INTERVISTA.
«Il cristianesimo è l’unico vero antidoto alla crescita del fanatismo, anche religioso»: parla il grande filosofo francese
Girard: ma Dio non è violento
Dice l’antropologo: «I capri espiatori sono finiti: o scegliamo la non violenza oppure la guerra nucleare, il terrorismo, i disastri ambientali generati dall’uomo finiranno per distruggerci»
DA PARIGI FRANÇOIS D’ALANÇON *
I «capri espiatori» sono finiti. La violenza non ha più scusanti. O si sceglierà la nonviolenza, oppure la guerra nucleare, il terrorismo, i disastri generati dall’uomo distruggeranno il mondo. Non ha mezzi termini René Girard, 85 anni, l’intellettuale franco-americano (ha insegnato e vive a Stanford) reso famoso dai suoi studi sulla violenza «religiosa» e dalla teoria del capro espiatorio, secondo cui la rivelazione evangelica manifesta agli uomini una verità radicalmente alternativa sulla violenza.
Professor Girard, che senso dà al comandamento «Non uccidere»?
«Le religioni arcaiche si fondavano sull’appello all’omicidio e ai sacrifici rituali per risolvere il problema della violenza ristabilendo l’unità della comunità contro una vittima. È ciò che ho chiamato il fenomeno del capro espiatorio. Quando l’omicidio riesce, la vittima acquisisce un considerevole prestigio, i capri espiatori vengono divinizzati a causa della loro virtù riconciliatrice. Le religioni arcaiche sono fondate sull’illusione che quei capri espiatori siano dei, perché stabiliscono una certa pace tra gli uomini. È questa pace che si rinnova immolando vittime umane o animali deliberatamente scelti a tale scopo. Il comandamento della Bibbia rompe categoricamente con questa pratica. Il cristianesimo ci insegna che essa è un’illusione, un trucco che usiamo con noi stessi. Tutte le grandi scene della Bibbia vanno nel senso dell’abolizione o della diminuzione della violenza contro l’uomo, sul modello del mancato sacrificio di Isacco nell’Antico Testamento, sostituito all’ultimo momento da un montone. Nella passione di Cristo è esattamente l’inverso, l’assassinio religioso è per la prima volta categoricamente rifiutato. Cristo si offre come vittima per rivelare la verità agli uomini. Invece di sacrificare altri - l’atteggiamento normale degli uomini -, Cristo si offre come vittima per rivelarsi agli uomini così com’è, cioè completamente estraneo alla violenza».
L’Antico Testamento e i Vangeli sono gli unici testi-base che condannano l’omicidio e la vendetta?
«Penso siano gli unici a condannare l’assassinio religioso. La condanna dell’omicidio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo non è un’invenzione dell’umanesimo occidentale, ma un’invenzione cristiana. L’umanesimo si è mostrato ancora più impotente del cristianesimo a metterla in pratica perché oggi siamo in un universo che rischia ad ogni istante di autodistruggersi».
Il mondo globalizzato moderno è pronto a intendere il messaggio cristiano di riconciliazione e di rinuncia alla violenza?
«Oggi la verità diventa più esplosiva, anche se pochissimi individui si convertono. La nostra civiltà è più creatrice e potente che mai, ma anche più fragile e più minacciata poiché non dispone più della protezione del religioso arcaico. In nome del desiderio di benessere e progresso, gli uomini producono i mezzi per autodistruggersi. Il nostro mondo è minacciato e del tutto impotente a prendere precauzioni per evitare i pericoli più immediati come il riscaldamento climatico, le manipolazioni genetiche o la proliferazione nucleare».
Il terrorismo islamico è una nuova tappa della crescita degli estremismi, un ritorno all’arcaico?
«La crescita degli estremismi si serve dell’islamismo. Il possesso dei mezzi di distruzione più perfezionati è un segno del ritorno all’arcaico. L’islam ha tentato di regolare la violenza attraverso la sua forte capacità di organizzazione; il mondo islamico non si identifica con lo scatenamento di una violenza a cui noi saremmo estranei. Tuttavia penso che il cristianesimo abbia una visione più profonda della violenza ».
Per rinunciare alla violenza, l’uomo deve rinunciare al desiderio?
«Il cristianesimo dice che l’uomo deve desiderare Dio. Oggi, gli individui intelligenti e ambiziosi sembrano rivolti all’accrescimento del potere e alla ripetizione degli errori del passato. I testi apocalittici dei Vangeli annunciano precisamente che gli uomini soccomberanno alla loro violenza. È la fine del mondo permessa attraverso gli uomini. Il paradosso è che l’umanità è più scettica che mai in un’epoca in cui sa di avere tutti i mezzi per distruggersi. Da parte loro, i cristiani interpretano spesso il cristianesimo come una semplice filosofia ottimista e, col pretesto di rassicurare, ne danno soltanto una versione edulcorata. Sarebbe meglio mettere in guardia le persone e risvegliare le coscienze addormentate, anziché negare i pericoli. Noi viviamo contemporaneamente nel migliore e nel peggiore dei mondi. I progressi dell’umanità sono reali. Le nostre leggi sono migliori e ci uccidiamo meno gli uni gli altri. Allo stesso tempo, non vogliamo vedere le nostre responsabilità nelle minacce e nelle possibilità di distruzione che pesano su di noi. I testi cristiani, in particolare i testi apocalittici, si adattano in maniera impressionante alla realtà attuale, ovvero una confusione tra i cataclismi generati dalla natura e i disastri causati dagli uomini, una confusione tra il naturale e l’artificiale. Nel ciclone che ha devastato New Orleans, non si poteva più distinguere la responsabilità della natura da quella degli uomini».
Non è troppo tardi per rimediare?
«Stiamo arrivando a un mondo in cui ci troveremo posti davanti all’alternativa cristiana, il regno di Dio o la distruzione totale, la riconciliazione o niente. Gli uomini cercano scappatoie per non vedere ciò che è loro imposto, per non essere pacifici, per non incontrare l’altro. Il cristianesimo è l’unica utopia che dica la verità su questa situazione. O gli uomini la realizzeranno rinunciando alla violenza, o si autodistruggeranno. Sarà la violenza assoluta oppure la pace».
(per gentile concessione del quotidiano francese «La Croix»)
* Avvenire, 30.08.2008
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
René Girard (Wikipedia)
CHIESA CATTOLICA. PENA DI MORTE NEL CATECHISMO E UN DIO SENZA AMORE ("CHARITAS") NEL CUORE!!!
Federico La Sala
STORIA, STORIOGRAFIA, E FILOSOFIA:
PONZIOPILATO, CHRISTINE DE PIZAN, E LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLA COSMOTEANDRIA TERRESTRE.
Alcune note in #memoria di #Franca Ongaro Basaglia. *
A) LA DIGNITÀ DELL’UOMO: «ECCE HOMO». PONZIO PILATO «disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. ««ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος - idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
B) UNA QUESTIONE DI #LANA "CAPRINA" (NON DI "#AGNELLO", NON DI "#ARIETE"). ALLA LUCE DELL’ATTENZIONE ALLE PAROLE DI PONZIO PILATO, si comprende meglio anche il significato delle parole di CHRISTINE DE PIZAN, l’autrice della “Città delle dame”: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “#metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “#metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “#HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, Dalla parte del torto, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
C) MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA: "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia, #Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi editore, 1978, p. 89).
N. B. - RENE’ GIRARD , L’#AGNELLO DI #DIO, E L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (S. #FREUD, 1899): la"Menzogna romantica e verità romanzesca" (1961), il "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (1978), e "Il capro espiatorio" ( "Le bouc émissaire", 1982).
Parola di Girard: "Qualche lettore potrà obiettare che il Nuovo Testamento non ricorre mai all’espressione «capro espiatorio» per indicare Gesù come la vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva; questo è vero, ma ciò avviene solo perché le Scritture cristiane dispongono di un’espressione equivalente, e anzi superiore a «capro espiatorio», vale a dire #agnello di #Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde meglio all’idea della vittima innocente ingiustamente sacrificata" (cfr. René Girard, "Vedo cadere Satana come la folgore". Adelphi, Milano 2001, p. 203).
Girard accoglie la tradizionale interpretazione del messaggio evangelico e non tiene conto né di Marx, né di Nietzsche, né di Freud. Sulla lunga durata della tradizione #critica dimentica quanto ha scritto Freud nel #Disagiodellaciviltà (1929) sulla #fondazione del cattolicesimo da parte di san Paolo e, infine, fa dell’agnello un bel #caproespiatorio!
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UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA: LA PRIMA "CENA" DI "CAINO" (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE "ABELE") E L’INIZIO DELLA "BUONA-CARESTIA"("EU-CARESTIA")! *
NELL’OSSERVARE "L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie" (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE "è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia" (Riccardo Viganò, L’Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie, Fondazione Terra d’Otranto, 07.06,2020), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa "cena"(vedere la figura: "Portata centrale, saliere e frutti", cit.) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della "COMMEDIA", della "DIVINA COMMEDIA", e della sua "MONARCHIA"!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso "sonno dogmatico", mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, "Ubi maior minor cessat"(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
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L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA” . Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre ?”: http://www.leparoleelecose.it/?p=37917) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA” :
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632), E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “Note per una riflessione storiografica”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Necessità di “pensare un altro Abramo”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269 ), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1612), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio!
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
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AUT AUT - IL SAGGIATORE (uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 - ripresa parziale).
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”. BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
René Girard: la voce inascoltata della realtà
di Pierpaolo Antonello (Doppiozero, 15 Novembre 2015)
È sempre difficile ricostruire il profilo intellettuale di un pensatore. In modo particolare se si tratta di qualcuno che come René Girard ha seguito un percorso poco convenzionale, improntato a una libertà esistenziale e di riflessione non comuni, in bilico fra due continenti e fra diversi campi di discussione disciplinare, senza mai tentare di aderire a un profilo accademico propriamente definibile.
Nonostante i tributi che la stampa internazionale gli sta riservando in questi giorni, dopo la sua morte avvenuta a Stanford lo scorso 4 novembre, all’età di 91 anni, Girard è stato per lungo tempo un pensatore “inattuale”. E se in Italia la sua ricezione è stata quanto mai ampia e pronta, quasi più che in Francia, nel contesto globale, e soprattutto nel mondo anglosassone, Girard è rimasto un pensatore “periferico”, conosciuto soprattutto all’interno dei dipartimenti di letteratura, e con pochissima visibilità mediatica. Una delle ragioni è che Girard non è mai stato vittima delle mode intellettuali del momento, anzi ne ha sempre preso le distanze come forma profilattica del pensiero (in un’intervista con Daniel Lance, sottolineava che se la teoria mimetica diventasse di moda sarebbe la sua fine, perché “la moda non dura, la moda è la falsa intelligenza”).
L’unico istante di adiacenza con le tendenze teoriche più avanzate della sua epoca (l’organizzazione del simposio internazionale The Languages of Criticism and the Sciences of Man del 1966, evento che ha introdotto negli Stati Uniti il post-strutturalismo) ha prodotto di fatto il libro meno omologo e più sorprendente rispetto al clima culturale coevo: La violenza e il sacro, dove Girard ritornava alle origini del mito e della tragedia per farne una teoria sulla violenza sistemica dell’uomo e sulle sue forme di rappresentazione e ritualizzazione.
Non crediamo che la vita di una persona possa essere letta interamente alla luce delle opere che ha costruito o delle idee che ha prodotto, creando ex-post una sorta di self-fulfilling prophecy, di profezia autorealizzante. La casualità degli eventi ha sempre una riserva di creatività che sfugge a qualsiasi piano. Nondimeno ci sono tracce di una disposizione personale e intellettuale che hanno consentito la maturazione di un certo tipo di pensiero.
Figlio di una famiglia borghese e intellettuale del sud della Francia (il padre era direttore della biblioteca e del museo di Avignone e conservatore del Castello dei Papi), pienamente adattato alla sua vita provinciale, ha sempre mostrato una certa refrattarietà per i centri di prestigio culturale, mal sopportando il clima parigino durante gli anni dell’Università (del resto vissuto in una fase critica come quella della Guerra), disertando poi l’Europa per appartarsi in una serie di college americani (Indiana, Bryn Mawr, Buffalo, Johns Hopkins, e infine Stanford) che gli hanno garantito non solo una certa autonomia intellettuale ma anche uno sguardo prospettico rispetto alle discussione teoriche e filosofiche che animavano il dibattito europeo.
Come ha detto Michel Serres nella sua prolusione per l’insediamento di Girard all’Accademia di Francia nel dicembre del 2005, il loro pensiero è stato segnato in profondità da “un’adolescenza di guerra, da una giovinezza di Guerra”. La decisione di partire per gli Stati Uniti è stata dettata dal bagaglio di morte che Girard si era lasciato alle spalle in Europa: “Le emozioni profonde proprie alla nostra generazione ci restituirono un corpo di violenza e di morte. Le vostre pagine emanano dalle vostre ossa, le vostre idee dal vostro sangue; in lei, la teoria sgorga dalla carne” (Il tragico e la pietà, p. 59). L’immaginario apocalittico evocato dai suoi ultimi libri, soprattutto nel suo ultimo Portando Clausewitz all’estremo, è debitore certamente di un ripensamento dell’escatologia cristiana, ma anche del ricordo del panorama di morte e distruzione che l’Europa del Novecento è stata in grado di produrre, e che sembra riaffacciarsi minacciosamente nel contesto globale odierno.
D’altro canto Girard decise di abbandonare immediatamente il suo primo lavoro negli Stati Uniti (presso la biblioteca delle Nazioni Unite a New York), per il solo fatto di avervi trovato un suo compagno di università, un chartistes. Questo bastò a fargli optare per un luogo più appartato come Bloomington, in Indiana, dove cominciò il suo dottorato in storia e le sue prime esperienze di insegnamento. La sua refrattarietà per lo snobismo elitario di certi circuiti e culti culturali come solo la Francia sa produrli, assieme alle sbornie mimetiche, imitative, tipiche delle mode culturali, pronte a metter in quarantena autori per seguire la fad del momento, ha facilitato questa presa di posizione esistenziale e prospettica.
Girard è troppo consapevole delle dinamiche della mimesi negativa, troppo dentro testi rivelatori come quello di Stendhal, di Flaubert o di Proust, per non ammettere il suo legame e la sua dipendenza dal contesto culturale d’origine e per non capire le ragioni reattive del suo atteggiamento intellettuale. Malgrado il suo essersi posto spesso e volentieri controcorrente, è senza dubbio visibile l’appartenenza a una generazione intellettuale da cui Girard ha preso, trasformato e restituito, un pensiero che progressivamente si è strutturato in un sistema coerente (con risultati che comunque nemmeno Girard stesso ha trovato del tutto soddisfacenti). Come ha sottolineato Chris Fleming, “l’orientamento intellettuale del suo lavoro ha un debito marginale con le correnti principali del pensiero del Ventesimo secolo - marxismo, strutturalismo, fenomenologia, hegelianismo e freudianesimo - e tuttavia è stato sviluppato attraverso un coinvolgimento intenso e sostenuto con queste”.
Alla mitezza generale della persona ha sempre fatto da contraltare una certa vis polemica, una foga reattiva che ha messo sulla graticola autori capitali come Freud, Lévi-Strauss, Nietzsche o Deleuze (si pensi agli ultimi due capitoli di La violenza e il sacro, o a quella recensione feroce a l’Antiedipo di Deleuze e Guattari che gli costò una sorta di scomunica da parte di Foucault). A questo si è unita una “cocciutaggine” ossessiva nel difendere i principi di base della sua intuizione: l’imitazione come architrave cognitiva e sistemica dell’essere umano in quanto animale sociale; e il meccanismo dell’espulsione espiatoria come principio di coesione interna rispetto a convulsioni e disordini sociali e politici. Questa fedeltà non era diretta alla difesa strenua di una “sua” teoria, ma alla individuazione di una verità storica e esistenziale che continuava ostinatamente a non venire adeguatamente considerata (“Il capro espiatorio non è una teoria, è un fenomeno oggettivo nel senso proprio e tradizionale del termine”).
La sua “inattualità” si è rivelata profondamente lungimirante e preveggente, perché ostinatamente certa di avere prodotto un discorso che riguardava la verità dell’uomo e della sua storia. Per questo si è sempre distanziato energicamente da tutte quelle posizioni filosofiche che tendessero ad annullare un rapporto forte e significativo con la realtà (“Il rifiuto della realtà nella filosofia d’oggi è la cosa più stupefacente che si possa immaginare”).
Per più di un ventennio il paradigma postmoderno ha potuto svolgere tutto il suo corso senza intaccare minimamente le posizioni di Girard che, anzi, nel mezzo di questa temperie culturale, si è isolato in una assoluta fedeltà alla sua lettura mimetica dei testi letterari e del testo biblico (Il capro espiatorio, L’antica via degli empi, Shakespeare: Il teatro dell’invidia, Vedo Satana cadere come la folgore): questa fedeltà ne ha sancito, in ambito teorico e critico, una sorta di compartimentalizzazione, o di dimenticanza, dopo il relativo successo dei primi libri, che è stata rivista e rimossa dopo gli avvenimenti del 11 settembre, concedendo il giusto riconoscimento a un pensatore che non ha fatto che parlare di due temi che la storia sta riportando prepotentemente alla ribalta delle cronache e delle discussioni teoriche contemporanee: la violenza e il religioso.
Girard ha commesso due “peccati capitali” all’interno dell’ortodossia discorsiva filosofica e intellettuale europea del secondo Novecento: credere nella scienza e credere nel cristianesimo, dove inoltre la conciliazione di queste due ‘fedi’ ha lasciato perplessi anche i suoi interlocutori filosofici più simpatetici (Castoriadis e Vattimo due casi). Il fatto di proporre un’ipotesi sui processi di ominizzazione della specie umana che prendesse spunto da un approccio evolutivo e darwiniano è sembrata a molti o troppo ambiziosa o incongruente con la discussione epistemologica del secondo Novecento, pronta a discreditare la scienza come “mitema”. Da una parte non c’è in Girard un scientismo ingenuo. È assolutamente consapevole dei contenuti ideologici propri della ricerca scientifica.
L’accantonamento per quasi un secolo di un argomento centrale come l’imitazione, sostenuto dalla convinzione romantica dell’assoluta autonomia individuale dell’uomo rispetto a desideri e scelte, è sempre stato un chiaro segno dei pregiudizi interni all’operare scientifico (o del suo rimosso, come scrive nel libro su Shakespeare: “L’importanza dei fenomeni psichici [è] proporzionale alla resistenza che oppongono alla loro rivelazione”). Questo del resto “è il modo tipico in cui la ricerca moderna procede. Si sposta da un pregiudizio all’altro, ma li distrugge man mano che la ricerca stessa procede”. Da questo punto di vista affidarsi alla scienza rimane un gesto di umiltà metodologica rispetto alla tendenza auto-referenziale del linguaggio filosofico e delle sue pratica discorsive, e un desiderio di affidarsi a strumenti che garantiscano meglio di altri un ancoraggio a un principio evidenziale di realtà. E non è un caso se il pensiero di Girard venga ora avvicinato e commentato non solo da filosofi o teologi, ma da psicologi come Andrew Meltzoff o Scott Garrels, da neuroscienziati come Vittorio Gallese, da antropologi come William Durham, Mel Konner o Douglas Frye, da archeologi come Ian Hoddle, da scienziati politici come Richard Sakwa o Elisabetta Brighi. Anche per questo, Girard trattava la teoria mimetica come un fatto esterno alla propria concettualizzazione, non considerandola come patrimonio personale ma parte di un dibattito, di una discussione collettiva. La sicurezza che dimostrava nel sostenere le proprie tesi era tale che era in grado di accettare qualsiasi sollecitazione, qualsiasi critica, qualsiasi appunto, perché sapeva che questo alla fine avrebbe contribuito a chiarire aspetti della teoria non ancora tenuti in dovuta considerazione, perché l’ipotesi mimetica ha uno spettro di applicabilità storico-culturale e disciplinare così ampio e pervasivo che Girard ha sempre saputo di non essere in grado di sostenerla da solo.
Per quanto riguarda il Cristianesimo, il discorso è analogo: la fedeltà a un Dio che si incarna, e che attraverso la sua morte pone in luce “le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, ancora una volta testimonia il desiderio di ancorarsi a una dimensione realistica e demistificatoria nel confronto con l’evidenza storica e fenomenologica. “Sono gli stessi Vangeli a cumulare i valori della rivelazione e della scienza”, sostiene Girard. E anche per questo, pur parlando di religione, non si pone mai sul piano astratto della teologia metafisica, ma di una antropologia cristiana che trova nel testo evangelico la sua ispirazione più autentica in quanto incarnata: riprendendo le parole di Simone Weil, Girard ricorda come il Vangelo sia innanzitutto una teoria dell’uomo, un’antropologia più che una teoria su Dio, una teologia. Anche per questo il Cristianesimo, in quanto religione storica e antropologicamente fondata, è alla base di quell’“istinto” realista che Auerbach vedeva informare la cultura letteraria e testuale occidentale. Quell’affidamento a una realtà storica tangibilmente, creaturalmente, dolorosa che percorre la storia della letteratura, della pittura, del cinema occidentali.
È inoltre problematico il tentativo che si è fatto in campo critico di isolare una parte “accettabile” delle ricerche di Girard - quelle del primo periodo apparentemente estranee a qualsiasi intento “apologetico” - da tutte quelle degli anni ’80 e ’90, da Il capro espiatorio in avanti, poiché marcatamente viziate dall’aperta confessione di fede, e dal primato dato da Girard al cristianesimo nello sviluppo anti-vittimario della cultura occidentale. Se è vero che elementi della teoria mimetica hanno un campo di applicabilità molto ampio, in discipline molto diverse come l’economia o la psicologia, proprio per la loro formulazione del tutto immanente, in realtà bisogna rilevare la circostanza che Girard è riuscito a dire tutto quello che ha detto grazie alla potenza interpretativa del modello scelto: il cristianesimo e le sue declinazioni evangeliche sono state usate come un potentissimo strumento ermeneutico e scientifico. In questo senso l’equazione appare chiara: se il tipo di conoscenza offerta dalla Bibbia è totalmente irrilevante, lo è anche il pensiero di Girard nella sua interezza.
Da questo punto di vista, preoccupazione intellettuale e preoccupazione morale sono state sempre strettamente legate per Girard. Il titolo del suo primo libro, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), è in questo senso eloquente: in quella dicotomia esplicita fra menzogna e verità, fortemente connotata in senso moralistico, alla menzogna dell’individualismo romantico, Girard contrapponeva la verità espressa dai romanzi moderni riguardo alle varie schiavitù interindividuali a cui l’auto-divinizzazione dell’uomo contemporaneo si era consegnato. Questa polarità (verità/menzogna) verrà poi ritradotta nei lavori successivi, da La violenza e il sacro in poi.
La tensione rivelatrice della sua focalizzazione ermeneutica si spostava sul binomio mito/realtà, due termini più consoni ad abbracciare il principio epistemico di base della prospettiva girardiana (per cui anche nel caso del primo libro la dialettica insisterebbe fra la trasfigurazione mitica dell’oggetto del desiderio, soggetto alle pressioni sussultorie dei vari modelli/rivali che ci circondano, e il realismo del romanzo, capace di svelare il carattere mitico del desiderio metafisico).
Il passo successivo del percorso teorico girardiano è di fatto uno delle più importanti rivoluzioni concettuali dell’ultimo secolo. Sostenere la referenzialità del mito è quanto di più scandaloso possibile nel clima intellettuale e accademico contemporaneo. Girard ha inteso de-mitificare la mitologia, evitando di renderla l’arcadia poetica del mondo (con buona pace di Roberto Calasso), e riconsiderandola invece proprio attraverso una categoria che la modernità, e il cristianesimo, ci ha aiutato a costruire: il realismo. Pensare ai miti come trasfigurazione di eventi reali, come deposito immaginifico di un momento fondativo della comunità primitiva marcato da forme di vittimizzazione collettiva, di espulsioni reali e simboliche, forma di risoluzione economica di eventi certamente traumatici.
Proprio negli anni in cui l’antropologia moderna entrava nella sua fase di nihilismo più spinto, Girard si sbarazzava di ogni esitazione “politicamente corretta” e di ogni preconcetto rousseuiano, facendo, delle culture “primitive” o “mitiche”, i nostri interlocutori diretti, perché hanno affrontato come noi, e in modo certamente più traumatico e immediato, il problema della violenza, della discriminazione sociale e delle forme di linciaggio collettivo.
In testi fondamentali come Il capro espiatorio, la cultura ‘mitica’ viene prepotentemente restituita alla nostra storia come un vagito di un pensiero sociale e antropologico sulla ricomposizione del legame comunitario in momenti di crisi; sulla costruzione del sacro come forma di liberazione provvisoria del male - a volte esogeno, spesso del tutto endogeno - che periodicamente infesta la comunità, e che richiede un intervento farmacologico: la proiezione finzionale di una credenza condivisa collettivamente sulla colpevolezza di uno o più individui (spesso designati da segni differenziali) che vengono eliminati, espulsi o uccisi, perché l’intera comunità ricostituisca una sua salute sociale, rinsaldando i rapporti reciproci.
Il capro espiatorio in questo senso decostruisce qualsiasi ideologia o mitologia fondativa. Ogni racconto fondativo, anche in epoca storica, è in qualche misura di carattere mitico. Ogni storia delle origini vive su alcuni miti depurati delle loro negatività. Il mito della rivoluzione francese, come il mito della resistenza, dove le eventuali atrocità commesse passano in secondo piano o vengono giustificate all’interno del contesto storico e rinarrate dai vincitori (cioè dai nuovi persecutori). Tutta la storia moderna è fatta di atti fondativi la cui violenza viene edulcorata dalle ricostruzioni storiche ufficiali: scusata, giustificata, santificata in nome dell’organismo politico o sociale su cui viene costruita.
Che la logica sacrificale sia ancora operativa nella nostra contemporaneità è un fatto talmente visibile che non serve nemmeno discuterne. E l’escalation della conflittualità globale è lì a ricordarcelo. In questo tentativo di capirne la genesi e le possibili convulsioni, la lettura dei libri di René Girard certamente ci accompagnerà ancora per molto.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
1923-2015
René Girard esploratore del sacro
Si è spento lo studioso francese. Docente di letteratura, antropologo e filosofo, dimostrò il Vangelo smonta la logica del capro espiatorio. Sua la teoria del «desiderio mimetico».
di ALBERTO MELLONI (Corriere della Sera, 06.11.2015)
Comprendere «nello stesso momento, perché i credenti dapprima, e sul loro esempio i non credenti poi, sono sempre passati vicino al segreto, peraltro così semplice, di ogni mitologia»: è stata questa l’ambizione e l’esito della ricerca del francese René Girard, che si è spento a Stanford, negli Stati Uniti. Una ricerca che era impossibile (lo dimostra l’intervista autobiografica del 1994 con Michel Treguer) incasellare nei riquadri angusti delle discipline accademiche.
All’inizio della sua carriera Girard è un paleografo dalla solida base di medievista, costruita nella Parigi della Liberazione dove si laurea, lui avignonese classe 1923, con una tesi sulla vita privata del XV secolo. Negli Stati Uniti, dove trova cattedra e famiglia, è un docente di Letteratura francese, che spreme il testo in un modo che da cinquant’anni spinge filosofi, antropologi, psicoanalisti, teologi ad annettersi Girard o a ripudiarne le conclusioni costruite in un sistema complesso, al cui fondo sta la chiave del suo pensiero: cioè la scoperta del desiderio mimetico, che appare già in Menzogna romantica e verità romanzesca del 1961. Quel desiderio che porta a desiderare quel che l’altro desidera (per questo mimetico) e che - a differenza del desiderio «oggettuale» freudiano della libido, che ha bisogno di una filosofia della coscienza - genera un dinamismo triangolare fra oggetto del desiderio, l’altro desiderante e il soggetto desiderante.
Da questa ricerca iniziata con Dostoevskij arriva l’opera che ne fa un filosofo e un antropologo della religione: La violenza e il sacro del 1972 (Adelphi, 1980) elabora una teoria della genesi della religione. Nella mitologia e nella sua elaborazione filosofica e letteraria Girard ritrova l’atto iniziale di occultamento che «inganna la violenza»: il «sacro» che assorbe la violenza destinata fatalmente a nascere e la riversa su una entità non vendicabile e insieme in apparente continuità con coloro al posto dei quali viene sacrificato. Così il capro espiatorio placa e fonda la società in questa ombra religiosa che è «il sentimento che la collettività ispira ai suoi membri, ma proiettato fuori dalle coscienze che lo provano, e oggettivato».
La sfida alla antropologia e alla psicoanalisi (e dunque a Lévi Strauss e a Freud) implicita in questa opera capitale del Novecento prosegue nel testo forse più complesso e suggestivo di Girard, che è il dialogo-intervista con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort Sulle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, del 1978 (Adelphi 1983): una fitta disamina che apre al lungo corpo a corpo con il testo biblico, in una ricerca che non è «una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. È un’altra maniera di soddisfare quelle ambizioni».
Girard infatti scopre con una sua esegesi che la stratificazione ermeneutica si posa sul testo neotestamentario, in vista di una riconquista «vittimaria» del racconto: che invece, nella vicenda concreta del Gesù storico, neutralizza il meccanismo del capro espiatorio. La potenza teologica di questa intuizione non sarà colta fino in fondo (solo Il vitello d’oro e L’estasi del profeta di Pier Cesare Bori andarono in quella linea e oltre): ma assumendo la «propria» religione l’ebreo Gesù ne libera la forza demistificatoria e smaschera la pretesa cristiana di universalizzarne il messaggio riducendolo a «dieci comandamenti» che, in nome di una etica per tutti, esalta la «unanimità della violenza». Scoperta capitale, questa di Girard, anche per la storia: perché se la vittima diventa «Agnello di Dio» ed esce dalla sua passività regolatrice, l’uomo si vede riconsegnata la propria violenza, il religioso la propria immanenza e Dio la trascendenza sua. Gesù di Nazareth, la vittima «perfetta ed innocente» che sta dalla parte delle vittime e che come tale ingloba la fine ultima del tempo, consegna alla storia una «responsabilità» (per dirla con Emmanuel Lévinas).
In Portando Clausewitz all’estremo del 2007 (Adelphi, 2008), Girard osserva: «Il cristianesimo è la sola religione che abbia previsto il suo fallimento: questa prescienza è nata come apocalisse. Infatti è nei testi apocalittici che la parola di Dio è più energica, ripudiante quegli errori che sono interamente colpe umane che sono sempre meno inclini a riconoscere i meccanismi della loro violenza. Quanto più persistiamo nell’errore nostro, tanto più forte la voce di Dio emerge sulla devastazione. (...) Una volta nella nostra storia la verità sull’identità di tutti gli umani è stata pronunciata, e nessuno ha voluto udirla; invece ci siamo concentrati sempre più ossessivamente sulle nostre false differenze».
Le false differenze di cui, come spiega nella produzione degli ultimi anni, la violenza si ripresenta nella sua «forma di sacro corrotto»: l’immobilismo di quel «Satana» che è il nome comune di tutte le «escalation verso l’estremismo» deve essere sfidato alla radice o nel suo «inizio». Non con effusioni effimere fra «moderati», ma con l’intelligenza urticante che sa che «cercare conforto è sempre un modo di contribuire al peggio».
Le due cose da ricordare su René Girard
di Armando Massarenti (Il Sole-24Ore, Domenica, 8.11.15)
René Girard è morto nei giorni scorsi all’età di 91 anni. Le sue opere più importanti sono Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani), del 1961, e La violenza e il sacro (Adelphi), del 1972. Nella prima Girard teorizza il «contagio delle passioni» e il «desiderio mimetico», di cui il cosiddetto “bovarismo” è l’esempio più chiaro. La giovane Emma Bovary non sa che cos’è l’amore e impara a desiderare solo attraverso le eroine di cui legge. Allo stesso modo Don Chisciotte rinunciava a desiderare in proprio affidandosi interamente al modello della letteratura cavalleresca. Il «desiderio mimetico» è dunque un «desiderio triangolare», presuppone l’esistenza di un mediatore.
A partire da questo semplice schema Girard ha analizzato molte opere letterarie e svolto analisi assai sottili su concetti come risentimento, gelosia, invidia. L’unico modo di sottrarsi a questo modo falso di desiderare è la passione, indirizzata direttamente all’oggetto del proprio desiderio. La troviamo teorizzata nel saggio Dell’amore, di Stendhal, i cui romanzi comunque non sfuggono alla regola di Girard.
Ma se pure i grandi romanzieri non si sottraggono a quella legge inesorabile, possono avere il pregio di palesarne il meccanismo. La passione potrà realizzarsi dopo aver superato il meccanismo grazie alla consapevolezza del suo funzionamento. E i romanzieri, se vogliono che la loro opera sopravviva alla transitorietà delle mode divenendo dei classici, devono scoprire questa sorgente essenziale del conflitto umano.
Girard ci ha anche mostrato quanto essenziale sia, per il senso religioso, la nozione di vittima sacrificale, di «capro espiatorio». Come ha scritto ne Il sacrificio (Cortina), a lungo l’umanità ha consumato sacrifici umani. Aver pensato di sostituirli con animali, o di renderli del tutto simbolici, ha costituito un primo progresso per la religione e la civiltà.
Ma il salto più grande, sostiene Girard, l’ha fatto colui che autoimmolandosi, e dichiarandosi l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ha voluto smascherare per sempre il meccanismo che spinge gli uomini - anche nella vita quotidiana - a sacrificare di quando in quando una vittima, convogliando su di lei una serie di colpe che non ha.
La necessità di una vittima sacrificale è profondamente radicata nella psiche umana. Ma il progresso morale, religioso, civile, giuridico, consiste proprio nel saperla neutralizzare. Ce lo ha insegnato niente meno che il fondatore del cristianesimo. Che a non cogliere la centralità, e la carica rivoluzionaria, di questa idea siano spesso proprio i cristiani è stato uno dei crucci del pensatore francese, che avrebbe ben potuto riassumere il suo ideale di civiltà in un semplice slogan: «Mai più vittime innocenti!».
Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società
Antropologo e filosofo, accademico di Francia, ha insegnato negli Stati Uniti
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 6.11.2015)
Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece - nemo propheta in patria - una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française.
Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.
Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore - il modello - che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).
«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità.
Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres.
Addio René Girard, l’ultimo degli umanisti
È morto a 91 anni lo studioso che rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio
di Roberto Esposito (la Repubblica, 6.11.2015)
Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. S
i può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio.
Come fin dalla sua prima grande opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud - che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato - Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione.
Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti - naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo.
I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima.
Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” - è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) - si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile.
Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio.
Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.
Un diffidente che preferiva Don Chisciotte ai filosofi
di Roberto Calasso (la Repubblica, 06.11.2015)
Di René Girard si può dire che è stato l’ultimo dei grandi “ricci”, secondo la parola di Archiloco, su cui Isaiah Berlin ha intessuto una mirabile divagazione. Il “riccio”, a differenza della molteplice “volpe”, ha un’idea fondamentale, da cui trae un filo inesauribile di pensiero. Così Girard è stato capace di sviluppare un singolo pensiero - quello del “desiderio mimetico” - sino alle estreme conseguenze, coinvolgendo in successione alcuni grandi romanzieri dell’Ottocento, i Vangeli, Shakespeare, Clausewitz e toccando, fra l’uno e l’altro degli immani intervalli che separano questi continenti, una quantità di altri temi. Primo fra tutti quello che subito viene evocato dal suo nome: il capro espiatorio, su cui Girard ha scritto pagine che non si dimenticano.
Girard era un uomo roccioso, spigoloso, diffidente - con buone ragioni - sia della filosofia che dell’antropologia. Il vero terreno amato era per lui la letteratura, soprattutto quella dove l’intreccio è essenziale. Quindi il romanzo ottocentesco. Ma anche Shakespeare e Cervantes. Credo che Girard abbia detto, da qualche parte, che tutta la sua opera è nata da una copia del Don Chisciotte che leggeva da bambino.
Girard apparve sulla scena negli anni in cui fiorivano a Parigi, con eccessiva abbondanza, quelli che venivano definiti maîtres à penser. Fu un atto di alta saggezza, da parte sua, quello di fissare la sua base di vita negli Stati Uniti e non a Parigi. La sua fisiologia intellettuale lo rendeva piuttosto inadatto al clima ondivago degli ultimi decenni del secolo scorso. Così ebbe la fortuna di non essere mai veramente di moda.
Eppure la sua opera, se confrontata con quella di altri maîtres à penser, e petits maîtres à penser, che sono stati in voga negli stessi anni, ha la certezza di rimanere viva, perché Girard è uno di quei rari scrittori che, anche contrastandoli, si dovrebbe esser sempre felici di incontrare.
Addio René Girard, grande antropologo (il triangolo sì, lui l’aveva considerato)
di Luca Mastrantonio (Corriere della Sera, 5 novembre 2015)
Chi crede nella religione del romanzo, e del desiderio che nasce dall’incontro scontro con l’altro, da questa notte è un po’ più solo. Se ne è andato alla veneranda età di 91 anni l’”immortale” dell’Accademia di Francia René Girard, morto dopo una lunga malattia nella notte del 4 novembre 2015. Ne dà notizia sul suo sito l’università americana di Stanford, dove l’antropologo insegnava da 30 anni, venerato da studenti e colleghi, per i quali era inconfondibile quel volto leonino con i capelli bianchi e uno sguardo infossato che restava dolce sotto le ciglia folte corvine.
Dalla Francia agli Usa
Girard, nato ad Avignone, nel 1923, ha rappresentato una figura davvero singolare, di intellettuale francese in America, dove aveva diffuso la “peste” dello strutturalismo e, soprattutto, ideato una teoria, quella del “desiderio mimetico”, che ha rivoluzionato non solo la critica letteraria, ma l’antropologia, anticipando anche l’intuizione di successive scoperte scientifiche, come quella dei “neuroni a specchio”, degli italiani Vittorio Gallese, Giacomo Rizzolatti e di Andrew Meltzoff, che sono alla base del processo psicologico e sociale dell’empatia.
Il Desiderio mimetico
La teoria del “desiderio mimetico”, che compare nel libro Menzogna romantica e verità romanzesca, pubblicato nel 1961 (in Italia da Bompiani), rivela quello che, a posteriori, tutti ammettiamo di aver sperimentato, ma che Girard intuì dalla lettura di Proust, Dante, Dostoevskij, Shakespeare e altri grandi della letteratura: il desiderio non è un rapporto a due, tra il soggetto nella sua individualità compiuta e l’oggetto nella sua unicità seducente, bensì un rapporto a tre, un triangolo formato dal soggetto, dal modello e dall’oggetto. Il modello è il mediatore, che può essere un genitore, un professore, un mito personale, qualcuno che vogliamo imitare, qualcuno che possiede qualcosa che noi desideriamo perché ci sembra più completo di noi. Qualcuno che vogliamo essere attraverso quel desiderio che credevamo nostro e del tutto nostro non è.
Verità romanzesca e menzogna romantica
Questa dinamica svela la finzione, la menzogna appunto del titolo, del romanticismo e, più in generale, della modernità che vedeva il soggetto come un individuo libero, assoluto, autonomo. Qui appare hegelianamente piuttosto schiavo del suo desiderio che non è neanche suo, ma derivato. La verità romanzesca, invece, è quella dei grandi narratori che svelano la realtà del desiderio. Il romanzo è molto importante perché il mediatore può essere anche non reale, un modello di finzione, letterario: Paolo e Francesca, per esempio, che si innamorano leggendo il romanzo di Lancillotto.
Sacra violenza
Il mediatore spesso è un rivale. E qui c’è il rovescio della teoria di Girard, derivata da Freud distaccandosene, così come Girard si allontana anche da Lévi-Strauss: quella del capro espiatorio, come violenza sacralizzata che esorcizza la paura della violenza, tiene lontana quella esterna, fuori dalla comunità, e disinnesca quella interna: una violenza nata dalla rivalità con l’altro, dal voler desiderare quello che l’altro ha. Su questo si incentrano Il capro espiatorio (1967) La violenza e il sacro (1972). Il sacrificio è tipico delle civiltà antiche, arcaiche, come esorcismo della violenza: si uccide qualcuno di debole, remissivo, in un atto reso sacro. Così si placano i conflitti tra le persone e si fonda o rafforza il vincolo sociale. Il sacro è pura coesione.
Imitare il sacrificio
Il cristianesimo, che Girard abbraccia con fervore intellettuale, permette di superare questa violenza, perché manda in cortocircuito il meccanismo del capro espiatorio (in un certo senso svela la “menzogna” della violenza attraverso il racconto di Cristo e l’invito a imitarlo). Cristo si offre per volontà del padre come vittima benché manifestamente innocente: un Dio che non chiede il sacrificio di Isacco, figlio di Abramo, ma offre il suo, di figlio, come sacrificio, svelando la finzione: si sacrifica un innocente. Una epifania che ispira un mimetismo inverso e salvifico, perché non più condannato alla rivalità per ottenere il riconoscimento degli altri, e di noi stessi attraverso gli altri, ma per il superamento del conflitto. Come? Imitando Cristo.
Cristiano d’avanguardia
Chi mi attacca - diceva Girard - è contro la mia teoria perché è allo stesso tempo una teoria d’avanguardia e una teoria cristiana. Quelli d’avanguardia sono anti-cristiani e molti cristiani sono anti-avanguardia. Anche i cristiani sono stati molto diffidenti nei miei confronti.” Molte di queste contraddizioni esplodono con l’ultimo libro, Achever Clausewitz, aveva creato un putiferio in Francia, dove venne pubblicato nel 2007 (in Italia è uscito da Adelphi col titolo Portando Clausewitz all’estremo). Si tratta di un saggio che analizza i conflitti contemporanei partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Von Clausewiz. Negli ultimi anni, convinto che Islam e Occidente potessero uscire dalla violenta spirale di rivalità mimetica, Girard era diventato meno apocalittico. Rispetto a quando aveva sostenuto che “la storia è un test per l’umanità. E l’umanità sta fallendo quel test”.
Parigi
Morto a 91 anni il filosofo René Girard
di Daniele Zappalà (Avvenire, 4 novembre 2015)
«I Demoni di Dostoevskij. Poi, Alla ricerca del tempo perduto di Proust». Fu una risposta senza esitazioni, ma tanto più indimenticabile per la dolcezza di voce e di sguardo con cui René Girard la pronunciò, nel suo piccolo appartamento parigino a due passi dalla Tour Eiffel, davanti a un cronista che ci mise un bel po’ a decifrare come fosse possibile che un simile monumento delle scienze umane occidentali, al termine di un’intervista, potesse rispondere con tanta naturalezza a una domanda che avrebbe fatto ridere o al contrario indisposto tanti altri: «Perdoni la facezia. Ma quali romanzi porterebbe assolutamente su un’isola deserta?».
Dietro al grande studioso c’era un uomo di una rara generosità intellettuale, spesso testimoniata da quanti negli anni hanno potuto incontrare o “sentire” Girard. C’erano ancora imprevisti picchi, molto discreti, dietro il massiccio della fama accademica dell’antropologo scopritore della teoria del desiderio mimetico e del capro espiatorio, appena scomparso a 91 anni, dopo una lunga malattia.
Come intuivano i più stretti collaboratori di una vita, questi intimi picchi abitavano l’uomo in simbiosi con la fede di Girard, nato nel giorno di Natale del 1923 ad Avignone, la città del Palazzo dei papi. Con Menzogna romantica e verità romanzesca, uscito nel 1961 e da allora ristampato di continuo in tutto il mondo (per Bompiani in Italia), partì proprio dall’analisi dei più grandi romanzi occidentali la cavalcata di Girard in una nuova prateria vergine dell’antropologia filosofica, riassunta forse da una celebre massima del libro: «L’uomo desidera sempre secondo il desiderio dell’Altro».
Dalle iniziali letture girardiane dei capolavori di Stendhal, Cervantes, Flaubert, Proust e Dostoevskij, quella teoria si è poi diffusa come una sorta di bing bang teorico nei campi più svariati delle scienze umane, come mostra oggi l’estrema varietà dei temi toccati dai convegni dell’Arm, l’Associazione delle ricerche mimetiche, voluta in Francia dagli allievi e amici di Girard per offrire un pur minimo coordinamento, una sorta di mappatura, al rizoma intellettuale propagatosi lungo i decenni dalla grande intuizione di Girard.
«La sua eredità culturale sarà assicurata da tanti e vorrei dire in questo momento che non c’è nessun cenacolo girardiano, perché René ha saputo parlare fin da subito a un vasto pubblico sulle due sponde dell’Atlantico, conservando fino all’ultimo questo gusto dell’apertura», ci dice Benoît Chantre, fra i più stretti amici e presidente dell’Arm, con voce paralizzata dal dolore. Nel 2007, proprio Chantre aveva dialogato con Girard nell’ultima grande opera del pensatore, ancora straordinariamente magmatica e avvolgente, uscita in Italia con il titolo Portando Clausewitz all’estremo (Adelphi).
I critici più attenti l’hanno subito interpretata come un monito dal sapore profetico, puntato sulle enormi capacità d’autodistruzione del genere umano: una sorta di attualizzazione, in chiave filosofica e per i lettori del XXI secolo, del ritratto del nichilismo umano contenuto a livello letterario proprio nei Demoni di Dostoevskij, l’opera preferita da Girard: «Siamo la prima società a sapere che può autodistruggersi in modo assoluto. Ma ci manca la credenza che potrebbe sostenere questo sapere».
Lungo la densa parabola intellettuale girardiana, dal primo fino a quest’ultimo capolavoro, sono tante le opere che hanno impressionato i lettori di tutto il mondo. Volumi scritti quasi tutti negli Stati Uniti, in quella Stanford dove Girard ha condotto quasi tutta la sua carriera accademica. E dove gli studenti del campus della celebre università avevano imparato a incrociare Girard pure la domenica, lungo il percorso verso la Messa.
In Italia, dove il pensiero girardiano è stato accolto con grande favore anche da contrade intellettuali ideologicamente opposte, è uscito nel 1980, per Adelphi, La violenza e il sacro, prima de Il capro espiatorio (1987, Adelphi). «L’amore, come la violenza, abolisce le differenze», aveva scritto in una delle tante opere con cui aveva precisato nel tempo il suo pensiero, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983, Adelphi).
E di amore ha sempre molto trattato tutta l’opera girardiana, concentrata in proposito pure sul senso profondo, innestato nella stessa natura umana, della Passione di Cristo: per Girard, il Sacrificio che si è offerto come modello, ribaltamento e possibile via d’uscita rispetto alla strada antica, antropologicamente radicata, degli olocausti rituali per placare l’aggressività sociale connessa alle intime trappole del desiderio.
Il capro espiatorio tra Edipo e Cristo
Un saggio dell’antropologo su “Vita e Pensiero”
di René Girard (la Repubblica, 13.05.2013)
La vendetta non è un’istituzione, è un fenomeno di cui non si sa se sia biologico o culturale, ma è specifico dell’uomo. Non c’è vendetta tra gli animali. Se la vendetta esiste, se è infinita, è evidente che la specie umana dovrebbe distruggersi da sé, subito, in partenza, prima ancora di esistere in quanto umanità. È in quel momento che avvengono crisi di rivalità mimetica, quelle crisi che si ritrovano, nei miti relativamente moderni, ma di cui devono esserci antecedenti molto antichi.
Come si risolvono tali crisi? Sicuramente per motivi puramente meccanici, perché dal momento in cui gli uomini si disputano gli oggetti che desiderano non potranno mai capirsi. Ma la lotta diventerà così intensa che gli oggetti spariranno e resteranno solo i rivali. E dal momento in cui in un gruppo ci sono solo antagonisti si può essere certi che ci saranno forme di riconciliazione. Si creeranno alleanze contro un nemico comune che polarizzerà sempre più avversari, mimeticamente. È quella che si chiama “politica” ed è anche il fenomeno del “capro espiatorio”.
A partire dal momento in cui restano solo antagonisti, il flusso mimetico invece di dividere e frammentare, si polarizzerà sempre più contro e alla fine si dirigerà su un individuo qualsiasi, che appare come il colpevole della crisi. Se guardiamo i miti troviamo un numero notevole di casi in cui la violenza è collettiva contro un’unica vittima. C’è un passaggio dal “tutti contro tutti” al “tutti contro uno”. È quello che chiamiamo fenomeno del “capro espiatorio”.
Penso che nelle società arcaiche questo tipo di fenomeno svolga un ruolo capitale; il sacrificio rituale diventa molto comprensibile. Le comunità riconciliate dalla vittima cambieranno atteggiamento nei suoi confronti. La vedono sempre come responsabile della crisi, in altre parole Edipo ha realmente commesso parricidio e incesto, attirando così la peste su Tebe, ma pensano anche che ora la vittima sia responsabile della riconciliazione. Di conseguenza, la vittima colpevole diventerà una divinità. Nel caso di Edipo è semplicissimo, si tratta di una divinità del matrimonio, delle regole del matrimonio che ha infranto lui stesso e che in qualche modo ha istituito infrangendole, cosa certo assurda ma che nondimeno svolge un ruolo essenziale nella genesi del religioso e dello stesso sociale.
Le somiglianze con il cristianesimo sono più forti che mai. Se osserviamo la crocifissione e la Passione, subito notiamo che è un fenomeno estremamente, incredibilmente mimetico. Ad esempio, il rinnegamento di Pietro: è evidente che interpretarlo in maniera psicologica come si fa sempre vuol dire insinuare che al suo posto noi avremmo resistito alla tentazione di rivoltarci a Cristo, e non è soddisfacente.
In realtà avviene che quando Pietro si trova in mezzo a una folla ostile a Gesù, diventa ostile anche lui. È mimeticamente contagiato. E vi si trova in quanto il migliore tra i discepoli, li rappresenta tutti. Nessuno è in grado di resistere al mimetismo omicida della folla.
Un’altra prova è Pilato: vorrebbe salvare Gesù, ma in quanto politico ha talmente paura della folla che le obbedisce fingendo di guidarla. Ma l’imitazione più caricaturale sono i due uomini crocifissi con Gesù che si voltano verso la folla e cercano di imitarla, vociferano con la folla, in fondo per far credere a se stessi di non essere crocifissi.
È il mito completamente spiegato e svelato. A questo punto gli antropologi vanno in visibilio, perché in fondo conoscono solo la logica del concetto. E si dicono che perché il cristianesimo fosse davvero diverso dalle altre religioni bisognerebbe che parlasse di altro.
Ebbene, non è così. Il cristianesimo parla di quello che è essenziale nell’uomo, ossia del fondamento religioso delle società, che è anche il fondamento della cultura: il mimetismo violento. Deve parlare della stessa cosa dei miti. È dal momento in cui si vede quest’identità di argomento, questi rapporti estremamente vicini tra mitologia e cristianesimo, che di colpo dovrebbe apparire la differenza: nei miti i colpevoli, anche se alla fine vengono divinizzati, sono anzitutto colpevoli.
Quando si parla del mito di Edipo si pensa al parricidio e all’incesto e oggi ci sembrano più veri che mai, il che è la prova che ci troviamo nel mito, perché quasi tutti credono nella psicanalisi, che non è altro che credere al parricidio e all’incesto invece di credere a una certa innocenza dell’uomo che là è reale. La differenza essenziale di Gesù è che la Passione presenta la vittima non come colpevole, ma come innocente. In altre parole, la Passione è l’unico mito che sa e proclama quello che i miti dissimulano perché non lo sanno: la vittima è un capro espiatorio innocente. (Traduzione Anna Maria Brogi)
Violenza e religione, sullo sfondo interrogativo del dopo 11 settembre
di Marco Pacioni (“Alias”/il manifesto, 24 giugno 2012)
Quello di René Girard è il caso di una figura posseduta totalmente da un tema. Tutte le fonti e metodologie che si incrociano nella sua ricerca si coagulano sempre intorno a un nucleo.
E tuttavia, i tanti e disparati riferimenti nella sua opera rendono difficile una definizione disciplinare dello studioso francese e americano d’adozione. Con il passare del tempo e con la diffusione della sua teoria del capro espiatorio e della violenza mimetica anche l’appellativo di antropologo, quello più spesso attribuitogli, è venuto cadendo.
Oggi, e in particolare da dopo l’11 settembre 2001, Girard è più genericamente, ma non meno significativamente, un «intellettuale autorevole». A partire dalle torri gemelle, la sua riflessione su La violenza e il sacro (Adelphi, 1992), libro del 1972 che lo ha reso famoso, si è innestata al filone neo-apocalittico della riflessione politica.
I testi raccolti sotto il titolo Violenza e religione Causa o effetto? (a cura di Wolfgang Palaver, trad. it. di Anna Castelli, Raffaello Cortina, pp. 85, € 11,00), per il fatto di coprire un arco temporale che va da poco prima l’11 settembre al periodo di elaborazione del suo più importante lavoro degli ultimi anni e cioè Portando Clausewitz all’estremo (Adelphi, 2008), costituiscono un valido riferimento per capire l’evoluzione del suo pensiero e la dinamica di Girard intellettuale nella riflessione culturale odierna. Nel testo più importante che dà anche il titolo generale a questa raccolta, Girard ripercorre i momenti principali della sua teoria per stabilire se le religioni arcaiche e cioè quelle fondate sul sacrificio di un capro espiatorio siano o meno la causa della violenza umana.
La risposta di Girard è che non lo sono. Anzi, esse hanno costituito un argine al parossismo della violenza innescata dal desiderio di imitazione e competizione connaturato agli esseri umani.
Lo smascheramento del cristianesimo dell’ingiustizia del capro espiatorio attraverso la crocifissione di Gesù ha da un lato diminuito la violenza sacrificale nella civiltà odierna, ma dall’altro ha anche contribuito a rendere più fragile l’argine che la stessa violenza sacrificale esercitava su quella mimetica - cioè su quella violenza che nella teoria di Girard ha la forza di distruggere le comunità e ora, apocalitticamente, tutto il genere umano. È per questa ragione che, secondo lo studioso, la nostra epoca è paradossalmente e simultaneamente meno violenta e più violenta.
È noto che Girard vede nella forza demitizzante del cristianesimo non soltanto una dinamica antropologica, ma anche una verità di fede. Anche in questi scritti è forse proprio tale aspetto confessionale, che in qualche frangente si è sintonizzato sulle sirene dello scontro di civiltà, a impedirgli di chiarire fino in fondo se lo stesso cristianesimo, per denunciare l’ingiustizia del sacrificio del capro espiatorio, abbia determinato quell’accumulo di violenza mimetica che, come lo stesso Girard sottolinea, rischia ora di esplodere planetariamente.
Apocalisse
La violenza dell’uomo e la furia di Dio
di René Girard (la Repubblica, 25.01.2010)
Le riflessioni dell’antropologo francese dopo l’11 settembre
Alle origini del Cristianesimo era una promessa, adesso è una forza distruttiva
Se studiamo i capitoli del Libro scopriamo che annunciano rivoluzioni e guerre
L’apocalisse non ha una connotazione storica ma religiosa, per questo non possiamo farne a meno. E’ questo che il cristianesimo moderno non capisce. Nel futuro apocalittico, il buono e il cattivo sono mischiati insieme in modo che, da un punto di vista cristiano, non si può parlare di pessimismo, si tratta di essere semplicemente cristiani.
Equivale a dire che i testi sacri fanno tutti parte di un unico organico. Per capirlo, basti citare la Prima Lettera ai Corinzi: se «i poteri», intendendo con essi chi gestiva il potere terreno, avessero saputo quello che sarebbe successo, non avrebbero mai crocefisso Gesù, perché sarebbe stato come firmare la propria condanna. Perché, mettendo sulla croce il Re della Gloria, il meccanismo del potere, quello della persecuzione ingiusta, viene rivelato.
Mostrare la crocifissione come il sacrificio di una vittima innocente equivale a rivelare la natura collettiva dell’omicidio, permettendoci di capire che si tratta di un fenomeno mimetico. E «i poteri» che l’hanno messo in scena sono destinati a estinguersi a seguito di questa rivelazione.
E la storia non è altro che la realizzazione di questa profezia. Chi dice che i cristiani sono anarchici ha in un certo senso ragione. I cristiani obliterano «i poteri» di questo mondo cancellando la legittimità di qualsiasi forma di violenza. Lo Stato vede il cristianesimo come forza anarchica. Ogni volta che il cristianesimo recupera vigore spirituale, questo aspetto riemerge.
Di conseguenza il conflitto con i musulmani è davvero ben più significativo di quanto pensino gli stessi integralisti. I fondamentalisti pensano che l’apocalisse sia l’ira violenta di Dio. Ma se leggiamo con attenzione i capitoli sull’Apocalisse, capiamo che in realtà parlano della violenza dell’uomo liberata dalla distruzione dei poteri secolari, e cioè degli Stati, che è quello a cui stiamo ora assistendo. (...)
Se studiamo i capitoli sull’Apocalisse, scopriamo che ci annunciano proprio questo: ci saranno rivoluzioni e guerre; gli stati si solleveranno gli uni contro gli altri, e così faranno le Nazioni. Questi sono i doppi. Questo è il potere anarchico presente oggi, dotato di una forza capace di distruggere il mondo. Così che è possibile vedere l’apocalisse avvicinarsi come mai in precedenza. Alle origini del cristianesimo l’apocalisse era considerata in termini magici: il mondo finirà, andremo tutti in paradiso e tutto sarà apposto. «L’errore» dei primi cristiani fu quello di credere che l’apocalisse sarebbe stata questione di un attimo.
I primi testi cristiani, cronologicamente parlando, sono le lettere ai Tessalonicesi ed esse sono una risposta alla domanda: perché il mondo continua quando la sua fine è stata annunciata? San Paolo dice che qualcosa trattiene i poteri, i katochos. L’interpretazione più comune è che si riferisca all’Impero Romano. La crocifissione non ha ancora completamente dissolto tutti gli ordini. Se consideriamo i capitoli sull’apocalisse, essi descrivono una situazione simile al caos dei nostri giorni, che tale non era invece all’inizio dell’Impero Romano: come poteva finire il mondo se era così saldamente tenuto insieme dalle forze dell’ordine? (...)
Fondamentalmente è la religione che annuncia il mondo che verrà. Non si tratta di combattere per questo mondo. E’ il cristianesimo moderno che dimentica le sue origini e la sua vera direzione. L’apocalisse alle origini del cristianesimo era una promessa, non una minaccia, perché i primi cristiani avevano fiducia nel mondo ultraterreno. (...)
Ognuno di noi può vedere che l’apocalisse si fa sempre più concreta ogni giorno che passa: una forza distruttiva capace di cancellare il mondo, armi sempre più potenti e altre minacce ancora si moltiplicano davanti ai nostri occhi. Continuiamo a credere che tutti questi problemi siano gestibili dall’uomo, ma quando poi li consideriamo unitamente vediamo che non è così.
Acquistano una sorta di valore soprannaturale. Come per i fondamentalisti, i capitoli dei Vangeli sull’Apocalisse ricordano a chi li legge la situazione in cui viviamo. Ma i fondamentalisti credono che la violenza finale arriverà da Dio, e non danno per tanto il giusto valore a ciò che sta accadendo ora tutto intorno a noi: la rilevanza degli eventi dei nostri tempi dal punto di vista religioso.
E questo dimostra quanto poco siano cristiani sotto certi aspetti. E’ la violenza degli uomini a minacciare il mondo oggigiorno; e tutto ciò è molto più in conformità con i temi apocalittici del Vangelo di quanto loro non si rendano conto. (...)
Nell’islamismo l’uso della violenza fa inevitabilmente del martire uno strumento di Dio. Questo in realtà equivale a dire che la violenza apocalittica viene da Dio. Negli Stati Uniti è lo stesso per i fondamentalisti cristiani, ma non per le grandi confessioni religiose. Tuttavia, non c’è abbastanza coerenza da pensare che se la violenza non viene da Dio allora viene dagli uomini, e che quindi noi uomini ne siamo responsabili. Infatti, accettiamo che le nostre vite siano protette da ordigni nucleari. Questo è probabilmente il peccato più grave dell’Occidente, basti pensare a quello che comporta. (...)
Bisogna distinguere fra sacrificio dell’altro e sacrificio di sé. Cristo dice al Padre: «Non volevi né un olocausto né un sacrificio e io ho risposto «Eccomi»». In altre parole: preferisco sacrificare me stesso piuttosto che un altro. Ma questo rimane un «sacrificio». Nelle lingue moderne la parola «sacrificio» è intesa solo nel suo significato cristiano, la passione, quindi, è assolutamente giustificata. Dio dice: se nessuno è abbastanza buono da sacrificarsi al posto di suo fratello, lo farò io. Così facendo porto a compimento quello che Dio richiede all’uomo: preferisco morire che uccidere. Tutti gli altri, però, preferiscono uccidere, piuttosto che morire. (...)
Nel cristianesimo non ci si martirizza. Non si diventa volontari della morte. Ma, osservando i precetti di Dio (porgi l’altra guancia, ad esempio), ci si mette nella condizione di essere uccisi. E il cristiano morirà solo perché sono i suoi simili a volerlo uccidere non perché si è offerto volontariamente alla morte. Non è il kamikaze giapponese.
Il concetto cristiano implica di essere pronti a morire piuttosto che a uccidere. E’ l’atteggiamento della prostituta buona nel giudizio di re Salomone che dice: «Da’ mio figlio alla mia rivale ma non ucciderlo». Il sacrificio del figlio equivale al proprio sacrificio: accettando l’equivalente della morte, lei sacrifica se stessa. E quando Salomone riconosce in lei la vera madre del bambino, parla non tanto di madre biologica ma di madre spirituale. Questa parabola è tratta dal libro dei Re, che è un libro piuttosto cruento. Ma direi che non vi è simbolo pre-cristiano dell’atto sacrificale di Cristo superiore a questo.
© 2010 Robert Doran, Jean-Pierre Dupuy
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