futuro dovranno sostituire la ricchezza della diversità in tutte le sue forme; le superfici organiche dovranno invadere, colonizzare, riconquistare quelle minerali, creando varchi per la varietà della vita“.
Un equilibrio naturale che va ricalibrato, destrutturato, l’uomo per essere necessario a se stesso, innescare l’adattamento a un presente continuo in trasformazione - comunque - non deve far altro che accettare la sua morfologia, la mistura di codici e realizzazioni che lo mettono emblematicamente sullo stesso campo di terra e sogni di ogni altro essere vivente. Lasciando la questione del potere, intralcio alla natura dell’uomo, l’autore suggerisce un ri-equilibrio in favore, uno spossessamento, una devincolizzazione dei propri attributi in favore della casa. Dove viviamo, ciò che ci accoglie, il progetto stesso di un futuro sconosciuto. Quando cambiamo casa, non stiamo forse spostando in avanti le lancette del tempo immaginandoci tutte le cose che faremo, i posti che visiteremo, il modo in cui cambieremo noi stessi per mezzo, e attraverso, quella rimodulazione dello spazio - un pavimento, i piatti, il colore delle pareti, le posate, i bicchieri, la novità insita nel quotidiano, se solo sapessimo vederla: le izbe russe, i minka giapponesi, così i tolou cinesi e i tolek africani, sinonimi tutti dell’abitare.
Che casa siamo?, ci domanda in tralice il testo: sei una casa-pietra o una casa-acqua, un rifugio di montagna, una villa con piscina, palafitte sull’oceano, tende e campeggi, siamo case mobili, o sabbie su crinale, mattoni o cemento armato?
Usciamo dunque, “fuori”: usciamo anche dal mito del progresso ci suggerisce l’autore, il velo di Iside si è alzato, la narrazione che occorre, o di che materia siano i sogni, l’auto-costruzione del sé.
La determinazione che occorre per formarsi, poiché ogni forma porta in sé parte del contenuto.
E’ dunque un percorso di scoperta, quello della casa, un itinerario dei viventi. Non a caso, òikos in greco significava casa ed ecologia. La via è evidente, basta solo imboccare il sentiero ci dice ne La casa vivente Andrea Staid.
Fare casa, ri-conoscere i luoghi
di Rebecca Rovoletto (Comune-info, 04 Maggio 2021)
Inoltrarsi nel nuovo libro di Andrea Staid (*), La casa vivente [1], è un po’ come aprire la porta della cucina ed essere investiti dal profumo di pane appena sfornato. E allora ti blocchi un attimo, perché quello che stai sperimentando ha radici ancestrali, sta risvegliando memorie non già del passato, ma del tuo essere profondo. Quell’essere bipede e arguto che ha camminato sul pianeta con competenza di specie, con immaginazione e abilità, occhieggia sulla soglia. Dov’è finito quell’uomo? E che senso ha parlarne ora?
Allo scoppio dell’emergenza sanitaria è ritornato imperioso il tema della casa, della città, delle “aree interne”, in una parola: dell’abitare. In effetti, le crepe sistemiche intorno al disagio abitativo si sono aperte in voragini. Tutti ne parlano dalle rispettive posizioni. Raramente, tuttavia, prima di porsi domande sul “come/dove abitare”, ci si interroga sul “chi abita”. L’auspicata attitudine maieutica che, secondo Louis Kahn, dovrebbe accompagnare la riflessione sull’architettura (e il suo farsi) appare diffusamente ingessata: incapace di porsi domande sull’uomo, artefice e destinatario dell’architettura stessa, sulla sua ontogenesi e il suo posto ecologico, prima che sulle soluzioni tecniche e tecnologiche.
Per questo, anche nel campo delle trasformazioni antropiche dell’ambiente (domestico, urbano, rurale) trovo fondamentale lo sguardo etnoantropologico. Il testo di Staid - il cui titolo indica il compimento di un lungo percorso intellettuale e personale che lo conduce all’autocostruzione della propria casa - è denso di argomenti e riferimenti, non mancando mai di scorrevolezza e chiarezza.
Il punto di partenza è il suo lavoro sul campo come antropologo, che lo porta in giro per il globo - dall’Europa al Medioriente, dal Laos al Perù, dal Vietnam alla Mongolia - a contatto con culture native e modi diversi di stare nel mondo e di relazionarsi ad esso [2]. Da qui l’incontro con quelle che (noi) chiamiamo architetture vernacolari, o meglio spontanee. Da qui la comprensione che fare casa (non avere casa) è un’azione naturale, come ogni altra capacità umana di rispondere a un bisogno primario.
Ma qual è questo “bisogno primario”? Certo, la necessità di un riparo, di un luogo protetto. Ma dovremmo riconsiderare la molteplicità di significati che la casa rende espliciti: la casa come cellula base situata di organizzazione sociale; la casa come luogo di relazione e autopercezione; la casa come camera di condensazione di funzioni simboliche ed esistenziali, come “dispositivo cognitivo” (citando Matteo Meschiari, p. 73), espressione della capacità di “dare coesione spirituale ai bisogni materiali e psicologici di chi la abita” (p. 44) [3].
Lo sguardo etnoantropologico (dell’altro-altrove) ed evoluzionistico (del tempo profondo) funge da specchio: “serve a ripercorrere le origini degli edifici contemporanei, così come a comprendere perché spesso non rispondono più ai nostri bisogni” (p.51). Allo stesso modo, rispecchiarci in altre culture (le più altre possibili, come quelle indigene) serve a “spaesarci”, a guardarci con i loro occhi, a decolonizzare il nostro immaginario, lasciandolo libero di creare possibilità, e a relativizzare la nostra postura monodimensionale antropocentrica.
La decolonizzazione riguarda anche l’immaginario del progetto e la postura del progettista, comunemente inteso. Esiste un approccio al processo progettuale e costruttivo condiviso e aperto alle variabili, che segue il naturale evolvere e divenire delle relazioni: giacché progettare è prima di tutto un fatto relazionale e nelle relazioni serve empatia. Nel caso di altre culture, tocchiamo con mano visioni spesso ribaltate sul significato di dimora e pratiche abitative, sui processi costruttivi e l’utilizzo dei materiali, sul rapporto dentro/fuori e di condivisione di spazio e tempo, sul confluire di domestico e sociale.
Queste prospettive - nel loro concepirsi in termini di compartecipazione di comunità multispecifiche, in termini di condivisione dei luoghi e dei gesti quotidiani - non pongono a critica soltanto il concetto di casa-macchina di Le Corbusier, ma anche quello di terza pelle di Karl Ernst Lotz, se lo intendiamo come ulteriore strato di separazione/esclusione, anziché come la “meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti” (p. 46), come la membrana osmotica che comunica e interagisce con l’esterno. .Ecco che, allora, si possono risignificare anche il paesaggio e le regole diplomatiche di un territorio densamente condiviso: il giardino, l’orto, il fuori dell’alterità non è che un’altra “stanza” della casa, dice Staid, con cui entrare in dialogo, nel rispetto del suo essere non-domestica, e in cui sperimentare dialetticamente “l’abitare e l’andare” (citando Franco Remotti, p. 22) [4].
Bello, ma cosa fare in pratica? Staid ci spiega che risignificare, sulla base di queste visuali, ha proprio lo scopo di suggerire applicazioni pratiche: non si tratta di riproporre tout court qui, oggi, sistemi costruttivi a noi alieni nel tempo o nelle geografie, bensì di “ibridare” le conoscenze attuali recuperando quelle tradizionali (che sono ancora molto vive in altre culture). Ma soprattutto mutare l’approccio da muscolare a cooperativo, dove la cooperazione non attiene solo alla comunità umana ma a tutto il vivente da cui attingiamo le risorse. E, in quest’ottica, ri-sperimentare competenze che ci appartengono da sempre: l’autocostruzione familiare è “innata”, un tratto adattivo di specie, abbiamo sempre costruito fino a soli due secoli fa.
L’autore ci ricorda che prima della Rivoluzione industriale conoscevamo i luoghi, gli agenti naturali, i cicli vitali e quelli stagionali; conoscevamo i materiali e le tecniche; sapevamo quando e come dare il tempo agli ecosistemi di rigenerarsi; sapevamo che la casa è un “organismo” che può essere sano e può ammalarsi, che pertanto è in un processo costante di mutamenti. Si tratta di ricomporre la frattura tra costruire e abitare prodotta dal neoliberismo, dal suo rendere la casa una merce di scambio anziché un bene d’uso, dalla sua invenzione di “esperti” e di gabbie burocratico-normative che inibiscono il nostro saper fare. Per Franco La Cecla (citato a p. 94) [5], quando ci viene impedito di modellare i nostri spazi, si parla addirittura di “lobotomizzazione”, laddove veniamo deprivati di una parte cognitiva della nostra “mente locale” che, nel suo compenetrare l’ambiente, ci garantisce competenze essenziali.
Il testo propone esempi molto concreti in questa direzione, sia all’estero che in Italia. Qui, le esperienze nate in centro Italia dopo il sisma del 2016, sono particolarmente significative: come il caso dell’associazione A.R.I.A. Familiare che ha avviato cantieri in autocostruzione dove “(...) architetti, ingegneri, progettisti, artigiani, donne e uomini che insieme hanno pensato di dare una risposta reale” (p. 75). Soluzioni ecologiche e rigenerative, fuori dalle logiche della disaster economy, che diventano pratiche sociali costruite dal basso e che si radicano nel mutuo appoggio e nella condivisione, “come terza logica da affiancare al dono e all’interesse individuale” (p. 131). Tra le faglie divaricate dalla pandemia c’è, infatti, anche quella della socialità, della dimensione collettiva. Nella concezione dell’autore la casa è proprio questo: un nodo attorno cui costruire il collettivo. Ecco un altro punto cruciale del saggio: slegare l’ecologia dal sociale è “uno specchio per le allodole esattamente come la green economy” (p. 99).
Molti esempi riguardano anche le nostre abitudini quotidiane di consapevolezza e gestione dei consumi, degli spostamenti, dei rifiuti, dell’autoproduzione del nostro cibo e beni di necessità; prevedendo anche la possibilità di mettere in comune disponibilità (banche del tempo) oppure oggetti e strumenti ad uso collettivo (banche degli oggetti). Come ci insegna la Permacultura: ogni nostro gesto è un processo di cura reciproca, di coesione sociale tra comunità differenti (umane e non). Ma sono parimenti gesti di emancipazione: l’autogestione, l’autoproduzione e l’autocostruzione della propria casa (che non implica rinunciare all’affiancamento di professionisti) ci mettono nella condizione di reimparare a immaginare e a realizzare. Importanti, in questo senso, i riferimenti a Tim Ingold sul potere dell’immaginazione e sull’agency dei materiali e degli oggetti [6].
Soprattutto, Andrea Staid racconta di come ha messo in pratica il suo pensiero e ciò che ha imparato, come ha fatto esperienza in prima persona del suo “fare luogo” sulle colline liguri, in cui autocostruisce e autoproduce, in cui ha scelto di darsi il ritmo e il passo della propria vita: perché la casa “non è solo stare ma anzitutto esserci” (p. 97) e “produrla non è tanto un assemblaggio, quanto una processione” (p.31) un flusso, potremmo dire, di apprendimento continuo e costruzione incessante.
Ripensare l’abitare, come metonimia e pratica del vivere nel vivente - con lo sguardo al passato di specie, con la conoscenza cosmogonica di altre culture, con l’esperienza di altri modi di stare nel mondo (e ripensando criticamente al ruolo spesso connivente degli operatori del costruito) - ci apre alla possibilità di riequilibrare l’impatto antropico sul pianeta, di alleggerire il nostro modo di viverlo e reimmaginare come abitare una casa, una comunità, la terra stessa.
Sin qui, potrebbe essere il racconto di interessanti ricerche e di belle e singolari esperienze. Vorrei sottolineare che non è così: il valore de La casa vivente va in una direzione precisa.
Innanzi tutto perché, spronandoci a ripristinare competenze (almeno) di sussistenza, ci stimola a uscire dall’infantilismo adulto (di cui parla Paul Shepard nel suo Natura e Follia) e dall’assistenzialismo atomizzato cui ci hanno abituati, cronicamente incapaci di provvedere a noi stessi senza un centro commerciale o un “esperto” a portata di mano; incapaci di gratuità e di dono, di riconoscerci parte di una comunità multispecifica in cui praticare cura.
Ma è soprattutto il suo valore di antidoto al catastrofismo, che non è, come molti credono, l’attitudine a guardare in faccia e testimoniare dello stato di collasso in cui siamo entrati: catastrofismo è la cecità nell’immaginare e ricercare possibilità alternative; catastrofismo è rassegnarsi al pessimismo e all’inerzia; è l’ostinato aggrapparsi a un modello di crescita infinita che sta mostrando il suo fallimento; è il rifiuto di praticare modi ecologicamente compatibili di stare al mondo.
Sgombrato il campo dalla visione cinica, nichilista o negazionista, dobbiamo ragionare in termini di sopravvivenza collettiva, perché il pianeta se la cava da solo, in un modo o nell’altro, noi no.
Assieme al collasso ecosistemico, sta crollando la sbornia neoliberista con i suoi miti, tra cui quello del primato della turbo-finanza e dell’iper-tecnologia come uniche risposte ai disastri. Ma non è che un’altra bolla illusoria, un escapismo deresponsabilizzante.
Dobbiamo immaginare in che modo renderci antifragili per affrontare adattamenti inevitabili. Più dipendiamo e più aumenta la nostra vulnerabilità. Siamo una specie estremamente plastica: ci serve ritrovare competenze diffuse, capacità di attivare comunità attraverso modelli di mutualità non gerarchici, di ravvivare il desiderio di ripristinare quella speranza attiva che apre a domani possibili col respiro delle generazioni. Per fortuna c’è chi, come Andrea Staid, pensa e spiega come compiere passi concreti su questo cammino, come “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”.
[1] La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, 2021, ADD editore.
[2] Esperienze di cui parla in un altro suo libro Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in occidente, 2017, Milieu edizioni.
[3] M. Meschiari, Disabitare. Antropologia dello spazio domestico, 2018, Meltemi editore.
[4] F. Remotti in AA.VV., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, 2016, UTET
[5] F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020, Meltemi editore
[6] T. Ingold, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, 2019, Raffaello Cortina editore.
Rebecca Rovoletto è attivista territoriale, architetta e ricercatrice indipendente. Co-fondatrice dell’associazione Ecotòno.
Immaginare mondi, risignificare spazi
Nel suo libro l’antropologo Andrea Staid redige una mappatura dei diversi modi in cui è possibile abitare la Terra, raccontando come la casa del futuro passi dall’ibridazione e non dagli standard urbani occidentali.
di Beatrice La Tella (Futura-Network, 27.04.2021)
In molti idiomi vivere e abitare sono sinonimi, vicini a livello di campo semantico e di concetto. Questa simmetria non esiste nella lingua italiana, e la sua assenza è forse spia di un atteggiamento schizofrenico, comune al pensiero Occidentale, che ha avuto come conseguenze più disagi (quando non disastri) che benefici.
L’antropologo Andrea Staid pubblica il suo La casa vivente per Add Editore, proprio a partire dalla necessità di un decentramento, prospettico e fisico. Il volume si apre non a caso con una brevissima introduzione all’etnografia: non studio egemonico-quantitativo - lo sguardo di superiorità della civiltà (presunta) evoluta che osserva bonariamente società (presunte) arretrate - ma, al contrario, ricerca di stampo qualitativo fondata sullo scambio e il confronto alla pari. Conversando con le più diverse popolazioni nel corso dei suoi viaggi in Asia, Staid si è trovato spesso innanzi a visioni rovesciate delle nostre certezze (un esempio semplice quanto immediato: la paura di dormire con la porta chiusa piuttosto che con la porta aperta). Da questi raffronti è sorta la necessità impellente di rimettere in questione tanto il concetto quanto il potere stesso di abitare.
Occorre partire dall’idea che “la casa è un processo”: dimorare implica una presa in cura, un’azione sempre relazionale e continuativa. L’abitazione è un nodo e sprigiona contemporaneamente esigenze pratiche e funzioni simboliche che si muovono dallo spazio ristretto al paesaggio più ampio. Il modo in cui si occupa un luogo sottende una visione del mondo, una precisa struttura identitaria che non ha una norma fissa. Dimorare in un posto, infatti, non corrisponde necessariamente a stanziarvisi: “Abitare il mondo non vuol dire soltanto radicarsi, ma anche valicare confini”. L’abitare nomade, dunque, non è meno abitare di quello sedentario, anzi, mostra una diversa relazione tra l’uomo e il suo ambiente, dalla quale, sostiene Staid, si può trarre più di una lezione.
Può sembrare strano che si guardi a tende di pelle continuamente assemblate e smontate in mezzo al deserto in termini di futuribilità, eppure, proprio in queste usanze che a chi vive nei nostri condomini sembrano preistoriche, si possono rintracciare i semi di un modo più armonico di popolare il pianeta.
Per l’autore è fondamentale chiamarsi fuori dalla prospettiva industriale occidentale in favore di un approccio ecologista decoloniale. L’atto stesso della costruzione non deve più essere delegato: riappropriarsi dell’abitare significa, innanzitutto, conoscere i luoghi quanto i materiali che consentono l’edificazione e aprirsi inoltre alla possibilità di scoprirne di nuovi e insospettabili. Costruire, d’altronde, è un “atto immaginativo”, non un accumulo di materia inerte ma un’azione artigiana itinerante, ogni volta diversa, adattiva, che non può avere modelli prestampati cui obbedire ciecamente. La materia stessa è stata erroneamente avvertita nei secoli come passiva: oggi sappiamo invece che ha una propria agentività (agency), le cui ripercussioni si propagano anche nel sociale.
Su questi argomenti, la studiosa di Scienza e Nanotecnologia dei materiali Laura Tripaldi scrive nel suo recente Menti parallele (effequ): “Forse in un futuro potremmo trovarci a vivere in case fluide, capaci di cambiare forma insieme a noi come il guscio di una chiocciola, o in città capaci di disassemblarsi e scomparire per ricostruirsi spontaneamente altrove. Finché queste prospettive fantascientifiche resteranno inaccessibili, possiamo accontentarci di sapere che le nanotecnologie odierne ci forniscono tutti gli strumenti per costruire e studiare sistemi capaci di organizzarsi, riprodursi e modificarsi in autonomia su diverse scale, mostrandoci che è possibile immaginare e progettare attivamente altre forme di vita e nuove menti”. La materia ha un’intelligenza ed è protagonista di importanti e costanti mutamenti: conoscerla è fondamentale per ripensare i nostri rapporti con essa e le infinite possibilità che ci dischiude.
Nel mondo del Capitalocene, termine che Staid ritiene più centrato di Antropocene per indicare gli influssi devastanti e trasformativi dell’uomo sul pianeta, l’unica possibilità che ci è data come specie è vivere - e dunque, abitare - alleggerendo l’impatto umano. Lasciandosi alle spalle l’etnocentrismo, l’antropologo preferisce guardare al dimorare indigeno come possibile maestro di un diverso stare al mondo, fatto di ibridazione e connessioni (non a caso nel testo l’autore cita direttamente Chthulucene di Donna Haraway, che fa del legame - letteralmente kin, “parentela” - il fulcro del suo pensiero). Osservando varie comunità, Staid ha scoperto case che sono spazi sociali potenzialmente illimitati, non individualizzanti, spesso con un proprio ciclo di vita - case che nascono, crescono e muoiono dissipandosi secondo le leggi naturali dello spazio in cui sorgono.
Il libro propone dunque una serie di esempi di “architettura spontanea”: dalla goahti dei sami all’izba russa, dal tulou cinese alla tolek africana, Staid esplora case vive costruite in armonia con l’ambiente circostante, case mobili, orti galleggianti, dimore fatte di scale che finiscono sugli alberi, in una rassegna breve ma allo stesso tempo ricca e suggestiva.
Se la casa è un “dispositivo cognitivo”, che si muove non solo in senso spaziale ma anche culturale, Staid ritiene che questo dispositivo vada espanso, e per farlo è necessario muovere altrove il nostro sguardo. Ciò non significa però soffermarsi solo su realtà distanti: è sufficiente scoprire anche proposte poco note sorte in Italia, come A.R.I.A. Familiare, cantieri di autocostruzione sorti ad Amatrice dopo il sisma.
L’Occidente come sistema di pensiero avversa da sempre queste pratiche di autogoverno, anteponendo l’efficienza (spesso presupposta) ai meccanismi di condivisione e la burocrazia all’immaginazione. Si tende a favorire l’intorpidimento dell’homo comfort a scapito della manualità dell’homo faber. “È importante ricordare che la casa è un bene d’uso, non un bene di consumo”, sottolinea Staid e in questo senso fornisce esempi di progetti, come Pianeta U.M.A.N.A. & C., che sono scuole-cantiere volte proprio a istruire alle pratiche di autocostruzione familiare.
In un’epoca di kit di case da montare proposti da Ikea, in cui la standardizzazione crea lotti malsani identici a se stessi, questo tipo di realtà mostra che altre direzioni sono possibili. Se la rivoluzione urbana, con i suoi condomini iperindividualizzanti, con la sua riduzione di spazi comunitari e la sua omogeneizzazione del paesaggio, genera un disagio abitativo dai volti molteplici, è evidente che urge una controrivoluzione.
In questo senso Staid sottoscrive lo stretto legame che intercorre - o dovrebbe intercorrere - tra ecologia e lotta sociale: non riconoscere che le logiche capitaliste siano la causa principale della crisi ambientale significa mantenere uno sguardo parziale e insufficiente. “L’abitare deve diventare un progetto politico anticapitalista”, afferma in maniera diretta, proponendo poi un abecedario di buone pratiche basilari che passano dalla mobilità sostenibile alla riduzione dei rifiuti. È fondamentale ridimensionare l’umano e lasciare maggiore respiro al paesaggio, riportandoci al di fuori di quel centro in cui ci siamo storicamente auto collocati.
Per comprendere questo scarto è sufficiente considerare che l’uomo rappresenta lo 0,01% della biomassa, contro le piante che corrispondono invece all’80%. È proprio alle altre specie che bisogna guardare per salvaguardare anche la nostra: un esempio è la fabbrica dell’aria realizzata dal botanico Stefano Mancuso, un sistema di filtraggio degli ambienti chiusi che si basa proprio sulla fotosintesi delle piante e la loro capacità di assorbire e degradare gli agenti inquinanti. Bisogna “pensare la fine dell’antropocene senza la fine della vita di noi animali umani sul pianeta”. Il primo passo è allo stesso tempo semplice e arduo: ammettere che il modo in cui abbiamo sempre abitato - infestato - il nostro pianeta possa non essere il migliore e cercare altrove nuovi paradigmi.
L’etnografia è un’esperienza di spaesamento, un approccio per cui ogni viaggio è scambio costante, attività transculturale contro ogni gerarchia e struttura verticale. L’obiettivo è progettare un abitare intraspecie, simile alle parentele auspicate da Haraway, che elimini ogni idea di ‘permesso calato dall’alto’ e riconosca pari dignità a tutto il vivente, concependo ogni specie come entità politica. Una volta superato il mito tossico della crescita e dello sviluppo infiniti sarà forse possibile smettere di infestare la Terra e cominciare ad abitarla e viverla, senza più separare i due concetti.
Risignificare l’abitare è risignificare l’umano: Staid invita a superare la paura che il mettersi in discussione reca sempre con sé e iniziare a concepirci diversamente come specie, agendo di conseguenza. Il suo invito, come la sua scrittura, è chiaro e privo di fronzoli: dobbiamo “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”, azzardare nuovi immaginari perché la casa smetta di essere soltanto un edificio e ritrovi una più vasta rete di possibilità e significati.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005).
(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... *
In cammino con Dante/6.
Nel Veglio di Dante la nostra superba fragilità
Fra richiami alle Scritture e ai miti classici nel canto XIV dell’Inferno la compassione cristiana per la sorte degli uomini che rifiutano il vero amore fa costante appello alla saggezza antica
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 25 aprile 2021)
Nel canto XIV dell’Inferno, ove vengono puniti i superbi bestemmiatori del nome divino, con una delle pene più crudeli - «Sovra tutto ’l sabbion d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe senza vento» (vv. 28-30) - Dante incontra Capaneo, che rivendica la propria ostinazione nel peccare: «Qual io fui vivo, tal son morto», sì che Virgilio gli rinfaccia il crudo rovello di quella pena: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (vv. 63-66). Avanzando in silenzio, i due pellegrini giungono a un fiumicello rosso sangue, «lo cui rossore ancor mi raccapriccia» (v. 78).
La scena cambia e Virgilio segnala a Dante che questa è la più «notabile» meraviglia tra quelle sin lì contemplate: e racconta egli stesso la storia del «Veglio di Creta», che influisce altresì sulla struttura del basso Inferno. Richiamandosi al mito classico, il poeta evoca i regni - favolosa età dell’oro - di Saturno che dominava Creta dall’alto del monte Ida: «Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida, / or è diserta come cosa vieta» (vv. 96-98).
Apprendiamo dunque che il luogo edenico, che Dante ritroverà appunto in cima alla montagna del Purgatorio (quasi figura del monte Ida), è ora ’diserto’ come deserto troverà Dante l’Eden in cui gli appare Beatrice.
Ma, superba congiunzione del mito classico con la memoria biblica, in quel monte «sta dritto un gran veglio» il quale volge le spalle a «Dammiata», Damietta, alla foce del Nilo (luogo che vale come simbolo dell’Oriente) e ad un tempo a «Roma guarda come suo speglio» (v. 105). È qui tutta la malinconia del mondo classico che s’affisa sulla nuova Roma cristiana; e infatti la magnifica descrizione del Veglio è tutta una riscrittura del modello biblico:
«La sua testa è di fin oro formata, / e puro argento son le braccia ’l petto, / poi è di rame infino a la forcata; / da indi in giuso è tutto ferro eletto, / salvo che ’l destro piede è terra cotta» (vv. 106-110).
Si tratta della ripresa della visione avuta in sogno da Nabucodonosor, il cui senso viene a lui disvelato dal profeta Daniele: «Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla. Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra» (Dan. 2, 3135).
Ecco, tale è la fragilità della storia umana la quale, benché aurea nella sua divina e alta origine, si corrompe nei secoli e poggia su fragile argilla; mentre «la pietra che i costruttori hanno scartato / è diventata la testata d’angolo» (Salmo, 117, 22; Mt., 21, 42; Atti, 4, 11;) e ha fatto della terra il monte di Dio.
Questa possente rilettura del testo biblico giustifica la struttura intera dell’Inferno, poiché «ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta / d’una fessura che lagrime goccia» (vv. 112-113). La montagna trasuda lacrime, molto più che il ricettacolo di questa nostra «lacrimarum valle» ricordata nel Salve, Regina; e dai rivoli di dolore nascono i quattro fiumi del profondo inferno: «Lor corso in questa valle si diroccia; / fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; / [...] / Infin, là dove più non si dismonta, / fanno Cocito... » (vv. 115-119).
È forse il punto, in Dante, di più stretta unione tra eredità classica e figurazione biblica, sotto il segno del virgiliano «sunt lacrymae rerum et mentem mortalia tangunt » (Eneide, I, 462: ’Lacrime sono le cose, e il patire dei mortali segna la mente’). In quella dolente statua sono raccolti, insieme alla storia dell’umanità, i rivoli nascosti delle lettere occidentali: Plinio il Vecchio ricorda il rinvenimento, dopo un terremoto, all’interno di una montagna dell’isola di Creta, di un uomo gigantesco (Nat. hist. VII, XVI: «in Creta terrae motu rupto monte inventum e- st corpus stans XLVI cubitorum»), traccia del quale Dante trovava altresì in sant’Agostino (De Civitate Dei, XV, 9). Si delinea qui la profonda compassione di Dante sulla vicenda umana, tale che gli impedisce talvolta di interrogare le anime dannate; volgendosi a Virgilio aveva appena detto, contemplando l’«anima lesa» di Pier delle Vigne: «Ond’io a lui: ’Domandal tu ancora / di quel che credi ch’a me satisfaccia; / ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora’» (Inf. XIII, 82-84).
È il Leitmotiv dolente sulle pene dei dannati, che portano il pellegrino a perdere conoscenza, e a cadere, davanti al supplizio d’amore di Paolo e Francesca: «Al tonar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà d’i due cognati, / che di trestizia tutto mi confuse, / novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno... » ( Inf. VI, 1-4). L’uomo siede sulla ’montagna di lacrime’ della storia che il reverendo John Stuart saprà riscrivere in tempi moderni: «We all, some time or other, stand on this mount of tears», ’Noi tutti, prima o poi, veniamo a trovarci su questo monte di lacrime. Non possiamo farci niente. Se abbiamo una sensibilità cristiana, non possiamo guardare all’indifferenza, alla volgarità, all’incredulità, al disprezzo di tutto ciò che è buono e santo, se non con uno spirito colmo di lacrime» (Sermons, IV; Edinburgh 1889).
Pochi decenni prima, una pagina del nostro Risorgimento porta impressa quella dolorosa memoria: «Accosto alle sue mura, a ponente, s’alza un monticello, e sovr’esso siede l’infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de’ signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca» (Le mie prigioni, cap. LVII); poche settimane prima che Silvio Pellico vi venisse rinchiuso, un rapporto del sopraintendente Smerczeck del 16/2/1822, definiva: «Nicht Spielberg: Weinenberg»: ’non la montagna del gioco, la montagna delle lacrime’. Dal monte che rinserra il Veglio di Creta a tutti gli Spielberg di ieri e di oggi, sempre più il dolore gela in noi e si rapprende, accecandoci, sopra gli occhi chiudendosi «le ’nvetrïate lagrime del volto» (Inf. XXXIII, 128).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FLS
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.... *
Riletture.
"Divina Commedia", il viaggio della speranza
L’itinerario di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma ormai sono viste con occhi nuovi
Giuliano Vigini (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Dall’esilio terreno alla patria celeste, la Divina Commedia è tutta un’epifania di speranza. Inizialmente è l’angosciante anelito di Dante di uscire dalla «selva oscura» ( Inf. I,1) in cui si era smarrito; poi, la forte tensione per raggiungere il colle della «divina foresta» ( Purg. XXVIII, 2); infine, dopo il doloroso distacco da Virgilio e la comparsa di Beatrice, la consolante certezza di esser entrato nel regno «che solo amore e luce ha per confine» ( Par. XXVIII, 53.54).
Dall’umana necessità di sperare - bene supremo che i dannati dell’Inferno hanno definitivamente perduto ( Inf. III,9) - si passa dunque, procedendo nell’ascesa, alla speranza come virtù teologale, che si affianca alle due sorelle maggiori - come avrebbe detto Péguy -, la fede e la carità, per camminare insieme verso Dio.
Sono le tre “donne” che nel canto XXIX, 121-129 del Purgatorio danzano in cerchio sul lato destro del carro, ciascuna risplendente di un proprio colore (bianca la fede, verde smeraldo la speranza, rossa la carità). La fede è la radice della speranza (Par. XXIV, 73-75), perché se l’uomo non arriva a «conoscere» il Suo nome (Sal 9,11; 91,14), cioè a professare la fede nel Signore («Sperino in te»; «Sperent in te», Par. XXV, 73, 98), la sua speranza cammina al buio, senza mai trovare la via maestra della verità di sé stesso e della sua sospirata felicità. La carità è l’altra virtù essenziale, che dà forma e compimento alla fede, perché, quanto più si esercita la carità, fondandola in Dio e nel suo amore, tanto più ci si avvicina all’«amore perfetto» (1Gv 4,12) che in modo perfetto unisce anche le altre virtù.
Beatrice è per Dante il volto della speranza. È lei che, mossa dall’amore («amor mi mosse», Inf. II, 72), lo guida e lo spinge in avanti verso quell’Amore di cui già gode; è lei che, innalzata da creatura umana a figura della teologia e a rappresentante della sapienza divina, è scesa dal cielo per aiutarlo a salire verso il Bene sommo che è Dio.
Di grado in grado, Beatrice non emana più soltanto il dolce profumo della donna bella e virtuosa amata da Dante in gioventù; lei gli porta il profumo stesso di Dio, dei santi e dei beati, dei maestri e dei testimoni della fede (da Tommaso a Bonaventura, da Francesco a Domenico a Bernardo) che sono con lei in paradiso. Sotto la guida di Beatrice, con davanti i suoi occhi luminosi e il suo radioso sorriso, la speranza di Dante si fa via via realtà concreta; non è un’illusione destinata a perdersi e a svanire; la speranza è sempre davanti a lui come orizzonte verso il quale alzare lo sguardo e camminare.
Quando raggiunge questo orizzonte, la speranza ha compiuto il suo ultimo tragitto e si trasforma in un’epifania di luce, nell’inebriante realtà della gloria di Dio e della gloria di Cristo, che da sole tutto illuminano. Lì anche Dante può contemplare il mistero trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e volgere la sua devota preghiera a Maria, la «vergine madre », «umile e alta più che creatura », «termine fisso d’etterno consiglio» ( Par. XXXIII, 1-3). Il viaggio di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma il mondo di lassù gli fa ormai vedere con occhi nuovi anche le realtà di quaggiù.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
MITO E ANTROPOLOGIA: UNA DOMANDA DI UMBERTO SABA E LA SPERANZA (IL FILO DEL "SERPENTE") DI DANTE ALIGHIERI
(Par. XXV, 97-99: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent in te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole.").
STORIA E LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. Nella dimensione dell’#immaginario di Saba, nella lotta di "fratelli contro fratelli", gli "italiani" affondano con i piedi e con la testa non solo nella #Terra di #Romolo e #Remo ("#Cesare", ma anche di #Caino ed #Abele ("#Cristo"): e di qui, forse, la possibilità di risalire la corrente dei fiumi e, come i #salmoni e le #anguille, con #Salomone (e #Freud e Trieste e Napoli) e Dante Alighieri, e ritrovare la #sorgente, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
DIVINA COMMEDIA. Nel non detto delle parole di Umberto Saba, non emerge un #segnavia "delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (#RenéGirard) che sollecita a proseguire il cammino e portarsi oltre la #tragedia?
#Earthrise #Dante2021 #Kant2024
*
Note:
A) CON #DANTE, RICORDANDO #MICHELANGELO E LA SUA #RAPPRESENTAZIONE DEL BIBLICO "SERPENTE DI BRONZO" NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA.
B) INCONTRO DEL #RE #SALOMONE E DELLA #REGINA DI #SABA (Part. della "Porta del Paradiso" del #Battistero di San Giovanni Battista di Firenze realizzato da Lorenzo Ghiberti, tra il 1425 e il 1452.
C) PER (RIFLESSIONI SUL TESTO DI) UMBERTO SABA, cfr. "Italiani fratricidi / commenti /", a c. di Helena Janeczek ("Doppiozero", 7 Marzo 2011).
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
Cultura
Un frenetico giro intorno al mondo tra oggetti, corpi e sensazioni
Il poeta. I versi di Lawrence Ferlinghetti dedicati all’emigrazione. Come Montale, interroga la vita per far luce sull’esistenza umana e decifrarne il mistero. Trapiantare il girasole è il sogno del migrante, il girasole la metafora per la luce come vitalità, cambiamento, visione del futuro, verità. La luce come panorama di culture, linguaggi, identità plurime
di Maria Anita Stefanelli (il manifesto, 25.02.2021)
«Portami il girasole impazzito di luce»: l’omaggio a Montale, in italiano, è l’epigrafe di Lawrence Ferlinghetti a «Surreal Migrations» («Migrazioni surreali», in Blind Poet - Poeta Cieco, Giunti 2003, traduzione italiana di Antonio Bertoli), la poesia contenuta in How to Paint Sunlight (Come dipingere la luce) l’edizione paperback del 2001 pubblicata, come molte sue poesie, da New Directions (New York), sulla costa opposta dell’America rispetto a San Francisco, dove è nata, poi fiorita, l’allora «notoria» (anni Cinquanta) City Lights Booksellers and Publishers. SULLE TRACCE del pittore Edward Hopper, il cui desiderio è «dipingere la luce del sole sulle facciate delle case», Ferlinghetti, come il «romantico irrazionale e visionario» che dipinge la solitudine, costruendo oggetti, corpi e sensazioni con la luce, per il quale «la luce viene prima e l’oscurità non è che un’ombra fugace da eliminare con più luce» («A Word»).
Ed eccolo a compiere, con la leggerezza di un bimbo sulla giostra (light, in inglese, traduce «luce» ma anche «leggero») un frenetico giro intorno al mondo, da Praga (dove Jan Hus ha cercato la libertà dall’oppressione) attraverso fiumi, mari, oceani, sempre in direzione ovest, impaziente e di raggiungere il lontano Oriente, il Medio Oriente, il Nord Africa, l’Ellesponto e il Mediterraneo fino alla penisola italica, dove, incalzato dal tempo come il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie, si fionda in discesa attraverso brevi versetti a scalini, approfittando di una lingua nativa, l’inglese (per la verità, parlava anche francese da piccolo), di cui sfrutta i molti monosillabi sui quali facilmente scivola da un fiume all’altro: «Across the rivers of the world/ Across the Rhine/ Across the Rhone/ Across the Seine/ Across the Thames/ Across Anna Livia’s Liffey/ Across Atlantic/ Across Manhattan/ Across Great Hudson/ into the heart of America» e si chiede «Where is the light?».
GIÀ, DOV’È LA LUCE per gli Europei, gli Italiani (come suo padre, insiste, ma non è dato averne certezza), che emigravano in cerca di lavoro, inseguendo il sogno americano, e che emigrano ancora in America? La poetica del fiume di Ungaretti («Questi sono i miei fiumi», ha scritto emulando l’Italiano), l’immagine del girasole di Montale «che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza», il Paradiso di Dante dove il viaggio termina (ma il suo Paradiso, di Lawrence, è diverso!), da questi e altri ancora Ferlinghetti assorbe citazioni e motivi, parole e musica: «Surreal migrations of words/ somewhere between speech and song» (Migrazioni surreali di parole/ da qualche parte tra discorso e canzone).
Tra l’ansia (l’artista ne soffre) e lo spasso (il poeta - Shakespeare docet - inventa pun per puro divertimento) Ferlinghetti, come Montale, interroga la vita per far luce sull’esistenza umana e decifrarne il mistero. Trapiantare il girasole è il sogno del migrante, il girasole la metafora per la luce come vitalità, cambiamento, visione del futuro, verità. La luce come panorama di culture, linguaggi, identità plurime.
«What is Poetry?», si chiede Ferlinghetti nel suo Poetry as Insurgent Art (1975): «È qualcosa da invocare in una selva oscura nel mezzo del cammino della vita».
Ciao, Larry, salutaci il tuo Paradiso.
Beat Generation. Morto Lawrence Ferlinghetti, si chiude un’era
Il poeta, scrittore ed editore era nato nel 1919. Il suo nome resta legato al movimento letterario degli anni 50 e 60
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 23 febbraio 2021)
È morto Lawrence Ferlinghetti all’età di 101 anni. L’altro ieri, lunedì 22 febbraio, a San Francisco, città simbolo della controcultura, a causa di una malattia polmonare, secondo quanto ha riferito il figlio Lorenzo. Storico editore e libraio di City Lights (che pubblicò Howl, Urlo, di Allen Ginsberg e si beccò una condanna per oscenità), ultimo baluardo di quel movimento poetico eversivo e disarticolante che è stata la Beat Generation, Ferlinghetti era nato nel marzo del 1919 a Yonkers, nello Stato di New York. Evidenti i geni italiani (per parte di padre; la madre era invece di origini franco-portoghesi).
Dopo un’infanzia turbolenta trascorsa in Francia, Lawrence fa ritorno con la zia negli Stati Uniti. Studia alla Columbia University, si arruola nella marina (come successivamente farà nientemeno che Thomas Pynchon), dopo la terribile esplosione di Nagasaki diviene convinto pacifista. A seguito di un incontro decisivo (con il poeta Kenneth Rexroth) durante il dottorato alla Sorbona, si reca a San Francisco in California, che sarà il suo regno assoluto fino agli ultimi giorni.
Ferlinghetti - little boy simbolo dell’editoria indipendente, voce del disarmo ed emblema del mondo beat assieme a Kerouac, Ginsberg e Corso - è stato innanzitutto un poeta. Forse il più convincente della sua generazione, sicuramente il meno adatto a essere etichettato. Versi attorcigliati e netti, pensieri caustici e dolci, lieta sofferenza: Ferlinghetti è il poeta delle antinomie e di un anarchismo religioso eclettico che considera la figura di Gesù e tiene in serbo le massime orientali.
La sua lirica è impregnata di un misticismo cosmico, universale (molto simile a quello di Gary Snyder) che penetra nei tessuti dell’essere fino a mostrarne i legami. Diversamente dal caos esplosivo di Ginsberg, Ferlinghetti mostra un tono più prudente e controllato nel raggiungere la giusta misura poetica. La sua concezione politica e filosofica si riflette in una assoluta tensione alla libertà, che va al di là di ogni cultura e ogni divisione di genere.
La sua vocazione di editore, peraltro, lo ha portato a considerare le diverse voci della letteratura con una delicatezza e una capacità di scandaglio davvero singolari; l’indipendenza da ogni visione ideologia e prospettica - o, meglio, l’inappartenenza - è il conseguimento di un orizzonte antidottrinario (un po’ come il nostro Eugenio Montale) sono state le cifre uniche della sua attività di letterato tout-court.
Autore di autentici best-seller poetici (A Coney Island of the Mind è stato tradotto in nove lingue) ma anche romanzeschi (ha scritto due novels), amico di Fernarda Pivano che fu anche sua traduttrice, Ferlinghetti è stato variamente tradotto nel nostro Paese: una ventina di titoli in tutto, tra i quali ricordiamo almeno Scene italiane. Poesie inedite (Minimum Fax, 1995), L’amore nei giorni della rabbia (Mondadori, 1999), Il lume non spento (Interlinea, 2008) e la raccolta antologica Poesie (Guanda, 2005).
La sua fortuna non ha subito punti opachi e c’è da credere seriamente che l’opera non scompaia con il personaggio. Soprattutto se i versi sono di questo tenore: «Un sole che tramonta / tiene a bada la notte / tutto questo sospeso nel tempo / l’universo trattiene il suo respiro / c’è silenzio nell’aria / la vita pulsa ovunque / la cosa chiamata morte non esiste».
Andare in Paradiso in carne e ossa, bello e possibile?
di Giovanni Cesare Pagazzi (Avvenire, domenica 21 febbraio 2021)
A Dante non sembra vero. La domanda che lo tormenta dall’Inferno, ora, in Paradiso, può esser rivolta alle anime dei sapienti, ricevendone sicura risposta. Toccato dalla pena eterna dei golosi, prostrati nel fango, percossi da un miscuglio di grandine, acqua e neve sporca, il poeta chiede a Virgilio circa la sorte di questi spiriti, dopo il giudizio finale, quando si ricongiungeranno con la loro carne: il tormento diminuirà? Rimarrà invariato? Crescerà? La risposta del latino è pungente: «Ritorna a tua scienza’! Stando a lui, Dante ha già la competenza sufficiente per rispondere da sé. Infatti, la teologia scolastica, ben conosciuta dal fiorentino, afferma che ’quanto la cosa è più perfetta / più senta il bene, e così la doglienza»: la percezione del piacere e del dolore è un criterio per stabilire la gerarchia di quanto esiste.
Insomma: vista la sua insensibilità, un sasso è meno compiuto rispetto a un albero; gli animali sono più raffinati dei vegetali giacché più sensibili; uomini e donne sono i più pregiati perché nessuno percepisce il piacere e il dolore come loro. In breve: quando le anime dei dannati si riuniranno ai corpi, la pena si acutizzerà, dato che, a motivo del corpo, la loro sensibilità sarà più completa (Inferno VI, 100-111).
Ciò significa che la carne porta a compimento l’anima (alla faccia di chi ritiene il pensiero medioevale oscurantista e disincarnato!). Il rimprovero di Virgilio evidenzia il lapsus di Dante che, pur esperto, istruito credente, sul più bello dimentica l’alfabeto e la poesia della sua stessa fede. In Purgatorio, Dante dimostra d’aver appreso benissimo la lezione. Infatti descrivendo il canto degli angeli, non trova immagine migliore di questa terzina mozzafiato: «Quali i beati al novissimo bando /surgeran presti ognun di sua caverna /la revestita voce alleluiando»(Purgatorio XXX, 13-15).
La sublime musicalità degli angeli è audacemente paragonata all’’Alleluia!’ cantato dai risorti con voce finalmente rivestita di carne, quando, nell’ultimo giorno, allo squillo della tromba, svelti usciranno dalle fosse. Senza la carne, le anime non sanno cantare l’Alleluia della vittoria; ovvero sono incapaci di esultare a squarciagola per la rivincita sulla morte. Eppure, manca qualcosa.
Infatti, in Paradiso, in mezzo a due cerchi concentrici di anime di sapienti, la domanda posta nell’Inferno riaffiora. Anzi si moltiplica e appuntisce, trasformandosi in una batteria di quesiti. A quegli spiriti luminosissimi e fiammeggianti di gioia, Dante per bocca di Beatrice chiede: «Con la risurrezione dei corpi, quando la carne si riunirà alle anime, queste saranno ancora così splendenti? La materia non offuscherà la visione di Dio? Appesantite dal corpo, godranno ancora questa gioia raggiante?» (cfr. Paradiso XIV, 10-18).
È Salomone, il più sapiente tra i nati di donna, a prendere la parola, spiegando che, quando i corpi si riuniranno alle anime, queste non subiranno decremento alcuno della loro gioia e potenza; al contrario godranno ancora più, perché ancor meglio vedranno Dio. In altre parole: fino alla risurrezione dei corpi, persino ai santi manca qualcosa: proprio quella carne che li abiliterà alla gioia davvero compiuta. Alle parole del figlio di Davide, i due cerchi di anime s’infiammano di felicità, e gridano ’Amen!’, desiderando riavere al più presto i loro corpi. Ma ecco il colpo di genio del Poeta: quel desiderio delle anime non è solo per se stesse, ma è anche per i loro genitori che quei corpi hanno generato, nutrito, vestito, aiutato a crescere. È anche per rispetto di chi quei corpi ha amato, accarezzato, baciato, goduto, curato, sepolto.
La risurrezione del corpo non è solo la perfezione dell’anima, ma anche un atto di giustizia del Creatore verso gli affetti che hanno consolato quei corpi. La risurrezione della carne è un debito che Dio sente di avere verso chi ha amato quei corpi. Come potrebbe Dio esser giusto se non restituisse a un uomo il corpo della sua donna, a un padre e una madre i corpi dei loro figli, a ciascuno i corpi dei loro fratelli, sorelle e amici?
A questo punto, meglio lasciare la parola a Dante: «Tanto mi parver sùbiti e accorti /e l’uno e l’altro coro a dicer ’Amme!’ /che ben mostrar disio de’ corpi morti; /forse non pur per lor, ma per le mamme, /per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme». (Paradiso XIV, 61-66». Qualcuno potrebbe dire: «Troppo bello per essere vero!». Eppure, esattamente perché è così bello, è difficile che non sia vero.
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
*
LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE
dii Franco Fortini (il manifesto, 28 ottobre 1986).
Non voglio davvero disconoscere che la libertà minore (pedagogica perché fortifica, per via di esperimento ed errore, il soggetto disordinato, e lo introduce al sistema di premi e di punizioni che l’esistenza è) non sia anche apportatrice di salubrità, di salute. Anzi, nel nostro presente che è feroce con i deboli e li sopprime ai minimi vitali (o anche al di sotto di quelli) e si vanta del sangue che la sera si trova sotto la suola delle scarpe, la libertà di disporre del cibo e del letto, delle vesti e delle medicine sarà certo meno terapeutica della volontà di quanto non siano le libertà di scelta ma è, di queste ultime, la condizione prima.
Bisogni e desideri, necessità e fantasmi sono inseparabili e in continuo transito gli uni attraverso gli altri. Per non averlo capito in tempo, la tradizione laico-liberale e quella socialista, a eccezione di pochi che onoriamo, si sono presentate impreparate all’appuntamento dei nostri decenni e hanno continuato a ripetere i luoghi comuni dell’autocoscienza individuale oppure di un impegno politico che tutto delegava al Partito, inteso quale supremo gestore dell’autocoscienza.
E proprio per questo è potuto sembrare invece che, chiamata da Eliot la “infermiera agonizzante”, la Chiesa terapeuta e taumaturga sia stata capace di supplenze allo stato, di unificare apostolato e guarigione, politica sacramentale e pedagogia della salvezza; né sarebbe male che vi guardassimo più da vicino.
Per decine di anni troppa parte dell’ottimismo scientifico e delle illusioni sono passate, senza reale verifica, dalla tradizione giacobina o democratico-laica a quella comunista; che, come abbiamo vissuto, quando le fallisca il duro padre leninista ricorre ai miti sentimentali che hanno abbeverato progresso e industria, dai saint-simoniani al New Deal.
Mi permetto rammentare, di passaggio, che non si è data sufficiente attenzione ai punti di contatto tra il pessimismo antropologico che è proprio della storica “terapia” cristiana e quello storico di una parte rilevante, sebbene minoritaria, del marxismo moderno. Per il cristiano l’uomo è costituzionalmente ammalato, leso da un vulnus originario che lo ha reso separato dalla natura edenica; la sua guarigione è salvezza e si attua fuori dal tempo, il presente non è che figura di un altro presente immutabile. Ma anche una parte del pensiero rivoluzionario, quella non rousseauiana né positivistica, non hanno una mera fine ma solo una trasformazione storica, non solo una funzione negativa ma anche una positiva.
Solo l’ammalato può allora essere il terapeuta dell’ammalato, secondo la parola brechtiana, sklaven verden dich befreien “schiavi ti libereranno”. Nei medesimi anni di Brecht, inascoltati dalla sinistra dell’ottimismo “progressista”, lo dicevano anche Simone Weil e Ernst Bloch. Ma se era relativamente facile dire questo pensando alle classi umiliate e offese dell’Europa di cinquant’anni fa, chi realmente oserebbe oggi proporre, accanto a quelle, come terapeuti o liberatori, come i re guaritori o lebbrosi della leggenda, gli schiavi, i malati, i feriti del terzo e quarto mondo? O i nuovi barbari delle nostre periferie? Eppure, non dimentichiamolo, fu questa la sfida cui si confrontarono cent’anni fa i rivoluzionari europei.
Il ruolo terapeutico di “pratiche sociali”.
Una volta avrei capito subito che cosa si intendesse con “pratiche socali”; oggi, ma dubitosamente, credo che si alluda all’area vastissima e giustamente imprecisa, che è oggetto di volontariato o semi-volontariato o di particolari attività amministrative, dove si lavora a contatto di situazioni generalizzate, prodotte dalla società presente ma che, essa situazione, nelle proprie istituzioni, è incapace di gestire e trasformare. A me pare che la particolare condizione di queste “pratiche sociali”, nel loro inevitabile ambiguo rapporto con le istituzioni dello stato del “benessere” o “sociale” (e con quelle sue sottosezioni che sono i partiti) le volga a qualcosa che non è soltanto fattuale, empirico, immediatistico bensì a qualcosa che “deve o “dovrà” essere.
La “pratica sociale” sembra, fortunatamente, eccedere proprio quel frazionamento degli uomini, quella reificazione in figure e ruoli che è, a mio avviso, l’inevitabile e già ovunque visibile conseguenza delle prediche sulla “fuga dal centro” e sulla fine dei progetti di futuro. L’Occidente conosce benissimo questi corpi intermedi fra partecipazione e secessione. E’ inevitabile che i poteri centrali diffidino, tentino di inglobare o controllare o, al bisogno perseguitino, come fu con i Giansenisti e con gli anarchici. Questi microrganismi sono naturalmente terapeutici, sono libertà e la portano, enzimi del corpo sociale e, come spesso ripetono,”nel mondo ma non del mondo”.
Nessuna di queste istituzioni di mutuo soccorso psichico e fisico, ideologico e corporeo, può evitare, come un qualsiasi Esercito della salvezza, il passaggio dalla minestra all’opuscolo, al libretto rosso o verde, all’invito a film, riunioni o feste; ma che dico, non può e neanche deve, perché il ruolo terapeutico di queste pratiche sociali è proprio di essere un indice teso a qualcos’altro, a un dover essere, a un “oltre” e, se non lo sono, allora valgono quanto il medico della mutua, i congressi dei partiti, il campionato di calcio o il Te Deum a Santiago.
Per dire tutto in una formula: la condizione che chiamiamo di libertà - da qualcosa e per qualcosa - non è terapeutica o lo è solo se contiene in sé la possibilità di un superamento di se stessa ossia una obbligazione e un impegno, quindi una accettata limitazione di se stessa per un fine e un orizzonte ulteriori.
Quanto affermo va contro il costume intellettuale ereditato dal progressismo. In una società che non vuole sentirne parlare (o vuol sentirne parlare soltanto “a destra” ossia con ben precise garanzie di ordine sociale) quanto affermo implica anche considerare terapeutico ciò che indirizza gli investimenti libidinali verso quel che oltrepassa la nostra biografia, dunque verso una repressione.
Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria.
Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO.
Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare.
Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: “La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
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L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
“700 - Viva Dante”. Scelto il logo per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri*
“700 Viva Dante - Ravenna 1321-2021” sarà questo il logo delle prossime celebrazioni dantesche, l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Un 7 e il simbolo dell’infinito, “Viva Dante” che in molti hanno letto come “Viva Ravenna”.
È stata quindi l’agenzia di comunicazione Matilde Studio di Cesena a vincere il concorso pubblico indetto dal Comune di Ravenna per trovare l’immagine che rappresenterà la città nel prossimo anno. Un concorso, a dire il vero, che in questi mesi ha ricevuto diverse critiche, dall’opposizione, ma anche dall’Associazione Italiana Design della Comunicazione.
A molti non è piaciuta l’idea di lasciare ai ravennati una scelta così complessa e strategica.
Di convinzione opposta, invece, il Comune, che ora ha il proprio logo sotto il quale racchiudere tutte le prossime celebrazioni dantesche, scelto da una decisione popolare
* https://www.ravennawebtv.it/ 30 Aprile 2019
DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA: ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA ....
Tre note... *
A) - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Bautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
B) - L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius] così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, IV, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe” (p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
C) - CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto di Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.... *
Su “Dante, nostro contemporaneo” di Marco Grimaldi
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 23 luglio 2017)
Davanti agli scrittori e ai libri classici accade di tenere due atteggiamenti opposti. Uno è quello attualizzante: per far capire al pubblico, di solito un pubblico scolastico, che la voce dei grandi autori del passato è ben udibile anche oggi e merita di essere ascoltata, si annullano i secoli e si cerca di dimostrare come tutte le domande che ci poniamo oggi siano già contenute in quei vecchi libri, accompagnate da ragionevoli risposte. L’altro è quello filologico, che mira a leggere le opere nel loro contesto originario, e dunque a illuminare quel contesto con gli strumenti dell’erudizione. Interpretare significa, a seconda dei casi, avvicinarsi più all’uno o all’altro polo, o meglio trovare un punto intermedio dal quale spiegare le cose secondo verità, ma senza spegnere l’interesse del lettore non specialista.
La Commedia di Dante è naturalmente il banco di prova tradizionale per un simile esercizio di equilibrio: ci parla ancora, indubitabilmente, nonostante siano passati sette secoli, più di qualsiasi altro libro del Medioevo; ma più di ogni altro grande libro del Medioevo incarna le idee e i sentimenti del suo tempo, idee e sentimenti dei quali il lettore odierno ha perduto la chiave. Charles Singleton sosteneva che «l’indifferenza alla salvezza» che è caratteristica di noi moderni ci impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. «Il fatto è - scriveva - che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia».
In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro - qualcosa di meno - per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di percepire nella Commedia il valore teologico e profetico che essa aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso. È davvero così? O si tratta invece, come osservava Eliot, non di credere nelle idee in cui Dante credeva bensì soltanto di conoscerle, di dare alla sua opera non un assenso filosofico ma un assenso poetico («Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico»)?
Marco Grimaldi ha scritto questo suo breve saggio dantesco, appena pubblicato da Castelvecchi, mettendosi all’incrocio tra queste due linee di riflessione. Da un lato, la Commedia è un’opera così ricca da concedere un’infinità di appigli a chi voglia servirsene come cava di citazioni o - come malamente si dice - ‘suggestioni’ da applicare alla vita presente. Ma, come mostra molto bene Grimaldi, si tratta spesso di attualizzazioni arbitrarie, nate da una conoscenza insufficiente del contesto storico-culturale nel quale Dante scrive e, più ancora, dalla smania che molti studiosi hanno di adoperare la cultura del passato per illuminare il presente.
Ma c’è una piccola parte di verità e una grande parte di retorica nell’idea - quale che sia l’ideologia attraverso cui si declina - che le opere del passato contengano in sé, impostati se non ancora risolti, i problemi del futuro: la democrazia, il capitalismo, l’eguaglianza, il gender. Grimaldi invita a separare e a distinguere, a segnare le differenze piuttosto che le analogie, e le sue osservazioni andrebbero lette soprattutto da studenti e insegnanti troppo zelanti nella pratica così scolastica del ‘collegamento’ fatto un po’ a casaccio. No, Dante non dice sulla politica cose che possano riguardarci davvero, perché l’assetto del mondo è troppo diverso da quello che lui aveva sotto gli occhi; no, attraverso il personaggio di Beatrice Dante non ha voluto «sconvolgere il comportamento stereotipico codificato in base al gender»; eccetera.
Sotto la critica di Grimaldi cadono uno dopo l’altro questi abusi anche un po’ sciocchi, e forse c’è solo da osservare che la necessità di farli cadere costringe talvolta lo studioso a estremizzare i contrasti: non direi per esempio che l’idea di monarchia dantesca si possa assimilare alla tirannia modernamente intesa, né che, «per le sue prospettive imperiali», Dante sia «totalmente distante agli occhi di chi, come la maggior parte di noi, vorrebbe un mondo libero, democratico ed egualitario». Dante difende l’idea imperiale proprio perché è quella che secondo lui meglio garantisce la libertà e la giustizia fra gli uomini: «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est» (Mn I xii 9: ma tutto il paragrafo è pertinente). Si può eccepire contro questa idea, contro questa idealizzata - e già a quell’epoca perenta - forma statuale, non però dire che a Dante non stessero a cuore gli ideali che stanno a cuore noi oggi, né che la democrazia, anzi la democrazia moderna, sia l’unica forma di governo che permette di realizzarli.
Dall’altro lato, Grimaldi non si sottrae alla domanda sul perché si legga ancora la Commedia, e anziché fissarsi sui dettagli (il Dante politico, il Dante riformatore religioso, ecc.) guarda all’intero, e trova in questo intero, negli ideali che lo ispirano, un’analogia con i postulati della ragion pratica di Kant, cioè l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio.
Qui - varcando, e di molto, i confini della filologia - il discorso di Grimaldi si fa ancora più interessante, ma anche più opinabile. Venuta meno per gran parte dei lettori odierni, come osservava Singleton, la fede in una vita dopo la morte, e nel giusto riconoscimento dei meriti e delle colpe, la visione dantesca sarebbe una specie di risarcimento, e la nostra perdurante devozione a quella visione esprimerebbe la nostalgia per un ormai tramontato ordine metafisico. È possibile.
Ma è su questa perdurante devozione che è lecito nutrire qualche dubbio, cioè sull’effettiva presenza della Commedia nelle letture degli italiani adulti, una volta finita la scuola. Presenza che a me pare scarsa, comprensibilmente scarsa, dato che la Commedia è un libro difficilissimo, che richiede un sacrificio di tempo e uno sforzo d’attenzione che sono ormai alla portata di pochi. Una risposta molto più pedestre alla domanda circa l’attualità e la ‘durata’ della Commedia nel canone delle nostre letture, circa il «perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017», potrebbe essere insomma «perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria». E s’intende che questa risposta materialista integra ma non cancella quella idealista proposta da Grimaldi: ma invita un’altra volta a riflettere su quanto la nostra visione del mondo e dell’arte rispecchi, più che sfuggenti costanti antropologiche, le - molto sagge, del resto - indicazioni nazionali per il curricolo scolastico.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
ALIAS
Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi
Ultraoltre. La salvezza di tutti gli esseri attraverso il ritorno allo stato originario
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 21.07.2018)
Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie minerali e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci porteranno alla luce di una splendente verità.
Come guida naturale del tortuoso cammino, Benjamin staglia dai racconti di Leskov quella particolarissima figura che egli chiama «il giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa - il buffone, lo scemo del villaggio, il viaggiatore, l’artigiano, il briccone - il giusto ha, però, un’essenza costante che si trasmette di personaggio in personaggio come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.
Per distillare questa essenza Benjamin parte da Bloch - che come lui aveva difficili rapporti con i francofortesi - citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose. La madre di Leskov stesso ad esempio «che non poteva infliggere una sofferenza a nessuno, neppure agli animali. Non mangiava carne né pesce, tanta era la sua compassione per le creature viventi». Il giusto, conclude Benjamin, è allora il portavoce delle creature ed insieme la sua più alta incarnazione. E così vediamo che la sua essenza immutabile è quella di un essere «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di salvezza, di apocatastasi.
«Apocatastasi» è un termine dalle molteplici accezioni a seconda degli ambiti in cui viene usato. Letteralmente significa «ritorno allo stato originario», oppure «reintegrazione». Nella filosofia stoica, ad esempio, si collega alla «dottrina dell’eterno ritorno»: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo. Per il neoplatonismo, invece, l’apocatastasi è qualcosa di più spirituale, cioè il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intero insieme delle cose manifestate proviene; è ciò che gli gnostici chiamerebbero il Pleroma. Questa idea si inserisce appieno all’interno del tema, prettamente religioso, della Caduta: l’allontanamento dell’uomo dalla sua originaria comunione con l’Assoluto, col Divino, ma anche di un suo possibile ritorno alla pienezza edenica originaria. Nella teologia dei primi Padri della Chiesa il suo teorico è Origene.
Dice allora Benjamin: «Una parte importante, in questa dogmatica [della chiesa greco-ortodossa], è svolta, com’è noto, dalle teorie di Origene, respinte dalla chiesa romana, sull’apocatastasi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso. Leskov era molto influenzato da Origene. Egli si proponeva di tradurre la sua opera Sulle cause prime. In armonia con la fede popolare russa, egli interpretava la resurrezione più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola». Benjamin, dunque, è qui teso a mettere in rilievo, anzi diremmo a dispiegare pienamente, non tanto il senso teologico, escatologico, del termine, quanto il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale egli può farci vedere, nei personaggi della narrativa leskoviana, «l’apogeo della creatura» ed allo stesso tempo «un ponte fra il mondo terreno e ultraterreno», costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.
Ma, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» collega sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra con ciò che avviene in superficie. «La gerarchia creaturale, che ha nel giusto la sua cima più alta, sprofonda in gradini successivi nell’abisso dell’inanimato. Dove bisogna tener presente un fatto particolare. Tutto questo mondo creaturale non si esprime tanto, per Leskov, nella voce umana, ma in quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, la voce della natura». E dunque eccolo presentarci una di quelle intuizioni che collegheranno la figura del giusto, inteso come interprete della «voce della natura» e della salvezza, alle sue rappresentanze più elementari e sotterranee. «Quanto più Leskov discende lungo la scala della creature, tanto più chiaramente la sua concezione si avvicina a quella dei mistici». Ed a questo punto, con uno dei suoi scarti spettacolari, Benjamin passa a parlare del racconto di una pietra che racchiuderebbe una profezia: l’Alessandrite.
L’Alessandrite e la pulce di acciaio
Il racconto di Leskov citato da Benjamin, si intitola come la pietra che ne è protagonista. Narra di un tagliatore di pietre di nome Wenzel che ha raggiunto nel suo lavoro vette eccelse, paragonabili a quelle degli argentieri di Tule che ferrarono la famosa «pulce di acciaio» capitata nelle mani dello zar Nicola I. Qui una breve digressione è d’obbligo poiché questa pulce, questa «ninfosoria» come viene definita nel racconto, caricabile a molla e di grandezza naturale, pare esista davvero e sarebbe ammirabile nel Museo delle armi in città. Uno scrittore italiano contemporaneo dice di averla vista.
Chi ama Tolstoj conosce Tule, dato che la sua famosa residenza, Jasnaja Poljana e la sua tomba, si trovano da quelle parti. La storia è semplice ma suggestiva: il fratello della zar Nicola I, Aleksàndr Pàvlovic, riceve in dono dagli «inghilesi» questo manufatto, una «ninfosoria» appunto, fatta di acciaio brunito che, mercé una piccola chiavetta inserita nella pancia, può essere caricata e dunque muoversi come una vera. Alla morte del fratello la pulce meccanica passa all’Imperatrice vedova Elisavéta Alekséevna che però, stretta nel suo lutto inconsolabile, decide di inoltrarla al nuovo sovrano. Il novello zar Nicolàj Pàvlovic in un primo tempo la trascura, per impellenti questioni di stato, poi si impunta e cerca di trovare il modo di eguagliare, o meglio, superare la bravura degli odiati «inghilesi». E dunque ordina ad un suo uomo di fiducia di raggiungere i famosi argentieri di Tule, rinomati per la loro maestria, e vedere cosa potessero fare per surclassare l’arte britannica. Dopo qualche tempo la ninfosoria di acciaio brunito torna a palazzo. In apparenza è immutata e lo zar si adira ma, ad una più attenta osservazione microscopica, ecco apparire il prodigio tecnologico: su ogni zampetta della pulce di acciaio è stato addirittura apposto come un ferro di cavallo e, su ognuno, è inciso il nome del mastro argentiere che l’ha forgiato!. L’orgoglio russo è salvo.
Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti, cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano. Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo. Ora, nel racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il sovrano.
Il 13 marzo del 1881, infatti, lo Zar si disse disposto a prendere in considerazione le modalità dell’abolizione della servitù della gleba. Ma era già troppo tardi. Lo stesso giorno alcuni cospiratori guidati da Sofja Perovskaja misero in atto un astuto piano per eliminarlo. Alessandro II era già sfuggito più volte alla morte per attentato, ma quella volta il disegno riuscì. Mentre faceva ritorno al Palazzo d’Inverno, la sua carrozza fu colpita da una bomba lanciata da Nikolaj Rysakov, ma egli rimase illeso. Sceso per accertarsi dei danni fu investito dall’esplosione di una seconda bomba. Lo scoppio lo colpì ferendolo mortalmente. La profezia dell’Alessandrite si era avverata.
V.I.T.R.I.O.L.
Ma la poetica di questi elementi naturali, secondo la visione di Benjamin, emana ancor più potentemente da ciò che rimane nella profondità della terra, dando loro addirittura il potere di ricombinare il destino dei vivi con quello dei morti, di salvare eternamente e al tempo stesso gli uni e gli altri. E d’altronde il pensiero dell’eternità non ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte? Per attivare questa operazione favolosa egli utilizza allora come Prima Materia del suo athanor immaginale uno degli autori preferiti l’«indimenticabile Johann Peter Hebel». «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» afferma icasticamente e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie». La morte dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione dell’opera al nero, primo gradino del processo alchemico?
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui, paradossalmente, li coagula, il vetriolo.
La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista del racconto.
Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere». Questo nome comprende, e confonde, in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula». Per questo le sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e rame.
Per completezza simbolica bisogna citare anche l’acronimo, V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613 dell’alchimista Basilio Valentino. Il suo svolgimento è: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase simboleggia la discesa all’interno dell’essere per operare con rettitudine alla ricerca del proprio gioiello interiore.
E allora concludiamo la parabola dell’apocatastasi benjaminiana, con il bel racconto di Hebel di cui il vetriolo marziale è protagonista. Siamo a Falun, in Svezia, presso le miniere di ferro. Due giovani sono innamorati e presto si sposeranno. Lui però è un minatore ed un giorno non torna più: la miniera è crollata. Passano gli anni e la fidanzata gli rimane fedele. Dopo decenni, in cui il tempo lavora sulla materia vivente, ecco che dalla vecchia miniera riemerge il corpo del minatore: è intatto poiché il vetriolo lo ha imbalsamato nel momento della giovinezza. Mentre lo seppellisce esclama: «Dormi in pace adesso, un giorno ancora o forse dieci, in questo fresco letto nuziale, e non ti sembri lungo il tempo. Mi restano soltanto poche cose da fare, e presto verrò, presto sarà di nuovo giorno. Ciò che la terra ha già una volta reso, una seconda non lo tratterrà». Tutto è giusto e perfetto.
Walter Benjamin. La febbre
di Valentina Maurella (Doppiozero, 21.09.2017)
«L’inizio di ogni nuova malattia mi insegnava, immancabilmente, con quale sicuro tatto e con quanta abilità il contrattempo mi venisse a trovare. Lungi da esso l’idea di farsi notare. Tutto aveva inizio con qualche chiazza sulla pelle, con un malessere. Ed era come se la malattia fosse abituata ad aspettare fino a quando il medico non le avesse procurato una collocazione. [...] cominciavo a riflettere su quanto mi stava per accadere. Calcolavo la distanza tra il letto e la porta e mi chiedevo per quanto tempo ancora la mia voce avrebbe potuto superarla. Già mi immaginavo il cucchiaio dal brodo colmo di esortazioni materne [...]. E come una persona che nell’ebbrezza prova a fare un calcolo o un ragionamento solo per vedere se ci riesce, così io contavo i riflessi che il sole faceva balenare sul soffitto della stanza e ordinavo sempre in nuovi gruppi le losanghe della tappezzeria. Mi sono ammalato spesso. Da qui forse proviene quella che altri definiscono pazienza, ma che in realtà non ha alcunché di virtuoso: la tendenza a vedere ciò che mi preme avvicinarsi a me da lontano, come le ore nel mio letto da ammalato. Per questa ragione, quando faccio un viaggio mi viene a mancare la gioia più grande se non ho potuto aspettare a lungo l’arrivo del treno in stazione e così si spiega anche perché, per me, fare regali sia diventata una passione; io, infatti, come colui che dona, scorgo in anticipo ciò che per l’altro rappresenta una sorpresa.»
Benjamin tratteggia una situazione nota pressoché a tutti, ossia l’avvicinarsi, inesorabile, della malattia. Riesce a rendere palpabile e reale quella sensazione di imminente disfatta del corpo di fronte all’avanzata del malessere, che pian piano incede, avvinghiandosi alla pelle in forma di chiazza. Non si tratta però solo di una realistica ed efficace descrizione della malattia. Benjamin, infatti, fa di questa condizione, ripetutasi numerose volte nel corso della sua infanzia, la possibile causa di un modo d’essere che rimarrà una costante di tutta la sua vita.
L’attesa della malattia, preannunciata dai sintomi più lievi, diviene per il cagionevole Benjamin bambino un’occasione per constatare l’incalzare della necessità naturale e, allo stesso tempo, questa attesa rappresenta una lenta e faticosa lotta interiore contro quella stessa, fisiologica, necessità. Benjamin non descrive la sofferenza, né la ribellione contro la malattia, ma, attraverso l’immagine dell’ubriaco che cerca di mettere alla prova la propria lucidità, restituisce quella sensazione di angoscia che si prova nel sentire la mente sull’orlo del precipizio. L’equilibrio instabile tra coscienza e incoscienza è tracciato dalle linee sottili del sole sul soffitto e dai disegni della tappezzeria.
È nella malattia che il bambino misura se stesso per la prima volta e, nello scontrarsi con una forza esterna che si abbatte su di lui, percepisce il proprio essere e la propria salute come indipendenti dalle amorevoli cure materne. Così, l’attesa del malanno imminente, si traduce in una riflessione sul modo di rapportarsi agli eventi futuri. Per il bambino essa rappresenta la conquista della familiarità con il tempo. Nelle ore in cui attende l’acuirsi dei sintomi che lo costringeranno a letto, il mondo intorno a lui diviene improvvisamente leggibile. Lo scettro per dominare il tempo è nascosto nell’anticamera di ogni evento. Sulle banchine della stazione, nelle ore di febbricitante attesa prima della consegna di un regalo. L’istante decisivo viene previsto e calcolato minuziosamente dall’immaginazione del bambino. Il momento in cui un sorriso riconoscente si disegnerà sul volto del destinatario; in cui il corpo soccomberà definitivamente alla febbre; in cui un interminabile fischio annuncerà la partenza del treno.
L’attesa è un atto di divinazione, in cui la mente del bambino si esercita a interpretare il rapporto tra la necessità degli eventi e la propria capacità di incidere sull’accadere di questi ultimi. La divinazione è un concetto di cui Benjamin si serve, nella XVIII tesi di filosofia della storia, per stigmatizzare l’ideologica contemplazione di un futuro preordinato, che mortifica e inibisce la capacità umana di agire all’interno della storia. Invece ciò che preme a Benjamin, in questo passo, è evidenziare come l’attesa di un evento preannunciato si carichi di un valore soggettivo irrinunciabile, che supera il senso stesso del compimento.
L’attesa così concepita rappresenta quella coloritura individuale che è capace di riempire un momento oggettivo della vita quotidiana. Benjamin, con lo sguardo di bambino, caratterizza una concezione qualitativa dell’esistenza, ribaltando la tradizionale immagine di attesa quale interminabile successione di istanti e considerandola, invece, come lo spazio entro cui il bambino sperimenta se stesso in maniera autentica e individuale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Ripartire dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo" .... *
“È cominciata l’era dolce dell’umanità!”
di Francesco Bellusci ("doppiozero", 26 luglio 2017)
Qualche anno fa, in un breve e amichevole scambio a distanza con Michel Serres, il filosofo francese mi faceva notare la vicinanza geografica del mio paese di origine (lucano) con il rispettivo (calabrese) di Gioacchino da Fiore, confidandomi che in quel momento l’abate e teologo cistercense assorbiva i suoi interessi e le sue ore di studio nella biblioteca della prestigiosa Académie Française, fondata dal cardinale Richelieu, di cui Serres è membro da quasi trent’anni. Adesso, mi rendo conto che quella confidenza di circostanza mi avrebbe fornito la chiave segreta di accesso alla sua ultima fatica, appena edita in Italia (Darwin, Bonaparte e il Samaritano. Una filosofia della storia, Bollati Boringhieri, Torino).
Infatti, la “filosofia della storia” che Serres presenta in questo libro, ricalca lo schema dell’interpretazione storico-allegorica di Gioacchino da Fiore basata sul processo di compimento progressivo della Rivelazione e soprattutto sulla divisione in tre età o epoche (l’età del Padre, l’età del Figlio e l’età dello Spirito santo), che nel libro di Serres diventano: l’era dell’inizio, l’era dura e l’era dolce.
Non si tratta di una novità assoluta. In passato e sempre in una versione secolarizzata, lo schema era stato mutuato e riproposto, per esempio, da Lessing nell’Educazione del genere umano o da Nietzsche nelle “tre metamorfosi” (cammello, leone, fanciullo) del Così parlò Zarathustra.
È lo stesso Serres che, in alcuni punti del libro, rivela la matrice “cristiana” della griglia alla base della sua filosofia della storia, che rimane tuttavia estranea al modello escatologico di quella matrice. La confidenza evoca oggi un’ulteriore coincidenza e analogia. Tra i più ferventi aderenti alla visione di Gioacchino da Fiore ci fu il teologo e francescano parigino Gerardo di Borgo San Donnino, che in un libro intitolato Liber introductorius ad Evangelium aeternum del 1254 preconizzò l’imminente avvento dell’“età nuova” o ordine dello Spirito Santo profetizzata da Gioacchino (per l’esattezza nel 1260), con la scomparsa conseguente della Chiesa gerarchizzata sostituita da una comunità monastica di santi.
Ma San Bonaventura metterà a tacere immediatamente i fervori gioachimiti nel suo ordine, bollandoli di eresia, e il teologo parigino sarà condannato alla prigione a vita. Entrati nel terzo millennio, diverse e inquietanti nubi e minacce sembrano addensarsi e oscurare il nostro tempo: dal terrorismo globale alle guerre asimmetriche, dalle catastrofi ecologiche o umanitarie legate ai grandi flussi migratori dal Terzo Mondo alla criminalità organizzata che avvelena l’economia e la politica di alcuni Stati, in non poche parti del mondo.
Eppure, un filosofo, ancora una volta francese, di nome Michel Serres, ancora una volta, in quest’ultimo libro, ne parla come di fenomeni molto circoscritti e regressivi, enfatizzati solo dai “mercanti” del pessimismo e del catastrofismo che si annidano non a caso nel sistema delle comunicazioni di massa, e annuncia, nell’incredulità generale, che abbiamo fatto da poco il nostro ingresso nell’età più dolce dell’umanità.
È, quindi, il caso di addentrarci di più nel testo di Serres, al quale già di recente la collana “Riga” sui grandi innovatori del Novecento ha dedicato una ricca antologia critica (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, Milano 2014) e sul quale, il prossimo ottobre, la Casa della Cultura di Milano si appresta ad offrire un seminario a più voci al pubblico italiano, per accompagnarlo nel modo in cui il nuovo maître à penser francese, che parteciperà in videoconferenza, c’invita a cambiare lo sguardo sul mondo contemporaneo.
Se, come si è detto, Gioacchino da Fiore gli fornisce la tela, la tavolozza dei colori che Serres utilizza per dipingere il suo affresco ambizioso include alcune coppie concettuali-chiave: bene e male, virtuale e attuale, caos e necessità, sacro e santo, rideclinate a partire dai pensatori e scienziati che lo hanno ispirato profondamente e costantemente: Simone Weil, Henri Bergson, Jacques Monod, René Girard.
Questi riferimenti e intercessori non vanno ovviamente confusi con i “personaggi concettuali” fatti assurgere da Serres a simboli delle tre età o ere che vede succedersi nella storia e che danno il titolo al libro: Darwin, Napoleone e il Samaritano.
Il libro inizia con la precisazione di un nuovo modo di intendere e definire i confini della storia, la cui profondità temporale assume in Serres una dimensione colossale. Non è solo la storia “storica”, la storia centrata sugli uomini, la storia che ha inizio con l’invenzione della scrittura. Paradossalmente questa Storia ha una memoria corta, cortissima, anzi è un ammasso di oblii, perché dimentica e mette ai margini della storia gli ominidi o i popoli primitivi privi di scrittura, gli altri viventi, le cose inerti, il pianeta, l’universo. La storia di cui Serres vuole proporre una filosofia, infatti, ha l’estensione cronologica vertiginosa del “Grande Racconto” delle scienze, dal momento che risale fino al Big Bang, cioè a circa quattordici miliardi di anni fa.
È il racconto che unifica in un’unica serie temporale le durate che ogni singola scienza (etnologia, biologia evolutiva, fisica del globo, astrofisica, cosmologia) ha ricostruito e aggiorna con sempre maggiore esattezza per i propri oggetti, in cui è inclusa la storia degli storici. L’enciclopedia delle scienze diventa una cronopedia e scienze naturali e scienze umane si uniscono, perché, anche se raccontano cose diverse, si basano sulla stessa struttura del tempo. Questa storia, chiarisce Serres, non ha più scopo o direzione e tantomeno sono gli uomini il fine o la fine di questo racconto, che è fatto di caos e biforcazioni impreviste, è un insieme eterogeneo di paesaggi e ritmi temporali differenti, ma che si può sempre ripercorrere da valle a monte secondo il “movimento retrogrado della verità” di bergsoniana memoria, ricostruendone così catene causali e direzioni di marcia. E Serres vi scorge la successione di tre ere.
La prima era va dalla formazione dell’Universo e del nostro pianeta fino alla comparsa e allo sviluppo delle forme viventi pre-umane. È l’era “darwiniana”, segnata dal duello energia-entropia, che governa il mondo fisico, e da quello vita-morte, che governa la galassia dei viventi e che si rideclina in pace-guerra con la comparsa dell’Homo sapiens, il rappresentante dell’unica specie vivente a introdurre la violenza e l’omicidio intra-specie. Ha inizio adesso l’“era dura” segnata da tre morti: la morte procurata col sacrificio, prima umano poi animale, ritualizzato nelle religioni arcaiche, che coagulava e rendeva coese così le comunità col sacro e col sangue, fino a quando il cristianesimo lo sostituirà con il rito “dolce” e simbolico dell’eucarestia, per denunciare l’innocenza di ogni vittima sacrificale; la morte procurata dalle armi letali della guerra, che è apparsa perpetua lungo tutta la storia “umana”, a cominciare dalla madre di tutte le guerre, quella combattuta tra gruppi nomadi e gruppi sedentari; la morte indotta o minacciata dal meccanismo economico del prestito e del debito, regolato ma sempre impastato di violenza. L’era dura culmina nella rivoluzione industriale e si chiude con l’esplosione di Hiroshima, che inaugura la prima “globalizzazione”, perché proietta la minaccia di morte per la prima volta non più sull’individuo, sui gruppi umani o sulle civiltà bensì sull’intera specie umana, ma è contestuale all’evento che gli fa da contraltare e che apre il sipario dell’era dolce: la scoperta della penicillina.
La neghentropia, l’informazione, la cura della vita, hanno sempre opposto, infatti, resistenza alla “tanatocrazia” dell’era dura e creato le condizioni per l’avvento dell’era dolce. Le stesse rivoluzioni dolci, come quelle concernenti i segni e la comunicazione (dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura alla stampa, dalla stampa al digitale) hanno avuto un impatto più duraturo e diffuso sull’organizzazione sociale rispetto alle rivoluzioni dure, come quella scientifico-tecnico-industriale.
L’era dolce comincia poco più di mezzo secolo fa e si connota per tre componenti: la pace, la medicina, il digitale. La pace, nuova, dura almeno in Europa ininterrottamente da settant’anni; la guerra e il terrorismo sono precipitati all’ultimo posto come causa di mortalità nel mondo; all’immensa maggioranza degli uomini ripugna uccidere, violentare, distruggere opere d’arte e stigmatizza le minoranze che adottano ancora questi comportamenti; la protezione sociale dei deboli ha capovolto il darwinismo sociale dell’era dura. Questa pace è stata la condizione principale della golden age del secondo dopoguerra, dello sviluppo economico impetuoso che ha accresciuto il benessere, l’inurbamento, e della medicina che ha aumentato considerevolmente la speranza di vita, modificando il nostro rapporto col corpo, che non soffre più i dolori quotidiani di chi viveva già fino alla metà del secolo scorso.
Nell’era dolce, il medico rimpiazza il guerriero, la pietà del buon Samaritano succede alla spietatezza di Napoleone: “Nell’era antica, che possiamo definire ‘hegeliana’, a volte gli eserciti in battaglia trascinavano dietro degli sparuti chirurghi, mal equipaggiati, con poche infermiere munite di bende sparse in un ambiente insozzato dai combattimenti. Le grandi epidemie spesso erano la conseguenza dei carnai successivi allo scontro. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un giorno queste retroguardie avrebbero sostituito in prima linea i soldati, un tempo vittime; che l’ospedale, dove hanno luogo le sfide all’ultimo sangue per il trionfo della vita, avrebbe rimpiazzato il conflitto; che i governi, abbandonando il servizio militare, avrebbero deciso per una politica della salute; che dopo le ferite ci sarebbero state le cure; che l’assistenza sanitaria pubblica avrebbe sostituito il quartier generale e le sue strategie di morte; che l’OMS avrebbe potuto orientare la geopolitica. Ma questa utopia ha avuto luogo”.
Dopo aver letto fiumi di inchiostro sul lato oscuro e pervertibile della biopolitica moderna, Serres c’invita a coglierne il lato irenico e benigno, se ci poniamo adeguatamente dal punto di vista della lunghissima durata del “Grande Racconto”. D’altra parte, il profilo antropologico emergente dell’umanità “dolce” è convergente con quello tratteggiato già nel frammento postumo del 1887 da Nietzsche, per il quale proprio il contesto di vita reso meno insicuro e insensato e quindi addolcito dallo sviluppo della scienza e dalla tecnica, rende più ‘forti’ gli uomini più ‘moderati’, che non hanno bisogno, per rassicurarsi, di ricorrere a fedi estreme o a visioni essenzialiste e metafisiche dell’uomo.
Il motore della storia non sarà più la lotta tra servo e padrone, vinta da chi è disposto a rischiare la vita e a soggiogare quella altrui con la minaccia di morte, ma la legge del buon samaritano che s’inchina e si prende cura della vita, perché ci consentirà non solo di progredire ma di sopravvivere: “Dalla pietra tagliata alle armi nucleari, dai cacciatori-raccoglitori agli sventramenti del mondo, l’era storica contraddistinta dalle forze dure è al termine. Non può andare oltre senza avvelenare gli uomini e distruggere le cose”. E arriviamo così alle tecnologie dolci di Internet, che hanno innanzitutto il pregio di liberare la potenza del numero: tutti accedono virtualmente a tutto e a tutti.
Serres è positivamente impressionato dalla capacità di Internet di decentralizzare e democratizzare il sapere, in una misura non comparabile con quella delle altre rivoluzioni della “coppia supporto-messaggio” (scrittura e stampa) e in attesa di dispiegare ancora il suo ventaglio di effetti e opportunità per l’accesso al potere e alle istituzioni, per l’organizzazione dell’opposizione a regimi oppressivi, per nuovi modi di apprendere, di conoscere e di liberare la mente all’invenzione, per creare nuove appartenenze.
Se, come diceva Lutero, ogni uomo è Papa con una Bibbia in mano, cosa sarà l’uomo con uno smartphone in mano, cioè con il mondo intero in mano? Una molteplicità immensa e crescente è entrata in scena e in contatto in uno spazio non più cartesiano e metrico, bensì virtuale e topologico. Certo non è detto che questa possibilità incommensurabilmente accresciuta di contatto e scambio generi automaticamente, sempre e in modo più esteso comunità e pace.
Nuove forme di violenza possono essere veicolate nella e con l’uso della Rete e i più pessimisti prefigurano addirittura la fagocitazione del dolce da parte del duro con le cyberguerre. Ma al futuro dell’età dolce Michel Serres consegna l’utopia concreta di una pace universale che discenderà dalla coscienza della comune appartenenza all’equipaggio del vascello-Terra e dei rischi di affondare che esso corre: “È vero, abbiamo messo la mano sul mondo, ma il mondo tiene la sua mano su di noi. Noi lo teniamo virtualmente; lui ci tiene realmente. Noi lo teniamo realmente; lui ci tiene virtualmente. Lo teniamo grazie al facile accesso; e lui ci tiene per le nostre condizioni di esistenza - respirazione, nutrimento, salute, spostamenti... Mi sembra prevedibile che un giorno la mano del mercato dovrà adeguare la sua potenza relazionale a quella concreta del mondo, e forse adeguarvisi, cioè obbedire alla sua legge. Entriamo in un periodo in cui si gioca un mano a mano decisivo per la nostra sopravvivenza, tra l’uomo individuale o globale e l’intero pianeta. Questo mio libro sulla storia e la storia stessa tornano al punto di partenza: partiti dal mondo, vi fanno ritorno”.
Per lungo tempo oggetto ostracizzato dalla scena del discorso filosofico contemporaneo, per aver alimentato in modo sotterraneo le ideologie totalitarie (come tale è stata smascherata o messa all’indice da Hannah Arendt o Karl Popper), Serres è determinato nel riportare la filosofia della storia in auge come l’orizzonte o la bussola imprescindibile per la politica e i decision makers, che oggi, in questo inizio di secolo, se ne scoprono drammaticamente orfani, nel momento in cui necessitano di essere più lungimiranti.
E una filosofia della storia allargata e inglobante le durate colossali dell’Universo, della Terra, dell’evoluzione del vivente, oltre alla storia delle collettività umane, non è affatto un mero esercizio interdisciplinare, né solamente il frutto di quel che Serres chiamava, già alcuni decenni fa, programmaticamente “il passaggio a Nord-Ovest” tra saperi umanistici e saperi scientifici.
Risponde all’esigenza di evitare ad ogni costo l’opposizione natura/storia, il cui superamento è ormai condizione stessa della nostra sopravvivenza. I nostri nonni sapevano di avere alle loro spalle solo circa tremila anni di storia. Le “Pollicine” del futuro, i giovani dell’era dolce, sapranno di avere alle loro spalle quattordici miliardi di anni di storia e di essere entrati nell’era dell’antropocene. Questa coscienza non potrà non avere effetti sulla mentalità, sulla politica, sul diritto, sul modo di produrre. In definitiva, sul nostro essere-nel-mondo. Serres ancora una volta è ottimista: “Ecco che ne è dell’essere-nel-mondo: dolce verso il mondo, l’età dura era dura verso gli uomini; poi, dolce per gli uomini, l’età dolce è diventata dura verso il mondo. Dobbiamo lavorare per un futuro in cui i nostri comportamenti saranno dolci verso gli uomini e verso il mondo”.
L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Louis De Courcy e Guillaume Goubert intervistano Michel Serres.
Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
Franco Ricordi: "La grande magia di Dante può essere capita soltanto ascoltandola a viva voce"
Lo scrittore, saggista, attore e regista racconta il tour italiano con cui torna a interpretare la "Commedia". A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della Capitale
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 01 luglio 2017)
Dante può essere letto in tanti modi, anche come antidoto al nichilismo contemporaneo. Franco Ricordi, interprete dantesco tra i più raffinati, filosofo e saggista oltre che attore e regista teatrale, propone di leggere la Divina Commedia come fosse una cura alla mancanza di senso dei nostri giorni. Ricordi, ora protagonista della seconda edizione della rassegna Dante per Roma, è impegnato in un articolato progetto dedicato alla Commedia dantesca che prevede una lettura dell’opera in più tappe. Roma prima di tutto, dove lo scorso anno Ricordi ha portato l’Inferno e dove ora arriva con il Purgatorio (mentre nel 2018 sarà la volta del Paradiso).
A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della capitale, dalle Terme di Diocleziano all’Arco di Giano al Velabro alle Terme di Caracalla. Ma il progetto è un ampio work in progress itinerante: arriverà a Firenze in autunno e poi a Ravenna, in Germania e in Argentina. Il lavoro teatrale è affiancato da documentari tv. Inoltre Ricordi sta lavorando a un’opera in tre volumi: Dante, filosofia della Commedia.
Qual è il posto di Dante nella cultura occidentale?
"Credo sia il solo autore che tenga testa a Shakespeare. La Commedia è il più grande testo dell’Occidente. Come scrive Harold Bloom è l’epicentro del canone occidentale. Ma può essere compresa pienamente solo oggi ".
Perché?
"Perché è un antidoto al nichilismo dei nostri giorni. In Dante possiamo scorgere il primo filosofo dell’anti-nichilismo".
In che senso?
"Attraverso il concetto di amore, che è il vero sottotesto e sovratesto di tutta la Commedia. Il mio ultimo libro s’intitola L’essere per l’amore, concetto simile e contrario all’"essere per la morte" di Heidegger. Volendo usare uno slogan direi: Dante contro Heidegger".
Però la sua infatuazione dantesca è arrivata tardi.
"In realtà sono rimasto folgorato all’età di quindici anni. Al liceo avevo un insegnante, frate Serafino, appassionato di Dante. È lui ad avermi trasmesso la passione dantesca. Ma Dante è un personaggio che è meglio affrontare dopo i cinquanta anni. Ho lavorato su Shakespeare in teatro fin da ragazzino, poi da regista e protagonista di Amleto, ma a Dante sono arrivato nella piena maturità".
Per quali ragioni?
"Dante quando scrive la Commedia è un uomo maturo. E leggendo si avverte che è un uomo provato. Solo da adulti si riesce a comprendere a fondo il suo personaggio ".
Ma Dante è molto amato dai ragazzi.
"Tutto merito del suo endecasillabo, che arriva in maniera impressionante. Alle mie letture partecipano persone di ogni età. Anche se purtroppo è difficile trovare interpreti che sappiano computare la metrica dantesca nel modo giusto. L’endecasillabo per essere tale deve avere l’ultimo accento sulla decima sillaba. Sbagliare vuol dire non conferire il significato giusto. Non dimentichiamo che ogni cantica è formata da canti: il suono è il veicolo del senso".
La lettura ad alta voce serve a dare corpo alla "Commedia"?
"Va recuperato il testo orale. Prima di me lo hanno fatto Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Fino a Vittorio Sermonti, al quale dedico le mie letture del Purgatorio. Grandi maestri, ma anche loro presentavano difetti nella computazione del pentagramma delle figure metriche e nel precisare l’ultimo accento sulla decima".
In cosa differisce la sua Lectura Dantis da questi modelli?
"Per commento e lettura privilegio un approccio più poetico-filosofico che storico-filologico. Come l’Amleto, anche la Commedia arriva in modo immediato".
Di certo l’Inferno ha un’immediatezza anche politica. Crede valga lo stesso per il Purgatorio?
"Nel sesto canto, che interpreterò il 5 luglio all’Arco di Giano, c’è la grande invettiva contro l’Italia, che è già una denuncia di quella che oggi chiamiamo "partitocrazia". La denuncia è chiara: "Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene". In quel "parteggiando" è contenuta una visione quasi ontologica della partitocrazia".
Un’ultima curiosità. Come mai la scelta di iniziare a Roma?
"Se c’è un’ambientazione metastorica e metafisica in assoluto direi che quella è Roma. La Commedia è antica, medioevale, moderna e contemporanea come Roma ".
EUROPA, AFRICA ...
CONTINUITA’ NASCOSTE! USCIRE DALLA PREISTORIA...
“(...) Dal 2013 hanno avuto inizio i sequestri di donne e bambini. C’è chi dice che 2000 siano nelle mani di Boko Haram.
Il web mi ha consegnato storie e pensieri che hanno complicato il mio sentimento.
Mi sono fatto accompagnare dalla rilettura di un classico della storia europea, Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, che nell’originale (1957) suona così:
The Pursuit of the Millennium: Revolutionary Millenarians and Mystical Anarchists of the Middle Ages.
(...) Qualcuno al mondo aveva mai sentito parlare di Chibok, Nord della Nigeria, 65.000 abitanti, quasi sempre senza elettricità e acqua?
Lo scrittore nigeriano residente in USA, noto in Italia, si fa per dire, per Angeli Dannati, Sartori, 2005, è tornato dalle sue parti e ha raccontato
The Chibok Girls: The Boko Haram Kidnappings and Islamist Militancy in Nigeria , Columbia Global Reports, dicembre 2016.
Da tradurre”
(Claudio Canal, Festa e dolore per le spose di Boko: https://www.alfabeta2.it/2017/05/23/boko/).
Condivido e sottoscrivo.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei. E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
1925-2017
Morto Zygmunt Bauman
Nella Shoah vide lucidamente il nesso tra orrore e modernità
Il sociologo polacco è morto lunedì 9 gennaio all’età di 91 anni
L’analisi dello sterminio e il richiamo all’etica: ci si può sempre opporre al male
di DONATELLA DI CESARE *
Quando Zygmunt Bauman pubblicò, nel 1989, il suo libro Modernità e Olocausto (il Mulino), ancora pochi, a parte i testimoni, avevano azzardato riflessioni o ipotesi interpretative. A lungo si era protratta una afasia, dovuta non solo a rimozione, inconscia o intenzionale, ma anche alla difficoltà di pensare quel che era accaduto. Il suo libro ruppe il silenzio con un coraggio intellettuale senza precedenti. E da allora è rimasto una pietra miliare.
«Il regime nazista è finito da tempo, ma la sua venefica eredità è tutt’altro che morta», così avvertiva Bauman. Ebreo polacco, scampato all’invasione nazista nel 1939, chiedeva molto più della punizione del crimine. Se si trattasse di questo - scriveva - si potrebbe «affidarlo allo studio degli storici». Ma la questione andava al di là degli esecutori, al di là perfino delle vittime. «Oggi più che mai l’Olocausto non costituisce un’esperienza che appartiene ai soggetti privati (ammesso che mai sia stato così): non ai suoi esecutori, affinché vengano puniti; non alle sue vittime dirette, perché godano di simpatia, favori o indulgenze particolari in nome delle loro sofferenze passate; e non ai suoi testimoni, in cerca di redenzione o di certificati di innocenza. Il significato attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità».
Bauman è stato il primo ad avanzare l’esigenza di considerare la Shoah un capitolo della storia umana, quella terribile ed estrema del Novecento. Senza farne un evento unico, fuori dalla storia e fuori dalla ragione, ma senza neppure ignorare quelle caratteristiche che l’Olocausto non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio.
Certo, l’omicidio di massa non è un’invenzione recente. La storia è punteggiata di violenze, massacri, stermini. Ma l’industrializzazione della morte nelle officine di Hitler impone una riflessione peculiare. Lo sterminio appare a Bauman l’epilogo della civiltà industriale e tecnologica, di quella organizzazione burocratica del mondo in cui viene profilandosi il dominio totalitario. Perciò Bauman punta l’indice contro la modernità.
Non si può non vedere il ruolo attivo della civiltà moderna nello scatenamento e nell’esecuzione dell’Olocausto. E, soprattutto, non si può non riconoscere il fallimento della modernità. Auschwitz non è un capitolo chiuso, concluso. Perché noi continuiamo a vivere in quella stessa modernità che ha consentito la «soluzione finale» volta ad annientare gli ebrei d’Europa.
Sul tema della colpa Bauman non si lascia andare a speculazioni metafisiche o a imponderabili teodicee. Quale senso può avere avuto la sofferenza degli innocenti? Non confermerebbe tutto ciò un mondo senza Dio? Anche se l’incommensurabilità dei crimini perpetrati sembra andare oltre ogni giustizia, la responsabilità è tutta umana. Il male non è un principio della mistica di cui dovrebbe rispondere Dio. È un’offesa di cui deve rispondere l’uomo.
La grande domanda che Bauman si è posto, a partire dalla sua riflessione sulla Shoah, è stata quella sulla responsabilità. Si può dire che il suo volume Le sfide dell’etica (Feltrinelli), pubblicato pochi anni dopo, nel 1993, sia in gran parte un precipitato di quei suoi studi. Delegittimata, schernita, l’etica appare fuori moda, destinata alla pattumiera della storia. Come se la modernità avesse decretato una emancipazione dall’etica.
Bauman denuncia l’illusione e il pericolo di questo modo fin troppo diffuso di pensare. Proprio quel che è accaduto ad Auschwitz ci insegna che l’etica è indispensabile e che la responsabilità è sempre assolutamente individuale. Il male non è onnipotente - è possibile, è doveroso resistere. «Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto».
Zygmunt Bauman ha fatto della Shoah il caleidoscopio attraverso cui guardare nell’abisso disumano di una modernità che non ha mantenuto le promesse. Si condensa forse qui il compito ultimo della sua intensa e instancabile ricerca, un compito che questo grande diagnostico del mondo contemporaneo non ha mai disatteso.
Intervista a Zygmunt Baumann
UNA NUOVA POLITICA
di Alessandro Lanni (Reset Nov 2008) *
«Lo stato sociale è finito, è ora di costruire il “Pianeta Sociale”». Solo così, spiega Zygmunt Baumann, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l’emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è con-dannata alla marginalità in una dimensione locale, con stru¬menti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L’inventore della "società liquida" non crede in una capacità di auto-riforma della politica, «meglio costruire un’opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passan¬do dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L’obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un’ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un’azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l’autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l’uomo occidentale deve fronteggiare.
«L’insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci cir-conda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibi¬li a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all’inquinamento, alla produzione d’energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L’inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell’incontrollata mobilità dei capitali, dell’instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell’insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l’ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E’ altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speran¬za per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell’umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».
* Segnalazione di don Aldo Antonelli.
’Babbo Natale non esiste’, è bufera
Allo show Disney Frozen a Roma, cacciato direttore d’orchestra
(ANSA) - ROMA, 30 DIC - "Comunque Babbo Natale non esiste": una frase che ha scatenato la bufera quella pronunciata, a sorpresa, dal direttore d’orchestra Giacomo Loprieno alla fine della prima dello spettacolo per bambini ’Disney in concert: Frozen’, il 29/12 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Un’esclamazione che ha raccolto subito critiche sulla pagina ufficiale Facebook dello show, spingendo l’organizzazione, Dimensione Eventi, a destituire dalla carica il maestro, che sarà sostituito già dalla replica del 30 dicembre.
In una nota, l’organizzazione "si dissocia completamente" dall’accaduto: "Come tutti i presenti siamo rimasti sconcertati da una dichiarazione assolutamente personale del direttore, tra l’altro a spettacolo ormai terminato. Il nostro lavoro è di creare emozioni positive e far sognare i più piccoli. Quanto è stato detto dal direttore d’orchestra è totalmente fuori luogo ed è il gesto arbitrario di una singola persona".
Babbo Natale non esiste, ancora polemica
Il 30 in sala tra i bimbi. Web diviso su direttore licenziato
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Non si placa la polemica su Giacomo Loprieno, il direttore d’orchestra che il 29/12, alla fine dello show per bambini dedicato al film Disney Frozen, ha detto davanti alla platea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma: "E comunque, Babbo Natale non esiste".
Archiviate le lacrime dei piccoli e lo sbigottimento dei genitori, l’organizzazione ha licenziato Loprieno, assegnando il posto al suo vice, Marco Dallara, immortalato in una foto pubblicata sul profilo dell’Auditorium proprio con Babbo Natale per placare gli animi.
I social, però, continuano a pullulare di critiche al maestro e su Facebook nascono di ora in ora gruppi e pagine contro ma anche pro Loprieno. C’è chi lo critica per aver spezzato i sogni dei bambini e chi, invece, lo elegge a "oratore motivazionale", scherzando sull’estemporaneo discorso ai bambini. Gli stessi che si sono fatti fotografare con i loro beniamini ai piedi del palco, nella seconda data romana dello show, alla quale ha partecipato - a sorpresa - anche Babbo Natale.
«Sì, Virginia, Babbo Natale esiste» *
La storia di un editoriale del 21 settembre 1897 su Babbo Natale che da allora è un pezzo dei natali americani
“Is There a Santa Claus?” era il titolo di un editoriale nell’edizione del 21 settembre 1897 del New York Sun. Quell’editoriale, che comprendeva la risposta “Yes, Virginia, there is a Santa Claus” (“Sì Virginia, Babbo Natale esiste”), è diventato un elemento indelebile del clima natalizio negli Stati Uniti. L’espressione “Sì Virginia, esiste...” è stata usata spesso anche nei titoli dei giornali anglosassoni, per indicare qualcosa che esiste o è vera, sotto gli occhi di tutti: una riscrittura ironica dell’editoriale, ad esempio, comparve sull’Huffington Post nel dicembre 2007 con il titolo “Yes, Virginia, There is a War on Terror”.
La lettera di Virginia
Nel 1897 il dottor Philip O’Hanlon di Manhattan si sentì domandare dalla sua bambina di otto anni Virginia se Babbo Natale esistesse davvero. Virginia aveva cominciato a dubitarne per quello che le avevano detto degli altri bambini.
Suo padre le suggerì di scrivere al New York Sun, un importante quotidiano del tempo di orientamento conservatore, assicurandole che “se lo dice il Sun, allora è vero”. Uno dei direttori del giornale, Francis Pharcellus Church, che era stato corrispondente di guerra durante la Guerra Civile, scrisse una risposta che oggi, più di un secolo dopo, resta l’editoriale più riprodotto nella storia dei giornali anglosassoni.
La lettera di Virginia diceva:
Il direttore del Sun Edward P. Mitchell passò la lettera della bambina, perché rispondesse, a Church, uno dei veterani del giornale. Leggendola, si dice, sbuffò e sembrò arrabbiarsi perché gli era stato assegnato un compito di così poco conto. Poi, in meno di cinquecento parole e finendo prima della scadenza, Church le rispose così, in un editoriale non firmato:
La fortuna
La fama di “Yes, Virginia” è sopravvissuta ai suoi creatori. Church morì nel 1906 e Virginia nel 1971, dopo una carriera come maestra di scuola e direttrice a New York. Malgrado l’editoriale fosse pubblicato come settimo nella pagina delle opinioni - dopo ben più seri argomenti come questioni politiche a New York e nel Connecticut, la forza della marina britannica e una ferrovia tra il Canada e lo Yukon, e persino dopo un commento sulla “bicicletta senza catena” appena inventata - lo scambio colpì moltissimi lettori del Sun. Venne ristampato ogni anno, prima di Natale, fino alla chiusura del giornale nel 1950, e ancora oggi viene recitato alla Columbia University di New York (l’università dove studiarono sia Church che Virginia) in una cerimonia prenatalizia ai primi di dicembre. Nel centenario dell’editoriale, nel 1997, il New York Times pubblicò una riflessione sulla fortuna di “Yes, Virginia, There is a Santa Claus” nella cultura americana.
Nel 1932 l’emittente televisiva NBC lo mise in musica, e allo scambio si ispirarono anche un musical di David Kirchenbaum e Myles McDonnel (1996) e diversi cortometraggi e film per la TV statunitense. Dal 2008, la campagna pubblicitaria natalizia dei grandi magazzini statunitensi Macy’s si basa sulla lettera di Virginia e sulla risposta di Church: in uno spot televisivo, personaggi celebri come Jessica Simpson, Donald Trump e Martha Stewart citano frasi dell’editoriale.
Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia
Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi
di Wlodek Goldkorn (l’Espresso, 29 dicembre 2016)
Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.
O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando.
Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa).
E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte?
La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole. vedi anche: AGF-EDITORIAL-59412-jpg La democrazia? E’ viva e lotta insieme a noi "L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico". Il controcanto di Bernard Manin
Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».
Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide.
Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia».
E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia».
A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso».
E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv.
Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, IL "LIBER PARADISUS", E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO. Una nota
di Federico La Sala
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) - pubblicato originariamente in inglese con il titolo "Mapping Paradise. A History of Heaven on Earth" (Londra e Chicago, British Library e University of Chicgo Press, 2006) - di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
DANTE (LA "COMMEDIA" E IL "LIBER PARADISUS"). Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
LA NAVE DEI FOLLI. Fin qui, niente di speciale! La sua "Lectura Dantis" come la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863). E, oggi, il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)!
LONDRA, THE WARBURG INSTITUTE, 13 SETTEMBRE 2010."In cielo ogni dove è paradiso, canta Dante (Paradiso, III. 88-89). Ma in terra? Anche sulla terra ogni luogo può nascondere un suo paradiso. Basta saperlo cercare. La trasmissione Il paradiso in terra, andato in onda nel 2007 per la serie «Alle 8 della sera» (Rai, Radio 2), è stata un viaggio radiofonico alla ricerca dei paradisi nascosti, e rivelati, nelle tradizioni più diverse. Protagonisti di ogni puntata sono stati i luoghi della terra (...) Il radioascoltatore è stato condotto, per esempio, in India, in Cina, in Africa. Si è finito addirittura sulla luna e si è parlato anche di paradisi interiori, perché il paradiso sembra nascondersi nei posti più impensati"(Alessandro Scafi,"Prologo", Alla scoperta del paradiso: un atlante del cielo sulla terra, con una nota di Sergio Valzania, Palermo, Sellerio editore, 2011, p. 13).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABY WARBURG:
Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
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Allegato:
LE AFFRANCAZIONI COLLETTIVE DEI SERVI E DELLE SERVE DELLA GLEBA E IL PARADISO TERRESTRE DI DANTE . IL "LIBER PARADISUS" DI BOLOGNA (1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
* Per il testo originale, in latino, cfr. P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano, ISPI, 1939, pp. 45-7; la traduzione qui riportata è ripresa da F. Gaeta - G. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1978, I, pp. 214-5.
Si è preferito riportare l’Atto del Comune di Bologna, sia perché è uno dei primi di questo genere (quelli di Firenze saranno di alcuni anni dopo, a partire dal 1289) sia perché estremamente esemplare dal punto di vista ideologico (per gli Atti fiorentini di affrancazione, cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 58 e ss).
Al primo posto, in ordine di tempo, di questo processo di affrancamento dei servi della gleba sono Bologna e Firenze, ma presto e a ruota seguono Siena, Lucca, Pisa, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Ravenna, Pistoia, Vercelli, Genova (cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 21-55.). *
SUL TEMA, IN RETE, CFR.:
Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo (in rete: 1996), con "Introduzione" di Marziano Guglielminetti, e contributi di Enrico Artifoni e Clara Allasia, Bruno Mondadori, Milano 2002.
Su Arturo Graf, nel lavoro di Alessandro Scafi, si cfr. le pagg. del suo lavoro "Il paradiso in terra: mappe del giardino dell’Eden" - qui citate.
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (W. Benjamin).
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Espsoito (la Repubblica, 13.09.2016)
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”. In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni.
Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente.
Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016]) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
*
[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”. E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“Per la nostra mentalità moderna, l’unico vero paradiso, per usare le parole di Proust, è sempre quello che abbiamo perduto. I Kabakov invece negano questa visione pessimistica, anche se non parlano di un paradiso celeste che ci aspetta alla fine dei tempi. Quando alzano lo sguardo verso il soffitto per superare il pessimismo di chi immagina paradisi solo remoti e inaccessibili e scoraggiare la pericolosa idolatria di chi insegue paradisi artificiali, invitandoci a vedere il cielo in una stanza, i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali. Anche per loro il paradiso perduto porta sempre con sé la promessa di un paradiso ritrovato, e anche per loro questo paradiso è accessibile in qualunque momento. Basta soltanto prendere una scala, e salirne i gradini. Qui e ora” (p. 314).
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
“L’interesse dei teologi e dei filosofi naturali per la geografia era condiviso da Dante Alighieri, che aveva una grande varietà di interessi e che nella sua Commedia (c. 1305-20) raccontava, come è noto, la sua esperienza attraverso i tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il celebre poema era un’opera letteraria che esprimeva la conoscenza geografica e cosmografica del tempo (...) Per Dante la geografia era sempre subordinata alla poesia. Nel canto XXVI dell’Inferno, il poeta si riferisce al “folle volo” di Ulisse. La morale della storia del marinaio ed eroe greco che oltrepassò le colonne d’Ercole e che da lontano riuscì a gettare solo uno sguardo verso la montagna del paradiso, prima di vedersi sbarrata la strada da una tremenda tempesta, era che l’uomo non poteva penetrare, solo con le sue forze e senza il sostegno della rivelazione divina, il mistero del paradiso terrestre” (p.153).
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia dei bei leoni fulvi senza desideri carnali - ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor”.
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA E I DUE CORPI (E LE "DUE SEDIE") DEL RE *
!Il significato profondo del messaggio porta a galla (è il caso di dire) il PODERE, la Proprietà, la Poltrona! E dà un significato beffardo alla frase di Michel E. de Montaigne: "Anche sul trono più elevato del mondo, si è pur sempre seduti sul proprio sedere"!!! Con tutta la sua boria, il PADRONE (di sempre e di turno) così dichiara *Urbi et orbi*: La Poltrona è mia, e guai a chi la tocca (sul tema, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=697)!!!
MONARCHIA DEL PENSIERO UNICO: "FORZA ITALIA" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3515). Solo al PADRONE è possibile l’uso delle "DUE SEDIE", la salita (dalle stalle alle stelle) e la discesa (dalle stelle alle stalle). Per tutti gli altri e per tutte le altre, alla luce della grammatica del PODERE, ogni META-FORA è vietata, e SEDERE vale solo come sostantivo!!!
COSTITUZIONE E MONARCHIA DEI "DUE SOLI". A ben vedere e a ben leggere DANTE con la sua teoria dei "DUE SOLI" non a caso fu giudicato eretico: aveva lanciato il programma delle "due sedie" per tutti e per tutte, e non per uno SOLO!!!
Dopo 700 ANNI e più, non solo non abbiamo ancora capito il messaggio di Dante (e la lezione di Kantorowicz, "I due corpi del re": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/forum.php3?id_article=5726&id_forum=2635841), ma nemmeno quello della nostra "sana e robusta" COSTITUZIONE (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3811), e ci lasciamo prendere per i fondelli, allegramente: "Forza Italia" ( cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4282). La misura non è ancora colma?!
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Federico La Sala
La storia Come nelle antique esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
La scomparsa del Capo
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola (la Repubblica, 29.11.2016)
HASTA SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale. La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei. Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel 1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución. Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del 1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la storia e la geografia dell’isola. Con un rituale solenne che chiude per sempre una pagina memorabile del Novecento e al tempo stesso ne apre una nuova.
Con il trattato sulla “Monarchia” l’autore della “Divina Commedia” rompe con la tradizione medievale. Ma difende la natura sacrale dell’impero
A lezione di politica dal professor Dante
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.11.2016)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come quarto volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume, ma anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ‘400, non solo in funzione antirepubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophia e cioè alla “catena aurea” del platonismo. Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista. Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento.
L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia. Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste.
E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia. Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio.
Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 26.10.2016)
Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.
Il mio Dante primo umanista che voleva salvarci tutti
Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 27.08.2016)
È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, “Il viaggio di Dante” (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto.
È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante - non è un mistero per nessuno che la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria - episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito...). Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante...).
Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, - e anche nel senso più letterale del termine - la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale.
Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè... Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?).
Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani.
Se uno rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione, non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue forme.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, - come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, - infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, - Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice - trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno.
Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare.
Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, - di tutto il mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, - quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, - senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità.
Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre tutti, - non solo i pretesi o presunti specialisti, - un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.
La Porziuncola: storia e tradizione
Il sogno di una Terra Santa «serafica» in Umbria
di Franco Cardini (Avvenire, 4 agosto 2016)
La celebre indulgenza plenaria di Santa Maria degli Angeli in Assisi, o della Porziuncola - il piccolo oratorio caro a Francesco che oggi è inglobato nell’immensa basilica barocca sotto quella che Giosué Carducci chiamò «la cupola bella del Vignola» -, è molto cara alla devozione popolare ma vanta una tradizione storico- filologica tra le più tormentate: e la recente mostra Il Perdono d’Assisi. Storia, agiografia ed erudizione destinata a celebrarne l’ottavo centenario ne dà conto - come testimonia il catalogo curato da Stefano Brufani (Spoleto, Medioevo Francescano, 2016) - con pacata, spietata acribìa storica e filologica.
In effetti, la tradizione secondo la quale nel 1216 papa Onorio III avrebbe concesso a Francesco un’allora inusitata indulgenza plenaria - l’unico esempio di questo tipo ad essa precedente è la celebre indulgenza per l’Iter hierosolymitanum, la Crociata che risalirebbe al 1095 ma che i Pontefici successivi hanno regolarmente confermato - non risulta attestata da alcun documento coevo. Tra 1279 e 1285 il teologo provenzale Pietro di Giovanni Olivi dedicava al tema un’attenta quaestio nella quale ammetteva che, al riguardo, sussisteva una straordinaria incertezza all’interno dell’Ordine e che molti Frati Minori non esitavano ad affermare che non esisteva alcun privilegio confortato da bulla pontificia che ne assicurasse l’autenticità.
Ma Pietro di Giovanni era una presenza assai “chiacchierata” nell’Ordine a causa delle sue posizioni teologiche. Alcuni decenni più tardi il cronista francescano Francesco Venimbeni da Fabriano, che sarebbe scomparso nel 1322, non esitava nelle sue memorie a parlare del 1216 come data sicura della concessione. La que- stione si trascinò comunque per i successivi sei secoli: e in occasione del VII centenario, nel 1916, padre Egidio Maria Giusto non poteva tacere - proprio nella prima nota dell’articolo che apriva la rivista L’Oriente serafico - che annalisti ed eruditi, francescani e no, erano straordinariamente discordi quanto alla data d’avvio della tradizione.
Comunque fosse, la memoria minoritica del documento è affidata alla summa di Francesco di Bartolo d’Assisi: da lì. Attraverso compendi, versioni anche in idioma volgare e manifesti vari si giunse al Liber e all’edizione a stampa, uscita nel 1470 a Trevi e prima opera minoritica mai uscita dai torchi messi a punto dal grande Gutenberg. Sul Perdono si continuò peraltro a discutere, alimentando l’ampio contenzioso esistente tra i Minori di Santa Maria degli Angeli e i Conventuali del Sacro Convento.
Certo, un problema di fondo sul piano storico si pone subito. Onorio III era succeduto a Innocenzo III, che nel 1215 con il Concilio Lateranense IV si era fatto araldo e garante di una Crociata che ormai - problematicamente riuscita nel 1099 e quindi sempre fallita, ben tre volte di seguito nell’arco di poco più di un secolo, sotto la guida dei principi secolari - si configurava come una delle principali causae della Chiesa, insieme con quella (eterna?) della sua reformatio. Per Innocenzo, l’Iter hierosolymitanum aveva un vero e proprio valore “pasquale” - e se n’era ricordato appunto nel suo sermone di apertura del Concilio -, il senso di un nuovo Esodo: la riconquista della Terra Santa, ormai da quasi trent’anni ricaduta nelle mani degli infedeli, avrebbe aperto nella storia della cristianità un’era nuova alla quale il Pontefice assegnava un autentico valore escatologico.
Vero è che Innocenzo era sceso nel sepolcro pochi mesi dopo aver pronunziato quel sermone: ma la memoria della Chiesa intera era satura del suo magistero, che Onorio III s’impegnava a proseguire. E difatti una nuova Crociata, agli ordini del legato apostolico cardinal Pelagio Galvani, si sarebbe mossa non troppi mesi più tardi per raggiungere il delta del Nilo, secondo una scelta tattico- strategica ch’era parsa geniale (si pensava che il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, che governava l’Egitto e custodiva Gerusalemme, avrebbe volentieri ceduto la Città Santa ai cristiani pur di non compromettere i ricchi affari dei porti nilotici). Com’è noto, a quella Crociata prese parte anche Francesco, i cui fratelli si trovavano già in Terra Santa.
Ma, proprio per questo motivo, è verosimile e credibile che Onorio concedesse appunto alla vigilia della partenza di un nuovo esercito crociato un’indulgenza simile a quella che, dal punto di vista religioso, costituiva la principale ragione di partecipazione all’impresa, ma diversa e alternativa nello scopo? Si può concepire che, mentre la Chiesa chiamava alle armi, essa accordasse un simile vantaggio spirituale a chi avesse compiuto un pellegrinaggio a non troppe decine di miglia da Roma, nella bella valle spoletina?
Tuttavia, post eventum, collegare l’indulgenza della Porziuncola a quegli anni, e proprio a Francesco alla vigilia di partire per l’Oriente, poteva sembrare un’occasione troppo affascinante. E spiritualmente troppo significativa. Era in gioco l’affermazione di Assisi come Terra Sancta seraphica, la translatio della sacralità da Gerusalemme ai luoghi nei quali l’alter Christus aveva vissuto la sua Passione. Il Liber di Francesco di Bartolo, l’inventio dell’Indulgenza rientrano in questa strategia legittimatrice. Forse la storia parla un linguaggio un po’ diverso rispetto alla tradizione. Forse non è né giusto né opportuno né possibile mettere a tacere l’autorevole ancorché scomoda voce di Pietro di Giovanni Olivi.
Fin qui la storia documentaria. Che ha le sue ragioni e che nessuno può permettersi di ignorare. D’altronde la tradizione, come è stato spesso dimostrato, conosce a sua volta strade difficili e pur esse stesse praticabili verso la verità. Teniamoci stretti all’una e all’altra: confidiamo nella ragione e nella scienza, rispettiamo e approfondiamo la tradizione.
Se Dante va in Paradiso sulle orme di Maometto
I debiti del poeta toscano nei confronti dell’Islam. La nuova edizione del Libro della Scala riporta alla ribalta un aspetto meno conosciuto della Commedia
di Noemi Ghetti *
La poesia delle origini della lingua italiana sembra interessare un numero sempre più largo di lettori, soprattutto quando si annunciano novità, magari note agli specialisti ma poco divulgate al vasto pubblico, e certamente originali rispetto al sapere usualmente trasmesso a scuola. Tanto che negli ultimi mesi i maggiori quotidiani nazionali dedicano al tema intere pagine. Dopo l’articolo firmato da Cesare Segre sul Corriere della Sera del 13 giugno (vedi N. Ghetti su Babylon Post, ndr), che annunciava il ritrovamento di manoscritti di poesie della Scuola siciliana trascritte in Lombardia e nella versione originale prima che in Toscana, eccone uno nuovo, sempre di Segre, dal titolo intrigante: Maometto prima di Dante all’Inferno. Un viaggio miracoloso che precede o forse ispira la "Commedia". Ma è solo apologetico.
L’occasione è la pubblicazione per la Bur del Libro della Scala di Maometto, edizione filologica a cura di Anna Longoni della traduzione latina fatta da Bonaventura da Siena: esule in Spagna dopo il 1260, il notaio utilizzò la versione spagnola dell’originale arabo (perduto), commissionata dal re Alfonso il Savio alla metà del Duecento. Una trafila, come si vede, assai complessa, che attesta l’intensità dei legami tra cultura araba ed europea nell’età medievale. Il racconto del viaggio notturno (mi’raj) di Maometto, con la guida dell’arcangelo Gabriele e a cavallo di Buraq, cavalcatura dal volto di donna, dalla Mecca a Gerusalemme, e da là all’inferno e infine in paradiso lungo la scala dei sette cieli, prende le mosse dalla sura XVII del Corano. Il racconto ispirò nei secoli diverse elaborazioni letterarie arabe sul tema, con affinità che al lettore attento di Dante non potevano non evocare la Commedia. È quanto ai primi del Novecento evidenziò per primo Miguel Asín Palacios, eterodossa figura di gesuita, valente arabista e docente all’università di Madrid, nel suo Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia.
Asín Palacios riscontrò nella secolare letteratura sufi derivata dal mi’raj di Maometto sorprendenti analogie con il poema dantesco non solo nell’architettura, ma anche in numerose creazioni fantastiche e in episodi interi. In particolare si soffermò su due elaborazioni della leggenda, Il libro del viaggio notturno dell’arabo-spagnolo Ibn Arabi, scritto nel secolo di Dante, e L’epistola del perdono del siriano Abul Ala, del secolo precedente. Due poeti che, in un passaggio critico della vita, si volgono a riconsiderare la propria trascorsa ricerca sull’amore dalla prospettiva mistico-allegorica di un viaggio filosofico, compiuto nell’oltretomba con l’accompagnamento di un saggio.
È la stessa vicenda narrata da Dante nella Commedia, quando all’uscita dalla selva oscura volge le spalle all’esperienza poetica stilnovista e alle simpatie filosofiche averroiste giovanili, e con la guida di Virgilio compie il suo itinerario di espiazione verso Dio. Rivivendo, attraverso i gironi dell’abisso infernale e le sfere celesti, situazioni e sensazioni del viaggio notturno di Maometto: dalla legge del contrappasso che regola le pene, fino al timore che la luce divina lo possa accecare, e che la memoria offuscata dall’esperienza mistica del ’trasumanare’ non gli consenta di trovare le parole per descriverla.
Il libro di Asín Palacios, che pose fine all’eclissi pressoché totale sugli importanti legami intercorsi tra letteratura araba ed europea nel tardo Medio Evo, scatenò feroci polemiche e stroncature da parte dei custodi dell’ortodossia dantesca. Idee inattuali, alla luce dei fascismi che dominarono la cultura europea dei primi decenni del Novecento, segnarono per lo studioso l’ostracismo, toccato negli stessi anni anche a Bruno Nardi. Il valente dantista italiano in mezzo secolo di ininterrotte ricerche, raccolte in Dante e la cultura medievale, mise tuttavia in crisi la concezione monolitica del tomismo integrale della Commedia, riportando alla luce gli eterodossi retroscena aristotelico-averroisti e mistico-avicenniani della formazione del poeta. Ed era da poco finita la seconda guerra mondiale quando il ritrovamento del manoscritto del Libro della Scala a cura di Enrico Cerulli offrì la conferma del lavoro di Asín Palacios, e spianò la strada alle successive ricerche di Maria Corti. Della geniale studiosa per l’occasione viene riproposto nel Libro della Scala il più famoso dei saggi su Dante e l’Islam, tratto dalla silloge Scritti su Cavalcanti e Dante.
Ormai è dunque innegabile: Dante, instancabile lettore, non poteva non conoscere almeno Il libro della Scala, la cui diffusione in Italia è testimoniata all’epoca della stesura del Poema sacro. Tra la Commedia e la letteratura araba del viaggio all’oltretomba le differenze ovviamente ci sono, ma le analogie sono suggestive. Ci sembra ad esempio interessante osservare come all’indeterminatezza se il viaggio di Maometto svoltosi in una sola notte sia stato, come alcuni teologi islamici sostengono, un sogno, oppure un evento reale come vuole la tradizione popolare, si sostituisca in Dante l’esplicita affermazione di avere realmente compiuto l’ascensione attraverso i sette cieli, fino alla visione di Dio, proprio con il corpo con il quale era venuto al mondo:
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
La dichiarazione di poetica posta in apertura del Paradiso (canto I, 70-75) è un chiaro indizio dello scarto tra la rappresentazione fiabesca del viaggio dei testi arabi e quella che Dante presenta come la descrizione di un fatto veramente accaduto, secondo le regole consolidate del realismo occidentale: differenza che meriterebbe di essere approfondita. Penso ai nessi possibili con il dogma cristiano dell’incarnazione. Penso alla distanza anche linguistica tra una concezione dell’arte come libera espressione della fantasia, oppure come strumento di edificazione morale, quale intende essere non solo la Commedia, ma tutta l’attività letteraria dantesca a partire dalla Vita nova.
Quello che qui interessa sottolineare è che questo filone di studi centenario, finalmente riconsiderato, apre la ricerca su scenari mediterranei tardomedievali ancora poco conosciuti. Poesia, musica, filosofia naturale, medicina, ottica, geometria, astronomia: gli scambi con la raffinata cultura araba erano allora, come ormai è dimostrato, all’ordine del giorno in Spagna, in Linguadoca e in Sicilia. Ovvero precisamente nei luoghi in cui con la poesia d’amore - tradizione del tutto assente nella letteratura cristiana medievale - nacquero, in opposizione al latino della Chiesa, i nuovi idiomi volgari. E mentre i crociati combattevano contro gli infedeli nella decina di ’pellegrinaggi armati’ che si succedettero in meno di due secoli, i poeti delle origini della nostra lingua leggevano con attenzione i testi arabi, resi ancora più accessibili dalle scuole di traduzione promosse da Federico II in Sicilia e da Alfonso il Savio a Toledo.
Quanto a Dante, che in gioventù all’università di Bologna aveva condiviso con Guido Cavalcanti non solo lo Stilnovismo, ma anche gli studi di filosofia naturale degli averroisti parigini, condannati come eretici nel 1277 dall’arcivescovo Tempier, è interessante ricercare nella Commedia le numerose tracce di quel passato. Le scopriremo magari in alcune calcolate oscillazioni presenti nel Poema sacro, per le quali ad esempio se Maometto è orribilmente punito tra i «seminator di scandalo e di scisma» nel canto XXVIII dell’Inferno, Averroè e Avicenna, i grandi commentatori arabi delle opere di Aristotele sconosciute in Europa, sono invece onorati nel castello degli «spiriti magni» del Limbo, accanto ai maggiori pensatori greci. E Sigieri di Brabante, filosofo e docente averroista, scomunicato a Parigi dal vescovo Tempier e assassinato nella curia Orvieto nel 1282, si trova addirittura in Paradiso tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, accanto al suo avversario Tommaso d’Aquino. In virtù, certamente, della fama di un pentimento tardivo.
Così il maestro e ’primo amico’ Guido Cavalcanti, poeta dell’amore irrazionale per la donna e «massimo esponente» della rivolta duecentesca al pensiero teocratico (A. Gramsci), è destinato a raggiungere «color che l’anima col corpo morta fanno» nel girone degli eretici, mentre Ulisse, per la folle presunzione della conoscenza senza la grazia divina, è condannato con i suoi compagni al naufragio. Dante invece, convertitosi dalla filosofia alla teologia, dall’amore per la donna all’amore per Dio, come un novello Adamo è da Dio direttamente ispirato nel ridare il nome alle cose. Guidato da Virgilio, purificherà il sensuale volgare d’amore delle origini mutuato dai Siciliani, latinizzandolo e rendendolo «illustre, cardinale, aulico, curiale». Adatto ad essere strumento di cristiana redenzione dal peccato.
Noemi Ghetti
FONTE: CENTRO DANTESCO.
Un’isola della mente che è approdo della vita
Alla «Tempesta» che stravolge le esistenze, ma ridà senso alla «passione del vivere», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione. Oggi Nadia Fusini ne dà una rilettura empatica, per Einaudi
di Corrado Bologna (il manifesto, 10.06.2016)
«Navigare è necessario, non è necessario vivere», diceva il motto della Lega Anseatica, la potente associazione di armatori e mercanti che per secoli dominò i mari del Nord Europa. La vita come opzione: una sfida prometeica. Perfino metafisica e allegorica, poi, l’idea che sia impensabile non andar per mare, non scivolare nello spazio sulla materia liquida che sfugge alla presa e non si ferma mai nel suo ritmo preistorico: la cosa più vicina, sul nostro globo, all’eternità e all’ansia terribile del profondo, dello smisurato. Via via che le scoperte dei nuovi mondi si moltiplicano e compaiono continenti impensati, far rotta sul mare significa sempre più esplorare e conoscere, conquistare l’oltre.
Il regno della dea Fortuna
I poeti interpretano questo bisogno molto concreto di ulteriorità, vi riconoscono la traccia di una memoria arcaica, forse quella mitica dei primi navigatori nel Mediterraneo. Chissà se Dante navigò mai. Certo nella Commedia un immaginario metaforico di straordinaria potenza figurale è imperniato sul mare e sulla navigazione: «la navicella dell’ingegno» su cui si apre il Purgatorio; l’Italia lacerata dai conflitti come una «nave senza nocchiere in gran tempesta» del VI canto purgatoriale; «lo gran mar dell’essere» all’inizio del Paradiso, dove noi poveri marinai «in piccioletta barca» veniamo invitati a non metterci in quell’acqua pericolosa, che «già mai non si corse». Leopardi nell’Infinito, e dopo di lui l’Ungaretti nell’Allegria di naufragi, riprendono e conducono l’allegoria fino al naufragio del pensiero, esito tragico e «dolce» del desiderio dell’oltre nella modernità.
Su tutti e tutto regna la dea Fortuna, incontrollabile sovrana della terra, dell’acqua, dell’aria: fortunale si chiama, infatti, la tempesta che può rovesciare le navi e il destino, la sorte degli uomini e dei loro beni. Signora del caso imprevista, sovrumana, la tempesta è figura del tempo minacciato, del tempo come minaccia, che mette a repentaglio l’economia e la vita. L’immaginario collettivo è ossessionato dalla Fortuna e dai fortunali. Mare e fortunale, onde terrificanti e isole che salvano i naufraghi, riempiono le carte della letteratura: la tempesta è immagine dell’esistenza dall’Odissea all’Eneide, da Robinson Crusoe a Moby Dick.
Alla tempesta che stravolge le esistenze, ma che può restituir senso alla «passione del vivere» trasformando «il mare di guai» in un «mare che salva», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione, la tragedia di un naufragio e di un salvataggio su un’isola piena di vertigini e di mostruosità, di meraviglie e di terrore: un universo in miniatura, un labirinto e un’utopia, come quelle isole reali verso cui «corrono audaci i capitani di Elisabetta», la regina-isola-vergine sovrana di un’isola imprendibile, che una tempesta ha fortunosamente salvato affondando l’Armada Invencible di Filippo II di Spagna che tentava l’invasione (1587).
L’isola shakespeariana è soprattutto «un’isola della mente», «un’esperienza dell’anima». Così Nadia Fusini in Vivere nella tempesta (Einaudi, pp. 205, euro 18,50) legge i tratti di una «commedia dell’esistenza umana» carica di «una dimensione “spirituale”», un testo-conchiglia da portare all’orecchio per riconoscervi la voce di innumerevoli altri testi, frammisti al «suono della vita».
L’isola del mago-artista Prospero è popolata da «spiriti», da cose e avvenimenti new, novel, strange, da wonder, admiration, amazament, ossia «ombre, demoni, emanazioni celesti, creature evocate grazie all’arte della magia». Su di essa «non fanno che ripetersi naufragi e colpi di stato, mentre la lingua è illuminata da lampi che prefigurano nel modo del ritorno storie antiche».
Il vocabolario della tragedia classica rinasce qui sotto il segno del deinós, del «tremendo» che, come ogni autentico inizio di conoscenza, è nel contempo fear and wonder, «terrifico e meraviglioso», fin dal significato nascosto dei nomi dei personaggi: Miranda, mirabilis seduttrice del lettore, edenica Eva con il suo Adamo-Fernand, figlio del re di Napoli, stupefatti dinanzi al masque che Prospero mette in scena nell’isola-paradiso; l’aereo Ariel, «spirito etereo», «volatile e volubile», arioso angelo mercuriale che però Prospero definisce slave, «schiavo»; il «materiale e pesante» Caliban, this thing of darkness, «la cosa di tenebre» che ancora una volta l’onnipotente Prospero «riconosce sua», spaventoso, selvaggio cannibal caribico mosso dal medesimo «spirito speculativo e ironico del saggio sui cannibali» di Michel de Montaigne, che Shakespeare poté conoscere nella versione inglese di John Florio, del 1603.
Tutto è materia che si disfa
«Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita», scandisce Prospero all’inizio del IV atto della Tempesta. La vita è sogno e il teatro è il suo doppio. Presto si scoprirà che, come ogni altra cosa sull’isola, anche il naufragio è uno spettacolo messo in scena, e che Antonio e Sebastiano fanno parte di una compagnia teatrale. Il mondo intero, il globo e il Globe Theatre in cui la rappresentazione della vita va in scena, tutto si disferà like this insubstantial pageant, «come questo spettacolo senza sostanza».
Al pari di Shakespeare il mago-regista Prospero trama scenari teatrali di ampiezza cosmica; vuole dar forma all’informe dell’esistenza che con la forza di un fortunale sommerge le volontà degli uomini. Tipicamente rinascimentale, modellato su Giordano Bruno e John Dee, il suo (come quello shakespeariano) è un «umanesimo magico, ermetico e alchemico». Ma, «per fortuna», come Prospero anche Shakespeare «sembra voler trafficare più con la vita che con la morte», e il dramma si apre alla commedia, nello stesso senso positivo per cui Dante definì Commedia il suo poema «a lieto fine».
La Tempesta è una commedia delle mutazioni, «un inno alla metamorfosi», a sea-change: il fortunale che sommerge la nave conduce a buona fortuna, e il naufragio diviene «un annegamento battesimale». Il primo a convertirsi è Prospero: la sua metanoia libera Ariel dal dolore, e Ariel a lui insegna la compassione. Dal momento che ogni cosa nella Tempesta teatrale e nella tempesta della vita è spettacolo illusorio e cerimonia iniziatica, il salvataggio dal naufragio, l’approdo sull’isola, si trasformano in un’immersione-riemersione di salvezza.
Qui credo si possa cogliere il centro più originale della lettura di Nadia Fusini: se per l’Europa rinascimentale navigare necesse est, nella Tempesta, «in modo ironico o paradossale, sembra che per vivere sia necessario naufragare». La catastrofe si volge in rinascita, e come la vita anche la tempesta si svela essere una prova rigeneratrice: «chi l’attraversa ne esce trasformato. Il mare sommerge, lava e rigenera, trasforma e muta...». E l’illusoria isola di Prospero, microscopico teatro del mondo, incarna «la fantasia di creare fra terra e mare e cielo un mondo altro».
L’immaginazione di Shakespeare fu certo «infiammata» dai resoconti di chi si salvò su un’isola felice nel naufragio della Sea-Venture del 1609, scomparsa, mentre la Tempesta veniva concepita, tra i flutti dell’Oceano Atlantico durante un viaggio verso la Virginia, terra dedicata alla regina-vergine Elisabetta. In profondità però nella lettura di Nadia Fusini, sempre empaticamente in contrappunto creativo con il testo shakespeariano, la Tempesta si rivela una geniale meditazione sulla vita e sulla morte, sull’illusione e sulla pietà per sé e per gli altri, sull’energia che si sprigiona nello sforzo di salvarsi in quella tempesta che è l’esistere: «i mari minacciano, ma salvano»; e «un uomo è un uomo se lotta contro la morte, non tanto per egoismo, quanto per il rispetto della vita stessa».
Dal salvataggio alla salvezza
«Di vivere si tratta nella Tempesta», che è «una specie di Bildungsroman» in forma di teatro: di vivere, di imparare a vivere; «chi attraverso il rimorso e il pentimento e l’autodisciplina saprà mutare la salvezza materiale in redenzione, quello si salverà. Per lui il salvataggio muterà in salvezza spirituale e la liberazione dall’onda in redenzione».Come nella Tempesta di Giorgione, un fulmine squarcia e illumina il dramma di Shakespeare, permettendo al lettore di «incurvarsi verso l’interiorità», di «guardarsi nell’anima»: così Prospero insegna ai suoi nemici. L’incanto terapeutico dell’immaginazione creatrice, la meraviglia dell’arte, ci fanno riemergere dai naufragi della vita, come Ulisse sull’Isola dei Feaci, come Dante che, «uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata»: e così nasciamo a vita nuova, stupefatti nell’ascoltare il nostro respiro che dopo il panico dell’apnea riprende, ritmato, ad alitare e a farsi voce.
Quando Bologna abolì la schiavitù
di Federico Fioravanti *
Il 3 giugno 1257 Bologna abolì la schiavitù. Nell’Archivio di Stato cittadino è conservato un prezioso codice che anticipa di almeno 600 anni le moderne carte dei diritti umani: si chiama Liber Paradisus, in omaggio alla prima parola del testo del documento, scritto in latino.
Il grande capolettera, una “P” ornata di disegni filigranati, precede una frase bella e solenne: “Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem”.
“In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà”.
L’atto di liberazione è motivato da ragioni teologiche: Dio ha creato l’uomo libero e poiché la disobbedienza originale di Adamo lo ha reso schiavo del peccato, lo ha riscattato tramite suo figlio, Gesù Cristo, che si è fatto uomo.
Il documento notarile rese ufficiale la “manumissio”, una emancipazione resa possibile da un riscatto in denaro.
Il decreto fu firmato un anno prima, il 25 agosto del 1256, dal Podestà e dal Capitano del Popolo nel corso di una cerimonia pubblica alla quale presero parte migliaia di persone festanti. Le trattative furono lunghe e complesse. Ma dopo un anno, il 3 giugno 1257, l’atto diventò operativo. Il Comune pagò tre rate per complessive 53.014 lire per indennizzare i proprietari di 5.855 persone: erano tutti i servi della gleba che risiedevano all’interno del territorio bolognese. Soltanto la famiglia Prendiparte, proprietaria dell’omonima torre cittadina, “possedeva” più di 200 servi. A ogni bambino fu attribuito un valore di 10 lire. Chi aveva più di 14 anni fu riscattato con 10 lire d’argento.
I servi della gleba erano considerati tali per nascita, incatenati per tutta la vita alla zolla di terra (gleba in latino) che non potevano abbandonare, per nessuna ragione, senza il consenso del padrone del terreno.
Una condizione umana senza via d’uscita, di poco migliore di quella degli schiavi dell’antica Roma. I servi della gleba potevano essere venduti, insieme alla terra alla quale erano legati. Possedevano solo piccoli beni mobili e potevano sposarsi soltanto con persone che vivevano, come loro, all’interno della proprietà.
Il padrone dei fondi era, di fatto, anche il signore assoluto delle loro esistenze. Alle famiglie proprietarie l’uso del terreno andava pagato con il raccolto dei campi e con tutta un’altra serie di corvées. I servi dovevano versare anche le “decime” per il mantenimento del clero. E avevano mille altri obblighi e limitazioni.
Il Liber Paradisus, per legge, mutò questo stato sociale. Diede speranza ai manenti, i coloni di condizione servile legati da un contratto alle terre padronali. E anche ai cosiddetti “servi di masnada”, che costituivano i piccoli eserciti signorili.
Quattro notai stilarono quattro elenchi, uno per ogni quartiere, con quattro preamboli.
Regista di tutta l’operazione fu Rolandino de’ Passaggeri (1215 - 1300), uno dei più celebri giuristi medievali, massima autorità nella scienza e tecnica del documento notarile, di cui rinnovò i formulari con un grande rigore scientifico.
Nel documento si possono leggere importanti dichiarazioni di principio. Una su tutte: “Nella nostra città possano vivere solo uomini liberi”. Si prendono impegni solenni: “Spezzare le catene della servitù”. Si parla, a più riprese, di “restituire alla libertà originaria uomini che da principio la natura generò liberi e il diritto delle genti sottopose poi al giogo della schiavitù...”.
Bologna all’epoca era una delle più grandi città d’Europa, sede della prima è più importante università del mondo, frequentata da più di duemila studenti che non producevano ma consumavano. Il denaro fresco muoveva l’economia. Nacquero allora i nuovi mercati cittadini e i canali navigabili.
La città aveva addosso gli occhi del mondo. Nel palazzo del Podestà, dopo la battaglia di Fossalta del 1249, viveva prigioniero Enzo, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia. L’economia della città e del suo contado stava mutando pelle rapidamente insieme alla società feudale di derivazione carolingia, fino ad allora sostenuta dalle attività agricole dei castelli, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il lavoro autonomo rendeva la famiglia contadina assai più produttiva grazie alla selezione di nuove sementi e a diverse innovazioni tecniche.
La liberazione proclamata nel Liber Paradisus non fu solo un “beau geste” del governo cittadino. Servì a sanare molte situazioni giuridiche causate dai matrimoni misti tra cittadini liberi e servi.
Più cittadini liberi voleva dire anche più contribuenti. Era il prezzo della libertà. Non a caso, il Comune vietò ai servi liberati di spostarsi fuori dal territorio delle diocesi di appartenenza. In alcuni casi i servi vennero raccolti in località “franche”, libere dalla giurisdizione delle grandi famiglie. Si svilupparono così, al confine del territorio, in prossimità delle aree controllate dalla nemica Modena, paesi come Castelfranco, ai quali la città di Bologna concesse particolari condizioni fiscali.
Il riscatto dei servi rafforzava il Comune. E il mantenimento delle famiglie contadine sui campi garantiva la produttività dei terreni. In città arrivava una maggiore quantità di prodotti.
Bologna fu il primo Comune in Italia ad attuare la liberazione dei servi della gleba.
Altre città, come Vercelli, Assisi e Parma, si mossero nella stessa direzione. A Vercelli, come in altri luoghi, per legge, “la città dava la libertà”: la posizione dei servi della gleba che si rifugiavano nel centro abitato veniva regolarizzata dopo un certo periodo di tempo. Lo stesso avveniva a Parma, dove i nuovi cittadini venivano accolti come uomini liberi dopo 10 anni di permanenza .
Oggi la piazza che ospita palazzo Bonaccorso, la nuova sede del Comune di Bologna, si chiama “Piazza Liber Paradisus”. L’edificio porta il nome del podestà Bonaccorso da Soresina che redasse i documenti raccolti nel Liber.
Un affresco di Adolfo De Carolis esposto nel salone del Palazzo del Podestà ricorda ai bolognesi e ai turisti lo storico affrancamento dei servi.
In Russia la servitù della gleba venne abolita nel 1861, dallo zar Alessandro II, circa 50 anni più tardi rispetto al resto d’Europa. La fine della pratica della schiavitù degli esseri umani fu certificata dalla Costituzione degli Stati Uniti soltanto nel 1865. Il Brasile arrivò invece alla fatidica decisione nel 1888, con la “Lei Áurea” promulgata dalla principessa reale Isabella.
Per milioni di altri vecchi e nuovi schiavi, a distanza di secoli, il Paradiso è invece ancora un sogno lontano.
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FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini)
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia". *
Il testo del Liber Paradisus (Bologna, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...)
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L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech.
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
*15 GIUGNO 2009: ALLA DOTTA BOLOGNA, NELLA CATTEDRALE DI SAN PIETRO, LA "DEUS CARITAS EST" (UN FALSO FILOLOGICO E TEOLOGICO).
Michelle Obama: "Ogni giorno mi sveglio in una casa costruita da schiavi" *
Il sogno americano è vivo e vegeto, e secondo Michelle Obama, la sua vita ne è la prova.
Il discorso, tenuto al City College di New York, dalla first lady davanti ai laurenadi, ha emozionato e riscosso applausi e approvazioni.
"È ’la storia che assisto ogni giorno - ha detto - quando mi sveglio in una casa che è stata costruita dagli schiavi, e guardo le mie figlie - due belle nere giovani donne - andare a scuola, salutando loro padre, il presidente degli Stati Uniti ".
La signora Obama ha continuato a ricordare ai laureati che, mentre i padri fondatori non avrebbero potuto immaginare il giorno in cui un uomo di colore potrebbe essere il presidente, "tutti voi siete il frutto della loro visione."
"La loro eredità è molto la vostra eredità. E la vostra eredità. E non lasciate che nessuno vi faccia pensare in modo diverso. Voi siete la prova vivente che il sogno americano dura ancora nel nostro tempo".
Dante e i Papi: Vangelo in poesia
di Gianfranco Ravasi
(Avvenire, 5 dicembre 2015) La Chiesa ha mostrato più volte il vivo e sentito desiderio di onorare degnamente la figura di Dante Alighieri, di tenere nella giusta considerazione la sua opera, considerandola come elemento essenziale del suo patrimonio culturale e religioso, per il profondo rapporto con la fede cristiana e con la riflessione teologica e filosofica sviluppatasi intorno alle verità della fede.
Ricordando i più recenti anniversari danteschi, ci si accorge che i pontefici, a nome di tutta la Chiesa, hanno tributato al sommo poeta uno straordinario, singolare onore, dedicandogli importanti documenti magisteriali. Nell’enciclica In praeclara summorum, rivolta ai professori e alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico (30 aprile 1921), Benedetto XV celebrava il VI centenario della morte di Dante. Per l’occasione il pontefice aveva anche promosso il restauro del tempietto ravennate, attiguo alla basilica di San Francesco, che custodisce la tomba di Dante. Con l’enciclica il papa intendeva affermare ed evidenziare «l’intima unione di Dante con la cattedra di Pietro». Nel poema sono espresse le verità fondamentali della Chiesa cattolica, così da renderlo un «compendio delle leggi divine». A riguardo invece dei noti attacchi contro la Chiesa del tempo, papa Benedetto XV giustifica il sommo poeta: «Chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero?». Per Benedetto XV Dante «conserva la freschezza di un poeta dell’età nostra », anzi egli è molto più moderno di alcuni poeti contemporanei, i quali rievocano «quell’antichità che fu spazzata da Cristo, trionfante sulla croce».
Nella ricorrenza del VII centenario della nascita di Dante, anche Paolo VI con la lettera apostolica Altissimi cantus (7 dicembre 1965), evidenziava il profondo interesse della Chiesa per la figura di Dante. Con tale documento il pontefice istituiva, presso l’Università Cattolica di Milano, una cattedra di studi danteschi. La lettera apostolica completava la serie di iniziative attraverso le quali papa Montini volle esprimere l’ammirazione sua e di tutta la Chiesa per il cantore della Divina Commedia: il 19 settembre dello stesso anno aveva inviato per la tomba del poeta a Ravenna una croce d’oro, come segno della risurrezione che Dante professava, e il 14 novembre era stata incastonata nel battistero di San Giovanni a Firenze un’aurea corona d’alloro. Infine, a conclusione del concilio Vaticano II, il papa aveva donato a tutti i partecipanti una pregiata edizione della Divina Commedia.
«Del Signore dell’altissimo canto...». Già con l’incipit della lettera apostolica si evidenzia la centralità assoluta, in tutta la poesia italiana, del sommo poeta, definito «l’astro più fulgido» della nostra letteratura e ancora «padre della lingua italiana». Così scrivendo, Paolo VI rinnovava la profonda riconoscenza al poeta, e seguendo Benedetto XV lo annoverava tra tutti i grandi poeti cristiani. «Dante è nostro», ribadisce papa Montini, seguendo anche in questo Benedetto XV. «Nostro» nel senso di universale, ma anche nostro nel senso della fede cattolica. Paolo VI afferma che è un dovere della Chiesa riconoscere Dante come proprio, che ha come conseguenza necessaria uno studio accurato della sua opera per scoprirne gli «inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano».
Tra il sommo poeta e il pensiero cristiano vi sono numerosissimi elementi di contatto. Tra questi il fine stesso della Commedia, che ha in comune col messaggio cristiano l’intento di cambiare radicalmente l’uomo, di portarlo dalla selva oscura del peccato alla rosa mistica della santità. «Onorate l’altissimo poeta!» è l’invito-appello con cui Paolo VI conclude l’Altissimi cantus, sollecitando il «fermo impegno» soprattutto di coloro che, per vari motivi, si sentono a lui più vicini. La cultura contemporanea deve saper incontrare Dante e chiedere a lui la guida verso la «dritta via», spesso impedita dalla selva oscura, verso quello che egli ci indica come «dilettoso monte/ ch’è principio e cagion di tutta gioia».
Benedetto XVI non è meno legato a Dante dei suoi predecessori e più volte, già da cardinale, ricorda e cita il sommo poeta. Il cardinal Ratzinger, infatti, nel libro Introduzione al cristianesimo, scrivendo dello «scandalo del cristianesimo», cioè di Cristo Figlio di Dio fattosi uomo, e quindi del significato dell’essere che va ricercato non nel mondo delle idee ma nel volto di un uomo, rammenta la concretezza di questo pensiero nella conclusione della Divina Commedia di Dante: «Dentro da sé del suo colore istesso,/ mi parve pinta della nostra effigie,/ per che il mio viso in lei tutto era messo». Dante, «contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, ossia un volto umano, esattamente in centro all’abbagliante cerchio di fiamme formato da “l’amore che move il sole e l’altre stelle”».
Benedetto XVI riprende questo tema e questi versi per spiegare il significato profondo della sua prima enciclica Deus caritas est. Incontrando i partecipanti a un congresso organizzato dal Pontificio consiglio «Cor unum», il pontefice afferma: «Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano - il volto di Gesù Cristo - che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano». Nell’enciclica, si ribadisce, il papa voleva «tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace».
Il 4 maggio 2015, quando in Senato si sono celebrati i 750 anni dalla nascita di Dante. ho avuto l’onore di essere latore di un messaggio di Papa Francesco che si accosta ai suoi predecessori nella lode e nell’ammirazione per questo grande poeta e credente. Lo stesso pontefice, per altro, nella sua prima enciclica Lumen fidei, aveva raffigurato la luce della fede, che avvolge e coinvolge l’intera esistenza umana, attraverso un’immagine dantesca, la «favilla,/ che si dilata in fiamma poi vivace/ e come stella in cielo in me scintilla» (Paradiso XXIV, 145-147).
Terzo Paradiso - La Mela Reintegrata *
“Il simbolo della mela attraversa tutta la Storia che abbiamo alle spalle, partendo dal morso, che rappresenta il distacco del genere umano dalla Natura e l’origine del mondo artificiale. La Mela Reintegrata rappresenta l’entrata in una nuova Era nella quale mondo artificiale e mondo naturale si ricongiungono producendo un nuovo equilibrio planetario.”
Il termine paradiso proviene dall’antico persiano e significa giardino protetto. Il simbolo del Terzo Paradiso è una riformulazione del segno matematico dell’infinito. I due cerchi opposti significano natura e artificio, l’anello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo della rinascita.”
Michelangelo Pistoletto
Una mela di circa 8 metri di altezza per 8 di diametro, costituita da una struttura metallica rivestita da un tappeto di erba naturale e con un ‘morso’ sulla sommità, reintegrato grazie a una cucitura metallica, sarà al centro di Piazza del Duomo a Milano, circondata da oltre 150 balle di paglia disposte a creare il simbolo del “Terzo Paradiso”.
Da domenica 3 a lunedì 18 maggio volontari FAI e Apprendisti Ciceroni®, studenti formati dal FAI, spiegheranno, gratuitamente, il significato dell’opera di Michelangelo Pistoletto che sarà poi collocata definitivamente in Piazza Duca d’Aosta.
Benigni show in Senato: ’Dante voleva fondare il Pd, politico fiorentino con caratteraccio’
Grasso: ricordarlo per riscatto morale dell’Italia
di Redazione ANSA *
Ovazione per Benigni in Senato. Neanche l’ufficialità delle celebrazioni per i 750 anni della nascita di Dante tiene a freno l’esuberanza del regista e attore premio Oscar che inizia la sua performance nell’aula di palazzo Madama con battute sullo stesso Senato, su Renzi e sul PD. "Questo anniversario cade al momento giusto: se fosse arrivato tra due anni il Senato lo avrebbero trovato chiuso", esordisce Benigni nell’aula di Palazzo Madama, davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al presidente del Senato, Pietro Grasso, al presidente emerito, Giorgio Napolitano, e ad altre autorità. "Questo è proprio un posto dantesco - aggiunge il premio Oscar - del resto Dante si è occupato di politica, intendeva la politica come dovrebbe essere considerata oggi, poter servire, costruire. Era impegnatissimo, ma si è fatto molti nemici per il suo caratteraccio. Del resto, si sa - sorride alludendo al premier Renzi - che i politici fiorentini hanno un caratteraccio. Non gli andava bene essere guelfo, bianco o nero, né ghibellino. Voleva far parte per se stesso, fondare il partito personale di Dante, insomma il Pd dell’epoca", ironizza. Dopo un’analisi della bellezza della Commedia e della sua lingua straordinaria, Benigni comincia a recitare a memoria il canto XXXIII del Paradiso.
Alla fine tutta l’aula di Palazzo Madama si è alzata in piedi alla fine della performance del premio Oscar. Tra i presenti, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente del Senato Pietro Grasso, il presidente emerito Giorgio Napolitano, il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, cardinale Gianfranco Ravasi. "La Divina Commedia - ha sottolineato Benigni - è un miracolo, è un’opera la cui bellezza mozza il fiato", scritta in una lingua "che pur avendo oltre 700 anni si comprende ancora". E il canto più bello, a giudizio dell’attore e regista, "è proprio il XXXIII del Paradiso, l’ultimo, in cui c’è la perfezione dell’alveare, è proprio un diamante, un dono incredibile davanti al quale si rimane come sospesi".
Papa: Dante ci aiuti in tante selve oscure della storia - "Dante è profeta di speranza", diamo "onore" a Dante, arricchiamoci "della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia". Così il Papa per i 750 anni della nascita dell’Alighieri, la cui Commedia è "paradigma di ogni autentico viaggio" dell’umanità.
L’opera e il pensiero di Dante Alighieri ci servono oggi "per ribadire la volontà di riscatto morale attraverso la cultura" dell’Italia. Lo ha sottolineato il presidente del Senato Pietro Grasso celebrando il 750 anniversario della nascita del poeta a palazzo Madama alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
"L’attualità di Dante risulta infatti sempre viva in ogni settore della cultura, della scuola, ma anche fuori dagli ambienti accademici, prova ne sia la moltiplicazione e la grande affluenza di pubblico all’antica consuetudine delle Lecturae Dantis diffuse in ogni parte d’Italia e all’estero: contributo prezioso - ha spiegato il presidente Grasso parlando in aula al Senato - alla circolazione del messaggio poetico dantesco, stimolo alla lettura e alla riscoperta soprattutto della Divina Commedia, e di cui avremo oggi, grazie alla generosità di Roberto Benigni, un esempio insieme efficace e profondo. Una "lettura", la sua, che ha già avuto successi e riconoscimenti per aver saputo, mantenendo il massimo di adesione al modo e al tono della lettura antica, far rivivere e trasmettere a tutti noi l’emozione di una poesia che vive da settecento anni nell’ammirazione e nell’amore dei lettori in tutto il mondo".
Pietro Grasso ha ricordato che "nel 1865, pochi anni dopo l’Unità d’Italia, per il Sesto Centenario della nascita di Dante in tutto il Paese ci fu un grande fervore di iniziative per celebrare la ricorrenza". Commemorazioni che, ha aggiunto, che "intendevano, attraverso quei gesti, affermare il loro legame storico e sentimentale con l’Italia appena unificata". "Quel fermento vide insieme la volontà di rendere omaggio, nel modo più solenne, al sommo Poeta - ritenuto a ragione il "padre della lingua italiana" - ma anche quella di assumere Dante come simbolo della nuova Italia nata dal Risorgimento", ha spiegato il presidente del Senato.
Cultura, il mondo s’inchina al genio di Dante. Via alle celebrazioni per i 750 anni
Da lunedì parte un calendario di 187 manifestazioni in tutto il Paese, ben 173 all’estero. Appuntamenti clou a Firenze, Verona, Roma e Ravenna tra gonfaloni, rievocazioni storiche, seminari su lingua e tradizione del grande fiorentino
di Alex Corlazzoli (Il Fatto, 3 maggio 2015)
Da lunedì tutta l’Italia si inchina davanti al genio di Dante Alighieri. In occasione del 750esimo anniversario della nascita del padre della “Divina Commedia”, andranno in scena 187 manifestazioni in tutto il Paese e ben 173 all’estero. Per alcuni mesi mostre, letture, convegni e conferenze, concerti di musica classica e contemporanea, spettacoli di teatro e danza, video installazioni e proiezioni, lectio magistralis, summer school con i massimi protagonisti della scena culturale nazionale e internazionale e studiosi della letteratura dantesca, faranno parte del ricco calendario che vedrà in prima fila le città più legate al sommo poeta - Firenze, Ravenna, Verona e Roma.
L’evento ha una portata internazionale ed è stato presentato dal ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini insieme ai sindaci delle città che lo ospiteranno. Lunedì l’apertura delle celebrazioni sarà solenne e coinvolgerà i massimi livelli istituzionali: alle 11 a Palazzo Madama nell’aula del Senato, in diretta Rai, la cerimonia sarà aperta dal Presidente, Pietro Grasso e dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un omaggio musicale di Nicola Piovani e Rosa Feola e una lectura dantis di Roberto Benigni arricchiranno la giornata che prevede anche nella contigua Sala Garibaldi un’esposizione di importanti documenti della più avanzata ricerca scientifica sull’opera di Dante. La mostra, a cura del Centro Pio Rajna - Centro studi per la ricerca letteraria, linguistica e filologica e della Casa di Dante in Roma, esporrà moderne edizioni di opere e preziose riproduzioni in facsimile di antichi codici miniati e altre testimonianze artistiche, antiche e moderne.
Firenze darà voce a Dante nel Battistero di San Giovanni dove in collaborazione con la Società Dantesca Italiana, martedì 5, Emilio Pasquini con Michele Placido apriranno le manifestazioni; il 12 maggio sarà la volta di una riflessione di Lucia Battaglia Ricci e lettura di Roberto Herlitzka; il 19 maggio prenderà la parola il cardinale Gianfranco Ravasi con le letture di Gioele Dix. L’evento più suggestivo è previsto per il 14 maggio, quando si svolgerà la rievocazione storica della grande sfilata di gonfaloni con cui, al tempo di Firenze capitale, fu inaugurata la statua di Dante dello scultore ravennate Enrico Pazzi (1865), allora al centro di Piazza Santa Croce e adesso a lato della chiesa. Il Comune di Firenze, inoltre, finanzierà una nuova produzione della Compagnia Teatrale Virgilio Sieni dal titolo “Ballo 1265”.
Non sarà da meno Ravenna che dedica al grande poeta un fitto programma di eventi tra cui si prevede l’allestimento, presso il Museo d’Arte della mostra “Divina Commedia. Le visioni di Doré, Scaramuzza e Nattini”. Non poteva mancare l’impegno dell’Accademia della Crusca che attiverà un assegno di ricerca sul “lessico dantesco”. Verrà analizzato il vocabolario dantesco in tutto il suo spessore e contestualizzato nel quadro della cultura del Duecento e del Trecento. Fuori dall’Italia grazie agli 80 Istituti Italiani di Cultura si parlerà di Dante a Berlino, Stoccarda, Colonia, Amburgo, Monaco, Londra, Edimburgo, Parigi, Amsterdam, Bratislava, Zagabria, Helsinki, Madrid, Barcellona, Oslo, Zurigo, Riga e anche in America Latina, negli Stati Uniti, in Libano, Israele, Marocco, Australia e Corea de Sud. A organizzare il tutto è il comitato MiBACT composto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dalla RAI, dai Comuni di Firenze, Ravenna e Verona, dal Centro Pio Rajna, dall’Accademia della Crusca, dalla Società Dantesca Italiana e dalla Società Dante Alighieri.
KANTOROWICZ, UN GRANDE (E IGNORATO) LETTORE DI DANTE. Una nota *
FEDERICO II, IMPERATORE (1927), "I DUE CORPI DEL RE" (1957). Senza la conoscenza delle opere di Dante, non solo la prima ma neppure la seconda grande opera di Kantorowicz sarebbe stata possibile. Questo è quanto emerso da una mia semplice e recente ricognizione dei suoi due eccezionali lavori. L’orizzonte storiografico di Dante non solo aiuta K. a capire la lezione di Federico II, ma - con l’aiuto di Federico II - a gettare le basi non solo di una straordinaria comprensione dell’opera di Dante, ma anche della sua stessa proposta politicoa e filosofica.
Un accenno in questa direzione è nella conclusione (qui di seguito ripresa) della spelndida e ricca "voce" "Kantorowicz" di Roberto Delle Donne (Federiciana del 2005, non - non dall’Enciclopedia Dantesca del 1970!!!):
"[...] Partendo dalla finzione giuridica del corpo doppio del re, enunciata nell’Inghilterra del XVI sec. allo scopo di porre al riparo i diritti della Corona e dello stato dalle pretese di poteri e istituzioni particolari, K. conduce il lettore attraverso i diversi strati ideologici che si erano coagulati in questa teoria. Affronta, attraverso l’archeologia del concetto di incarnazione monarchica, su un arco cronologico che dall’Alto Medioevo giunge al Rinascimento, il modo in cui il pensiero giuridico e politico tardomedievale giunse a concepire l’immortalità della monarchia di là dalla persona mortale in cui si incarna, fornendo così la genealogia della distinzione tra la funzione pubblica e la persona che l’esercita, cardine su cui avverrà il passaggio da una concezione dell’autorità incarnata nel suo titolare all’idea di un potere impersonale, a cui il titolare accede per temporanea delega collettiva.
Uno degli snodi di questo processo plurisecolare è costituito dall’imperiale "teologia di governo" di Federico II, che per quanto "pervasa dal pensiero ecclesiastico, contaminata dalla terminologia canonistica e infusa d’un linguaggio quasi cristologico per esprimere gli arcani del governo", non dipendeva più dall’idea altomedievale di una regalità "cristocentrica", basata cioè sulla credenza che il re, attraverso la consacrazione, divenisse vicario e "imitatore" del Cristo vivente. Il sovrano svevo e soprattutto i suoi consiglieri giuridici derivavano invece la funzione duale dell’imperatore quale "signore e ministro della giustizia" (Kantorowicz, 1957, pp. 97 ss.; trad. it. pp. 84 ss.) dal diritto romano, dalla tradizione della lex regia, aprendo la strada alla distinzione tra Impero e imperatore, già suggerita da Accursio e poi sostenuta più recisamente da Cino da Pistoia.
È proprio nell’acutezza delle analisi e nell’ampiezza euristica, nella straordinaria capacità di K. di restituire, ricorrendo a fonti straordinariamente disparate, la complessità concettuale del processo storico che segnò il passaggio da un’idea della sovranità secondo cui un individuo rappresenta un essere collettivo a quella secondo cui un essere collettivo rappresenta degli individui, che vanno ricercate le ragioni della sua recente fortuna tra un pubblico non di soli medievisti: nell’opera è possibile cogliere non solo le origini della moderna concezione dello stato occidentale, ma anche individuare a livello embrionale le diverse modalità di evoluzione che essa ha subito nei vari paesi d’Europa.
Il nucleo germinativo dell’opera, la sua ragion d’essere, non va tuttavia cercato nell’interesse per lo stato, ma per gli uomini mortali che elaborarono "la credenza politica nello Stato moderno e nel suo carattere perpetuo" (ibid., passim). K. ha fondato la sua inesausta ricerca della dignitas perpetua, che "non muore mai", in tutte le sue manifestazioni nell’universo mentale del Medioevo, muovendo da un ideale umanistico: il corpo mistico del re, che simboleggia la sovranità dello stato, è congiunto a un ideale di optimus homo, simboleggiante a sua volta la sovranità individuale, l’humanitas, la dignità stessa dell’essere uomo che accompagna, come un corpo mistico perenne, ogni singolo individuo, e che fa del principe, proprio perché appartenente all’humana universitas, un homo instrumentum humanitatis. Questa concezione della politica e della responsabilità di chi detiene un ufficio politico K. la ritrova, in un capitolo di straordinaria ispirazione, come categoria fondante dell’umanesimo medievale di Dante. Agli antipodi di quella "orribile esperienza del nostro tempo in cui intere nazioni, dalle più piccole alle più grandi, caddero preda dei dogmi più irrazionali e in cui i teologismi politici divennero autentiche ossessioni che sfidarono i più elementari principî della ragione umana e politica" (ibid., p. XVIII; trad. it. p. XXX), l’idea dantesca di humanitas potrebbe far risuonare la sua eco anche nel nostro presente. È questo un aspetto non secondario del lascito spirituale di K., ancora valido per tutti coloro che vogliono leggere e pensare, vivere e agire in accordo con il proprio pensiero".
Si tenga presente, per capire bene e meglio, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato " La regalità antropocentrica: Dante "!!! Nel "Federico II, Imperatore" (un’opera che non solo getta luce sulla filosofia degli anni Venti del XX secolo in Europa, ma illumina meglio e tutto il percorso e l’orizzonte storiografico-filosofico dello stesso Kantorowicz, e sollecita a rileggere il suo lavoro del 1927 e del 1957 in modo unitario!), con grande chiarezza, così scrive:
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988, pp. 212-213).
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Federico La Sala
Imperatori e Re: il Bivio di Bloch
di Dino Messina (Corriere La Lettura, 05.04.2015)
Perché, mentre in Inghilterra e Francia si affermava la monarchia, la Germania nel Medioevo, e anche nei secoli successivi, coltivò l’idea imperiale? Attorno a questa domanda ruotano le due lezioni che lo storico Marc Bloch tenne a Strasburgo nel biennio 1927-1928 per i docenti candidati a insegnare tedesco nelle scuole francesi. L’editore Castelvecchi, cui già dobbiamo la traduzione del pamphlet del fondatore delle Annales, Che cosa chiedere alla storia? (2014), propone ora, sotto il titolo La natura imperiale della Germania, quelle due preziose conferenze didattiche, a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores.
Marc Bloch (1886-1944), autore de La società feudale e de I re taumaturghi , non era uno studioso avulso dalle passioni e dall’impegno: già volontario nella Prima guerra mondiale, sarebbe finito fucilato dai nazisti come militante della Resistenza.
La sua analisi, che parte dall’eredità dell’impero carolingio, si concentra sui due grandi Hohenstaufen, Federico Barbarossa e Federico II di Svevia.
L’autore analizza il modello di nomina imperiale, in cui il fattore dinastico contava almeno quanto quello elettivo, ad opera dei principi, duchi, conti, vescovi. Ma per diventare imperatore era infine obbligatorio un passaggio a Roma. Di qui il dualismo con i Papi. «I Re di Francia o d’Inghilterra difendevano la propria autorità contro la Curia... non pensavano affatto di sottomettere il papato stesso. Tra l’Imperatore e il Papa, la posta in gioco era tutt’altra: l’Imperatore credeva di avere diritti sulla sede papale, il Papa sull’impero, e tutti e due su Roma».
La seconda conferenza di Bloch si conclude registrando una polemica che si svolse dal 1859 al 1862 tra due storici, il protestante Heinrich von Sybel, il quale sosteneva che l’ambizione imperiale aveva danneggiato la nazione tedesca, e il cattolico filoaustriaco Julius von Ficker, favorevole all’impero. Benché, nota Bloch, la visione di Sybel avesse vinto, nell’opinione pubblica era stata la Weltpolitik di Ficker a riscuotere un crescente successo.
RIPENSARE COSTANTINO. LA LEZIONE DI DANTE (E DI KANTOROWICZ) .... *
Musica, architettura e cosmo: una rilettura di Castel del Monte
di Cesare Cavalleri (Avvenire, mercoledì 22 agosto 2018)
Tantissimi anni fa, cioè nel 1970, lessi Pietre che cantano, di Marius Schneider, spinto dall’entusiasmo di Elémire Zolla che aveva spiegato come Schneider, osservando i chiostri romanici di San Cugat, di Gerona e di Ripoll in Catalogna, aveva annotato le figure effigiate sui capitelli assegnando a ciascuna un valore musicale; quindi lesse come simboli di note le singole figure, basandosi sulle corrispondenze tramandate dalla tradizione indù, e scoprì infine che la serie corrispondeva alla esatta notazione degli inni gregoriani dedicati ai santi di quei chiostri. Abbagliante erudizione che non ho mai smesso di ammirare.
Con questo precedente, non potevo evitare di tuffarmi (siamo in estate) nel saggio di Giulia Ferraro, Simbologia di Castel del Monte. Rilettura di un’ipotesi sui rapporti tra musica e architettura, pubblicato nel più recente quaderno del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano, a cura di Massimo Venuti con Giovanni Acciai e Gabriele Manca (Edizioni ETS, pagine 228, euro 23,00).
Castel del Monte, che si erge solitario nel paesaggio collinare delle Murge, in territorio di Andria, è un enigma che da otto secoli affatica gli studiosi che finora sono riusciti soltanto a scalfirlo. Enigmatico quant’altri mai, del resto, è chi lo fece costruire, l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), guerriero, astronomo, falconiere, politico antagonista del papato, protettore degli artisti da cui amava circondarsi. Enigmatica anche la destinazione del Castello, che non sembra di difesa né di delizie, con la sua pianta ottagonale e le otto torri angolari.
L’ipotesi che Giulia Ferraro intende rileggere è del musicologo Vasco Zara, autore nel 2000 del saggio L’intelletto armonico. Il linguaggio simbolico musicale nell’architettura di Castel del Monte. Zara collega le forti implicazioni astronomiche, matematiche e geometriche racchiuse nell’architettura del Castello, con le conoscenze musicali dell’epoca. In particolare, viene proposto l’antico accostamento tra pianeti e note musicali, «introducendo il concetto di “musica delle sfere”, per il quale il movimento di ciascun pianeta produce un preciso suono».
È un concetto di ascendenza platonica, che Dante riprenderà nel Canto XII del Paradiso. Zara, «dopo aver associato a ogni facciata interna del pianterreno del Castello un pianeta e del piano superiore una delle gerarchie angeliche, abbina a questi una nota musicale», secondo uno schema rinvenuto in alcuni fogli liberi di un manoscritto del XII secolo, contenente il De institutione musica di Boezio.
Il passaggio dal giro pagano dei pianeti al cielo abitato dalle gerarchie angeliche è scandito nella facciata nord-ovest del Castello dalla statua equestre di un cavaliere, peraltro semidistrutta: «L’immagine è quella di mediatore tra Cielo e Terra, adatta a un imperatore come Federico, autoincoronatosi, in una Gerusalemme da lui liberata, Re del Mondo contro il volere del Papa che l’aveva scomunicato, Re per grazia di Dio e non della Chiesa».
Dunque, l’architettura di Castel del Monte riprodurrebbe in forma plastica la musica delle sfere, la cui inudibilità è così spiegata da sant’Ambrogio in Exameron, II,7: «Alcuni dicono che il suono delle sfere non arriva fino alla terra, per la ragione che gli uomini, sia in Oriente che in Occidente, sedotti dalla soavità e dal fascino di quel suono originato dal movimento velocissimo dei cieli, trascurerebbero ogni dovere e attività e tutto quaggiù rimarrebbe ozioso, perché lo spirito umano sarebbe come portato in estasi da quelle musiche celesti».
Il Quaderno del Conservatorio intitolato “I volti della musica: allegoria, Spirito, realtà”, contiene, oltre allo studio di Giulia Ferraro, altri due saggi: Lutero e la riforma. Alle origini del Corale, di Ivana Valotti; Luigi Nono, al gran sole carico d’amore. La rivoluzione in musica, di Claudia Ferrari. Finché ci saranno studiosi che si dedicano ad approfondimenti come questi, il mondo non cadrà nell’insignificanza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. --- KANTOROWICZ, UN GRANDE LETTORE DI DANTE. Una nota
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz.... L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
Federico La Sala
CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Una nota *
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto di Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 17.12.2013)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume.
Ma è notevole anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità ,come per le altre sue opere, Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista.
Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela.
È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia.
Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa
di Claudio Gallo (La Stampa, 16 dicembre 2013)
«Immagina che non ci sia nessun paradiso, provaci, non è poi così difficile, immagina che non ci sia nessun inferno sotto di noi». Così cantava John Lennon nel 1971, con la sua Imagine , proponendo di abolire il paradiso mentre, per l’ineludibile dialettica delle cose, ne proponeva una nuova versione. Si può vivere senza un altrove? Sembrerebbe di no, perché, anche nelle menti più scettiche, l’idea o l’immagine emerge puntualmente dal pozzo tenebroso da cui sorge la coscienza. Non ci credo, ma lo immagino.
Gli antichi, che vedevano il mondo con occhi diversi dai nostri, non si ponevano il problema della sua esistenza ma s’interrogavano sul dove. Una raffinata scienza cartografica si sviluppò lungo i secoli per indicare dove il paradiso terrestre fosse situato. Una «scienza» cangiante che si è prefissata l’obiettivo di spiegare l’inspiegabile e che è riuscita a sopravvivere anche all’era delle misurazioni esatte.
Segue il suo percorso affascinante, che è allo stesso tempo una mappa della nostra mente, lo storico Alessandro Scafi, docente al Warburg Institute di Londra, nel suo Maps of Paradise , appena pubblicato in Gran Bretagna (dalla British Library) e in Nord America (dalla University of Chicago Press) e in attesa di traduzione italiana. Il libro traccia la storia della cartografia di una specifica forma di paradiso: il Giardino dell’Eden descritto nel libro della Genesi . Il termine usato nella versione ebraica è «Gan Eden », Giardino dell’Eden.
La parola persiana da cui deriva il termine paradiso adottato nelle versioni greche e latine della Genesi , «pairi-daeza», indicava all’inizio (nell’epoca achemenide, tra il ’600 e il ’300 a.C.) uno spazio chiuso da un muro. Quando i traduttori greci e latini dell’originale ebraico scelsero il termine paradiso trasformarono il luogo perfetto di Adamo ed Eva in un giardino recintato. È interessante che per tutta l’antichità l’ideale di perfezione fosse rigorosamente uno spazio finito. L’idea di un infinito illimitato, che a un filosofo greco avrebbe fatto orrore, è un dono della modernità, con le sue dimensioni disumane. Il paradiso socialista, di cui Marx profetizzava l’avvento sulla terra, nasceva proprio dalla negazione dell’accumulazione illimitata delle ricchezze per tornare al limite naturale del rapporto umano. Ciò che i greci chiamavano «metron» e mettevano alla base di ogni convivenza sociale.
Dall’inizio dell’era cristiana fino al Rinascimento le mappe del mondo situavano il Paradiso a Oriente perché così era indicato in alcune traduzioni della Genesi . «Infatti, in molte mappe medievali - ha spiegato Scafi presentando il libro all’Istituto italiano di cultura di Londra - il paradiso è localizzato a Est. Le moderne misurazioni geografiche non rappresentano che luoghi. Ma prima del Rinascimento, prima della riscoperta della geografia tolemaica, prima dell’uso di longitudine e latitudine, le mappe del mondo erano narrazioni storiche piuttosto che rappresentazioni geografiche».
Niente di più distante da Google Maps delle mappe medievali (anche se Google Earth ha cominciato a inserire una dimensione storica). Nelle antiche carte si compendiava la storia del mondo: il dramma dell’umanità si rivelava attraverso la geografia. Si poteva vedere il mondo di ieri ma anche il mondo di domani che, coincidendo con la fine dei tempi, era al di fuori del tempo e dello spazio: uno stato rappresentabile ma non pensabile.
«In Armenia - ha detto Scafi, illustrando il mappamondo di Hereford - vediamo l’Arca di Noè, in Mesopotamia la Torre di Babele, tra il Sinai e il Mar Rosso l’esodo del popolo d’Israele; a Gerusalemme la crocifissione di Gesù Cristo; a Creta il labirinto di Minosse; in Asia il Vello d’oro degli Argonauti. Nel Medioevo si credeva che lo spazio fosse inestricabilmente legato al tempo, una cosa tornata ovvia agli occhi dei fisici del ’900».
Il paradiso terrestre in quelle mappe è fissato nel momento topico in cui Adamo ed Eva commisero il peccato originale, come la finestra di un’altra dimensione affacciata sul presente. Così il giardino dell’Eden esiste e non esiste allo stesso tempo, è geograficamente localizzabile sulla terra ma rimane inaccessibile. Un luogo che è contemporaneamente dentro e fuori del mondo, sulla terra ma non della terra. Lo spazio diventa una semplice convenzione: mentre i cristiani medievali immaginavano un paradiso a Oriente, i loro contemporanei buddisti guardavano al paradiso d’Occidente.
Profondi cambiamenti nella teologia e nella cartografia hanno poi trasformato la visione medievale di un giardino ancora esistente in un Oriente misterioso nell’idea moderna di un paradiso perduto, i cui resti sono stati identificati con precisione in vari luoghi del mondo conosciuto. Nei modi più vari e ingegnosi cartografi e teologi hanno tentato per due millenni di situare il loro paradiso.
Nessuno più di Dante ha cercato di spiegare perché il paradiso non si può spiegare: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende / perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire»
LA MAPPA
Ecco i luoghi del Paradiso terrestre
di Roberta Beretta (Avvenire, 3 giugno 2012)
Che bel posto! È un paradiso... Tra il deserto e il Polo Nord, Gerusalemme e Bristol, ci sono almeno una ventina di luoghi al mondo che potrebbero sostenere la nomea letteralmente parlando; nel senso che sono stati identificati come ubicazione geografica del paradiso. Terrestre, sì; però sempre tale. Ma come: non si trattava, per l’Eden, di un luogo mitico, simbolico, leggendario e dunque assolutamente impossibile da localizzare?
Beh, qualunque serio esegeta abbozzerebbe oggi un sorrisetto di compatimento alla richiesta di indicare sul mappamondo il paradiso terrestre; però è altrettanto vero che la storia è zeppa di appassionati che hanno tentato di farlo.
Ne produce ora un censimento l’atlante di Brook Wilensky-Lanford Il paradiso ritrovato. Sulle tracce del giardino dell’Eden (Edt, pp. 328, euro 20) - ma analoga impresa era confluita anni fa pure in una mostra internazionale e poi nel libro di Alessandro Scafi Il paradiso in terra (Bruno Mondadori). Ecco dunque un elenco di tentativi serissimi oppure folli, elaborati a tavolino con astrusi calcoli ovvero perseguiti sul campo in avventurose spedizioni, per scoprire dove è finito il paradiso perduto.
UN GIARDINO TRA I FIUMI
La prima responsabile di questa ricorrente ossessione è del resto la Genesi stessa; la quale, al capitolo 2 versetti 8-14, descrive con precisione le coordinate del luogo: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente... Un fiume usciva... di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro... Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate». Non è un caso dunque se la maggior parte degli Indiana Jones del paradiso terrestre si sia buttato sulle uniche indicazioni identificabili con sicurezza: quelle del Tigri e dell’Eufrate.
Intorno alla Mesopotamia ruotano infatti le più numerose ipotesi di localizzazione dell’Eden: da quella di Calvino, che nel suo commentario biblico incluse una mappa in cui l’Eden era collocato «a est di Babilonia», alle ben più recenti dell’egittologo David Rohl (1995; per lui il primo paradiso è la valle del vulcano spento nonché sacro Sahand, a 10 chilometri da Tabriz) o del cacciatore di misteri Michael Sanders (2001: a suo avviso il paradiso sta sui monti dell’oriente turco, giusto dove nascono Tigri ed Eufrate). A Qurna del resto - città che però sta molto a valle, alla confluenza tra i due grandi fiumi iracheni - fino ai primi decenni del Novecento viveva un «Albero della conoscenza» assai apprezzato dai turisti.
DALL’INDIA ALLA CINA
Appunto un assirologo, il tedesco Friedrich Delitzsch, trovando all’inizio del Novecento sopra un sigillo babilonese una (presunta) raffigurazione di Adamo ed Eva, ritenne di aver «risolto» la questione dei 4 fiumi nella Genesi: i due meno noti sarebbero stati in realtà dei canali d’irrigazione. Geniale! Con un problema, però: chi li avrebbe scavati, quei canali, se l’Eden era abitato soltanto da Adamo ed Eva? Altri - primo tra tutti lo storico giudeo-latino Flavio Giuseppe - tentarono piuttosto l’identificazione dei due misteriosi corsi d’acqua con grandi fiumi più o meno vicini: il Pison sarebbe così il Gange, mentre il Ghicon coinciderebbe col Nilo (anche l’esploratore David Livingstone si diceva certo che l’Eden si trovasse alle sorgenti di tale fiume, che però lui allungava fino allo Zambia).
La Genesi era d’altronde chiara: il giardino si trovava «in oriente». L’Eden è in Asia, sosteneva appunto era nel VII secolo, di poco preceduto dal vescovo siriano Severiano: al quale sembrava teologicamente inappuntabile che l’uomo fosse nato laddove sorge anche il sole. In una carta geografica dell’VIII secolo, conservata alla Vaticana, il «paradisus» confina appunto con l’India. A Oriente, dunque; ma fino a giungere in Cina? Perché proprio questo sosteneva Tse Tsan Tai, l’uomo d’affari di Hong Kong che nel 1914 pubblicò la sua teoria secondo cui il luogo d’origine del primo rappresentante della nostra specie (ovviamente un cinese) era un’oasi nello sperduto deserto mongolo. Nella quale peraltro lui non era mai stato...
SUL MONTE O SOTTO I MARI
E se invece di guardarci intorno, dovessimo alzare gli occhi verso l’alto? Che il paradiso terrestre sia in cima a una montagna è pure un’ipotesi assai frequentata. Per esempio dal filosofo medievale Duns Scoto, ma anche dal poeta John Milton nel suo Paradise Lost, per non parlare del buon vecchio Dante che lo collocò in cima al monte del Purgatorio. Cristoforo Colombo, incrociando nel suo terzo viaggio le maestose foci dell’Orinoco, favoleggiò che quel flusso immane sgorgasse come latte da un alto seno della Terra, il medesimo che aveva albergato il primo paradiso; ma per principio si rifiutò di esplorarlo, in quanto Dio stesso nella Bibbia aveva esplicitamente proibito all’uomo di tornarvi. Secondo vari pareri, l’Eden doveva trovarsi in zona elevata anche per un altro semplice motivo: solo così avrebbe potuto sottrarsi al diluvio universale, che tutto aveva sommerso.
E infatti non mancano teorie che collocano la dimora dei progenitori sott’acqua: nel Mediterraneo, precisamente ad ovest di Creta (è l’opinione della stravagante e spiritista «chiesa» di Urantia), oppure nel Golfo Persico. Ingegnoso fu Archibald Henry Sayce, oxfordiano autore di una grammatica assira, quando nel 1882 mise la retromarcia ai 4 fiumi biblici: il testo della Scrittura intendeva in realtà riferirsi alla marea che periodicamente invadeva il Tigri e l’Eufrate e un paio di altri corsi vicini, risalendo dalla foce verso nord. Teoria ripresa e corretta un secolo più tardi dall’archeologo Juris Zarins, il quale poté però avvalersi anche delle foto riprese dal satellite.
LA TERRA DELLE ORIGINI
Ma non manca neppure chi ha fatto un ragionamento storico più che esegetico: se l’Eden è stato la culla del primo uomo, è dove si concretamente si rinvengono i resti degli ominidi che bisogna andare a cercarlo. Così nel 1896 l’antropologo Henry Seton-Karr, avendo scoperto molti utensili preistorici nel deserto della Somalia, non esitò ad annunciare di aver trovato pure l’ubicazione del Giardino della Genesi. In effetti la maggior parte dei paleo-antropologi oggi propende per l’origine della nostra specie nel continente nero; e tuttavia la Wilensky-Lanford nota che «quasi tutti coloro che cercavano l’Eden avevano trascurato l’Africa. Perché questo divario?». Forse per razzismo culturale, si risponde... In effetti nemmeno la valle etiopica di Awash - dove pure nel 1974 furono scoperti i resti di Lucy, il più antico ominide conosciuto - venne mai presa in seria considerazione come possibile dimora di Adamo ed Eva.
MEGLIO IL POLO NORD...
Restano infine le ipotesi più fantasiose. William Fairfiled Warren, professore universitario americano nonché pastore metodista, nel 1885 identificò con straordinario successo l’Eden nel Polo Nord, ovviamente in un’era geologica nella quale il pianeta doveva essere assai più caldo di oggi. Il connazionale e collega accademico George C. Allen fu pronto ad accodarsi, ma con un’importante precisazione: il Polo si muoveva sulla crosta terrestre e dunque al momento il primo paradiso si trovava più o meno nell’Ohio (qualcun altro, forse influenzato dalla natura dei luoghi, corresse: no, è nella valle di Santa Clara in California); sempre nell’Ohio, del resto, si trova anche Serpent Mound, un terrapieno a forma di rettile costruito dai nativi americani e che all’inizio del Novecento sembrò al reverendo battista americano Edmund Landon West un lampante segnale lasciato da Dio per indicare la località in cui aveva creato i nostri antenati...
...O LE SEYCHELLES?
Il generale inglese Charles Gordon identificò infine le caratteristiche del paradiso biblico con quelle dell’isola di Praslin, la maggiore delle Seychelles: abbondanza di serpenti, pianta del bene del male (l’albero del pane) nonché clima e paesaggio paradisiaci. Certamente si sbagliava, ma siamo sinceri: chi oggi avrebbe il coraggio di dirlo ai beati turisti che lì si godono il sole?
Roberto Beretta
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”. E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“Per la nostra mentalità moderna, l’unico vero paradiso, per usare le parole di Proust, è sempre quello che abbiamo perduto. I Kabakov invece negano questa visione pessimistica, anche se non parlano di un paradiso celeste che ci aspetta alla fine dei tempi. Quando alzano lo sguardo verso il soffitto per superare il pessimismo di chi immagina paradisi solo remoti e inaccessibili e scoraggiare la pericolosa idolatria di chi insegue paradisi artificiali, invitandoci a vedere il cielo in una stanza, i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali. Anche per loro il paradiso perduto porta sempre con sé la promessa di un paradiso ritrovato, e anche per loro questo paradiso è accessibile in qualunque momento. Basta soltanto prendere una scala, e salirne i gradini. Qui e ora” (p. 314).
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
“L’interesse dei teologi e dei filosofi naturali per la geografia era condiviso da Dante Alighieri, che aveva una grande varietà di interessi e che nella sua Commedia (c. 1305-20) raccontava, come è noto, la sua esperienza attraverso i tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il celebre poema era un’opera letteraria che esprimeva la conoscenza geografica e cosmografica del tempo (...) Per Dante la geografia era sempre subordinata alla poesia. Nel canto XXVI dell’Inferno, il poeta si riferisce al “folle volo” di Ulisse. La morale della storia del marinaio ed eroe greco che oltrepassò le colonne d’Ercole e che da lontano riuscì a gettare solo uno sguardo verso la montagna del paradiso, prima di vedersi sbarrata la strada da una tremenda tempesta, era che l’uomo non poteva penetrare, solo con le sue forze e senza il sostegno della rivelazione divina, il mistero del paradiso terrestre” (p.153).
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia dei bei leoni fulvi senza desideri carnali - ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor”.
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
Il sommo poeta e le sue opere
Sono in preparazione otto tomi Un corpus complesso e definitivo
Alighieri pensava alla grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza e della felicità
di Giulio Ferroni (l’Unità, 12.12.2013)
CENTENARI E RICORRENZE DI VARIO GENERE PORTANO ALLA RIBALTA SITUAZIONI DEL PASSATO, capolavori delle arti e della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nellombra: al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi, in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi, concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari, visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il «padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte (2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, che raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi collaterali a quelli danteschi.
Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo del VII (Fiore e Detti d’amore, opere di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero (pp. CLII-594, €.49,00).
PROSA MEDIEVALE
Tra le opere di Dante la Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna.
Questa edizione collega a un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un orizzonte tutto «medievale», la Monarchia ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani: in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico, questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente, che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il Paradiso.
All’ultimo canto del Paradiso, come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica ora un piccolo prezioso libretto, Dante al cospetto di Dio (Salerno editrice,2013,pp.92,€.7.90), che conduce il lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo, mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista “universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.
di Italo Mancini (Avvenire, 13 dicembre 2013)
Fede, come dovrebbe essere intesa secondo la mia ricerca, deve realizzare nella sua definizione un senso teologico forte, tale da liberarla, quasi surrealisticamente, dalle catture antropocentriche. Il punto di riferimento della distinzione è dunque il mondo del soggetto, mentre il punto di riferimento della comprensione è dato dall’oggetto, o meglio, per usare l’espressione di Hegel, dall’«oggetto immenso». Fede pertanto è qui intesa come il mondo dell’oggetto teologicamente immenso, totalmente imprevedibile per l’essere e per il fare dell’uomo. Il senso della fede nasce così dalla differenza, anzi da una infinita differenza qualitativa con ogni forma di essere, avere, sperimentare mondani da parte dell’uomo.
La teologia classica conosce bene questa figura quando distingue tra fides quae creditur, ossia la fede come oggetto della confessione di fede, e fides qua creditur, ossia la fede come confessione dell’oggetto dogmatico. Questo è l’atto di fede; quello è la norma, l’oggetto, il campo della fede, come quando si dice di uno che è morto per la fede. La fede grande è questa, e la possiamo esprimere con il Credo maiuscolo, quello che si recita per professare la fede, mentre per il nostro atto di fede non possiamo fare uso che del credo con la minuscola.
Peccato che la lingua italiana non abbia due parole diverse per indicare valori totalmente differenti; se così fosse, non sarebbe tanto costante la tentazione di fare coincidere la fede con il nostro modo di credere, invece che con il dono di Dio, munificamente insequestrabile, e soprattutto si potrebbe notare la totale subordinazione dell’atto nostro all’apriori divino, che in questo campo è, deve essere, sovranamente all’origine come primum ontologico, logico, epistemologico e normativo.
Q uanto sia corroborante e decisiva per le nostre impostazioni successive questa distinzione e l’assoluta primogenitura che in essa abbiamo stabilita può essere indicato attraverso due fenomeni teologici, che indicherò in modo sintetico.
Il primo, svoltosi nel decennio successivo alla prima guerra mondiale e nella compagine della confessione protestante, ha preso il nome di teologia «dialettica», ha avuto in Karl Barth la sua figura vistosamente egemone, e nella dichiarazione della tutt’alterità del mondo teologico e della sovrana autofondatività e autosufficienza della sua epistème, ossia del suo im-porsi veritativo e pratico, ha avuto quel recupero cui non si torna senza un rinnovato senso di gioia e di liberazione in rapporto ai prodotti dell’orgogliosa, anche quando è fatta con le migliori intenzioni, cattura umana, bramosa fino all’odio teologico in questi contesti come mai altrove, visto che qui si tratta di ciò che è decisivo.
Il secondo fenomeno, svoltosi più recentemente, e non senza connessione con il primo, stavolta nel contesto cattolico, e pertanto non è più soltanto un fenomeno teologico, ma soprattutto un fenomeno ecclesiale (non è teologia delle personalità, ma della comunità: questa potrebbe essere una delle più vistose forme di differenziazione tra la teologia protestante e quella cattolica), è legato alla intenzione giovannea di un concilio ecumenico che presentasse di nuovo al mondo il messaggio cristiano nella sua genuina essenza evangelica, con un aggiornamento che non fosse altro che la proiezione in avanti permessa dal recupero antico e originario, sì che giovani legami fossero stretti non in forza di espedienti mondani e culturali, ma in forza dell’impeto nativo e della risorsa specificamente teologica.
Quanto sia corroborante e decisivo anche per la prassi privata e pubblica del credente questo recupero del senso oggettivo e fondante in senso radicale della prassi può essere detto con queste tre osservazioni.
P rimo. L’attuale fase culturale è caratterizzata dalla crescente egemonia del pensiero radicale... Ora, quale risposta migliore può dare il cristiano se non quella di proporre il suo progetto puro, radicalmente evangelico, sciolto da abbracci quasi sempre soffocanti con le culture dominanti?
S econdo. Quando, nel genuino rispetto per l’ordine degli esseri e dei valori, i cristiani porranno a criterio del loro operare non la salvaguardia di pur validi interessi soggettivi e il puntellamento dal basso della signoria di Dio, ma il riconoscimento del supremo interesse dell’oggetto e della sua autonoma volontà di irraggiare e fermentare dall’alto il libero mondo degli uomini, quale capovolgimento di criteri e di interessi si creerebbe in questo modo di considerare le cose, dove quello che più preme non è il tenersi sempre più saldo della istituzione, che va salvaguardata costi quel che costi, ma il dono di Dio da elargire a tutti con trepida testimonianza, sempre più angosciati di giudicare la propria fedeltà al mondo del Signore che non di condannare fanaticamente il comportamento degli altri; e lungi dal fare dell’errore altrui un motivo ideologico per la separazione, ci si batte insieme il petto per non essere in grado di creare una società che eviti questi processi di morte, che sia capace di salvare Moro, e di procurare a tutti gli uomini il soddisfacimento dei bisogni elementari, come il diritto al cibo, all’abitazione? Quando si pensa tutto nella luce di Dio, tutto è messo in crisi, come tutto viene considerato degno di perdono.
Nell’autobiografia del prete Avvakum, che è considerato un testo fondamentale della letteratura russa delle origini, ed è, insieme, da ritenersi il manifesto di quei vecchicredenti che tanto filo da torcere hanno dato alla Chiesa ortodossa, Avvakum espone la sua visione del mondo cristiano come un immenso cerchio; chi vi cammina dentro in movimento verso il centro, non solo si avvicina a Dio, Signore di quel centro, ma, identicamente, si avvicina ai fratelli, perché verso il centro tutti i raggi si fanno più prossimi e vicini.
T erzo. Una volta che si sia riconosciuto e accettato, per rispetto della storia, che non è un ripostiglio di rifiuti ma un provvidenziale srotolarsi dell’essere, che sono irreversibilmente entrate in crisi forme peraltro importanti nel modo di fare sangue delle vene e delle arterie della terra il lievito cristiano, e penso al tema del partito politico dei cattolici, che la complessità della realtà storica e una più vigile coscienza dell’essere cristiano hanno quanto meno giudicato insufficienti per esprimere un pur legittimo travaglio, quello che irosamente Lutero rimproverava a Thomas Müntzer, che invece coglieva nel segno, e cioè di «rendere carnale la libertà di Cristo», una volta - dico - che si è riconosciuto vero tutto questo, quale gesto più politicamente produttivo può compiere il cristiano di quello che consiste nel testimoniare il puro evangelo, il dono della grazia, la dignità di tutti gli uomini, una riserva non solo critica, ma pure escatologica, di fronte al già fatto, di cui non ci si sente mai paghi, e in vista di un non-ancora, o di quella patria, come dice Ernst Bloch, che l’uomo ha intravisto fin dai sogni dell’infanzia e che non ha ancora posseduto?
IL PROGRESSO DEI POPOLI E LA REGRESSIONE DELLA CHIESA - LA FRATERNITA’ DI FRANCESCO NON E’ BUONISMO --- IL PADRE SUO E’ ANCORA UN PADRE MENTITORE ("Deus caritas est"), CHE "INDUCE IN TENTAZIONE"! :
La fraternità di Francesco non è buonismo
di Maria Galluzzo (Europa, 13 dicembre 2013)
Farà sobbalzare più di un grande della Terra e gli ideologi del turbocapitalismo il primo messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace. E forse sarà altrettanto urticante come lo fu quarantasette anni fa la storica Populorum progressio di Paolo VI, che all’epoca alcuni commentatori etichettarono come «enciclica comunista» o irrisero come « Populorum progressio, Ecclesiae regressio ». Uno dei documenti manifestamente più “politici” della Chiesa, istituiti proprio da papa Montini nel 1967 per consegnare alle nazioni e ai popoli all’inizio di ogni nuovo anno una riflessione sui temi della pace, con papa Francesco rigenera un incredibile senso di continuità del magistero ma anche di come sono andate le cose nel mondo. Due papi, con storia, linguaggio e temperamento così diversi, a distanza di quasi cinquant’anni, ci richiamano sullo stesso tema: perché essere fratelli?
Perché è necessario riscoprire la fraternità? Paolo VI proprio all’inizio della Populorum Progressio parla dei suoi due viaggi in America Latina (1960) e in Africa (1962), intrapresi prima di diventare papa, e spiega che l’aver toccato con mano i «laceranti problemi che attanagliano continenti pieni di vita e di speranza» gli ha fatto rafforzare l’idea che «i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» e che lo «sviluppo» era il «nuovo nome della pace». Allora, appunto, il mondo era diviso in due blocchi, c’erano i muri, anche tra Nord e Sud, e chi stava sopra aveva molte certezze. La ricetta di Paolo VI rimase inascoltata. E si è visto dove siamo arrivati. Oggi un pontefice che viene da un paese dove c’è povertà e fame ha di fronte un mondo senza frontiere e con un Nord che per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ha paura dell’indigenza: la consapevolezza della «condivisione di un comune destino» è «palpabile».
Nel suo messaggio “Fraternità, fondamento e via per la pace” papa Bergoglio ripercorre molti temi dell’enciclica di papa Montini, li attualizza, li carica della sua cifra e della sua forza comunicativa. In una decina di pagine condensa tutto il suo magistero. Partendo dalla vicenda biblica di Caino e Abele, dal pensiero dei suoi predecessori e dalla «sorgente» di ogni fraternità che è la famiglia, si concentra su poveri, pace e creato letti nella chiave della fraternità.
E fraternità non è superficiale buonismo, ma un ragionare su come stanno le cose e su quale direzione scegliere. Due capitoli del messaggio sono infatti dedicati all’economia con l’indicazione di rimedi contro la povertà, dalla lotta alla corruzione alle politiche sociali, dagli stili di vita ai modelli economici. Un altro capitolo suggerisce come spegnere con l’arma della fraternità le guerre di ogni tipo. Potenti le parole di papa Francesco quando si sofferma su corruzione e crimine organizzato come forze che avversano la fraternità. Al riguardo parla di mafie, traffico di esseri umani, flussi illeciti di denaro legato alla speculazione finanziaria, droga, prostituzione, inquinamento ambientale. Ma parla anche di diritti, come nel caso delle «condizioni inumane» di tante carceri.
Tutto si gioca sull’equilibrio fra libertà e giustizia: «La fraternità - scrive papa Bergoglio - genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune». E una comunità politica responsabile e trasparente deve favorire questo metodo, anche in campo economico, evitando però, sottolinea il papa, che il «necessario realismo» si riduca a un «tecnicismo privo di idealità».
Il passaggio di testimone tra due pontefici così lontani e così vicini si traduce in una sorta di ultimo avviso ai naviganti: reagite alla «globalizzazione dell’indifferenza», alla «cultura dello scarto», all’egoismo, all’odio. Ma attenti, la fraternità non è «automatica» e dunque sforzatevi «ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle», è l’unica via della pace e del superamento della grande crisi.