Sono disposti a tutto. Lavorano anche sedici ore al giorno, perdendosi nelle ombre degli agrumeti, dove gli alberi sembrano non finire mai. Nella Piana di Rosarno (Rc), la terra delle famiglie Pesce-Bellocco, gli africani non si contano più. Sono oltre mille quelli regolari. Ma nei capannoni in disuso alle porte di San Ferdinando (Rc) ne alloggiano almeno tre volte tanto, in condizioni che di umano non hanno niente.
Marocchini, ivoriani, ghanesi, sudanesi, maliani. Operai agricoli da 20-25 euro al giorno. E’ ancora buio quando affollano le piazze, in attesa che passi il furgone buono che li porta nelle campagne. Raccolgono agrumi. Dall’alba fino a sera. Poi tornano nelle baracche. Mangiano arance per giorni, finché i succhi gastrici lo consentono. Non chiedono altro che la loro paga dannata. Schiavi anonimi. Dall’aspetto simile, per noi.
Oggi che i neri della Piana stanno assediando Rosarno, l’Italia s’è accorta di loro. Perché è necessaria una guerriglia urbana per diventare visibili, in una regione dove tutto sparisce. Erano già scesi in piazza a metà dello scorso dicembre, marciando verso il centro di Rosarno dopo che due di loro erano stati feriti a colpi di pistola. Adesso, per un episodio molto simile, stanno mettendo in strada tutta la loro rabbia.
Gli immigrati hanno dimostrato di saper tollerare orari di lavoro impensabili, alloggi fetidi, paghe misere. Ma non la ’ndrangheta. A muso duro, col coraggio dei leoni d’Africa, stanno dando prova di non temere le organizzazioni criminali che quotidianamente divorano la Calabria; pure a Rosarno, comune sciolto per infiltrazione mafiosa. Perché la loro vita è sacra, intoccabile. Perché l’omertà non gli appartiene. Perché, a differenza di qualsiasi altro calabrese, non hanno paura di schierarsi, di scegliere da che parte stare in un posto dove appartenere ai clan è più semplice che trovare un lavoro.
Per questo sono convinto che dagli africani i calabresi debbano imparare qualcosa. Quello che sta succedendo in questi giorni è un fatto storico, violenza a parte. Una rivolta popolare per la tutela del diritto di vivere non s’era mai vista in Calabria, terra con oltre cento omicidi l’anno. L’hanno fatta gli africani, come a Castel Volturno (Ce), posto dei casalesi: nel settembre 2008 un gruppo armato di camorristi ha sparato e ucciso sei immigrati. Erano i giorni di Setola e della sua paranza armata: sedici vittime in poco tempo. A 48 ore di distanza “i neri” sono scesi in piazza, con un solo slogan: «Vogliamo giustizia». Non era mai successo in Campania, dopo un massacro di italiani innocenti. E a Rosarno il copione si ripete. Alle telecamere del Tg3 alcuni ivoriani non si danno pace: «Qua sanno solo ammazzare gli uomini».
Se i proiettili di quella carabina ad aria compressa che hanno ferito due africani fossero finiti nelle carni di un rosarnese qualsiasi, la notizia sarebbe passata veloce sui media locali. Perché il fuoco è normalità, a queste latitudini. Perché morire ammazzati in Calabria è un’opzione da mettere in conto. Anche se hai 18 anni, come Francesco Inzitari, finito a pochi chilometri da Rosarno con dieci colpi di pistola. Il suo sangue ancora macchia l’asfalto ruvido, davanti a quella pizzeria di Taurianova (Rc) dove era andato a festeggiare un amico. E’ l’unica traccia che rimane, che neanche l’omertà può cancellare. Un omicidio dimenticato in fretta: Francesco era figlio di Pasquale Inzitari, imprenditore e politico arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. Rapidamente al delitto è stato trovato un motivo. Quell’agguanto non è stato più inquadrato nell’ottica del barbaro assassinio di un ragazzino innocente, ma è diventato semplicemente la morte quasi scontata del figlio di un uomo legato ai clan. Perché trovare una giustificazione serve a pulirsi le coscienze, in una terra sporcata.
Adesso mi piace pensare che i migranti della Piana stiano sfogando la loro rabbia anche per Francesco. Che gli occhi adirati di quei leoni neri siano colmi di indignazione anche per il delitto di Taurianova. Mentre la società civile calabrese ha risposto ancora una volta: "Assente".
Biagio Simonetta
fonte: www.biagiosimonetta.it
Saviano:
gli africani contro i clan sono sempre più coraggiosi di noi
(la Repubblica , 09.01.2010)
ROMA «Contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi». Lo ha detto Roberto Saviano a proposito degli scontri di Rosarno, ricordando che quella calabrese «è la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie: per questo non vanno criminalizzati ma scelti come alleati contro l’illegalità».
«La prima rivolta ricorda lo scrittore a Villa Literno nel 1989, la seconda a Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre dopo aggressioni subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte».
La rivolta degli schiavi
di Moni Ovadia (l’Unità, 09.01.2010)
Doveva succedere! Quanto tempo può sopportare senza reagire un essere umano schiavo, che lavora come una bestia, per poco più di un tozzo di pane, che vive nel degrado peggio di una bestia, che subisce violenze, ricatti, che viene violentato, abusato dal padrone e dalle mafie, che è privo del più elementare diritto, che non accede neppure alla dignità dell’esistenza? Non c’è che una risposta per una persona decente. No! Non può sopportare. E noi dovremmo reagire a ciò che è accaduto a Rosarno interrogandoci.
Che razza di paese è il nostro che permette una simile vergogna? Che razza di ministro è quello che accusa gli schiavi e propone un’ulteriore repressione nei loro confronti? La logica dell’intolleranza ha mai giovato alla convivenza civile?
Credere di fermare l’immigrazione clandestina combattendo gli immigrati è una pia illusione ed è un atto vile. Non è l’immigrato che sollecita la malavita, è la malavita che incrementa e orienta l’immigrazione clandestina ed è interessata a creare condizioni esasperate, anche attraverso la guerra fra poveri, per potere vendere a maggior prezzo e con più alto profitto la povera carne umana su cui riesce a mettere le mani.
E che dire degli imprenditori schiavisti? Perche non si propone contro di loro e la loro infamia tolleranza zero? L’arresto dei mafiosi a che serve se non viene prosciugata la palude che alimenta la criminalità? Oggi il Presidente della Camera Fini per l’ennesima volta ha preso la parola in difesa degli immigrati dicendo che non si combatte contro gli schiavi, si combatte la schiavitù. Il leader di An vuole evidentemente dare voce a un centro destra civile ed europeo. È ora che si trovi il coraggio di costituire su tali questioni un ampio fronte che superi gli schieramenti per salvare l’Italia dal baratro.❖
Ci trattano come bestie, non ho paura di morire
“Non ho paura di morire. Se Dio vuole, la mia vita finisce qui, altrimenti tornerò a casa e rivedrò i miei figli". Ahmed è un po’ il capo, qui nella "rognetta", il rifugio dei braccianti africani che raccolgono mandarini in giro per le campagne di Rosarno. Ventitré euro al giorno netti. Cinque li pagano al caporale, "che è uno di noi", raccontano. "E due euro li paghiamo di benzina". Dopo essersi spaccati la schiena nei campi, per 14 ore al giorno, tornano alla "rognetta", o alla "ex Sila", che sono i due accampamenti nei quali dormono. Intorno a loro c’è puzza di urina, bucce di arancia che fermentano, una decina di bagni chimici, neanche un posto dove fare la doccia.
Quasi nessuno parla l’italiano. Ahmed il marocchino è uno dei pochi. Anche per questo sembra il capo. "Ho due figli", racconta. "E non li vedo da cinque anni. Se torno a casa non mi riconoscono neanche più. Ma spedisco loro soldi ogni mese". A modo suo, è un imprenditore. "I soldi che guadagno qui, in campagna, li reinvesto in costumi e asciugamani da bagno, che rivendo d’estate, quando lavoro sulle spiagge. Però non è più possibile sopportare tutto questo. Io lavoro, punto. Tutti, qui lavoriamo. E non vogliamo altro. Ci sta bene pure dormire in queste condizioni, non importa, l’importante è lavorare onestamente e spedire i soldi a casa. Ma non possiamo essere sparati, come è successo al mio amico Babou, e non reagire. Non abbiamo più niente da perdere. La gente deve capire un concetto semplice: io sono sbarcato a Lampedusa, ho rischiato di morire in mare, per venire qui. Credevo di trovare il paradiso e ho trovato l’inferno. Ho rischiato di morire già una volta, non mi fa paura rischiare di morire adesso, perché so di essere nel giusto".
Babou lo guarda e annuisce. Mostra il braccio ferito dal proiettile di gomma, che gli hanno sparato l’altro giorno: "Non sono una bestia", dice in francese, perché non parla una parola d’italiano. È arrivato pochi giorni fa da Brescia e vuole ripartire. "Provo soltanto dolore", racconta in francese, "e non riesco neanche a pensare che sia razzismo. Sono arrivato il 21 dicembre, e voglio essere onesto, posso parlare soltanto per me, per quello che ho visto, e in due settimane non posso dire che Rosarno è razzista. Posso soltanto dire che c’è tanta, troppa violenza, e io devo sfamare i miei due figli, che sono in Costa d’Avorio, non appena mi aiutano a partire, vado via, per cercarmi lavoro altrove". an. ma.
Profondo Italia: il tiro a segno sulla carne nera Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo
di Mimmo Calopresti (il Fatto, 09.01.2010)
Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte.
È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto.
Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio.
Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri. Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità. I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa.
Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano. Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca.
Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata. Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita.
Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché - come diceva Fabrizio De Andrè - chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere.
Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.
Lavoro da schiavi e regole imposte dalle ‘ndrine
La sera di giovedì a Rosarno alcune centinaia di immigrati, in prevalenza irregolari, si sono riversatati nelle strade rovesciando cassonetti e incendiando automobili. La protesta è nata nel pomeriggio, dopo che colpi di fucile ad aria compressa avevano fatto una decina di feriti: una “spedizione punitiva” che li ha raggiunti nei capannoni dove vivono. La protesta è continuata ieri.
Ma chi sono questi manifestanti? Uomini, sotto i 30 anni, provenienti da paesi africani. Si stima che siano dai 3 ai 5mila, lavoratori stagionali che raccolgono uva, arance, olive e pomodori. A seconda della stagione, si spostano dalla Puglia alla Campania dalla Calabria alla Sicilia. Le condizioni di vita non cambiano: non hanno casa, vivono in edifici fatiscenti, senza materassi, acqua e bagni; guadagnano dai 20-25 euro per 12/14 ore al giorno e, di questa paga, sono costretti a versare una “quota” ai soprastanti che li ingaggiano.
È un lavoro semi-schiavistico e, talvolta, schiavistico in senso proprio (controllo “militare” sull’attività svolta, organizzazione gerarchica, trasferimenti coatti, punizioni crudeli). Il quadro di riferimento in cui tutto ciò si colloca non è, in primo luogo, quello razzismo-antirazzismo: è, piuttosto, quello del lavoro servile all’interno di un’organizzazione criminale (in Calabria, nelle mani delle’ndrine). E il razzismo aggiunge un elemento di oppressione e discriminazione. I fatti di questi giorni sono tutt’altro che imprevisti: già nel dicembre 2008, a Rosarno, due immigrati erano stati feriti da una analoga “spedizione punitiva”. Allora la reazione fu sostanzialmente pacifica.❖
Sfruttati e vessati
la vita infame dei «neri» nella terra dei caporali Venticinque euro al giorno per spezzarsi la schiena e raccogliere arance nei campi controllati dalla ’ndrangheta. Tutti sanno e in troppi tacciono
di Marco Rovelli (l’Unità, 09.01.2010)
La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa.È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue - e quando la rabbia esplode, allora non c’è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono - se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie.
Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d’uomo. Racconti di braccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all’indomani dell’incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto - che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata.
Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l’apice della ricattabilità), dall’altra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società.
A Rosarno i braccianti subsahariani sono l’ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli - per la loro nerezza - meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all’ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine - con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di ’ndrine, è cosa nota, com’è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l’impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale.
Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire).
Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l’economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamo è dovuto proprio alla manodopera servile). E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la ’ndrangheta, e non dicano che è la ’ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la ’ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che - come a Castelvolturno hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.❖