TENSIONI SOCIALI
«A Rosarno immigrati accolti come fratelli»
Dopo gli scontri tra immigrati e residenti che hanno sconvolto la piana di Gioia Tauro, il presule sottolinea l’esempio di misericordia offerto negli anni dalla comunità calabrese e invita gli indifferenti «a rimboccarsi le maniche per alleviare le sofferenze»
Il vescovo Bux: ma non si può servire due padroni
DI LUCIANO BUX (Avvenire, 14.01.2010)
Dopo la confusa campagna dei mezzi di comunicazione, specie le tv a livello nazionale, e dopo tante dichiarazioni di personaggi locali e nazionali ritengo di dover dire una parola al clero e ai fedeli della nostra diocesi.
Tralascio ogni considerazione di carattere sociale, civile, politico e culturale: non si addicono a una sacra celebrazione. Ritengo sia mio grato dovere, di vescovo, dire un grazie al Signore per il comportamento della Chiesa di Oppido- Palmi non solo in questi giorni, ma per tutti i lunghi anni in cui è nato e cresciuto il fenomeno degli immigrati in diocesi, specie a Rosarno.
In tutti questi anni la nostra Chiesa ha dato esempio di come si possa essere ’ servi inutili’ ( Lc. 17, 10), a cominciare dal vescovo, ma servi che si sentiranno dire dal Signore: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto » ( Mt. 25, 35).
Poi, il Signore dirà a tanti sacerdoti e laici di parrocchie, aggregazioni ecclesiali, organismi diocesani: « Non vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici » (Gv. 15, 17). La misericordia di Dio praticata dal nostro clero e dai nostri laici mi è stata di grande conforto nelle recenti tristi giornate. Abbiamo accolto gli immigrati non solo come persone umane, ma come nostri fratelli, a cominciare dai fedeli di Rosarno guidati dai sacerdoti operanti nelle tre parrocchie insieme ai diaconi e alle suore, fino a comunità e gruppi operanti in tante altre località della diocesi.
Quando li abbiamo invitati, in anni diversi, a due convegni diocesani per rallegrare con la loro presenza e i loro canti i nostri intervalli di convegno, sono venuti con gioia, e più di uno rinunciando a mezza giornata di lavoro e di guadagno... Ricordo anche dei ragazzi stranieri e musulmani felici di far parte della squadretta di calcio parrocchiale... Dico: ’ Grazie’ al Signore e grazie ai preti e ai laici che si sono affaticati con amore generoso per anni, non solo nei giorni passati.
A quei fedeli che sono stati solo a guardare dico: ogni volta che vedete un essere umano che è nel bisogno, non state solo a guardare e a parlare, ma rimboccatevi le maniche e datevi da fare come potete per alleviare le loro sofferenze. Questo ci insegna Gesù nella parabola del buon Samaritano ( cfr. Lc. 10, 30 ss.).
Alle persone che vivono con la mente e il cuore lontano da Dio, anche se si mostrano religiosi credenti, ricordate loro che Gesù dice: « Nessuno può servire due padroni, perché ... si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza » ( Mt. 6, 24).
Concludo con le parole che il Santo Padre, il Papa, ha pronunciato domenica scorsa, con attenzione anche alla nostra Terra: « Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare nell’ambito del lavoro dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita » .
« La violenza non deve essere mai, per nessuno, la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano. Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita: è una persona e Dio lo ama come ama me » .
O Signore, nostro e di tutti i popoli, o Signore della Chiesa e di questa Chiesa particolare che è in Oppido- Palmi, grazie a Te e grazie a voi, sacerdoti e fedeli.
Per il futuro restiamo nella fedeltà al Vangelo di Gesù nostro Signore e alla Sua Chiesa, che è il Suo mistico Corpo.
* vescovo di Oppido-Palmi
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PINO MASCIARI. Intervento alla Conferenza Episcopale Calabrese (OTTOBRE 2009)
La rivolta di Rosarno
di Domenico Perrotta *
Rosarno è il centro più importante della Piana di Gioia Tauro, nel Sud della Calabria, un territorio da decenni dominato da agrumi e olive. Dai primi anni Novanta, nella raccolta sono impiegati in misura crescente lavoratori migranti. Le loro condizioni di vita e di lavoro sono difficili, con salari molto bassi o a cottimo. Le uniche “abitazioni” disponibili sono vecchie ex-fabbriche ai margini del paese o casolari abbandonati nelle campagne. E, spesso, questi lavoratori subiscono aggressioni violente e razziste.
Nel pomeriggio del 7 gennaio 2010, due braccianti di origine africana al ritorno dai campi vengono feriti con colpi di arma da fuoco. All’aggressione i migranti reagiscono uscendo dalle fabbriche abbandonate e scaricando la propria rabbia nelle strade, contro automobili e cassonetti. Segue una contro-reazione di una parte della popolazione locale: due giorni di pestaggi e “caccia al nero”. Intervengono forze dell’ordine ed esercito. Il bilancio è di decine di feriti, tra mille e duemila lavoratori vengono trasferiti o fuggono in altre città italiane. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, attribuisce la causa degli scontri all’eccessiva tolleranza dell’immigrazione irregolare.
Quegli eventi drammatici, passati alla storia come la “rivolta di Rosarno”, hanno almeno tre effetti importanti. In primo luogo, fanno crescere in maniera decisiva la consapevolezza dell’opinione pubblica italiana ed europea in merito alle condizioni di lavoro nelle quali è prodotto il cibo che finisce nei supermercati e sulle tavole di tutto il continente; non solo a Rosarno, ma in molte aree di agricoltura intensiva in Italia - da Foggia a Salerno, da Campobello di Mazara a Saluzzo - e, allargando lo sguardo, in altri Paesi dell’Europa mediterranea. In particolare, diventano oggetto di inchieste e dibattiti il caporalato e i “ghetti”, le baraccopoli informali nelle quali i braccianti, specie di origine africana, trovano un precario riparo nei loro spostamenti per inseguire la domanda di manodopera in agricoltura. Certo, non è possibile sostenere che prima del gennaio 2010 questo tema fosse sconosciuto; si pensi all’eco che aveva avuto, vent’anni prima, l’uccisione di Jerry Masslo a Villa Literno. Tuttavia, nel decennio che si apre con la rivolta, la questione diventa ineludibile.
In secondo luogo, la rivolta di Rosarno, assieme allo sciopero messo in atto ancora da braccianti africani in un altro centro rurale del Mezzogiorno, Nardò, nel Salento, solo un anno e mezzo dopo, nell’agosto 2011, ha spinto singoli e organizzazioni a impegnarsi in favore dei lavoratori agricoli migranti, talvolta insieme a essi. Associazioni, sindacati, Ong, organizzazioni religiose, gruppi del consumo critico: i progetti di intervento sociale, economico, sindacale, politico di questi dieci anni non si contano.
In terzo luogo, quegli eventi - e l’impegno di individui e organizzazioni - hanno sollecitato le istituzioni locali e i governi nazionali a intervenire sulla questione. Due leggi nazionali, (agosto 2011 e novembre 2016) introducono e modificano l’articolo 603 bis del Codice penale, ridefinendo le norme sul contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro. A partire da queste norme, sono un’ottantina le inchieste e i processi in corso in tutta Italia, non solo al Sud e non solo in agricoltura. Vengono firmati protocolli e istituiti tavoli, da ultimo il “Tavolo nazionale anticaporalato” presso il ministero del Lavoro, attivo da gennaio 2019. Le regioni sono intervenute soprattutto per sgomberare ghetti e allestire tendopoli e altre tipologie di centri di “accoglienza” per braccianti, dalla Piana di Gioia Tauro al foggiano, dalla Basilicata al Piemonte.
Eppure, per molti aspetti le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti migranti sono rimaste immutate. Nel settembre 2019 è stato diffuso un report delle Nazioni Unite - frutto della visita in Italia dello Special Rapporteur sulle forme contemporanee di schiavitù - che rileva che “i diritti dei lavoratori sono spesso violati ed essi possono essere esposti a severo sfruttamento o schiavitù” e chiede allo Stato italiano di fare attenzione alla “continue sfide nell’assicurare condizioni di vita e di lavoro decenti ai lavoratori migranti nel settore”.
Come possiamo spiegare la persistenza delle condizioni di grave sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura? In dieci anni gli interventi delle istituzioni locali e nazionali non hanno affrontato adeguatamente quelle appaiono come le tre cause più importanti di questo fenomeno: le relazioni diseguali di potere nei sistemi agroalimentari, che spingono le imprese agricole a comprimere i salari dei lavoratori; la vulnerabilità giuridica di questi lavoratori, soprattutto quanti sono appena arrivati in Italia; la segregazione abitativa dei migranti rispetto alle popolazioni che vivono nei centri abitati. Tali cause strutturali non sono state intaccate e, per certi versi, nell’ultimo decennio si è verificato addirittura un peggioramento.
Molti osservatori hanno riconosciuto che lo sfruttamento del lavoro bracciantile è in parte dovuto alla posizione di potere assunta nei sistemi agroalimentari dalle grandi aziende della trasformazione e della distribuzione, le quali, peraltro, per rispondere a queste accuse hanno attivato percorsi di certificazione dei propri fornitori e lanciato campagne di marketing.
Tuttavia, i processi di concentrazione dei canali di distribuzione del cibo e di diminuzione delle aziende agricole sono continuati, mentre le normative adottate per riequilibrare le relazioni nelle filiere agroalimentari, dalla rete del lavoro agricolo di qualità alla legge che vieta la vendita sottocosto dei prodotti agroalimentari, approvata dalla Camera nel giugno 2019, sembrano inadeguate.
In questi anni, i migranti hanno rappresentato, sul mercato del lavoro, una fascia di lavoratori sottopagati e flessibili che ha consentito di ammortizzare un processo di ristrutturazione del sistema agroalimentare italiano che altrimenti sarebbe stato molto più crudo; il loro numero continua a crescere e oggi essi rappresentano più di un terzo del totale dei lavoratori dipendenti in agricoltura.
Se già le leggi sull’immigrazione del 1998 e del 2002 avevano contribuito a determinare la vulnerabilità giuridica dei migranti, la gestione della “crisi migratoria” cominciata con le primavere arabe del 2011 ha peggiorato le cose, con l’arrivo nelle campagne di un gran numero di lavoratori con permessi di soggiorno per richiesta di asilo, titolari di protezione internazionale o “diniegati”, tutti particolarmente vulnerabili, tanto più in seguito ai decreti “sicurezza” emanati dal primo governo Conte. Essi si sono posti di fatto in concorrenza con lavoratori presenti da più anni nelle campagne italiane, causando un nuovo processo di parziale sostituzione tra gruppi differenti di braccianti.
D’altra parte, le istituzioni locali non hanno saputo - o non hanno voluto - fornire servizi adeguati ai braccianti e alle imprese stesse: si è quasi sempre preferito concentrare le risorse su grandi centri di accoglienza per gli stagionali, restando nella logica dell’emergenza, invece che favorire l’insediamento dei braccianti in abitazioni nei paesi (cosa che li aiuterebbe nell’accesso ai servizi) e, nonostante alcune sperimentazioni, senza realizzare progetti efficienti per il trasporto al lavoro e la mediazione lavorativa, che sono rimasti quasi sempre nelle mani dei caporali.
Inoltre, e questo è cruciale, le istituzioni locali e nazionali non hanno mai individuato gli stessi lavoratori come interlocutori nella lotta allo sfruttamento. Eppure, con la rivolta di Rosarno e lo sciopero di Nardò, essi hanno mostrato di essere tutt’altro che passivi. La storia degli ultimi dieci anni ci insegna probabilmente questo: lo sfruttamento del lavoro in agricoltura va combattuto non solo con gli strumenti del diritto penale e con politiche di emergenza, ma incidendo con politiche attive sulle cause strutturali di questo fenomeno e coinvolgendo i lavoratori sfruttati e le loro organizzazioni nella costruzione e nella realizzazione di queste politiche.
* Il Mulino, 07 gennaio 2020 (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4988?&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=%3A%3A+Rivista+il+Mulino+%7C+edizione+online+%3A%3A+%5B7151%5D)
Calabria. I tre braccianti immigrati a pranzo con il Papa: «Indimenticabile»
Il racconto di Buba del Senegal, Musa del Mali e Iamin del Gambia: musulmani, hanno partecipato alla Messa a San Pietro e poi al pranzo in Aula Nervi. E l’autolinea ha pagato per loro i biglietti
di Antonio Maria Mira (Avvenure, lunedì 18 novembre 2019)
[Foto] I tre braccianti immigrati a pranzo con il Papa: «Indimenticabile»
«Quando mi hanno detto che sarei stato a pranzo col Papa pensavo che fosse uno scherzo. Un bracciante immigrato di Rosarno invitato a Roma. Impossibile. Invece era vero ed è stato bellissimo. Una giornata che non potremo mai dimenticare. Il Papa è bravissimo e aiuta davvero tutti». È quello che si porta a casa Buba, del Senegal. Assieme agli amici Musa del Mali e Iamin del Gambia, tutti braccianti sfruttati della Piana di Gioia Tauro, ha partecipato al pranzo nell’aula Nervi e prima alla Messa in San Pietro. Sono tutti e tre musulmani ma non hanno avuto problemi. "No, davvero nessun problema a pregare tutti insieme. Ogni persona prende la sua strada e io la rispetto". Una riflessione che fa anche Iamin. "Non abbiamo avuto problemi a pregare. Il Corano dice di rispettare tutte le religioni e tutte le persone".
Ad accompagnarli è stato don Roberto Meduri, giovane parroco di S. Antonio in contrada "Il bosco" di Rosarno, proprio dove dieci anni fa scoppiò la rivolta dei lavoratori immigrati contro la violenza e lo sfruttamento. Che purtroppo continuano e contro i quali don Roberto è quotidianamente impegnato. Una vita davvero spesa per i più poveri. "La giornata era per loro, io li ho solo accompagnati. Ma è stato bello incontrare tante persone che si occupano degli ultimi, dei più fragili, di chi è scartato. Mi sono sentito a casa, parlavamo tutti la stessa lingua".
Don Roberto e i tre giovani tornano a casa (in realtà uno dorme nella tendopoli di San Ferdinando e un altro in un vecchio conteiner a Rosarno) con un incarico. "Ci hanno detto che il prossimo anno dovremo portare noi le clementine e le arance". Proprio il frutto del loro duro lavoro. Ma in Calabria c’è anche chi li aiuta. E anche in occasione del viaggio a Roma. "Non avevo più soldi per pagare i biglietti - racconta don Roberto -. Gli ultimi li ho dati a un ragazzo del Senegal che voleva tornare a casa per la morte del padre. Così ho chiesto uno sconto alla società di autolinee Lirosi. Dopo poco mi hanno richiamato dicendo che offrivano il viaggio loro". Un bel segnale da una terra che vive tra sfruttamento e speranza.
Caporalato, l’altra Rosarno è in Puglia: il ghetto di Nardò (Le) è una bomba sociale pronta a esplodere
I container e i servizi igenici promessi dalla Regione non arriveranno prima di metà luglio quando la raccolta di pomodori e cocomeri sarà finita. Intanto cresce l’esasperazione nella baraccopoli fra i braccianti stagionali africani: poco lavoro, alcool, droga e dominio dei caporali
di Tiziana Colluto *
Rosarno non è solo in Calabria. È anche in Puglia. Nel Salento. Ma lo sanno in pochi. Lo sanno Mohammed e i suoi compagni che, cinque notti addietro, hanno visto arrivare nel campo quel ragazzo sudanese con gli occhi spiritati e la sciabola in mano, così fuori di sé da staccare a morsi l’orecchio a un connazionale. Lo sanno le ragazze africane tenute confinate nell’ultima baracca, quella a cui avvicinarsi è impossibile, costrette a soddisfare l’uomo di turno e a dover rendere conto di sé e dei soldi. Lo sanno Rosa e gli attivisti dell’associazione Diritti a Sud, gli unici, assieme alla Caritas diocesana, a recarsi ogni giorno sul posto per fornire cibo, materassi e assistenza. Poi, della vera portata di quest’altra bomba che da tempo si dice di voler disinnescare non sa più nessuno.
Ghetto di Nardò, Lecce, giugno 2016: è lo stesso, identico, copione di quattro anni fa e di ancora molto prima. Quanto avvenuto a Rosarno sarebbe potuto accadere qui questa stessa settimana. C’è stato anche un accoltellamento in paese tra migranti. Una nota di cronaca, niente di più. La svolta, annunciata per il mese scorso, forse arriverà il prossimo: non una tendopoli, quest’anno, ma un campo container per almeno trecento posti. Il bando di gara, però, non sarà pubblicato dalla Regione Puglia prima del 20 giugno, per essere assegnato intorno a metà luglio e portare all’avvio delle strutture ancora dopo, quando, cioè, buona parte della stagione agricola sarà già passata. “Intanto, fra una decina di giorni, Coldiretti, assieme a Focsiv (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario), provvederà ad allestire a proprie spese i primi venti container”, annuncia Stefano Fumarulo, dirigente regionale della Sezione Politiche per le migrazioni. Ci si muove nel solco del protocollo sperimentale contro il caporalato firmato lo scorso 27 maggio dai ministri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole, voluto per consolidare una rete pubblico-privata che, sotto la regia delle Prefetture, dovrà realizzare progetti concreti per il miglioramento delle condizioni di accoglienza dei lavoratori.
Il tempo della burocrazia è inversamente proporzionale a quello delle esigenze dei braccianti: a metà aprile, a Nardò, sono arrivati i primi gruppi, provenienti soprattutto dalla Sicilia e dall’alta Puglia. Dopo alcuni giorni, il sindaco Marcello Risi ha ordinato la demolizione di una struttura pericolante in cui molti, come ogni anno, avevano trovato ricovero. Con quei conci sono stati costruiti i tuguri che ora formano un quartiere improvvisato, subito fuori il centro abitato: plastiche per tetto, campagne per bagni, giacigli di fortuna. Senz’acqua. Senza servizi igienici. Senza luce. Senza un presidio medico. Senza un argine al caporalato. Un ghetto fuori dal mondo.
Al momento, sono poco meno di un centinaio i lavoratori che affollano il campo, ma il picco di arrivi è previsto nei prossimi giorni, quando entreranno nel vivo le operazioni di raccolta. La storia è sempre la stessa: retribuzione da 3,50 euro a cassone, una media giornaliera da 25 euro, da cui bisogna sottrarre 5 euro per il trasporto obbligatorio e 3,50 euro per acqua e panino, il pizzo ai caporali. Soli, sui terreni, è inutile presentarsi.
Quest’anno, però, qualcosa di diverso c’è: ci sono pochi pomodori, troppo pochi. I subsahariani, addetti a questa coltura, lavorano solo due giorni a settimana. E a loro sono proibiti i campi di angurie, appannaggio esclusivo dei tunisini. “E’ una questione pronta a trasformarsi in un problema di ordine pubblico. Non abbiamo mai visto tanta esasperazione nel campo come quest’anno, tante persone fragili dal punto di vista psicofisico”. Scrolla le spalle Angelo Cleopazzo, attivista di Diritti a Sud. dappertutto, un malessere diffuso, tenuto a bada con alcool, droga e prostituzione, “un altro modo per creare dipendenza dai caporali”.
Da Nardò, come testimoniato dagli stessi migranti, si parte per andare a lavorare fino al Metapontino. All’alba. Senza dare nell’occhio. Perché anche questo c’è di nuovo: con il processo in corso, nato dalla retata che ha travolto anche sei imprenditori del posto, l’organizzazione si è fatta più camaleontica. Né impresari né caporali si fanno mai vedere in giro: a sporcarsi le mani sono i “capisquadra”, che abitano nello stesso ghetto, reclutano il personale, si occupano del trasporto, ridistribuiscono la paga giornaliera. I vertici si sono inabissati. Eppure, la morte tragica di un lavoratore, la scorsa estate, ha confermato che si tratterebbe, in parte, sempre degli stessi.
I controlli? Nulli. “Mai una volta che le forze dell’ordine abbiano fermato il furgoncino per strada - conferma un ragazzo - e sui campi, poi, chi le ha mai viste?”.
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Il Fatto, 12 giugno 2016 (ripresa parziale - senza foto)
Nell’inferno di Rosarno gli uomini sono tornati schiavi
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa 9.1.13)
Letti di terra Nel dormitorio abitano mille lavoratori. Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit. Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia. Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta. I bagni sono due fosse a cielo aperto
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto. Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta. Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia. I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno. Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile. Non ci sono acqua, fogna, elettricità; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità» che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero. «Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti - spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse». Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perché il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe».
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro.
Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi. La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione. La Provincia pagava la corrente elettrica. I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto. Le associazioni di volontariato più diverse - cattoliche, laiche, evangeliche - si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo). La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile. E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo.
Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità. Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos. Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perché altri ne arrivano. I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela. «Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio. Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario. Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono. Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.
Il battesimo dei professori nell’inferno di Rosarno
Il ministro Riccardi tra i braccianti a due anni dalla rivolta
di Enrico Fierro (il Fatto, 18.01.2012)
Rosarno due anni dopo la rivolta dei braccianti di colore e la caccia al nero. Una città che cerca di scrollarsi di dosso l’immagine di Soweto di Calabria. La strada è ancora lunga. Perché due anni dopo i problemi che incendiarono la rivolta sono ancora lì. Clementine e arance attirano migliaia di disperati alla ricerca del lavoro. Oggi sono 4 mila uomini, africani e braccianti dell’Est che affollano la Piana di Gioia Tauro. Ma l’oro giallo di queste terre vale meno di zero sui mercati. “Per un chilo di clementine i grossisti mi danno 15 centesimi, 5 per le arance da succo. Una miseria”. Piccoli coltivatori e grandi proprietari terrieri si lamentano allo stesso modo, ma continuano a produrre. E scaricano la loro crisi sui migranti ai quali offrono paghe da fame.
VENTICINQUE euro a testa, oppure un euro per ogni cassetta raccolta. Soldi ai quali va sottratta la mazzetta da dare al caporale, l’organizzatore delle braccia, spesso un africano o un bracciante dell’est che ha fatto carriera. Soldi pochi, condizioni di vita disperate in baraccopoli da dove anche i topi scappano, eppure la gente continua ad arrivare. “In un solo giorno - ci racconta don Pino De Masi, animatore di Libera nella Piana - nel paese di San Ferdinando sono arrivati dieci pullman con 500 tra bulgari e romeni”. Altre braccia che la mattina presto si offrono nella piazze dei paesi in attesa di un ingaggio che però non arriva per tutti. Chi non è fortunato vaga per tutto il giorno aspettando un’occasione.
È questo l’inferno che ieri ha voluto vedere da vicino il ministro per l’Integrazione, Andrea Riccardi. “Perché governo tecnico - dice al cronista - vuol dire anche avere orecchie e occhi attenti alla realtà”. Il ministro entra nel campo di accoglienza organizzato dal Comune. Ci sono container con brandine e riscaldamento, docce e bagni chimici, un barlume di vita civile per 120 migranti. Una goccia nel mare.
Per gli altri ci sono i ghetti. Quello della fabbrica Pomona, dove una volta si trasformavano gli agrumi, fa paura. Fango dappertutto, per dormire improvvisate tende fatte di plastica e legno. Non ci sono bagni, i bisogni si fanno dove capita. “È un ghetto indegno di un paese civile - dice il ministro -, si tratta di situazioni che abbiamo l’obbligo morale di rimuovere al più presto”. Ma basta spostarsi in quello che chiamano il “centro storico” della città per capire che l’inferno non finisce in una fabbrica abbandonata. Vico Esperia, via Posta Vecchia, case pericolanti, tufi sbriciolati dalla pioggia, sottoscala e cantine di pochi metri quadrati dove vivono in dieci, venti persone. Per letto materassi impregnati di sudicio e umidità per terra.
Il professor Riccardi entra nei tuguri e parla con i migranti. Nessuno protesta più di tanto per le paghe basse o per le condizioni di vita, ma tutti chiedono una cosa sola: la carta, il permesso di soggiorno, il diritto di sentirsi cittadini. È il frutto di leggi assurde contro gli immigrati. Il ministro rifiuta la polemica: “L’integrazione va costruita, qui non si tratta di rivolgersi al passato per stracciarsi le vesti, ma di aprire una stagione diversa”.
IL SINDACO di Rosarno si chiama Elisabetta Tripodi, è stata eletta in una coalizione di centrosinistra, ha organizzato il campo da 120 posti e chiesto altri container che la Protezione civile le ha però rifiutato. Quanti soldi ha avuto dalla regione? “Zero. Sto ancora aspettando i 25 mila euro per l’emergenza di un anno fa, dei 3 milioni di euro promessi per la costruzione di alloggi popolari da destinare ai migranti neppure l’ombra”. Promesse, piani mai realizzati nella Calabria degli sprechi, il ministro annota tutto, nella sala riunioni del Comune ascolta. Parla Mamma Africa, Norina Ventre, un’anziana signora che da vent’anni assiste chi ha la pelle di un altro colore. “Domenica avevo 200 persone da sfamare, c’è bisogno di un centro di accoglienza”. Cristiana, donna e mamma del Ghana che chiama “papà” il ministro: “Ho due figli da mantenere, vanno a scuola, sono da undici anni qui in Italia, ma non ho ancora la cittadinanza”.
E poi Adam, bracciante di colore, rappresentante di “Africalabra”. E il senegalese Mamadù che parla della necessità del contratto, “perché la Bossi-Fini dice che se perdi il lavoro perdi anche il permesso”. “La situazione - è il commento del ministro - è di vera emergenza, come soluzione provvisoria, sarà realizzata una tendopoli nel territorio del comune di San Ferdinando, accanto a Rosarno, dove saranno trasferiti molti immigrati che in questo momento stanno trovando rifugio in situazioni inaccettabili. Ma c’è bisogno di “una fase 2. Siamo in presenza di lavoratori fedelmente stagionali per cui è necessario lavorare alla loro integrazione, costruire un ponte tra loro e i cittadini di Rosarno, a partire dalla lingua. In un momento di crisi, di poco lavoro anche per gli italiani, occorre spiegare bene a questi nostri amici che non rimarranno soli”.
Il ministro Riccardi a Rosarno: "sono qui per rispondere ai bisogni"
Era stato il sindaco Elisabetta Tripodi, a chiedere al ministro Andrea Riccardi di recarsi a Rosarno per vedere con i suoi occhi la situazione in cui vivono gli immigrati *
17/01/2012 E’ arrivato a Rosarno (Rc) questa mattina il ministro all’integrazione Andrea Riccardi, per visitare il campo di accoglienza per gli immigrati in contrada Testa dell’Acqua, in un’area dell’Asi di Reggio Calabria dove è stato attrezzato un campo con i container della Protezione civile che accoglie circa 150 immigrati regolari: «Sono qui per vedere e capire la situazione dopo l’invito ricevuto dal sindaco di Rosarno Elisabetta Tripodi. Ovviamente la mia visita - ha proseguito il ministro - servirà per capire quali interventi adottare nell’immediato per rispondere ai bisogni degli immigrati. Non credo che Rosarno sia una città razzista, sono convinto invece che questa comunità sa cosa vuol dire l’emigrazione e cosa significa bisogni e accoglienza. Penso che qui non ci sia un problema di razzismo e di intolleranza ma che ci sono situazioni di tensione che nascono dalla necessità». Riccardi, accompagnato dal prefetto Mario Morcone che è il suo capo di gabinetto, è stato accolto dai sindaci di Rosarno e San Ferdinando, dal vescovo della diocesi di Palmi mon. Luciano Bux e da altre autorità.
A conclusione della sua visita a Rosarno, il ministro Riccardi ha sottolineato che «Rosarno non deve restare sola e non sarà sola» ed ha poi raccolto gli appelli di varie associazioni di immigrati, di Mamma Africa, un’insegnante in pensione che da oltre vent’anni si spende per assicurare un pasto caldo a centinaia di immigrati africani, dell’associazione Omnia che si occupa di mediazione linguistica e assistenza sanitaria, delle associazioni cittadine che hanno voluto ribadire come Rosarno non sia una città razzista, ma anche della Coldiretti e della Cgil che hanno posto il problema del futuro dell’agricoltura ed in particolare del settore agrumicolo ricordando che i prodotti della Piana vengono venduti a 5 centesimi il chilogrammo.
«Sono venuto - ha detto il Ministro - per avere un contatto diretto con la città ma anche con le realtà nelle quali vivono gli immigrati. Ho visto e ho visitato situazioni tristi». Prima di recarsi al Comune, Riccardi ha visitato la tendopoli nell’ex fabbrica Pomona, l’ultimo dei grandi ghetti rosarnesi. «Quei ghetti - ha sostenuto - non sono degni di un Paese civile e si tratta di situazioni che noi dobbiamo rimuovere. Rosarno vive da troppo tempo difficoltà varie e tensioni. Rosarno in questi anni ha reagito in modo eccezionale alla difficoltà. So che è difficile vivere insieme in una situazione come questa. Il problema dell’immigrazione non può essere affrontato solo come emergenza ma anche come integrazione. Noi dobbiamo costruire la fase due, quella dell’integrazione. So che è difficile ma io sono qui anche con funzionari del Ministero degli Interni per cercare di darvi una risposta e per rendere omaggio a questa città che presenta questa tipologia di problemi che non sono piccoli».
RICCARDI IN PREFETTURA A REGGIO CALABRIA
Il ministro dell’Integrazione Andrea Riccardi, dopo la visita a Rosarno, è giunto a Reggio Calabria per partecipare in Prefettura ad una riunione, con il prefetto Luigi Varratta ed i rappresentanti di enti ed istituzioni interessati al fenomeno dei migranti nella zona di Rosarno, compreso il sindaco della città Elisabetta Tripodi.
* IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA, 17.01.2012
Primo Maggio, sindacati a Rosarno
"Piano straordinario per il lavoro" *
09:38 Epifani: "Un piano straordinario per il lavoro"
Un piano straordinario per il lavoro. lo chiede il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani,
secondo il quale nei prossimi anni si prospetta una ripresa "senza occupazione".
09:36 Rosarno, negozi aperti
Negozi aperti a Rosarno. Un’ordinanza del comune diffusa a tutti gli esercenti ha tuttavia
vietato la vendita di alcolici, superalcolici e bottiglie id vetro.
09:34 Berlusconi ad Arcore
Silvio Berlusconi ha lasciato questa mattina presto palazzo Grazioli per recarsi ad Arcore
dove trascorrerà la festività del Primo maggio.
09:33 Bonanni: "Senza immigrati l’Italia si ferma"
"Se dovessimo dividerci dai tanti amici immigrati, l’Italia si fermerebbe". Lo ha detto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni
09:31 Rosarno, via al corteo dei sindacati
E’ partito a Rosarno il corteo organizzato per la manifestazione nazionale del Primo maggio di Cgil,
Cisl e Uil. Il corteo si è mosso dall’ex Rognetta, la fabbrica che fino a gennaio scorso ospitava gli immigrati africani allontanati dopo la rivolta del gennaio scorso e la successiva reazione di una parte degli abitanti del paese, con pestaggi e ferimenti ai danni degli extracomunitari. Il corteo, alla fine del suo percorso raggiungerà piazza Giuseppe Valarioti
* la Repubblica, 01.05.2010 (<- per aggiornamenti, cliccare sul rosso)
Editoriale di Le Monde, Parigi
In Europa...
Le Monde. 12 gennaio 2010 (traduzione dal francese di José F. Padova) *
Di ritorno ai suoi impegni dopo un mese d’assenza il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non ha pensato bene, lunedì 11 gennaio, di prendere la parola per esprimere la sua opinione sugli scontri di Rosarno - quelle violenze da parte della polizia e degli abitanti di questa cittadina di Calabria, Italia meridionale, delle quali sono stati vittime gli immigrati, per la maggior parte clandestini e africani, il 9 e 10 gennaio.
Eppure questi avvenimenti mettono in luce uno dei problemi più grandi che l’Italia condivide con i suoi vicini europei: l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati. Per il ministro dell’Interno, le violenze di Rosario non sono altro che una questione di ordine pubblico e di poliziotti di rinforzo.
Passata in vent’anni da Paese d’emigrazione a Paese d’immigrazione, l’Italia non ha saputo, o non ha voluto, affrontare il problema se non sotto l’aspetto della repressione, cercando con un arsenale di provvedimenti di scoraggiare i candidati al viaggio verso la Penisola. In parte ci è riuscita. Il flusso migratorio attraverso il Mediterraneo è stato praticamente arrestato dopo la firma di un accordo con la Libia. Questo accordo ha permesso all’Italia di ricacciare i clandestini ancor prima che mettessero piede sulle coste italiane per fare valere un eventuale diritto d’asilo.
Resta il fatto che 4 milioni di stranieri, e quasi 600.000 clandestini, vivono ormai in Italia senza che alcuna riflessione seria e pacata abbia ancora visto la luce riguardo alla loro integrazione. L’idea di accorciare da dieci a cinque anni il termine per ottenere la cittadinanza italiana è stata spazzata via dalla destra, che ha preferito mettere in piedi un limite massimo del 30% di allievi stranieri nelle classi dal prossimo anno scolastico.
Principale alleato di Silvio Berlusconi, il partito anti-immigrati della Lega Nord moltiplica le provocazioni nei confronti dei nuovi entranti in Italia - è più in particolare contro gli africani - senza che alcuno, o quasi, se ne inquieti. Sulla stampa di destra i Neri sono definiti “negri” oppure “bingo-bongo”. Questo razzismo tranquillo e accettato ha finito per fare andare in cancrena la società italiana, dal nord al sud. L’assenza di una reale condanna da parte del potere ha fatto il resto.
Oggi le ruspe hanno raso al suolo i baraccamenti nei quali gli immigrati di Calabria avevano trovato indegno rifugio, facendo sparire con questo la traccia stessa dei loro abitanti. E con questa l’occasione di una riflessione su una società plurietnica e pluriculturale all’italiana.
* http://www.lemonde.fr/opinions/article/2010/01/12/en-europe_1290568_3232.html
El País, Madrid, 17 gennaio 2010
http://www.elpais.com/articulo/internacional/activista/Shukri/Said/huelga/hambre/ingresa/hospital/Roma/elpepuint/20100117elpepuint_11/Tes
L’attivista Shukri Said, in sciopero della fame, viene ricoverata in un ospedale di Roma
Mezzo milione di immigrati attendono per mesi il proprio permesso di residenza in Italia. Il governo finge di non vedere il digiuno di 300 persone che chiedono alla Presidenza spagnola una mediazione con l’Esecutivo Berlusconi.
di Miguel Mora, Roma - 17.01.2010 (traduzione dallo spagnolo di José F. Padova)
L’attivista italiana di origine somala Shukri Said, portavoce dell’Associazione Migrare, è ricoverata da ieri nella clinica romana Madonna della Fiducia, dopo essere rimasta per 17 giorni in sciopero della fame. Said e trecento immigrati digiunano per esigere dall’Italia che si rispetti la legge vigente, nora come Bossi-Fini, in tutto ciò che riguarda concessione e rinnovo dei permessi di soggiorno per gli immigrati. La norma prevede che i permessi siano rinnovati entro 20 giorni, tuttavia attualmente la trafila burocratica dura in media fra sette e tredici mesi. In questo momento vi è mezzo milione di immigrati che aspettano una risposta dall’Amministrazione.
“Si tratta di una burocrazia xenofoba e criminale”, spiega Said dalla clinica con un filo di voce, “perché durante il periodo nel quale lo Stato ritarda nel concedere il rinnovo del permesso sono sospesi i diritti basilari degli immigrati. Non possono viaggiare, né lavorare legalmente, e in caso di necessità gli ospedali non li accudiscono”.
Gli attivisti rilevano come “il clima di razzismo istituzionale fomentato dalla Lega Nord ha aumentato la sfiducia e la paura della popolazione italiana nei confronti dello straniero, così che la cartolina che gli immigrati ricevono in attesa della concessione del permesso è soltanto carta straccia. Nessuno si fida”. Durante la trafila burocratica gli immigrati non possono nemmeno spostarsi e questo Natale migliaia di stranieri in posizione di attesa non hanno potuto visitare le loro famiglie nei Paesi di origine.
Da quando ha cominciato la sua protesta il 1 gennaio, la collaboratrice delle pagine di Opinión di El País ha perso quattro chili di peso. Il medico che la cura, Tonino Ingratta, spiega che il suo stato di salute è “preoccupante”. Said ha la pressione del sangue molto bassa e arrischia un’insuffcienza renale. L’attivista per i diritti umani, di 37 anni, è stata curata con siero ma continua a rifiutare l’ingestione di alimenti. “È un modo per gridare al mondo la rabbia e la disperazione che l’Italia sta provocando agli immigrati che cercano di mettersi nella legalità. La consegna del governo sembra consistere nel criminalizzare ed emarginare sempre più i lavoratori starnmieri, impedendo il loro ingresso nella società civile. E per ottenere ciò lo stesso governo non esita a porsi al di fuori delle sue stesse leggi.
I primi scioperanti della fame iniziarono il loro digiuno lo scorso 13 dicembre, sparsi in tutto il Paese, appoggiati dalla direzione del Partito Radicale, il cui segretario, Mario Staderini, ha reclamato “soluzioni concrete” e ha denunciato la paralisi burocratica, che “prevede la morte civile degli immigrati e alimenta il circuito della criminalità”.
Dopo essersi appellata senza risultati al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e aver constatato che la sua iniziativa non ha avuto eco fra le istituzioni e l’opposizione del Partito Democratico, Said si appella alla Presidenza della Repubblica Italiana e all’Unione Europea, perché prendano posizione su questi fatti. “Giorgio Napoletano, come Capo dello stato e garante della Costituzione italiana, e la Spagna, come presidente di turno dell’Unione Europea, devono fare udire la loro voce. I media italiani e le istituzioni hanno ignorato la nostra protesta perché gli immigrati non hanno diritto di voto”, afferma Said. “Confidiamo nell’umanità e solidarietà del Presidente spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, perché l’Europa faccia pressioni sulle autorità italiane perché rispettino i diritti civili e le leggi stesse del loro Stato”.
La mafia calabrese ha cacciato gli Africani da Rosarno
di Anne Le Nir
La Croix, 18 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
“I poliziotti ci hanno mentito! Ci hanno fatti salire sugli autobus, in tutta fretta, assicurandoci che ci avrebbero protetti, che ci avrebbero lasciato andare dove volevamo, a Roma, Napoli, Milano... Ci siamo ritrovati imprigionati qui, senza avere alcuna idea della nostra sorte.” Qui, è il centro di identificazione e di espulsione di Bari, nelle Puglie. Il giovane che dice di essere stato preso in giro dalle forze dell’ordine si chiama Francis, è del Ghana e lavorava come operaio agricolo in Calabria, a Rosarno, diventata la città simbolo della “caccia ai neri”.
Più di 1000 immigrati venuti principalmente dal Ghana, ma anche dal Mali, dalla Costa d’Avorio, dal Togo, dal Burkina Faso, dal Niger e dalla Sierra Leone, hanno dovuto fuggire per salvare la pelle dopo i violenti scontri che sono scoppiati il 7 gennaio tra la popolazione locale e i migranti in questo comune, nel cuore della piana di Gioia Tauro, dove i lavoratori immigrati rimpiazzano, ad un costo di gran lunga inferiore, la mano d’opera italiana. Da più di dieci anni, centinaia di migranti arrivavano ogni inverno, tra dicembre e marzo, periodo della raccolta dei mandarini, delle clementine e delle arance. Certi vi si erano anche stabiliti con la famiglia. La maggioranza di quelli che sono stati evacuati è in possesso di un permesso di soggiorno. Secondo le cifre del ministero dell’interno, il 60% di loro è in situazione regolare, il 20% sono richiedenti asilo.
Tra gli irregolari, una cinquantina si trova nel centro di identificazione di Bari, dal quale rischiano di uscire solo per essere espulsi. “Si tratta di una situazione molto preoccupante, contro la quale dobbiamo mobilitarci”, ha dichiarato a La Croix la deputata europea di Europe Ecologie Hélène Flautre, che si è recata in questo fine settimana a Bari insieme ad altri membri della commissione delle libertà civili del Parlamento europeo. “Quelli che sono in situazione irregolare lo sono perché, come tutti gli immigrati di Rosarno, erano pagati in nero. Tutti quelli che ho incontrato a Bari chiedono solo di rispettare le leggi. Hanno tra i 20 e i 30 anni, e hanno accettato una vera situazione di schiavitù: lavorare 13 ore al giorno per essere pagati o 1 € la cassa di agrumi, o 20- 25 € al giorno; vivere ammucchiati come bestie in edifici insalubri.”
Francis, che è sbarcato a Lampedusa nel 2008, e i suoi compagni hanno raccontato le stesse paure, le stesse collere. “Gli scontri sono stati provocati dall’aggressione ad un togolese ferito da un colpo di fucile ad aria compressa sparato da un calabrese e dalle voci che si sono diffuse come un fuoco di paglia tra la comunità africana, che dicevano che due nostri ’fratelli’ erano stati uccisi. Noi eravamo spaventati, e c’è stata la rivolta”, afferma. “La polizia ha detto loro che dovevano lasciare Rosarno perché rischiavano la vita, precisa Hélène Flautre. Sono stati evacuati senza poter ricevere il denaro che il padrone doveva loro, senza prendere le loro cose personali. Erano sconvolti, terrorizzati e lo sono ancora.”
Secondo il sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna, questi scontri sono stati orchestrati totalmente da clan della ’ndrangheta, la potente mafia calabrese. “La ’ndrangheta non tollera che si protesti contro le sue leggi, contro la sua autorità suprema, non sopporta alcun disordine, a parte quello che crea lei stessa! Quando si parla di controllo del territorio da parte della criminalità organizzata, è di questo che si tratta”, spiega a La Croix.
“I prossimi immigrati di Rosarno saranno essenzialmente di provenienza dall’Europa dell’est, più flessibili, meno visibili, più rispettosi della legge del silenzio”, assicura il magistrato antimafia. E gli africani? Quelli che se ne sono andati con i loro mezzi si sono diretti o verso il nord-est del paese o verso altre regioni del sud, in particolare in Campania, a Castelvolturno o a Caserta, dove la presenza di operai africani risale agli anni ’80. Assistiti da associazioni di volontariato meglio che in Calabria, restano però anche lì preda di un’altra mafia, la camorra, molto presente nelle aziende agricole e nell’edilizia.
Rosarno, Italia
di Luigi De Magistris (l’Unità, 17.01.2010)
A Bruxelles si è discusso di quello che è accaduto a Rosarno, in Calabria, in Italia. Proprio così, in Italia. Tutti allibiti. Rosarno è una cittadina della piana di Gioia Tauro in cui ferreo è il controllo del territorio da parte della ‘ndrangheta. In quest’area profonde sono le collusioni della criminalità organizzata nelle amministrazioni pubbliche, impressionante la sua capacità economica. Non è solo una mafia capace di sviluppare un’enorme capacità militare, ma anche mafia imprenditrice, che fa politica, che governa.
Nella piana vi sono migliaia di immigrati che vivono in condizioni disumane, considerati rifiuti sociali, non-persone da un governo che pratica politiche xenofobe e razziste. Dimorano in baracche, lavorano la terra per pochi spiccioli, coltivano latifondi controllati dalla criminalità organizzata, senza diritti, ma con gli obblighi dei nuovi schiavi. Una realtà che la società opulenta non vuole vedere e che accetta come effetto collaterale di un capitalismo senza regole, dimenticando che italiani all’estero hanno subito nel passato medesime condizioni.
Accade che un giorno d’inverno, in periodo di campagna elettorale, pochi giorni dopo le intimidazioni alla magistratura reggina, la criminalità organizzata apre il fuoco, comincia a sparare verso gli schiavi, contro coloro che procurano ricchezza ai loro padroni. Il Governo sapeva, ma scopre oggi Rosarno, come si ricorda della Calabria dopo Fortugno. Se ti sparano, magari perché hai chiesto dignità, reagisci, è umano anche per uno schiavo. Gli immigrati protestano: per paura, per far sentire che esistono, per rabbia, perché la dignità la conservano anche loro.
A questo punto interviene il Ministro dell’interno Maroni, esponente di quell’area politica xenofoba e razzista che istiga all’odio nei confronti degli immigrati. Quello stesso Ministro che delegittima le forze dell’ordine privatizzando la sicurezza con le ronde che magari gestiranno, con infiltrazioni delle cosche, le future ribellioni. E’ quello stesso Governo che non dà risorse e mezzi alle forze dell’ordine rendendo impossibile il controllo del territorio. Un Governo celere, però, nell’approvare leggi che favoriscono il crimine organizzato. Un Governo impegnato ad ostacolare servitori dello Stato che contrastano il crimine organizzato, anche quello dei colletti bianchi che è linfa vitale di un sistema criminale che piega la democrazia.
Che fa il Governo a Rosarno? Per garantire sicurezza deporta gli immigrati. La ’ndrangheta spara ai migranti e gli spezza le ossa con le spranghe. Il Governo interviene e seda la rivolta portando via gli schiavi. Dopo le collusioni tra pezzi delle istituzioni e criminalità organizzata nella gestione della spesa pubblica in Calabria, si registrano anche convergenze parallele tra la ‘ndrangheta e il governo nei confronti dei migranti.
Solo coincidenze, ovviamente. Non prendetevela, però, con il popolo calabrese. E’ un popolo che sa includere, che accoglie, che ha umanità. Ha nel sangue l’accoglienza dei più bisognosi. A Rosarno la legge l’ha dettata la ‘ndrangheta ed un Governo incapace di dare risposte degne di un Paese civile. Solo coincidenze, ovviamente.❖
PINO MASCIARI. Intervento alla Conferenza Episcopale Calabrese (OTTOBRE 2009)
Lettera di minacce al vescovo di Lamezia
Cantafora: a chi dà fastidio il nostro cammino?
DA LAMEZIA TERME GIOVANNI LUCÀ (Avvenire, 16.01.2010)
La Chiesa di Lamezia è viva e vivace. Le minacce rivolte al vescovo non fermeranno il cammino intrapreso. Monsignor Luigi Antonio Cantafora non avrebbe voluto che si facesse chiasso intorno alla lettera anonima ricevuta nei giorni precedenti il Natale, nella quale vi era disegnata una cassa da morto con la scritta ’Amen’, come chiaro messaggio di morte. Non avrebbe voluto che la notizia diventasse di pubblico dominio, forse anche per evitare che attorno ad essa trovassero alimento speculazioni varie, soprattutto in questo periodo particolarmente incandescente a Lamezia Terme, dove è praticamente in atto la campagna elettorale, in vista delle elezioni di marzo per il rinnovo dell’amministrazione comunale.
Il vescovo calabrese si era limitato a denunciare il fatto alle forze dell’ordine, continuando a svolgere normalmente il suo ministero durante tutte le festività natalizie.
«Non sappiamo da dove possa arrivare questa lettera - dice il vescovo allargando le braccia - ma non credo possa essere ricondotta ad un fatto specifico». Il presule parla con serenità e fermezza, mentre cerca di tracciare una possibile spiegazione all’episodio di cui è rimasto vittima. «Sto andando alla Scuola di formazione socio-politica », aggiunge. «Quest’anno la nostra iniziativa registra 300 partecipanti, è questa la grande novità, frutto delle tante iniziative avviate dalla diocesi; queste novità staranno sollecitando degli interrogativi in qualcuno. Noi comunque seguiamo il nostro cammino, seguendo le indicazioni del Santo Padre e secondo la Dottrina sociale della Chiesa».
In effetti, all’interno del Progetto pastorale diocesano, maturato sulla scia del Convegno ecclesiale di Verona e dopo il V Convegno delle Chiese di Calabria dello scorso mese di ottobre, la Scuola di formazione socio politica rappresenta una piacevole sorpresa, come conferma l’accoglienza registrata tra i cittadini. Ma a chi può dare fastidio l’azione pastorale della chiesa lametina? Quest’anno, oltre a quella di Lamezia Terme, sono state aperte altre sedi della scuola, in modo da consentire una più larga partecipazione anche nei centri più distanti.
La vivacità della diocesi è rappresentata da tante altre iniziative mirate a creare spazi formativi, e a rilanciare la testimonianza e la missione. Tra queste vanno ricordati il ’Progetto Amos’ e il ’Progetto Tobia e Sara’ e tanti altri che, unitariamente, rappresentano un chiaro esempio dell’attenzione riservata al campo delle attività formative e caritative, a quello della promozione del vangelo, della famiglia e della vita. Un percorso largamente condiviso da clero e laici, che il vescovo Cantafora non manca di ringraziare per la collaborazione fattiva offerta da tutta la comunità diocesana.
La condivisione del progetto pastorale emerge anche dalla nota diramata ieri dalla Curia di Lamezia Terme, a firma del vicario generale, monsignor Pasquale Luzzo. La nota precisa che le notizie riguardanti le minacce al vescovo di Lamezia Terme non sono state diffuse dalla Curia diocesana, Nel testo si sottolinea la fiducia nel «lavoro delle competenti autorità inquirenti» e si definisce la minaccia al vescovo un atto «inaccettabile e inaspettato». Oltre a ciò, viene espressa con la solidarietà anche l’intenzione di proseguire il cammino avviato: «In rinnovata e piena comunione con il suo Pastore - recita il testo - la Chiesa locale continua, con l’aiuto del Signore, nello svolgimento della sua missione in questo nostro tempo, portando la speranza del Vangelo e proseguendo nell’attuazione del suo Progetto Pastorale, redatto con il coinvolgimento di tutte le componenti ecclesiali». E conclude: «Sentiamo viva nel nostro cammino la vicinanza del presbiterio diocesano, delle comunità religiose e dei fedeli laici, pronti a rispondere generosamente alle sfide del nostro territorio, con la forza rigeneratrice del Vangelo’. Si va avanti, dunque, con piena fiducia e speranza, rincuorati anche dalle tante testimonianze di solidarietà che stanno arrivando al vescovo da ogni settore della società.
Rosarno, arcivescovo di Rossano scrive lettera di solidarietà al vescovo di Oppido-Palmi
L’arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Marcianò, ha inviato una lettera al vescovo di Oppido-Palmi, mons. Luciano Bux, dopo i fatti di Rosarno. *
11/01/2010 Una lettera indirizzata al vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Luciano Bux, dopo i fatti di Rosarno, è stata inviata dall’arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Marcianò (in foto), nella quale è scritto: «Sento il bisogno di esprimerle tutta la vicinanza e la solidarietà mie personali e dell’intera diocesi di Rossano-Cariati. Da anni la Chiesa di Oppido-Palmi, impegnata con coraggio nella testimonianza e nell’annuncio evangelico all’interno di un difficile contesto sociale, ha ripetutamente denunciato l’insostenibile condizione di tanti fratelli immigrati, sfruttati e mortificati nella loro dignità di persone umane. È triste dovere constatare che la Chiesa in questa nostra terra è «voce che grida nel deserto»; è il deserto di un mondo che chiude gli occhi e il cuore di fronte al dramma della povertà e dell’ingiustizia in una specie di stordimento delle coscienze».
Monsignor Marcianò ricorda che ieri Benedetto XVI, nel suo Angelus, ha invitato «a ripartire dal cuore del problema». «Egli - scrive - ci ha ricordato che «un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura, e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita»».
Unendomi a lei - aggiunge Marcianò - prego affinchè ogni forma di violenza venga superata e i cuori di tutti siano resi capaci di guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita e che Dio lo ama come ama me».
Don Farinella: Rosarno, la collera dei poveri
di don Paolo Farinella *
Credevamo che il 2009 fosse stato l’anno della feccia. Ingenui! Dovevamo ancora cominciare. Il 2010 inizia con la realizzazione della profezia di Paolo VI nel 1967, in un documento ufficiale come l’enciclica Populorum Progressio:
«Ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l’attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più. E sarebbe da applicare ad essi la parabola dell’uomo ricco, le cui terre avevano dato frutti copiosi e che non sapeva dove mettere al sicuro il suo raccolto: «Dio gli disse: “Insensato, questa notte stessa la tua anima ti sarà ritolta”» (Lc 12,20). (Enciclica Populorum Progressio, del 26 marzo 1967, n. 49)
«La collera dei poveri». Un fatto eccezionale: gli immigrati in Calabria si ribellano alla ‘ndragheta e al sistema perverso dei caporalato e questi rispondono affermando il loro potere sul territorio e sconfiggendo ancora una volta lo Stato latitante. Invece di ringrazia questa gente, il ministro Maroni non trova di meglio che le parole d’ordine della sua cricca: «tolleranza 0». Sì ma verso il governo dell’amore e della sicurezza che lascia interi pezzi di Paese in mano alla malavita e al malaffare. 1500 persone che lavorano in nero per 20,00 euro per 12/14 ore di lavoro al giorno e di cui 5,00 li devono dare al caporale che li recluta (cioè alla mafia) e 3,00 al pulmino che li trasporta. Fanno 8,00 euro e all’immigrato lavoratore in nero ne restano 12 per una giornata sempre di 12 ore, e cioè per 1 euro e anche meno all’ora. Nessuno può dire che erano invisibili, nessuno può dire che non fossero necessari, nessuno può girarsi dall’altra parte e dire: non sapevamo. E’ cominciato il conto alla rovescia e i nodi assaltano i pettini.
Il problema è la miope politica del governo che ha dato mano libera alla Lega che vuole la secessione del Lombardo-Veneto dal resto dell’Italia e ha tutto l’interesse di questo mondo a fare scoppiare guerre al Sud per terrorizzare, per ricattare e per mostrare il suo volto «feroce» con i deboli. Hanno sparato contro inermi, dando spettacolo di una vera e propria caccia all’uomo. Un safari umano, tanto è gente che viene dall’Africa ed essendo nera di pelle, di notte è più divertente cercare di impallinarli. Un ministro dell’Interno che risponde come Maroni, in qualsiasi Paese poco meno che civile si sarebbe dimesso o sarebbe corso in soccorso degli immigrati e avrebbe dichiarato lo stato di emergenza sociale per tutta la regione e avrebbe sospeso i diritti costituzionali in tutta la regione e l’avrebbe occupata militarmente fino all’estirpazione totale della malavita organizzata. Non lo ha fatto, né lo può fare perché la malavita è dentro il parlamento, nella fila del partito dell’amore, in adorazione del volto santo miracolato.
Questa volta non si è fatta attendere la voce della Chiesa in diverse sue componenti: Bertone ha parlato quasi in presa diretta, dando, certo, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma ha parlato e bisogna riconoscerlo. Anche il papa ha parlato, senza mai fare nomi, ma rivolgendosi all’universo intero: «Bisogna partire dal cuore del problema e cioè che ogni migrante è un essere umano che va sempre rispettato, aiutato, mai sfruttato». Parole giuste, parole forti. Esse, a mio modesto avviso, avrebbero avuto un impatto formidabile se fossero state non a tutti indistintamente, ma nel contesto della realtà italiana. Se il papa avesse detto: «I fatti di Rosarno in Calabria sono la prova della miopia della politica del governo italiano che parla di sicurezza, ma alimenta e fomenta la violenza e l’ingiustizia. Il presidente del consiglio che parla e sparla di partito dell’amore, farebbe bene ad andare a curarsi la mascella con una spremuta di arance raccolte dagli immigrati in Calabria.
Non è tollerabile che uomini e donne e bambini (alcuni dei quali sono stati anche battezzati nella parrocchia di Rosarno) devono essere sfruttati peggio che le bestie e poi devono anche essere disprezzati e cacciati via perché si ribellano alla ‘ndragheta. Noi chiediamo al governo che sia un governo civile e custode del diritto; se è vero come mi ha scritto il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che i valori cristiani sono al centro dell’azione del governo che presiede, lo dimostri oggi concedendo a tutti gli immigrati di Rosarno la cittadinanza perché sono eroi nazionali e fondamento dell’economia. In caso contrario, i suoi valori cristiani, glieli rimandiamo senza ricevuta di ritorno». Il governo sarebbe caduto. Come fanno a parlare di legalità, lui, loro, essi che si affannano a tempo pieno ad aggirare la Legge, ad eliminare la legalità e a disseminare la nazione di spirito xenòfobo? Bellissimo l’editoriale di Marco Politi «La fede e la spada» su «Il Fatto» (mercoledì 12 gennaio 2010), lucido e completo.
Le parole e i sentimenti più belli però, li ha espressi Don Pino Varrà, parroco di Rosarno che durante l’omelia, e quindi nel cuore del sacramento dell’Eucaristia, tra le altre cose ha detto: «Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno". Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. "Lo vedete anche voi. Non c’è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall’Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati ... Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E’ facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo ... Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare ... [indicando il presepe] Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà. Se invece non abbiamo la forza di ribellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli».
Secondo i dati ufficiali e definitivi (Istat) per l’anno 2007, gli stranieri regolari hanno dato un apporto lavorativo di 122 miliardi, cioè il 9,2% del PIL nazionale e hanno versato contributi previdenziali per 7 miliardi di euro, cioè il 4% dei contributi previdenziali pagati in Italia.Queste persone cioè stanno pagando una pensione che non avranno forse mai e finisce così che i poveri continuano a fare regali ai ricchi (per la cronaca: l’Inps in Italia per 2008 ha un attivo di circa 8 miliardi di euro, cioè i contributi degli immigrati). Ora è arrivato il momento della resa dei conti. Gli immigrati si sono ribellati alla delinquenza organizzata e il ministro del lavoro Sacconi, quello che urlava e sbraitava per salvare la vita ad Eluana Englaro, emerge dalla melma del governo per dichiarare che manderà ispettori in Calabria a controllare azienda per azienda. Siamo al delirio, siamo alla demenza governativa, siamo alla deriva umanitaria. Avrebbe dovuto nominare ispettori gli immigrati impallinati dalla ‘ndragheta ed espropriare le aziende malavitose che prima sfruttano e poi non solo fanno cacciare gli sfruttati, ma non gli pagano nemmeno quei pochi, sporchi e luridi euro: hanno rubato anche ai morti.
L’inizio di gennaio 2010 è una vergogna per l’Italia intera e per l’occidente sedicente civile e cristiano, un mese che ci squalifica da ogni punto di vista. Senza appello.
Rosarno, l’Europa suicida
di Lluis Bassets (il Fatto, 19.01.2010)
E’ in Calabria il terreno di coltura che fa crescere l’intolleranza: uno Stato assente, corrotto e privatizzato. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo e occidentalismo mascherato da universalismo.
Una volta ancora l’Italia indica la strada. Lo ha fatto spesso per il meglio, come nel caso del Rinascimento. Talvolta lo ha fatto per il peggio, come con il fascismo. E adesso ci risiamo con la violenta espulsione da Rosarno, in Calabria, della comunità di immigrati dopo gli scontri tra i locali e i braccianti agricoli africani. Il rifiuto dell’altro, la fobia dello straniero e il razzismo non sono monopolio di nessuno: partiti post-fascisti, iniziative xenofobe e leggi repressive proliferano da Vic, in Catalogna, fino a Copenaghen. Ma l’“avanguardismo” italiano, facilitato dalla miscela tra la cinica politica degli interessi affaristici e le ideologie intransigenti che predicano l’esclusione, ha partorito una delle leggi più severe d’Europa contro gli immigranti e un livello di tutela degli stranieri da parte dello Stato che è tra i più bassi del continente.
Le cose vanno peggio proprio là dove lo Stato si ritira lasciando un vuoto che viene colmato dalla criminalità. Il contesto non è soltanto di resa del governo in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di rispetto della legalità.
La Calabria ha il record dell’evasione fiscale ed è, al tempo stesso, una regione sovvenzionata dal denaro pubblico e corrosa dalla corruzione. Non si tratta del “meno Stato” di thatcheriana memoria, bensì di uno Stato privatizzato e intrecciato inestricabilmente con il potere economico di Silvio Berlusconi, occupato in questi giorni, come durante tutta la sua lunga permanenza alla guida del governo, ad evitare i processi e ad ottenere l’immunita’ mentre i suoi alleati della Lega nord si dedicano a tradurre in pratica e a diffondere le loro idee radicali sull’immigrazione.
La pessima situazione dell’economia e l’aumento del tasso di disoccupazione sono benzina sul fuoco, ma non debbono ingannarci. Il problema centrale che l’Europa deve affrontare consiste nella costruzione di un modello efficace, rispettoso e civile di integrazione degli immigrati, un modello che consenta di assorbire la manodopera necessaria per mantenere i livelli di benessere, i valori e gli stili di vita e soprattutto il welfare, lo Stato sociale. E’ questa la sfida che si trova a dover affrontare un mondo che cambia e che nei prossimi quarant’anni vedrà ridurre in maniera drastica il peso dell’Europa rispetto al resto del pianeta, sia sotto il profilo demografico sia per quanto concerne il Prodotto interno lordo per non parlare della sua capacità di iniziativa politica già fortemente condizionata dalla sua proverbiale indolenza.
Questo mese, la Cina ha superato la Germania come primo paese esportatore e gli Stati Uniti come primo mercato automobilistico del mondo. Nel corso del 2010 potrebbe superare il Pil del Giappone diventando la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Nei prossimi quattro decenni l’Europa perderà in misura significativa peso, ricchezza e potere non solo in rapporto alla Cina, ma anche nei confronti di Brasile e India. Secondo le previsioni di Felipe González, nel quadro delle sue riflessioni sul futuro del continente, per mantenersi a galla, a partire dalle nostre economie e dal nostro modello sociale, l’Europa entro il 2050 avrà bisogno di almeno 70 milioni di lavoratori immigrati oltre a quelli già presenti nei vari paesi del continente.
Al cospetto di queste radicali trasformazioni, la reazione, non esattamente spontanea, dei cittadini europei è di tipo conservatore e difensivo: dinanzi alla perdita di peso e di centralità e al cospetto del pluralismo e della diversità, ci trinceriamo dietro l’identità e l’ideologia. La lista è lunga: il referendum svizzero contro i minareti, il divieto francese del velo nelle scuole, il discorso di Ratzinger a Ratisbona, l’ascesa dei partiti xenofobi, le modifiche apportate alle leggi in materia di asilo e immigrazione o la ostilità francese e tedesca all’ingresso della Turchia nella Ue. Come risultato, l’immagi di una Europa-fortezza, che espelle e criminalizza gli immigrati, si va diffondendo in tutto il resto del mondo più di quan- occidentale. In questo modo to si possa percepire in Europa.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata progressista, il suicidio dell’Europa non è la traduzione in pratica di un progetto di estrema destra. O, quanto meno, non solo. Questo pericolo trova terreno fertile nelle tensioni e nelle difficoltà di cui soffrono prevalentemente i più dimenticati: in Calabria è in corso anche una guerra tra poveri. Dai quartieri delle periferie francesi “lepenizzate” fino ai disoccupati calabresi manipo lati dalla ‘Ndrangheta, la vera base sociale del populismo e delle pestilenze nere è costituita sempre dai meno favoriti. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo, scorrettezza politica e occidentalismo mascherato da universalismo.
In fin dei conti gettiamo alle ortiche i valori autenticamente europei, le idee dell’Illuminismo che sono state sinora il fattore trainante della modernità occidentale. In questo modo prima perderemo l’anima, poi perderemo tutto, compreso lo Stato sociale.