Sakineh violenza ancestrale
La lapidazione, esclusa dal Corano, era prevista dalla Bibbia fino al fatto dell’adultera con Gesù Ora una battaglia contro le violenze alle donne
di Shukri Said (l’Unità, 10.09.2010)
La lapidazione per adulterio e concorso in omicidio minacciata a Sakineh non è medievale, è ancestrale. Escluso che sia comminata nel Corano, che non la prevede mai, essa è invece prevista dalla Bibbia per il caso di adulterio (Deuteronomio 22: 22, 23).
Il Deuteronomio risale al VI-V secolo a. C., ma Cristiani ed Ebrei hanno abbandonato tale pratica duemila anni fa quando, come riporta il Vangelo (Giovanni 8, 1-11), scribi e farisei portarono a Gesù una donna colta in flagrante adulterio interrogandolo sulla lapidazione prescritta da Mosè. E Gesù, con la famosa frase «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», impose l’abbandono della feroce pratica. Né Maometto, l’ultimo dei profeti, avrebbe voluto ripristinare una così barbara sanzione tanto limpidamente eliminata dal “suo” predecessore Gesù.
In effetti la lapidazione per adulterio fu introdotta nell’Islam con un Hadith di Omar, successore di Maometto (Hadith Sahih Muslim vol. 3, libro 17, n. 4206) e non appartiene all’esperienza diretta del Profeta narrata nel Corano, l’unica da osservare, dove si prevedono (Sura 24, 2-3, “La Luce”) “solo” 100 frustate per l’adulterio conclamato da quattro testimoni, maschi e attendibili, che dichiarino di aver assistito alla penetrazione. Il che equivale alla punizione, non dell’adulterio in sé, bensì dell’oltraggio al pudore (previsto come reato anche in Italia) suscettibile di scuotere, con lo scandalo che ne consegue, le regole di una sana comunità.
Infatti, la sanzione è eseguita dalla folla in un rito di espiazione dell’affronto subito dalla collettività. Invece rimane senza conseguenze l’adulterio “privato” in cui, al marito che accusa con apposita formula coranica, può rispondere pariteticamente la moglie discolpandosi mediante il ribaltamento della medesima formula pronunciata dal marito.
È inammissibile che nel terzo millennio siano considerati interlocutori della collettività internazionale paesi che ammettono ancora la lapidazione. Invece il mondo reagisce a questa barbarie di regime solo quando si lega a un nome.
Salviamo Sakineh oggi come quando salvammo la nigeriana Amina Lawal nel 2003. Queste reazioni internazionali, oltre che a salvare la vittima, mirano anche a sollevare dai sensi di colpa per il silenzio sui casi trascurati ma sicuramente esistenti. Perché chi deve impegnarsi per la salvezza della donna oppressa dai regimi canaglia, sono i governi di quei paesi dove l’opinione pubblica si mobilita e che di volta in volta si cimentano in compromessi per accontentare i loro elettori.
Viene così l’idea che il nome della vittima trapeli in occidente non tanto per l’abilità informatica o informativa di qualche dissidente, quanto per la volontà del regime che della più efferata nefandezza permette il diffondersi della notizia proprio per conquistare il compromesso di cui ha bisogno.
Il caso di Sakineh è la dimostrazione di questo metodo adottato dal regime iraniano per uscire dall’isolamento diplomatico conseguente alla scelta nucleare. È trapelata la sua condanna alla lapidazione per un reato di adulterio che, in occidente, non dà neppure più luogo alla separazione con addebito e, al movimento d’opinione sollevatosi contro il supplizio, si è risposto con una ulteriore condanna a 99 frustate per l’inconcepibile delitto di aver mostrato i capelli in una foto che, addirittura, non riproduceva neppure Sakineh. È questo un chiaro pretesto del regime iraniano per rimanere al centro dell’attenzione di quella comunità internazionale che sarebbe veramente ora che si svegliasse.
La battaglia per i diritti umani non si fa saltuariamente. Per una Sakineh di cui traspare la triste storia, ci sono nel mondo tante altre donne, troppe, che anonimamente subiscono violenze e torture intollerabili.
La violenza di tanti regimi è così antica e feroce che, anche per difendersene, le donne hanno mantenuto nei secoli le loro mutilazioni genitali, cioè la rinuncia alla sessualità. Non possiamo convincerle ad abbandonare definitivamente quelle pratiche se non combattiamo i regimi che infieriscono sulle donne tutte le volte che si affaccia il loro diritto alla femminilità. Se la democrazia non può essere esportata, come esperienze ancora in corso dimostrano, il suo seme può tuttavia essere piantato, ma va tenacemente coltivato.
Vogliamo che la battaglia per Sakineh sia l’ultima con un nome e che si apra finalmente la guerra alla violenza sulle donne ovunque, perché quella sulle donne è violenza capace di tutto e buona a nulla. Da estromettere dal Pianeta Terra con un formidabile rigurgito di dignità internazionale e non con intermittenti singhiozzi.
Antonello da Messina, Annunciata |
Come avviene una lapidazione
“Sassi rotondi e lisci, la famiglia offesa scaglia la prima pietra”
di Elisa Battistini (il Fatto, 10.09.2010)
Tutto il mondo continua a mobilitarsi per salvare Sakineh Ashtiani dalla lapidazione e ancora non si sa se la pena sia stata davvero sospesa (ieri l’avvocato della donna iraniana ha detto di dubitarne). Una certezza però c’è: in alcuni paesi, tra cui l’Arabia Saudita, la Nigeria, il Sudan e l’Iran questa forma di pena di morte continua ad esistere.
Ma cosa significa? E come si svolge un’esecuzione di questo tipo?
Franco Cardini, storico e saggista, docente all’Università di Firenze, racconta la concreta brutalità di questa pratica.
Esistono delle regole per lapidare una persona?
La cosa più importante è che, a scagliare la prima pietra, siano i familiari di chi ha subito il torto. L’esecuzione può avvenire all’aperto o al chiuso, ma non è una prescrizione. Mentre è fondamentale che sia il “clan” di chi è stato offeso dal reato a guidare il sacrificio. Di solito, poi, vengono scagliate altre pietre da altre persone, legate in qualche modo alla famiglia “offesa”. Scagliare pietre è un gesto molto violento, ma il principio di fondo non è differente da quello che permette ai parenti delle vittime, negli Stati Uniti, di assistere in prima fila a un’esecuzione capitale. È una forma di pena di morte, cioè di estinzione del reato attraverso un sacrificio. Nella lapidazione è importante che il primo sasso non sia scagliato da chi non ha nulla a che fare con l’accaduto: sarebbe un gesto grave e inammissibile. Darebbe vita a una nuova spirale di vendetta.
Come devono essere le pietre?
I sassi devono essere lisci, rotondeggianti. L’origine ebraica della pena proviene dai clan di pastori e il sasso era il mezzo più comune per tenere assieme le pecore e punirle se sfuggivano al gregge. Infatti la lapidazione viene comminata solo per certi reati. Chi ruba non verrà mai lapidato. Viene lapidato, invece, chi si è reso colpevole di un crimine privato che offende la comunità perché ne viola i principi. Come l’adulterio, il tradimento della parola data, l’incesto, la mancanza di rispetto verso i genitori, l’omosessualità: sono reati che pongono l’individuo al di fuori del proprio gruppo. L’esecuzione è un sacrificio pubblico per estinguere un’offesa arrecata a tutti.
Quanto dura una lapidazione?
Finché la vittima non è sepolta e ricoperta dai sassi, anche se è già morta. La vittima può anche morire al primo colpo, ma il fine simbolico dell’atto non è la morte in sè. Il sasso è un’arma che non si adopera per gli esseri umani. Viene lapidato chi, con i suoi comportamenti, si è posto al di fuori del consorzio degli uomini. La lapidazione esprime un senso di repulsione, di estraneità. È la cacciata dal consorzio umano. La pietra si usa con le bestie. E la sepoltura del lapidato è un atto rituale: si continuano a scagliare sassi fino a che la persona punita non scompare dalla vista.
Quanto è importante che la persona soffra?
Pochissimo. Non è questo l’obiettivo. L’obiettivo è il “risanamento” della comunità che ha subito un torto considerato molto grave. Il lapidato è il capro espiatorio da punire per ristabilire l’ordine.
Dove avvengono queste pratiche mortali?
Non molto in Iran, che è un paese fondamentalmente occidentalizzato dal 1979. Sono più frequenti invece Arabia Saudita. Noi ci stiamo appassionando al caso della povera Sakineh in modo un po’ pretestuoso: chissà quante persone vengono lapidate e non lo sappiamo. Sakineh è diventata un simbolo. È giusto opporsi. Ma la pratica dell’iniezione letale di fronte alla famiglia della vittima non mi pare più civile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE.
Reyhaneh Jabbari (impiccata, nel carcere di Teheran, per aver ucciso l’uomo che voleva stuprarla - 2014) |
Tante come la pachistana scomparsa.
Mai più da sole le Saman d’Italia
di Asmae Dachan (Avvenire, venerdì 11 giugno 2021)
Le speranze di ritrovare in vita la giovane Saman Abbas si fanno sempre più deboli e mentre non c’è ancora un posto dove portare un fiore alla sua memoria, e prometterle giustizia, la tragedia che l’ha colpita sta diventando l’ennesimo pretesto per uno scontro politico e per guerre di parole.
Saman era una ragazza italiana come tante, come sono stata anche io, con le mie origini siriane e la mia fede musulmana, che fanno i conti con la bellezza, ma anche le problematiche di una doppia identità. Non tutti hanno la fortuna di avere famiglie illuminate, che investono sulla formazione dei figli e li spingono a perseguire i propri obiettivi.
Ci sono purtroppo anche ragazzi e soprattutto ragazze, che si sentono invisibili, indesiderati, incompresi, dentro e fuori casa. Tra le mura domestiche parlano una lingua, che non è solo patrimonio lessicale, diversa da quella che usano all’esterno; vivono una dimensione come sospesa nel tempo e nello spazio e che non ha nulla a che vedere con l’immaginario delle famiglie.
A volte queste ultime cercano di mantenere vive le tradizioni del Paese d’origine e non si accorgono della frattura che inesorabilmente si consuma, dovuta al cambiamento generazionale, ma anche a una diversità culturale che spesso non sono pronte ad affrontare. Quel ’da noi si fa così’ in cui i figli non si sentono rappresentati, perché il loro noi è diverso, può provocare grandi sofferenze. Per i figli maschi, in questi casi, voltare le spalle alla famiglia e allontanarsi e più facile. Per le figlie femmine il discorso è sempre più complesso. Inutile girarci intorno, sul corpo e sulla mente delle donne, sin da piccole, si esercita sempre un maggiore controllo.
Le Saman in Italia sono molte e le sfide che devono affrontare sono tutte in salita: farsi accettare dai compagni, dagli amici, e dalla società, ma anche farsi accettare dalle famiglie. Non è mai facile compiacere gli uni e gli altri. A scuola avevo una compagna cristiana praticante con cui siamo presto diventate amiche e che un giorno mi aveva confidato che voleva mantenersi ’pura’ fino al matrimonio, ma che poteva dirlo solo a me perché gli altri l’avrebbero presa in giro, mentre io l’avrei capita. Da persona osservante, effettivamente la capivo.
A volte ci sentivamo le ingenue del gruppo, perché gli altri ci sembravano tutti più spigliati, ma eravamo felici delle nostre scelte e il fatto che fossimo amiche ci aiutava a sentirci meno diverse. A quell’età la parola diversità fa tanta paura, mentre la parola scelta rende felici. Anche Saman voleva scegliere, aveva capito che fuori dal contesto familiare, che pare fosse molto duro, esisteva un’alternativa che l’avrebbe sottratta a un destino di sofferenza, con un matrimonio che non voleva. Forse Saman sperava che, pur non accettando le sue idee, la famiglia l’avrebbe lasciata vivere come preferiva; invece, se verranno confermate le ipotesi degli inquirenti, la disumana fine della giovane sarebbe stata premeditata e condivisa proprio da chi avrebbe dovuto esserle più vicino. In nome di chi, in nome di cosa? Perché l’islam non avrebbe accettato il legame di una musulmana con un non musulmano, o perché la comunità avrebbe isolato e mal giudicato la famiglia? Non può esistere nessuna giustificazione, si tratta di un crimine barbaro e di una violenza che non possono che essere condannate fermamente. In diversi Paesi a maggioranza musulmana si sta mettendo mano alla riforma del codice di famiglia per liberalizzare i matrimoni con persone di fede diversa, ma anche su altre questioni che sino a oggi hanno in qualche modo penalizzato le donne. Esiste cioè un fermento dal basso, per rivendicare più diritti e abolire logiche patriarcali, ma il cammino è ancora molto lungo e coinvolge solo alcuni Paesi.
Non va dimenticato che il Pakistan è stato la patria di Benazir Bhutto, tra le prime donne nella storia a ricoprire per due volte l’incarico di primo ministro, diventata poi vittima dell’odio che l’ha condannata a morte. Oggi in Pakistan matrimoni combinati e femminicidi sono proibiti e condannati dalla legge, quindi nemmeno nel Paese di origine Saman avrebbe dovuto subire quello che ha subito. Se le indagini confermeranno le terrificanti ipotesi, vorrà dire che Saman è stata brutalmente uccisa qui, nel Paese dove sognava di vivere da donna libera, dove forse le sue denunce e richieste di aiuto avrebbero dovuto essere ascoltare con più attenzione. Di Saman è piena l’Italia. Donne che chiedono aiuto, ma che vengono lasciate sole. Lo sappiamo dalla cronaca, lo vedono ogni giorno Forze dell’ordine e soccorritori. Tante volte mi è capitato, durante i turni da volontaria del 118, di aiutare donne disperate, picchiate e minacciate da mariti e familiari; donne che sentono di non avere speranza, di essere braccate, che non hanno documenti italiani per poter fuggire, e che spesso non parlano nemmeno la lingua perché tenute quasi segregate. A volte, in quelle circostanze, vedere una donna che sentono ’più vicina’, aiuta a raccogliere le loro denunce e a capire cosa stanno subendo. C’è poi il passo successivo alla denuncia, che può davvero salvare una vita, che è quello del sostegno. Un sostegno che necessita di un osservatorio, di una rete, in cui si deve necessariamente lavorare insieme.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal). Ri-leggiamo insieme... le due opere e i due Autori! Un’ipotesi di rilettura di DANTE .... e un appello per un convegno e per il Pakistan!!!
fls
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Gli impegni assunti dall’imam di Al Azhar.
Per l’islam il dovere della responsabilità
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 7 febbraio 2019)
E adesso la parola passa ai musulmani. Sulla firma del leader sunnita di Al Azhar congiunta a quella del Papa nel documento sulla fratellanza umana si è infranto anche l’ultimo tabù: quello di un islam impermeabile in quanto tale alle riforme. Ad Abu Dhabi il grande imam Al-Tayeb ha fatto precedere il gesto irrevocabile da un appello dai toni accorati rivolgendosi ai fratelli musulmani in Oriente: «Appartengo a una generazione che può essere definita come la generazione delle guerre... Lavorerò con mio fratello il Papa, per gli anni che ci rimangono, con tutti i leader religiosi per proteggere le nostre società».
E ancora: «Vi dico: accogliete a braccia aperte i vostri fratelli cristiani, perché sono i nostri partner nella patria, sono i nostri fratelli che, ci dice il Corano, sono i più vicini». E poi, diretto alle nuove generazioni: «Vi prego, insegnate questa barriera contro l’odio ai vostri figli, questo documento, perché è un’estensione della costituzione dell’islam, è un’estensione delle Beatitudini del Vangelo». Se la Chiesa, dal Vaticano II in qua, aveva cercato figure rappresentative tra i musulmani faticando a trovarle, nei confronti di Al-Tayeb certamente si è stabilito un dialogo non formale con l’islam, o almeno parte di esso.
Lo storico passo compiuto in terra d’Arabia, preceduto da una gestazione lunga un anno - come ha informato lo stesso papa Francesco - non solo lo ha siglato ma ne ha rafforzato il ruolo ’universale’. Tuttavia se da decenni Al Azhar è il centro accademico d’irradiazione dell’interpretazione dell’islam tollerante e aperto - seguito, senza far notizia, dalla maggioranza dei quasi due miliardi di musulmani nel mondo -, l’antitesi del settarismo e dell’estremismo wahhabita, del quale l’Isis è una patologia, abita nei regni del Golfo.
Dunque ancora più forte appare ora la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad Al-Tayeb, che già nell’incontro con il Papa al Cairo nel 2017 aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei princìpi di cittadinanza e integrazione.
Ed è proprio su alcuni punti del documento, altamente sensibili e nevralgici, che i governi e i leader religiosi sono stati messi davanti al fatto compiuto, e sui quali ora la responsabilità di uno sviluppo concreto è maggiore. In primis pensiamo all’impegno per stabilire in Medio Oriente il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine ’minoranze’ sofferto dai cristiani nativi della regione, che hanno subìto pressioni sociali e politiche e vengono trattati come cittadini di serie B. Quindi, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto, e non da ultimo il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità», lavorando «per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti».
Per quanto riguarda il terrorismo si afferma definitivamente che non è dovuto alla religione, anche se chi pratica violenza la strumentalizza, ma è dovuto a una lunga sequenza di interpretazioni errate dei testi religiosi, come anche alle politiche che alimentano fame, povertà, ingiustizia, oppressione, arroganza. Nel documento viene richiesto esplicitamente di «interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale».
Sull’assunzione di queste responsabilità siglate si gioca ora la partita decisiva. Per una vera cultura della cittadinanza e dell’uguaglianza che sembra ancora essere un sogno, davanti non solo agli al-Malik di oggi a cui serve quella credibilità di cui Francesco, come il suo omonimo santo ottocento anni fa, si è reso testimone disarmato, come cifra di una fraternità possibile fra cristiani e musulmani in terra d’islam, chiedendo pace e conoscenza dell’altro.
Papa.
Storica intesa Vaticano-al Azhar: non ci può essere violenza nel nome di Dio
Pace, libertà e ruolo della donna nella dichiarazione congiunta firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib: «Basta sangue innocente»
di Stefania Falasca, inviata ad Abu Dhabi *
Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif - con i musulmani d’Oriente e d’Occidente -, insieme alla Chiesa Cattolica - con i cattolici d’Oriente e d’Occidente -, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze.
Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione
e di formazione».
È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli».
Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione.
La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali - delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra - che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani - in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente».
Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure - è scritto - sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del
diritto internazionale».
Tutto questo è affermato in nome di Dio - come è ribadito - che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali - ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.
* Avvenire. lunedì 4 febbraio 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Indagine sulla fine del Profeta
Parla La studiosa tunisina Hela Ouardi, autrice del libro-inchiesta “Gli ultimi giorni di Maometto”: «Un crimine? Non lo sapremo mai. Ma qui nasce il malessere islamico»
di Karima Moual (La Stampa, 08.12. 2018)
Hela Ouardi, tunisina, insegna letteratura francese all’Istituto Superiore di Scienze Umane dell’Università di Tunisi ed è ricercatrice presso il Laboratorio di Studi sul Monoteismo al Cnrs di Parigi. Il suo libro Gli ultimi giorni di Maometto (Enrico Damiani editore) è la ricostruzione di uno degli eventi più misteriosi della storia dell’islam: la morte del Profeta. Con un taglio da romanzo la studiosa cerca di far emergere l’uomo sepolto sotto la leggenda eroico-religiosa per restituirlo alla storia. E lo fa, provando a porre le domande giuste che ancora coprono di mistero e leggenda quell’evento che segnerà per sempre la comunità musulmana. Ad arricchire l’inchiesta sono le numerose fonti tradizionali sunnite e sciite, studiate e approfondite da restituirci il ritratto di un uomo indebolito e minacciato da più parti.
«La prima generazione dei musulmani probabilmente non considerava Maometto un personaggio sacro. Lui stesso ha rivendicato di essere solo un mortale tra i mortali», scrive Hela Ouardi». Oggi l’adorazione dei musulmani per il Profeta è spinta a un tale parossismo che al personaggio si accompagna una vera e propria ossessione per la blasfemia. In un certo senso, la venerazione di cui è oggetto lo ha fossilizzato».
Un’inchiesta su Maometto, figura per molti fedeli intoccabile, non è un po’ rischiosa?
«Se prima di scrivere un libro sull’islam prendessimo in considerazione ciò che pensano i fedeli, non scriveremmo più una riga su questa religione. Non mi sento di aver preso un rischio particolare, perché da anni ormai vediamo bene che il fanatismo è un mostro cieco che non distingue le sue vittime. Colpisce tutti e dappertutto (anche i musulmani nelle moschee non vengono risparmiati!). Tuttavia, l’indagine sulla morte del Profeta è una vera e propria sfida intellettuale che mi sono prefissata: il lavoro su un argomento così delicato, la minuziosa esplorazione di decine di fonti della Tradizione, il lavoro di riferimento e di confronto dei diversi racconti, la raccolta dei pezzi del “puzzle” è stata un’avventura scientifica al tempo stesso difficile e appassionante».
Dal suo lavoro emergono elementi interessanti proprio perché contrastanti rispetto alla storia comunemente accolta dai fedeli musulmani. Scricchiola fortemente quel racconto divulgato da secoli sul ruolo del Profeta e sui suoi compagni più fidati, tutt’altro che «ben guidati». Com’è stata accolta questa lettura dal pubblico musulmano?
«Quando si pubblica un libro, si getta una sorta di bottiglia in mare, non sappiamo chi la prenderà e cosa ne farà. Ma posso dire che il libro è stato accolto molto bene. Ha incontrato molti lettori e non ho ricevuto alcuna minaccia. C’è una ragione molto semplice per questo, ed è che il mio libro è pieno di riferimenti alla Tradizione musulmana. Il lettore vede immediatamente che non sto inventando nulla e che questa immagine poco gloriosa dei Compagni del Profeta non viene fuori dalla mia immaginazione ma dai libri più ortodossi dell’islam».
L’immagine dei personaggi e anche degli eventi che li interessano è molto più politica che spirituale, il Corano stesso, come lo conosciamo oggi, è frutto di una redazione fatta molto tempo dopo la morte del Profeta. Quasi a perdere quella sua infallibilità, come autentica parola di Dio e di Dio solo. E così?
«Ci sono due modi di percepire il Corano: i credenti ci vedono la parola di Dio, infallibile e miracolosa; gli storici, i filologi eccetera lo vedono come un oggetto storico che ha subito un’evoluzione e in cui è intervenuta la mano dell’uomo. Da sempre (non solo oggi) sappiamo che il Corano, così come fu rivelato al Profeta, è perduto per sempre e che circolano molteplici versioni differenti di questo libro. L’argomento è stato trattato da diversi autori della Tradizione come Ibn Abî Dawûd, nel IX-X secolo, nel suo libro Kitâb al-Masâhif (il Libro dei manoscritti del Corano), dove passa in rassegna le diverse versioni del testo sacro. Penso che l’esistenza di diverse versioni del Corano non sia totalmente incompatibile con la fede: il musulmano può credere che sia un testo di ispirazione divina e ammettere che la compilazione e la trasmissione di questo testo sia un’opera umana quindi imperfetta».
Sappiamo però che un cospicuo numero di fedeli è invece convinto che il Corano sia opera perfetta, e quindi fuori da ogni discussione. Approfondire le incongruenze sulla morte del Profeta cosa potrebbe comportare non solo tra gli studiosi ma anche tra intellettuali e uomini di fede musulmana?
«In nessun momento la Tradizione dice categoricamente che la morte del Profeta è stata naturale; al contrario, la maggior parte delle fonti afferma che è stato avvelenato da una donna ebrea; altre versioni dicono che è morto di pleurite. Io non metto in dubbio nulla, non difendo alcuna ipotesi: espongo le storie della Tradizione, le commento, sottolineo le contraddizioni. E quando è di fronte a narrazioni contraddittorie dei testimoni che interroga, un investigatore inizia ad avere dubbi. Quindi per me la morte del Profeta è semplicemente misteriosa: c’è stato un crimine? La sua morte è stata naturale? Io non lo so e non lo saprà nessuno (a meno che non apriamo la sua tomba!), ma quello di cui sono sicura è che aveva dei sospetti sulla sua cerchia e pensava che potessero ucciderlo. Ne parlo a lungo nel mio libro».
Qual è l’obiettivo della sua inchiesta?
«Lo scopo di ogni indagine è la ricerca della verità. Ma la verità che stavo cercando non erano le circostanze della morte fisica del Profeta. Quella è una storia antica e ora è in prescrizione. La verità che stavo cercando sono le profonde cause storiche del malessere dell’islam nella storia moderna».
Ci sono sicuramente molte ombre su cui far luce nella storia dell’islam. I tabù sono tanti e la censura è molto forte, ma, oltre agli ultimi giorni del Profeta, quali sono i personaggi o gli eventi che meriterebbero una nuova rilettura storica?
«Vorrei rispondere: tutto nella storia dell’islam meriterebbe una nuova rilettura, perché la storia dell’islam è stata schiacciata troppo a lungo sotto il peso della leggenda che mostra personaggi santificati, idealizzati. Ora è necessario rileggere - e riscrivere - tutto, in modo tale da riportare quei personaggi alla loro umanità e mostrare che hanno un lato glorioso e un lato poco glorioso, come in fondo tutti i protagonisti della storia. L’islam sfortunatamente ha per troppo tempo confuso la mitologia e la storia, ed è giunto il momento di distinguerle».
Ha già avuto proposte per una edizione del suo libro in lingua araba?
«La traduzione in arabo è all’ordine del giorno. Probabilmente verrà pubblicato presto».
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri (la Repubblica, 25.05.2018)
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione - che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano - quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa - dice mentre si tormenta le mani - ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi - racconta - Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici». Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre - racconta - mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che - a torto - l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano - ha detto una ragazza di origine siriana - non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).
PENSARE L’«EDIPO COMPLETO» (S. FREUD). UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe. «In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad».
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. -Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale.
Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Federico La Sala
La ragazza del hijab bianco
Capelli al vento contro i religiosi a decine come Vida in piazza in Iran
di Francesca Caferri (la Repubblica, 02.02.2018)
Dopo il fermo della donna simbolo delle proteste altre imitano il suo gesto: via il velo obbligatorio
E le immagini viaggiano sulla Rete. Già 29 arresti
C’è la ragazza dai capelli verdi che sale su un muretto e resta lì, immobile, forse protetta da un gruppo di ragazzi. Le amiche che si tengono per mano e si sfilano il velo davanti alla porta chiusa di una moschea. La donna con il chador, coperta da capo a piedi, che sale su una cassetta dell’elettricità e fa ondeggiare nell’aria un fazzoletto: simbolo di una battaglia che non è la sua, ma che sente comunque di difendere. E poi ci sono gli uomini: nelle strade, così come nelle campagne o sulla cima di una montagna. Era iniziata quasi sotto traccia, solo sui social network, più di un anno fa: ma la campagna delle donne iraniane che protestano contro l’obbligo di indossare il velo sui capelli in pubblico negli ultimi giorni è dilagata, diventando il paradigma di un Paese - o di una parte di esso - che nonostante le tante repressioni non ci sta a farsi indicare la strada dai religiosi in ogni aspetto della vita.
Ventinove donne, secondo il calcolo dei social media, sono state arrestate da quando, il 27 dicembre, la 31nne Vida Mohaved è stata fermata nel cuore di Teheran dopo essere salita su una cassetta dell’elettricità ed aver sventolato il suo velo bianco su un bastone. La donna è rimasta per settimane in detenzione ed è stata liberata pochi giorni fa: ma il suo gesto ha acceso un movimento che sta iniziando a infastidire i vertici della Repubblica islamica.
Prova ne è il fatto che la cauzione fissata per la liberazione di alcune delle donne arrestate è altissima per gli standard iraniani. E che due giorni fa anche il procuratore generale della Repubblica, Moahammad Jafar Montazeri è intervenuto per promettere il pugno duro contro le ragazze: «Azioni nate dall’ignoranza», ha detto. « Se credono nell’Islam sanno che per la sharia il velo è obbligatorio».
Ma le minacce non sono servite a fermare le donne: lunedì ne sono state arrestate sei, mercoledì - giorno inizialmente dedicato alla protesta - più di 20.
« Credo che queste proteste proseguiranno: è ovvio che alcune donne vogliono decidere da sole » , dice Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata per i diritti umani in Iran, lei stessa a lungo imprigionata per le sue battaglie. « Siamo stanche che a decidere per noi siano i religiosi: sulla nostra vita così come sul nostro abbigliamento » , commenta da New York Masih Alinejad, 32nne giornalista iraniana in esilio, fondatrice del movimento My Stealthy Freedom che per prima ha lanciato la protesta.
È troppo presto per dire se questo gesto ha la forza di diventare una spina nel fianco reale per il regime iraniano o l’onda è destinata ad esaurirsi presto. Ma il fatto che tante donne abbiano scelto di tornare in piazza sapendo bene di rischiare l’arresto a poche settimane dalle proteste represse di dicembre scorso, che hanno portato in carcere 4mila persone e ne hanno viste 25 morire, è molto significativo.
Il velo che copre i capelli è obbligatorio per le donne in Iran dalla rivoluzione del 1979: fino a qualche mese fa la polizia poteva fermare le donne che non coprivano abbastanza i capelli, ma da poco questi poteri sono stati sensibilmente ridotti, almeno nelle grandi città. A molte iraniane tuttavia questo non basta, come la campagna di questi giorni dimostra.
Violenza sulle donne, Istat: una su tre subisce abusi, 7 milioni le vittime
Nel rapporto, relativo al 2014, emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono diminuite dal 13,3% all’11,3%, ma crescono dal 26,3% al 40,2% quelle più gravi che provocano ferite. Secondo il dossier di We World Onlus il 25% dei giovani giustifica i maschi violenti e ActionAid denuncia la poca trasparenza nell’utilizzo dei fondi stanziati grazie alla legge sul femminicidio
di Luisiana Gaita *
Non solo 25 novembre. La violenza sulle donne si consuma ogni giorno: sono quasi 7 milioni - secondo i dati dell’ultimo rapporto Istat - le vittime che hanno subìto qualche forma di abuso nel corso della propria vita. Mentre secondo quanto emerge nel dossier “Rosa Shocking 2″ dell’associazione We World Onlus per un under 30 su tre gli episodi di violenza domestica vanno affrontati dentro le mura di casa. Tra dati allarmanti, app per difendersi sempre più diffuse e polemiche su quanto effettivamente si fa per combattere il fenomeno, l’ultima denuncia arriva da ActionAid e riguarda la mancanza di trasparenza sull’utilizzo dei fondi ad hoc da parte delle amministrazioni pubbliche.
UNA DONNA SU TRE HA SUBITO VIOLENZA - Secondo i dati dell’Istat (aggiornati al giugno scorso e relativi al 2014), sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Praticamente una donna su tre. Il 20,2% è stata vittima di violenza fisica, il 21% di violenza sessuale, il 5,4% di forme più gravi di abusi come stupri (si parla di 652mila casi) e tentati stupri (746mila). Mentre a rendersi responsabili delle molestie sono nella maggior parte dei casi (il 76,8%) degli sconosciuti, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Aumenta la percentuale dei bambini che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (si è passati dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014).
LA MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA - Nel rapporto Istat emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Un calo dovuto soprattutto a una maggiore consapevolezza delle donne, che riescono con maggiore frequenza a prevenire situazioni di pericolo e a uscire da relazioni a rischio. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6%) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Nessun segno di miglioramento per quanto riguarda gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014). Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014).
L’INDULGENZA DEGLI UNDER 30 - Ai dati Istat vanno incrociati con quelli del rapporto “Rosa Shocking 2. Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione“, che l’associazione We World Onlus ha condotto insieme a Ipsos Italia. Secondo il dossier il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo. Per il 25% (un giovane su 4) la violenza sulle donne è giustificato dal troppo amore oppure al livello di esasperazione al quale gli uomini sarebbero condotti da determinati atteggiamenti delle donne.
POCA TRASPARENZA NELL’UTILIZZO DEI FONDI - L’ultima denuncia sul fenomeno arriva da ActionAid, i centri antiviolenza della rete Dire e Wister. Le associazioni si sono riunite per presentare la mappatura delle risorse stanziate grazie alla legge sul femminicidio 119/2013 e finora spese. “Per il piano antiviolenza 2013/2014 sono stati stanziati 16 milioni e 400mila euro, ma solo 6 milioni sono arrivati nelle case rifugio” segnala ActionAid. Che chiede l’elaborazione di una mappa dei centri antiviolenza e più trasparenza nella gestione dei fondi da parte delle amministrazioni. Per monitorare la destinazione delle risorse si sono potuti raccogliere i dati di sole sette amministrazioni. Solo per dieci Regioni si può consultare la lista delle strutture che hanno beneficiato dei fondi statali e solo in cinque - Piemonte, Veneto, Puglia, Sicilia e Sardegna - sono stati pubblicati online i nomi di ciascun centro con le risorse ricevute. Dall’analisi delle delibere regionali, poi, “è emerso che non sempre i dati relativi al numero dei centri antiviolenza - come ha evidenziato il monitoraggio - combaciano con quelli del documento di riparto della Conferenza Stato-Regioni“.
LA TECNOLOGIA CHE SALVA LE DONNE - Sono sempre più numerose, invece, le App che aiutano le donne vittime di violenza, come Shaw, acronimo di Soroptimist Help Application Women. L’App connette l’utente al 112 per richiedere aiuto in situazioni di emergenza e fornisce anche informazioni legali su violenza e stalking mettendo in contatto la vittima con il centro antiviolenza più vicino. A Milano, la Asl e l’associazione Telefono Donna hanno lanciato l’applicazione gratuita “Stop Stalking” in cinque lingue diverse: italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Si possono memorizzare su un diario episodi preoccupanti, dagli appostamenti alle percosse per poi inviare le informazioni allo sportello stalking di Telefono Donna, aperto 24 ore su 24. Si chiama, invece, “Save the Woman” un’altra applicazione - studiata per prevenire gli abusi - lanciata dalla società Smartland e dalla criminologa Roberta Bruzzone. Attraverso un test si stabilisce il livello del rischio di violenza da parte del proprio partner, superato il quale la App consiglia di rivolgersi a un centro antiviolenza.
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L’alto numero di impiccagioni e la perpetua violazione dei diritti umani in Iran destano profonda preoccupazione
La violazione dei diritti umani in Iran da più di tre decenni non conosce sosta. Durante la presidenza di Rouhani ci sono state oltre 2000 impiccagioni, cosicché l’Iran è il primo paese per numero di impiccagioni rapportato alla sua popolazione. Inoltre in Iran avviene il numero più alto di impiccagioni di minori.
Amnesty International il 23 luglio scorso in un comunicato stampa ha denunciato che “dall’inizio del 2015 fino al primo luglio in Iran ci sono state 694 impiccagioni e questo è un salto senza precedenti. Se il ritmo rimarrà questo - ha affermato Said Boumedouha, vice direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa - arriveremo a più di mille esecuzioni quest’anno”.
L’Iran detiene il numero più alto di esecuzioni di minorenni. Le impiccagioni di appartenenti alle minoranze etniche e religiose si sono intensificate. Alcuni sacerdoti cristiani si trovano in carcere per il loro credo. In Iran le violazioni dei diritti delle minoranze, delle donne e dei cittadini sono istituzionalizzate.
19 ottobre 2015: il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha condannato l’esecuzione in Iran di due minorenni la precedente settimana, esprimendo preoccupazione per l’aumento delle esecuzioni nella Repubblica Islamica. Ban ki-Moon è profondamente rattristato dalla notizia dell’esecuzione di due minorenni la scorsa settimana in Iran", ha detto l’ufficio stampa di Ban in un comunicato, aggiungendo che Teheran ha ratificato sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici che la Convenzione sui diritti del Fanciullo, che vietano la pena di morte per chiunque non abbia ancora diciotto anni. La nota descrive Ban come preoccupato che le esecuzioni dei minorenni "riflettano una inquietante tendenza in Iran." "Sono oltre 700 le esecuzioni segnalate finora quest’anno, di cui almeno 40 pubbliche, che rappresentano il totale più alto registrato negli ultimi 12 anni".
L’Iran è il più grande carcere di giornalisti in Medio Oriente: nelle carceri iraniane si trovano decine di giornalisti. L’ Iran è uno dei clienti più attivi nell’acquisto di strumenti di censura della rete e ha bloccato circa cinque milioni di siti che trattano di arte, questioni sociali, notizie, i blog e i social network.
Nell’ estate 1988, in seguito ad una fatwa di Khomeini, sono stati impiccati oltre 30.000 prigionieri politici, di cui la maggior parte appartenevano ai Mojahedin del popolo iraniano (PMOI), perché non erano disposti a rinnegare le loro idee politiche. Molte organizzazioni di difesa dell’uomo hanno definito questo come crimine contro l’umanità. Molti dei responsabili di quel crimine oggi fanno parte della classe dirigente del regime. Mostafa Puormohammadì e Ebrahim Reisì - due membri del comitato della morte creato su ordine di Khomeini per quel genocidio - oggi sono rispettivamente ministro della Giustizia e procuratore generale della Repubblica islamica.
Il 5 agosto 2015 l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani ha espresso le sue preoccupazioni sulla situazione dei diritti umani in Iran e ha dichiarato che “l’uso delle impiccagione in Iran e’ stato un problema per lungo tempo”.
Noi, condannando le impiccagioni in Iran, chiediamo al Governo italiano di condizionare ogni negoziato e i rapporti commerciali all’arresto delle impiccagioni e al rispetto dei diritti umani.
Noi chiediamo, altresì, al Governo italiano che nelle sedi internazionali, tra cui le Nazioni Unite, prema sull’Iran affinché il regime fermi le esecuzioni capitali.
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CHIEDIAMO DI FIRMARE L’APPELLO (Nome, Cognome, Comune di residenza) e inviarlo a: -irandemocratico@libero.it
Le donne portano la bara di Farkhunda, giovane innocente, bruciata viva a Kabul
I funerali della giovane Farkhunda, linciata e bruciata viva perché accusata ingiustamente di aver oltraggiato il Corano *
Militanti per i diritti umani afghani sono scesi in piazza oggi a Kabul ed Herat City (Afghanistan occidentale) chiedendo "giustizia per Farkhunda", la ragazza di 27 anni linciata e poi bruciata vicino ad una moschea da una folla inferocita che la accusava ingiustamente di avere oltraggiato copie del Corano. In entrambe le manifestazioni, riferisce il portale di notizie Khaama Press, i partecipanti hanno chiesto a gran voce al governo di punire severamente gli autori del delitto ed hanno mostrato cartelli con la foto della donna con il volto coperto di sangue poco prima di essere uccisa. Intanto Amnesty International ha diramato un comunicato in cui sollecita il governo di unita’ nazionale a far processare sia le persone coinvolte nell’omicidio sia gli agenti della polizia che hanno assistito ad esso senza intervenire.
La brigata criminale ha arrestato undici persone, presumibilmente responsabili di aver arringato la folla che ha linciato Farkhunda, mentre il ministero dell’Interno ha sospeso dal servizio 13 poliziotti, fra cui il responsabile del commissariato interessato alla vicenda. Da parte sua il presidente della repubblica Ashraf Ghani, prima di partire sabato per gli Usa, ha disposto la costituzione di una speciale commissione investigativa composta da 12 membri che dovra’ presentare un rapporto sull’accaduto al palazzo presidenziale.
Iran, il testamento di Reyhaneh: ‘Dona i miei organi. E che il vento mi porti via’
Le parole della donna, impiccata con l’accusa di avere ucciso chi voleva violentarla, indirizzate alla madre Sholeh: "Il mondo non ci ama. Ho sbagliato a fidarmi della giustizia"
di F. Q. (Il Fatto, 27 ottobre 2014)
“Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono”.
E’ questo un passaggio del testamento di Reyhaneh Jabbari, 26 anni, impiccata dal regime per avere ucciso l’uomo che voleva stuprarla. Il 1 aprile, una volta saputo della sua condanna a morte, aveva registrato per la madre un audio messaggio con le sue ultime volontà. Le sue parole sono state tradotte in inglese dal National Council of Resistance in Iran.
Riportiamo sotto il testo in italiano, che è stato rilanciato da molti siti online.
Cara Sholeh,
oggi ho saputo che per me è arrivato il momento di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime iraniano). Mi ferisce che non mi abbia fatto sapere tu stessa che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi che avrei dovuto saperlo? Lo sai quanto mi vergogno della tua tristezza. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella malaugurata notte avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in un qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che non siamo né ricchi né potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita con sofferenza e vergogna e qualche anno dopo saresti morta per questo dolore. Sarebbe andata così.
Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita.
Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che ogni nascita porta con sé una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel conducente che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando. Ma lui iniziò a frustarlo sulla testa e sul volto finché non morì. Tu mi hai detto che per i valori si deve perseverare, anche a costo di morire.
Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che bisogna essere signore di fronte alle liti e alle lamentele. Ti ricordi quanto mettevi in evidenza il modo in cui ci comportavamo? La tua visione era sbagliata. A fronte di quanto mi è successo, queste lezioni non mi sono servite. Essermi presentata davanti alla corte mi ha fatto passare per un’assassina a sangue freddo e una criminale spietata. Non ho versato lacrime. Non ho supplicato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge.
Ma sono stata accusata di restare indifferente di fronte ad un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e scansavo gli scarafaggi prendendoli per le antenne. E ora sono colpevole di omicidio premeditato. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento da ragazzo. Il giudice non si è neanche preoccupato di considerare il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate.
Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato il fatto che le mie mani non fossero ruvide come quelle di uno sportivo o di un pugile. E questo paese che tu mi hai insegnato ad amare non mi ha mai voluto. E nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo le parole più volgari. Quando ho perduto l’ultima traccia della mia bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.
Cara Sholeh, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza di questi tempi non è apprezzata. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione. E persino la bellezza di una voce dolce.
Mia cara madre, il mio modo di pensare è cambiato, ma tu non ne sei responsabile. Le mie parole sono per sempre e le ho affidate a una persona in modo che, quando verrò giustiziata a tua insaputa, ti siano consegnate. In eredità, ti lascio molti dei miei scritti.
Prima di morire, però, voglio qualcosa da te, che ti chiedo di realizzare ad ogni costo. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che per farlo avrai bisogno di tempo. Perciò ti comunico prima una parte delle mie volontà. Ti prego, non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e comunichi a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere una lettera simile dalla prigione che possa essere approvata dal direttore. Perciò, ancora una volta, dovrai soffrire per causa mia. E’ l’unica cosa per la quale, se implorerai, non mi arrabbierò. Anche se ti ho detto molte volte di non implorare per salvarmi dall’esecuzione.
Mia dolce madre, cara Sholeh, l’unica cosa che mi è più cara della mia stessa vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Ti dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta a lutto per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via. Il mondo non ci ama. Un giorno vedremo se Dio sarà dalla nostra parte
Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo a lui e abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli inquirenti, accuserò l’ispettore Shamlou, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò il Dottor Farvandi, accuserò Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male e calpestato i miei diritti e non si sono accorti che la realtà, a volte, non è ciò che appare.
Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo gli accusatori saremmo tu ed io, mentre gli altri saranno gli imputati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.
Reyhaneh
Un anno dopo
Storia di Reyhaneh giustiziata in Iran
«Lascio le mie lettere al vento della libertà»
di Reyhaneh Jabbari (Corriere della Sera, 25.10.2015)
Tre uomini mostruosi mi aspettavano in una piccola stanza. Mi hanno ammanettata allo schienale della seggiola e obbligata a sedere per terra. Ho appoggiato la testa al sedile, non riuscivo a distinguere le voci, uno dopo l’altro urlavano: «Pensi di essere furba? Quelli più furbi di te sono diventati “topi”. Ora tu, pulcino, chi vuoi imitare?».
Nella schiena ho sentito un colpo. Ho sentito la mia pelle gonfiarsi e ad un altro colpo si è strappata. Il fuoco nel mio corpo è divampato. Gridavo, ma dentro, sommessamente. Le loro urla erano assordanti: «Dio ti maledice». E ancora mi percuotevano. Io, a terra, umiliata, affogata nella mia stessa saliva, nel mio muco e nelle lacrime.
Io, Reyhaneh, ora ho ventisei anni e porto ancora sulla mia schiena le cicatrici, ora sono più pallide ma si vedono negli stessi punti di quando al rientro dagli interrogatori le donne drogate e prostitute pregavano per alleviare il mio dolore. In queste donne, per la prima volta nella mia vita ho visto tracce d’affetto, ed erano le stesse donne che, se le avessi viste per strada, le avrei guardate con disprezzo. Questi giorni, scuri e amari sono finiti con la mia confessione. Ho scritto tutto quello che i tre uomini mostruosi volevano.
Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e, nonostante le tra cce di dolore lasciate sul mio corpo e nella mia anima, non ho nei confronti dei miei torturatori alcun desiderio di vendetta. Non ho sentimenti di vendetta neppure per quell’uomo grasso che con gli scarponi mi ha schiacciato le dita dei piedi, mi ha rotto le unghie e queste ancora crescono storte e circondate da una carne più scura. In questo mondo non mi lamento, ma nell’altro li denuncio davanti a Dio.
Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e porto un carico di dolore e sofferenza: per liberarmi di questo peso scrivo. Vorrei finire al più presto possibile, perché ho paura di non aver tempo sufficiente per scrivere. Darò queste lettere a una signora gentile che in questi giorni sarà liberata. Dicevo sempre a mia madre che volevo lasciarle in eredità tanti fogli. In questi anni le ho mandato tante lettere, tranne quelle scoperte e sequestrate.
La mia amica ha l’incarico di dare queste lettere al vento della libertà, perché possano volare dappertutto. Un giorno ho deciso di organizzare un compleanno per una prigioniera il cui nome non è importante, era una qualsiasi, potevo essere io. Ho fatto girare la voce: alcune preparavano cartoline di auguri, altre pensierini, alcune cercavano pentole da usare come strumenti musicali.
Con tante piccole torte confezionate e farcite, pezzi di frutta sciroppata e noci e - colpo finale - uno strato di mascarpone, abbiamo preparato quella che sembrava una torta di pasticceria. Altre volte abbiamo ripetuto la festa, ma poi tornava la tristezza.
In questo periodo hanno giustiziato una donna di nome Zahra. Aveva ucciso il marito e aveva tre figlie che avrebbero potuto perdonarla evitandole l’impiccagione ma, per le calunnie sulla madre dette loro dal giudice, non l’hanno salvata. Zahra stava lavorando a maglia per una delle sue ragazze quando è stata impiccata e la maglia è rimasta incompiuta.
Iran, libertà per Sakineh l’adultera sfuggita al boia
di Cecilia Zecchinelli (Corriere della sera, 20.03.2014)
Vi ricordate di Sakineh? Per mesi, nel 2010, era stata l’iraniana più celebre al mondo, la madre di famiglia condannata alla lapidazione per adulterio e comunque destinata alla morte per concorso nell’omicidio del marito. Ora, otto anni dopo l’arresto e quattro dall’enorme mobilitazione internazionale che aveva coinvolto società civili e governi, Sakineh Mohammadi Ashtiani è tornata libera.
Lo ha annunciato martedì a Teheran il Segretario generale del Consiglio Superiore iraniano per i diritti dell’uomo, Mohammad Javad Larijani: «È stata scarcerata per la sua buona condotta e perché la nostra religione ha misericordia nei confronti delle donne», ha spiegato Larijani, consigliere della Guida Suprema e fratello del più celebre Ali, capo del Parlamento. Non è chiaro se il rilascio sia definitivo anche se è probabile.
L’intricata vicenda giudiziaria della donna di Tabriz oggi 47enne, arrestata nel 2006 e più volte vicina alla lapidazione o alla forca (comprese finte esecuzioni e con vari annunci, poi smentiti, di condanna eseguita), pare terminata. Il suo nome tornerà a circolare per qualche giorno e poi sarà dimenticato.
Eppure per lei si era mobilitato davvero mezzo mondo: manifestazioni si erano tenute in decine di città, la sua gigantografia era stata appesa nelle capitali (a Roma sul Campidoglio), l’Unione europea, gli Stati Uniti, la Francia e altri governi avevano lanciato condanne e appelli a Teheran accanto a tutte le Ong umanitarie, a stuoli di intellettuali (in prima fila Bernard-Henri Lévy). Il brasiliano Lula le aveva offerto asilo politico (rifiutato da Teheran).
E l’impresa non era stata solo quella di «salvare Sakineh», ormai icona indiscussa della feroce follia della Repubblica islamica, ma di capire qualcosa nell’opaco iter giudiziario della donna, tra avvocati arrestati o costretti a fuggire, il figlio-portavoce anche lui in cella, il silenzio dei media locali, le affermazioni contradittorie delle autorità. Ancora oggi non è davvero certo cosa sia successo: recentemente era circolata la voce del suicidio di Sakineh, prima ancora erano uscite «notizie» che confermavano la pena di morte. Poi l’annuncio di Larijani, seppure carente di dettagli. «Sakineh è libera».
Resta il fatto che se il mondo era insorto nel nome di una detenuta comune, sulla cui innocenza i dubbi sono più che leciti anche se certo la pena di morte non sarebbe stata accettabile, in Iran ci sono centinaia di prigionieri condannati o in attesa di giudizio, torturati o uccisi, spesso solo per reati politici, ignorati quasi del tutto da noi.
Tra i tanti nomi, quello di Bahareh Hadayat, l’attivista e femminista 33enne condannata nel 2010 a dieci anni per il suo impegno, malata e non curata nel famigerato carcere di Evin. Una campagna per liberarla è stata lanciata dagli esuli politici iraniani, prima tra tutti dalla Nobel Shirin Ebadi. Nel convegno del Sant’Anna di Pisa, l’8 marzo, Ebadi e molte attiviste e studiose iraniane hanno chiesto a tutti di non dimenticarla, di aiutare Bahareh e le tante altre donne (e uomini) sepolte vive nel silenzio del mondo.
Islam femminista riletture del corano in una galassia plurale
di Renata Pepicelli (il manifesto, 09.01.2011)
All’alba del XXI secolo sono sempre più numerose le donne che, nei paesi islamici e non solo, considerano il Corano come uno dei principali strumenti per rivendicare l’uguaglianza di genere. Convinte che l’islam sia portatore di un inequivocabile messaggio di giustizia, rileggono i testi sacri attraverso l’ijtihad (lo sforzo interpretativo indipendente) da una prospettiva femminile, enfatizzando gli elementi di uguaglianza e additando come interpretazioni erronee e patriarcali quelle letture che considerano gli uomini superiori alle donne. Diverse per età, classe, professione, collocazione geografica, queste donne, che siano studiose dei testi sacri, attiviste per i diritti delle donne, o semplici credenti, sono accomunate dal proporre esegesi alternative (tafsir) del Corano.
Ciò avviene sia in contesti in cui l’islam è minoritario, come i paesi occidentali - dove, in seguito a migrazioni e a conversioni, la presenza musulmana è però in crescita - sia in quelli dove è la religione maggioritaria, o addirittura ufficiale. Tra questi ultimi, l’Iran è sicuramente uno dei luoghi dove si registrano i dibattiti più interessanti e dove i discorsi del femminismo islamico hanno attecchito per prima.
Da questa prospettiva prende avvio la riflessione dell’iranologa Anna Vanzan nel volume Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, da poco uscito per Bruno Mondadori (pp. 177, euro 20). In un percorso che va dalla Malesia alla Turchia, dall’Iran al Marocco, dall’Italia all’Egitto, Vanzan propone in modo piano e scorrevole un’analisi del crescente fenomeno di una declinazione al femminile dell’islam. Ma è in particolare sull’Iran che la studiosa si concentra, descrivendo il coraggio e la passione con la quale le cosiddette «femministe islamiche» sfidano il regime iraniano proprio su quel terreno, l’islam, su cui si fonda la legittimità del governo.
Lungo più capitoli si susseguono infatti ritratti di donne moderne, emancipate e al tempo stesso devote, pie, esperte in questioni teologiche, che contestano il ruolo assegnato loro dal governo e le interpretazioni della relazione tra i generi date dalla maggioranza dei clerici. Tra di loro, si possono ricordare almeno Nahid Tavasoli, una delle massime esperte di tafsir dell’Iran, Fazeh Hashemi Rafsanjani, fondatrice nel ’98 del primo quotidiano femminile del dopo rivoluzione, «Zan» (donna), e oggi tra le principali oppositrici del regime, e Shahla Sherkat, direttrice della rivista «Zanan» (donne) che per prima ha sdoganato il termine «femminismo» in ambito islamico.
Una pluralità di movimenti
La carrellata di ritratti di femministe islamiche proposta da Vanzan risulta particolarmente interessante non soltanto per l’intrinseco valore di testimonianza che queste biografie rivestono, ma anche perché il libro arriva sulla scena italiana in un momento che sembra esser diventato finalmente fertile per il dibattito su donne, femminismo e diritti nell’islam. Le donne di Allah si colloca infatti all’interno di una fiorente stagione di pubblicazioni sulle trasformazioni del movimento delle donne nel mondo islamico.
Negli ultimi due anni sono apparsi diversi volumi sull’argomento (vedi la scheda in basso) e anche giornali e riviste non specializzate o accademiche gli hanno dedicato più volte spazio e attenzione. Sono studi e articoli che mostrano una realtà in continua evoluzione e che smettono di considerare le musulmane necessariamente vittime della loro religione e bisognose di essere salvate, ma piuttosto danno loro voce in quanto protagoniste dell’affermazione dell’islam nel XXI secolo. In questi testi le femministe islamiche (sia le autrici di nuove interpretazioni dei testi sacri sia le attiviste per i diritti delle donne) sono infatti descritte come donne che riposizionano la religione al centro della loro vita privata e pubblica, e ne fanno uno strumento di emancipazione.
Ripercorrendo itinerari, discorsi e pratiche dell’attivismo femminile in una cornice islamica, questi saggi presentano un’importante e significativa novità: offrono una prospettiva analitica che vuole da un lato abbandonare l’approccio orientalista che ha caratterizzato molti degli studi sul tema, e dall’altro rendere giustizia della pluralità di movimenti che attraversano il mondo islamico, perché,come suggerisce il sottotitolo del libro di Vanzan, siamo di fronte a una varietà di movimenti femministi che seppur attivi su scala globale, hanno caratteristiche locali, legate agli specifici contesti e problemi in cui nascono e operano.
Le condizioni delle donne che vivono in Marocco sono ben diverse da quelle delle donne iraniane o malesi. Non esiste un solo modo di vivere e interpretare l’islam, così come non esiste «la donna musulmana» tout court, uguale in ogni tempo e in ogni luogo. I paesi musulmani sono diversi per leggi, istituzioni e storia. Lo dimostrano bene libri come Essere donna in Asia a cura di Giampaolo Calchi Novati (Carocci 2010, collana Asia Major, pp. 256, euro 25), che dedica diversi capitoli alla condizione delle donne musulmane in paesi come l’Iran e il Pakistan, l’Indonesia e l’India, o, un paio di anni fa, Musulmane rivelate di Ruba Salih (Carocci 2008) che ricostruisce la storia della donna nell’islam con uno sguardo particolarmente attento al presente e alle condizioni della diaspora islamica. Perché, è importante ricordarlo, quando le donne migrano si registrano significativi cambiamenti nelle loro vite e nelle vite delle loro figlie, ragazze di seconda se non anche terza generazione. E queste ultime guardano al femminismo islamico con particolare interesse in quanto permette loro di conciliare la pluralità di identità e appartenenze che le riguarda: essere musulmane, occidentali, credenti, praticanti, femministe. Secondo molte di loro, questo movimento non pretende che le donne operino una scelta a favore di un’identità piuttosto che di un’altra.
Non è un caso che l’ultimo - il quarto in ordine di tempo - convegno internazionale sul femminismo islamico che si è tenuto a Madrid tra il 21 e il 24 ottobre 2010 (www.islamicfeminism.org) abbia visto da un lato del tavolo attiviste e teologhe provenienti da Iran, Egitto, Stati Uniti, Gran Bretagna, Pakistan, Malesia, Marocco, e dall’altro donne musulmane e non, convertite ed emigrate, e soprattutto ragazze di seconda generazione.
Dinamiche in evoluzione
Alla conferenza di Madrid sono emerse diverse posizioni interne allo stesso femminismo islamico, che sono eredi o quanto meno hanno un debito di continuità con la storia del femminismo. Nel mondo islamico i movimenti delle donne hanno infatti una storia lunga oltre un secolo. I lavori di studiose dell’islam come Biancamaria Scarcia Amoretti e di arabiste come Isabella Camera D’Afflitto mostrano un significativo attivismo femminista sin dall’inizio del Novecento. Lungo tutto il secolo scorso donne come May Ziyada, Hoda Shaarawi, Dorya Shafiq, Latifa al Zayyat, Hoda Barakat, Ghada Samman, Nawal al Saadawi (per limitarci a qualche nome e al mondo arabo) si sono battute per l’affermazione del diritto all’uguaglianza.
A differenza delle femministe islamiche, le loro battaglie non possono però essere incluse in una prospettiva islamica, bensì in un quadro di rivendicazioni universaliste, in molti casi legate alle lotte per l’indipendenza contro il colonialismo e agli ideali socialisti e comunisti. Il loro impegno va iscritto nel solco della grande tradizione di femminismo secolare che ha caratterizzato la storia del movimento delle donne, e che oggi continua a essere significativo nel mondo islamico.
Femminismo secolare e femminismo islamico sono oggi quindi le due grandi anime che caratterizzano il movimento delle donne dal Marocco all’Indonesia. Sono anime a volte in contraddizione tra di loro, a volte in aperto conflitto, in taluni casi alla ricerca di elementi di vicinanza e continuità. Si tratta di una dinamica relazionale in evoluzione, in cui non mancano le reciproche accuse di tradimento: nei confronti delle femministe secolari di aver abdicato alla propria cultura, storia, religione a favore di un’idea di emancipazione della donna che nega che la religione possa essere uno spazio di libertà; nei confronti delle femministe islamiche di aver ceduto alle istanze degli islamisti, di essersi piegate a concorrere sul loro stesso terreno, l’islam, contribuendo alla crescente islamizzazione del discorso politico e culturale, e in più autolegittimandosi come l’unica forma autoctona di femminismo in contesti musulmani.
A ben guardare le questioni poste dall’emergere del femminismo islamico interrogano tutte e tutti noi da vicino, non solo perché ci invitano a considerare la dinamicità di un universo troppo spesso banalmente stigmatizzato come monolitico, ma anche perché ci inducono a riflettere su quanto sta accadendo alla questione di genere in Italia e alle difficoltà del movimento femminile in questo paese.
L’analisi di quanto sta avvenendo altrove può forse aiutarci a ripensarci, può suggerire nuove prospettive di sguardo sull’altra/altro, ma anche su noi stesse/i. Da tempo Fatima Mernissi,scrittrice, sociologa e femminista (islamica) marocchina, ci spinge a riflettere, piuttosto che sul velo delle donne musulmane, sulla tirannia della taglia 42 che costringe le occidentali a conformarsi a un unico ideale estetico che pretende omologazione, sacrificio, snaturamento della propria identità, idolatria di un corpo che si svuota e si fa merce, oggetto di consumo, mentre la capacità di scelta e autodeterminazione da parte delle donne, e in particolare delle più giovani, si va erodendo.
Con gli occhi delle altre
Un viaggio nei femminismi dell’islam può quindi essere un’occasione per rimettere in discussione molti stereotipi sul mondo islamico e le sue donne, ma anche per guardarsi con gli occhi delle altre. Si tratta indubbiamente di una sfida importante, e non facile, per i movimenti femministi in Italia perché richiede di accettare l’idea che i percorsi che portano all’emancipazione femminile non debbano necessariamente svilupparsi adottando il modello universalista dell’ideologia femminista cosiddetta «occidentale», «secolare», ma che possano invece realizzarsi per molte donne attraverso l’accettazione e la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e religiosa. E proprio la questione della religione in quanto spazio di emancipazione può risultare particolarmente spinosa da condividere per una parte del pensiero femminista di questo paese.
Ma i tempi sembrano ormai pronti per il confronto e il dibattito. Le sfide poste dal femminismo islamico possono rappresentare un’importante occasione per ripensare il movimento delle donne in Italia, per includere anche le donne migranti, musulmane e non, nella ricerca di nuovi discorsi e nuove pratiche sulla strada dell’uguaglianza di genere.
Prospettive sul mutamento
Intorno ai movimenti femministi che ormai da diversi anni si battono contro i settori più integralisti del mondo musulmano, utilizzando come arma il Corano riletto in una prospettiva di genere, sono usciti in Italia negli ultimi mesi numerosi libri - testi di taglio giornalistico, come «Figlie dell’Islam» di Lilli Gruber (Rizzoli 2008), ma anche saggi che inquadrano il fenomeno da una prospettiva storica e sociologica, come «Teologhe, musulmane, femministe» di Jolanda Guardi e Renata Bedendo (Effatà, 2009) e «Femminismo islamico» di Renata Pepicelli, pubblicato quest’anno da Carocci (pp. 160, euro 12,60). Tra le numerose opere uscite all’estero, vale infine la pena di consultare «Women Claim Islam: Creating Islamic Feminism through Literature» di Miriam Cooke (Routledge 2001) e «Feminism in Islam: Secular and Religious Convergences» di Margot Badran (Oneworld 2009).
RAFIA ZAKARIA: DISTINGUERE LA FEDE DALLA PROPAGANDA *
Il nome di Sakineh Ashtiani e’ ora ben conosciuto nel mondo. La quarantaduenne, madre di due figli, e’ stata imprigionata per omicidio ed adulterio in Iran. E’ stata nel braccio della morte fin dal 2006. Quest’anno i suoi figli hanno dato inizio ad una campagna internazionale per prevenire la sua esecuzione. Alcuni rapporti assicuravano che, a causa dell’accusa di adulterio, Sakineh sarebbe stata lapidata a morte. Appelli sono stati lanciati da organizzazioni per i diritti umani in tutto il mondo e la petizione "Free Sakineh" conta celebrita’ internazionali tra i suoi firmatari.
L’8 settembre 2010, Ramin Mehmanparast, un portavoce del governo iraniano, ha confermato che la sentenza della lapidazione era stata sospesa dal governo stesso, ma ha espresso l’opinone che la pena capitale sarebbe stata eseguita con altri metodi. In un blitz mediatico che ha accompagnato la sua presenza all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha spostato l’attenzione sul caso di una donna condannata a morte negli Usa. Una sua frase recita: "Una donna sta per essere giustiziata negli Stati Uniti per omicidio, ma nessuno protesta".
La strategia di Ahmadinejad, il giustificare la condanna a morte di una donna puntando il dito su un’altra, e’ assai vecchia. I leader mondiali, di routine, usano la condanna delle ingiustizie in altri paesi come argomento per imporre sfacciatamente ed impunemente una varieta’ di abusi ai loro popoli. Soprattutto nei paesi musulmani, l’esistenza dell’ingiustizia nei paesi occidentali sembra funzionare come scusa conveniente per gli eccessi locali.
Tuttavia, sul fronte internazionale, il caso di Sakineh Ashtiani e l’uso della lapidazione hanno generato palese disapprovazione. La barbarie della lapidazione, di recente descritta nel film "Stoning of Soraya", ha indotto molte persone a concludere che l’Islam e’ univoco nel perpetrare tali tipi di castigo. Questa percezione, basata non solo sul caso di Sakineh, pone una sfida urgente e pressante alla teologia ed ai musulmani impegnati nel prevenire il furto della loro fede, che viene usata per obiettivi politici da svariati governanti. Molti musulmani hanno firmato la petizione per liberare Sakineh Ashtiani. Le loro argomentazioni sono pero’ tutte basate sui principi dei diritti umani invece che su argomenti teologici islamici.
Quest’ultimo paradigma e’ ora stato fatto proprio da un movimento emergente, guidato da donne musulmane, che cerca di sfidare la pretesa che pratiche come la lapidazione siano non discutibili ed immutabili, basate sulla legge islamica. Il movimento Musawah, iniziato nel 2007 da un’ong malese chiamata "Sister in Islam", cerca di sfidare le diseguaglianze e le istanze come la lapidazione all’interno della cornice concettuale dell’Islam. Il movimento, che include attiviste musulmane dell’Iran, della Nigeria, degli Usa, della Malesia, e di dozzine di altri paesi, ha il seguente principio guida: "Noi, come musulmane, dichiariamo che l’eguaglianza e la giustizia nella famiglia sono sia necessarie sia possibili. Crediamo fermamente che i principi dell’Islam siano una fonte di giustizia ed eguaglianza, opportunita’ e dignita’ per tutti gli esseri umani. Il momento per rendere concreti tali valori nelle nostre leggi e nelle nostre pratiche e’ ora".
In una conferenza tenuta nel febbraio dello scorso anno, la fondatrice di Musawah, Zainah Anwar, ha spiegato: "Molto spesso, le donne musulmane che chiedono giustizia e vogliono cambiare leggi discriminatorie si sentono rispondere: Questa e’ la legge di Dio, e come tale non soggetta a negoziazione o cambiamento". Ha aggiunto che la giustizia e’ un principio centrale ed intriseco all’Islam, e che le donne musulmane non si faranno ridurre al silenzio dalle aggressioni nella loro ricerca per ottenere giustizia ed eguaglianza.
Riguardo l’uso della lapidazione come castigo per l’adulterio, una prominente studiosa islamica femminista, Ziba Mir-Hosseini, socia di Musawah, ha pubblicato di recente una critica delle leggi che la permettono basata sulla teologia islamica. Nel suo documento, pubblicato sul sito web di Musawah ed intitolato "La criminalizzazione della sessualita’: le leggi sulla zina come violenza contro le donne nei contesti musulmani", Mir-Hosseini colloca i reati sessuali (zina) all’intersezione tra "religione, cultura e legge". Ne deduce che pratiche come la lapidazione vanno contrastate su piu’ livelli, in cui include la teologia, la diffusa percezione delle donne come oggetti di proprieta’, e la relazione con altre leggi e meccanismi legali che mettono le donne in condizioni di dipendenza da un "guardiano di sesso maschile". Un importante strumento per fare questo e’ il riconoscere che la maggioranza di tali precetti sono derivati dai fiqh, "pronunciamenti giuridici", resi legali dagli studiosi, ma assolutamente non presentabili come divini ed insuscettibili di cambiamento.
Un’argomentazione teologica contro la lapidazione e’ stata anche fornita dalla professoressa Asifa Quraishi, nel suo recente testo "Chi ha detto che la sharia chiede la lapidazione delle donne?". La professoressa Quraishi presenta una dettagliata discussione della pluralita’ interna alla legge islamica, dimostrando che i sostenitori della lapidazione come necessario elemento della sharia si stanno basando sulla scorretta presunzione che tutto quel che compone la sharia stessa provenga da ordini divini. Nel presentare le fonti plurali dei "pronunciamenti giuridici", Quraishi sottolinea che la differenza di opinioni e la diversita’ sono una parte essenziale della giurisprudenza islamica. Percio’, e’ una grossolana mistificazione dire che sostenere castighi come la lapidazione sia parte dell’essere un musulmano credente, e del credere nella sharia; cosi’ come, di conseguenza, dire che l’opporsi alla sharia sia essenziale per i diritti delle donne.
Le argomentazioni del movimento Musawah e di queste studiose sono sfaccettate: la prima distinzione dev’essere fatta fra la sharia come "via rivelata" e i fiqh, ovvero la scienza della giurisprudenza islamica. In secondo luogo, come disse Qasim bin Jawziyya, un giurista islamico del VII secolo: "I fondamenti della sharia hanno le loro radici nella saggezza e nella promozione del benessere degli esseri umani in questa vita ed oltre essa. La sharia abbraccia la giustizia, la gentilezza, il bene comune e la conoscenza". Con questi strumenti e’ certamente possibile formulare ragioni basate sui fiqh che si oppongano alla lapidazione e ad ogni altra forma di punizione barbarica, sia all’interno della cornice dell’Islam, sia all’interno di quella dei diritti umani.
La presenza della lapidazione, inflitta come castigo per crimini sessuali, nei codici penali dei paesi musulmani e la mancanza di opposizione ad essa dall’interno dell’Islam devono essere causa di pressante preoccupazione per tutti i musulmani. Non si stanno propagandando mistificazioni sulla legge religiosa solo per ingannare gli ignoranti, ma anche per usare la legge religiosa nell’arena politica, invece che come un attrezzo per la giustizia. Movimenti come Musawah ed il lavoro di studiosi emergenti possono provvedere ai musulmani i modi per distinguere la fede dalla propaganda.
*
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Rafia Zakaria per Awid - Associazione donne per lo sviluppo, dal titolo "Sakineh’s case & beyond" del 29 settembre 2010.
Rafia Zakaria, giurista, docente, saggista, e’ direttrice di Amnesty International Usa, direttrice del Muslim Women’s Legal Defense Fund for the Muslim Alliance of Indiana / The Julian Center Shelter; e’ editorialista del "Daily Times" in Pakistan e negli Stati Uniti scrive sul "New York Times", su "Arts and Letters Daily", su "The Nation" e sull’"American Prospect"]
COI PIEDI PER TERRA Numero 405 del 4 novembre 2010
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
CHIESA CATTOLICA. PENA DI MORTE NEL CATECHISMO
Dal 1976 negli Usa mandati a morte 1226 condannati *
Dal 1976, anno in cui la Corte Suprema reintrodusse in America la pena capitale, sono state messe a morte negli Stati Uniti 1.226 persone: 1.215 uomini e 11 donne. Nessuna in Virginia. Teresa Lewis, la disabile mentale di 41 anni, è la prima donna ad essere messa a morte in Virginia nell’arco di quasi cento anni. Nello Stato l’ultima esecuzione di una donna avvenne nel 1912, quando venne eseguita la sentenza nei confronti di Virginia Christian, una ragazza di 17 anni uccisa sulla sedia elettrica. Sempre in Virginia, la prima esecuzione documentata risale invece al 1632 con l’impiccagione di Jane Champion. Da quel giorno sono state 123 le donne messe a morte. Ma dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte, negli Stati Uniti sono state in tutto 11.
* l’Unità, 24.09.2010
USA
Virginia, giustiziata Teresa Lewis
Inutili gli appelli alla clemenza
L’esecuzione stanotte. La donna fu condannata nel 2003 per aver assoldato i killer che uccisero il marito e il figlio adottivo di lui. Inutili gli appelli alla clemenza, basati sui suoi ritardi mentali *
JARRAT (VIRGINIA) - Il miracolo dell’ultimo minuto non c’è stato. E sono stati inutili gli appelli alla clemanza giunti da tutto il mondo: "Quella donna ha ritardi mentali". Teresa Lewis, condannata nel 2003 alla pena di morte per aver pianificato l’assassinio del marito e del figlio adottivo di lui, è stata giustiziata in Virginia. Teresa, 41 anni, è così diventata la prima donna ad essere giustiziata in Virginia da un secolo, la prima in Usa dal 2005.
La sentenza è stata esguita alle 09:13, ora locale: un cocktail mortale di barbiturici ha fermato il cuore della donna, che aveva trascorso sette anni nel braccio della morte del carcere correzionale di Greenesville. La Lewis si era dichiarata colpevole di aver ordinato a due uomini, uno dei quali era il suo amante, di assassinare il marito e il figlio adottivo di lui, un ragazzo di 25 anni.
Secondo l’accusa, aveva pianificato il crimine a sangue freddo per incassare i soldi dell’assicurazione sulla vita, il che - secondo il giudice - gli assegnava una responsabilità maggiore sugli omicidi, rispetto ai suoi due complici, condannati "soltanto" all’ergastolo (tra l’altro il suo amante, Matthew Shallenberger, che all’epoca aveva 22 anni, si suicidò dopo la condanna).
Gli avvocati di lei hanno invece sostenuto fino all’ultimo che Teresa fosse stata raggirata dai due complici, più astuti di lei, e che la donna soffriva di un disturbo di personalità che la rendeva dipendente; e avevano persino presentato una lettera dei due uomini, i quali ammettevano di averla manipolata. Tra l’altro, la Lewis aveva un coefficiente intellettuale di 72, appena due punti sopra il limite che segna il limite legale per il quale un’esecuzione è incostituzionale (70 o meno).
Il suo caso aveva suscitato interesse in tutto il mondo e scatenato un’intensa campagna. che aveva fatto arrivare sul tavolo del governatore della Virginia, Robert McDonnell, quasi 4.000 richieste di grazia, tra i quali anche quelli di rappresentanti dell’Ue e personalità come lo scrittore John Grisham o Bianca Jagger. Persino il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, aveva fatto riferimento alla polemica paragonando il suo caso a quello di Sakineh, la donna iraniana che rischia la lapidazione in Iran.
Le sue ultime parole -dopo un pasto a base di pollo fritto, piselli al burro, torta di cioccolato, crosta di mele e una Soda da bere- sono state rivolte alla figlia: "Voglio solo che Cathy sappia che le voglio bene, e che mi dispiace molto".
* la Repubblica, 24 settembre 2010
La FArnesina: «Seguiamo il caso con attenzione»
I figli di Sakineh: «Muoriamo ogni giorno
Il mondo adesso non ci abbandoni»
L’appello lanciato attraverso una lettera aperta: «Siamo stati minacciati. Su nostra madre troppe menzogne» *
TEHERAN - «Aiutateci! Ci sentiamo soli e, tranne il nostro coraggioso avvocato Javid Hutan Kian, all’interno della Repubblica islamica siamo completamente abbandonati». È questo il disperato appello lanciato in una lettera aperta da Sajjad e Sahideh Ghaderzadeh, i due figli di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana che rischia la lapidazione per adulterio. La lettera è stata inviata dall’avvocato della famiglia, Hutan Kian, all’Adnkronos.
FARNESINA - All’appello ha risposto il ministero degli Esteri italiano, il quale «continua a seguire con attenzione il caso di Sakineh. Abbiamo apprezzato la sospensione della sentenza decisa dalle autorità iraniane», hanno detto fonti della Farnesina. «Ci auguriamo che attraverso la diplomazia e la mobilitazione internazionale si possa giungere a un annullamento della condanna a morte».
MINACCE - Nella lettera aperta i figli denunciano di aver subito delle minacce. «Gli agenti dell’intelligence, quando hanno fatto irruzione nell’ufficio del nostro legale - si legge - ci hanno minacciati, dicendoci chiaramente che, anche se un giorno dovessimo riuscire a salvare la vita di nostra madre, non avremmo comunque mai pace. Loro ci renderanno la vita insopportabile. Gli agenti hanno poi detto che l’opinione pubblica mondiale adesso è attenta alla vita di nostra madre, ma che, una volta calata l’attenzione, non ci sarà più interesse per questa vicenda e allora la nostra vita sarà rovinata».
MENZOGNE - Sajjad e Sahideh Ghaderzadeh si rivolgono quindi alla madre: «Siamo stanchi e non riusciamo più a sopportare la tua lontananza, ci manchi. Vorremmo tanto riabbracciarti e sentire il tuo profumo. Soltanto così avremmo un po’ di pace e tranquillità. Siamo stufi di sentire tutte queste menzogne e ingiuste accuse nei tuoi confronti. Tutto questo ci ha fatto soffrire troppo e abbiamo pianto pensando a te e al tuo destino. Sì madre! Abbiamo pianto così tanto che non abbiamo più lacrime da versare. Siamo distrutti per il tuo dolore. Non siamo più in grado di reggere questa situazione e abbiamo bisogno di te. Vogliamo piangere con te. Vogliamo riprendere a vivere con te».
L’APPELLO - Sajjad e Sahideh concludono la lettera lanciando un ulteriore appello alla comunità internazionale: «La nostra unica speranza, oltre al nostro avvocato, siete voi in tutto il mondo. Le vostre pressioni esercitate tramite i media internazionali e la vostra vicinanza sono molto preziose per noi e vi supplichiamo di continuare a sostenerci. Non abbandonateci! Non lasciateci qui soli. Vi supplichiamo». (fonte: Adnkronos).
* Corriere della sera, 16 settembre 2010
IRAN
Mottaki: "E’ solo propaganda dell’Occidente"
Il figlio di Sakineh: "Il caso è ancora aperto"
Per il ministro degli esteri iraniano la mobilitazione internazionale è un tentativo di far "esplodere il caso, politicizzarlo e trasformarlo in una sceneggiata politica". Sajjad chiede di non abbassare la guardia e continuare con le pressioni per salvare la madre: "Non abbiamo alcun documento ufficiale, la sentenza è solo sospesa non annullata". Anche il Nobel Renato Dulbecco aderisce all’appello *
TEHERAN - Il sostegno dell’Occidente a Sakineh è solo "propaganda" e la mobilitazione internazionale suscitata dal caso dell’adultera condannata alla lapidazione è "motivata politicamente. Una montatura dell’Occidente per esercitare pressioni sull’Iran". Questo l’attacco del ministro degli esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, riportato dal sito online della Press Tv. Si cerca - ha aggiunto Mottaki - di far "esplodere il caso, politicizzarlo e trasformarlo in una sceneggiata politica", per poi aggiungere: "I criminali non devono essere tutelati o premiati o accolti come rifugiati in altri paesi". Il responsabile degli Esteri di Teheran ha quindi criticato il "doppio standard" che usa "l’Occidente: i Paesi che violano i principi fondamentali dei diritti umani con centri di detenzione come Guantanamo o Abu Ghraib - ha rimarcato - non dovrebbero porsi come avvocati difensori dei diritti umani".
La lapidazione però al momento è sospesa. Ma Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh Ashtiani, non si arrende. La decisione di sospensione della condanna a morte di Teheran non è provata da alcun documento ufficiale. E’ scettico, preoccupato e continua a rivolgersi alla comunità internazionale perché non abbassi i toni, o la guardia. "Chiedo ai Paesi del G8, ai governi di Turchia e Brasile e al mondo intero di continuare a fare pressioni contro la Repubblica islamica e a non pensare che il caso si sia risolto". La condanna è stata sospesa, ma "sospesa non significa annullata", ha detto Sajjad sulla decisione di Teheran.
La raccolta di firme contro la sentenza di Sakineh sta continuando senza interruzione ed è arrivata a 135mila adesioni 2. Al nostro appello, già accolto da premi Nobel 3 come Rita Levi-Motalcini e Luc Montagnier, si aggiunge anche Renato Dulbecco, premiato per la medicina nel 1975 insieme a David Baltimore e Howard Temin. La presidenza dell’Unione europea ha sollecitato l’annullamento della condanna con una nota in cui sottolinea che la sospensione della pena della lapidazione "non è sufficiente" per rispettare i criteri dei diritti dell’uomo difesi dall’Ue. Il figlio di Sakineh però continua a chiedere che l’attenzione resti alta.
"Non abbiamo alcun documento ufficiale, se la Repubblica islamica è sincera, dovrebbe fornire le prove" scrive Sajjad. "Noi, i figli di Sakineh Mohammadi Ashtiani - aggiunge - dichiariamo che nostra madre è innocente e deve essere liberata immediatamente e incondizionatamente dalla Repubblica islamica". Il riferimento è alle dichiarazioni del portavoce del ministero iraniano degli Esteri, Ramin Mehmanparast, in base alle quali Teheran ha bloccato la condanna per adulterio, ma non quella per complicità nell’omicidio del marito. "Al momento non abbiamo ricevuto alcun documento ufficiale e legale sulla sospensione della sentenza di lapidazione e di morte - spiega - e di conseguenza non accettiamo quelle affermazioni. Devono consegnarci dei documenti legali a questo riguardo".
Anche l’avvocato che rappresenta Sakineh, Javid Houtan Kian, invita alla cautela e ricorda che l’annuncio della sospensione della pena è stato del governo iraniano, quando invece è il potere giudiziario a decidere. "Il ministero iraniano degli Affari Esteri e quindi il governo iraniano, che rappresenta l’esecutivo, non ha il potere di sospendere la sentenza, che spetta invece al potere giudiziario. Solo due persone in Iran possono farlo: il capo della magistratura, Larijani. E il capo del settore n.9 del Consiglio Supremo del Paese, Vavoudi Mazandarani. E inoltre, come avvocato della signora Ashtiani, avrei dovuto essere la prima persona messa al corrente della decisione, il che non è stato".
Quanto alla confessione di sua madre, Sajjad afferma che "dal momento che non si è svolta in presenza del nostro legale, Hootan Kian, ma piuttosto in presenza di Azad Press, non possiamo confermarne i contenuti, dal momento che le circostanze in cui si è svolta questa intervista non sono chiare". "Sulle percosse e ai maltrattamenti relativi a tale intervista - aggiunge - l’avvocato Kian non ha ancora ricevuto alcuna informazione", mentre "sul fatto che mia madre ha detto che ci incontravamo con cadenza settimanale, la Repubblica islamica deve fornire le prove di queste visite settimanali - conclude - il nostro nome dovrebbe essere registrato per dimostrare che ci siamo recati là a visitare l’internato".
Il presidente della commissione Giustizia del Parlamento iraniano, Ali Shahrokhi, incontrando ieri a Teheran il vicepresidente della commissione Giustizia del Senato italiano Alberto Maritati era stato rassicurante. "Non credo Sakineh sarà mai lapidata o impiccata", aveva detto come ha riferito lo stesso senatore del Pd che si era recato in Iran a titolo personale. "Gli iraniani mi hanno detto che si sentono sempre messi da parte e non vengono ascoltati e questo crea delle incomprensioni come sul caso Sakineh che ha dato vita a un importante movimento dell’opinione pubblica italiana. La strada è questa, dobbiamo dialogare", ha detto Maritati.
Il parlamentare iraniano ha poi sottolineato che in Iran c’è un disegno di legge già approvato che prevede l’abolizione della lapidazione e che il testo è ora all’attenzione del Consiglio dei Pasdaran. Un concetto ribadito dal presidente della Commissione diritti umani del Parlamento iraniano, Larijani, che ha assicurato la revisione del processo. Al momento ci sono ancora 15 persone in attesa di essere giustiziati con la lapidazione. Sono dieci donne e cinque uomini, la lapidazione viene eseguita per rapporti sessuali, per gli altri reati c’è l’impiccagione.
Corano bruciato e donna lapidata?
di LORENZO MONDO La Stampa, 12/9/20)
Il mondo in balia di un idiota. È l’esatto e lapidario giudizio espresso sulla pensata del reverendo, si fa per dire, Terry Jones, pastore di una minuscola, insignificante Chiesa battista degli Stati Uniti, che ha promesso di bruciare pubblicamente alcune copie del Corano.
Immediata è stata la reazione del generale Petraeus, comandante delle truppe americane in Afghanistan, contro un gesto delirante che - ha detto - potrebbe causare la morte di molti dei suoi soldati. Ma non è soltanto quel teatro di guerra, dove opera il fondamentalismo talebano, a essere in ebollizione.
Crescono le proteste e si minacciano attentati in varie parti dell’ecumene islamica. C’era in fondo da aspettarselo: le famose vignette satiriche su Maometto, che avevano già suscitato tanta rabbia, sono sopravanzate dall’oltraggio al libro sacro che, per i musulmani, non venne ispirato ma dettato da Dio, virgola dopo virgola, al suo profeta.
Noi, cristiani o agnostici, pur deplorando il rogo spettacolare di un libro, caro a moltitudini di credenti, assistiamo con apprensione alla persistenza di un radicalismo religioso così primitivo e minaccioso. Così esteso, al confronto delle minoranze fondamentaliste che allignano nell’americana «cintura della Bibbia».
Chi bruciasse una Bibbia, con tutta l’enfasi possibile, passerebbe da noi inosservato e non, necessariamente, per indifferenza nei riguardi del sacro testo. Perché varrebbe semmai, in linea con i suoi insegnamenti, la sollecitudine per le persone. Nella particolare contingenza, ci preoccupa la sorte delle comunità cristiane del Medio Oriente che, già perseguitate oltre misura, rischiano adesso di pagare un ulteriore tributo di sangue.
Ma non si tratta soltanto d’una questione, per così dire, di famiglia. Accanto agli stolidi propositi del signor Jones abbiamo letto sui giornali, con inquietante coincidenza, i malcerti sviluppi del caso Sakineh, la donna iraniana condannata a morte (l’esecuzione della sentenza è stata sospesa solo provvisoriamente). Non vorremmo che un rogo cartaceo offrisse un pretesto agli ayatollah di Teheran per procedere alla lapidazione effettiva di una donna, in spregio alla mobilitazione degli occidentali «sacrileghi» per la sua salvezza.
Lo «scontro di civiltà» previsto dal politologo Hungtinton si scongiura, oltreché dialogando con l’Islam moderato, evitando anche offensive provocazioni.
Rogo Corano, proteste i proteste in India
13 morti, bruciata scuola cristiana
Scoppiano le rivolte contro gli Usa e i "dissacratori" del libro sacro dell’Islam. Le forze dell’ordine sono intervenute contro la folla uccidendo 7 giovani e ferendone una ventina. Assaltati edifici governativi, veicoli e abitazioni. E’ stata la giornata più sanguinosa dall’inizio del movimento di protesta contro il governo *
SRINAGAR- Tredici persone sono morte e altre 75 sono rimaste ferite nel Kashmir indiano - regione a maggioranza musulmana - durante una violenta protesta contro il falò dei Corani 1minacciato per l’11 settembre e poi annullato dal pastore americano Terry Jones.
I manifestanti hanno assaltato e incendiato una scuola missionaria cristiana. La folla, scandendo slogan contro gli Stati Uniti e i dissacratori del libro sacro dell’Islam, ha appiccato il fuoco all’istituto scolastico privato che si trova a 45 chilometri dal capoluogo Srinagar e che appartiene a un gruppo missionario cristiano. Le forze dell’ordine sono intervenute uccidendo 5/7 persone e ferendone una ventina. La folla ha impedito ai vigili del fuoco di raggiungere l’edificio di legno, che è stato del tutto distrutto dal fuoco, poi ha preso d’assalto edifici governativi, veicoli, abitazioni e danneggiato altre proprietà governative.
In violente proteste scoppiate a Budgam, Bandipora e Saraf-e-Sharif sono morti altri dimostranti che hanno fatto salire il bilancio dei morti della giornata a un totale di 13 (12 secondo altre fonti come l’agenzia Pti, 15 per la Bbc, tra i quali anche uno studente di 12-13 anni). Fra le vittime accertate c’è un poliziotto. Con le sei vittime nelle manifestazioni contro Nuova delhi, oggi è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio del movimento di protesta contro il governo centrale indiano tre mesi fa. Dimostranti anti-americani ieri avevano assaltato anche una chiesa nello Stato indiano del Punjab.
Dopo le proteste e l’allarme in tutto il mondo contro il rogo del Corano annunciato da Jones (era interventuo anche il presidente americano Barack Obama), il pastore aveva deciso all’ultimo momento di annullare il rogo 2, ma due predicatori evangelici hanno dato fuoco a due copie del Corano nel Tennessee e ci sarebbero stati anche emuli a New York 3. In un comunicato l’ambasciatore statunitense a New Delhi, Timothy Roemer, ha detto che gli Usa sono "costernati" per questi episodi. Il diplomatico ha condannato "l’abominevole" intenzione del pastore che non è "rappresentativa dei valori americani".
Il leader separatista Syed Ali Geelani, che ha organizzato scioperi e manifestazioni, ha lanciato un appello alla calma. "Condanniamo con forza coloro che hanno incendiato la scuola cristiana", ha detto. "Chiedo ai musulmani di proteggere le minoranze e i loro luoghi di culto", ha aggiunto. Intanto oggi il governo si era riunito per decidere la revoca parziale dello stato d’emergenza decretato in quattro distretti del Kashmir vent’anni fa nel tentativo di smorzare la tensione e porre fine alle manifestazioni. Il Jammu-Kashmir è il solo stato dell’unione indiana dove la popolazione è a maggioranza musulmana. L’altra parte del Kashmir è controllata dal Pakistan.
La parte indiana è teatro da vent’anni di una rivolta contro l’amministrazione di Nuova Delhi che ha provocato più di 47mila morti dal 1989. Le forze di sicurezza indiane da tre mesi sono impegnate a contenere le violenze innescate dalla morte di uno studente di 17 anni, ucciso dalla polizia l’11 giugno in una manifestazione anti-indiana. Negli ultimi due mesi, 70 persone sono state uccise, la maggior parte dalle forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco sui manifestanti.
* la Repubblica, 13 settembre 2010
IRAN
Sakineh, l’annuncio del procuratore
"Sarà impiccata per omicidio"
La donna condannata alla lapidazione per adulterio sarà invece uccisa sul patibolo per il reato di complicità nell’assassinio del marito. Il giudice: "La questione non va politicizzata, non ci facciamo influenzare dalla propaganda dell’Occidente". Il ministero degli Esteri: "Procedimento ancora in corso" *
TEHERAN - Sakineh non sarà lapidata, ma non sfuggirà comunque la condanna a morte: la donna iraniana, per cui si è mobilitato il mondo intero , sarà impiccata. Il procuratore generale dell’Iran, Gholam Hussein Mohsen Ejei, ha annunciato che Sakineh Mohamadi Ashtiani, la 43enne che rischiava la lapidazione perché accusata di adulterio, è stata condannata a morte per un altro reato, la complicità nell’assassinio del marito e per questo finirà sul patibolo. Sullo stato del procedimento penale interviene però il ministero degli Esteri che all’Ansa fa sapere tramite il portavoce Ramin Mehman-Parast che "le procedure legali non sono concluse, un verdetto sarà deciso quando saranno terminate".
"In base alla decisione del tribunale, è stata condannata per omicidio", ha però ribadito il giudice religioso secondo quanto riporta il Teheran Times, "e la pena per questo delitto ha preminenza sul reato di adulterio". Quanto all’ondata di critiche e proteste internazionali contro l’Iran, innescata dal caso di Sakineh, il procuratore generale ha aggiunto che "la questione non deve essere politicizzata: il potere giudiziario non si può lasciare influenzare dalla campagna di propaganda avviata in Occidente".
Intanto il figlio di Sakineh, Sajjad Ghaderzadeh, ha rivolto un appello all’Italia: "Chiediamo alle autorità italiane di intervenire e aiutarci", ha detto in lacrime Sajjad.
* la Repubblica, 28 settembre 2010