Egitto, singolare interpretazione del Corano di due religiosi
della moschea al Azhar del Cairo. Polemiche in Parlamento
"La donna deve allattare l’uomo per poterlo frequentare sul lavoro"
di ELENA DUSI *
PER risolvere il caso scabroso di due colleghi di sesso diverso che lavorano nella stessa stanza era apparsa impresa ardua agli esperti egiziani di diritto islamico. Che così hanno elaborato una fatwa piuttosto bizzarra. Alla donna in orario di lavoro è infatti concesso togliersi il velo, alzare la jallabia (il vestito che la copre dal collo alle caviglie), scoprirsi il seno e allattare il collega maschio. L’operazione, ripetuta 5 volte, è in grado di trasformare il compagno di lavoro in un membro della famiglia. Uno di quegli uomini che insieme a padri, fratelli e figli, può frequentare le donne a tu per tu e senza le restrizioni imposte dalle "regole del pudore".
Pescando direttamente dalle tradizioni del Profeta, il capo della sezione "diritto islamico" della moschea al Azhar del Cairo - il punto di riferimento più autorevole dell’islam sunnita - ha emanato questa fatwa che ora è approdata in parlamento.
L’editto "sull’allattamento degli adulti" ha mandato sulle furie i deputati dei Fratelli Musulmani. Il gruppo politico che si ispira ai principi dell’islam e che - pur essendo bandito dalla legge - è riuscito a mandare un’ottantina di rappresentanti in parlamento, annuncia che una norma simile "getterebbe i fedeli nel caos". E probabilmente renderebbe assai difficile il lavoro negli uffici.
La fatwa emessa dall’Al Azhar e firmata dal capo-giurista Izzat Attia si basa su un resoconto della vita del Profeta. Uno dei suoi ex schiavi, divenuto libero, aveva mantenuto l’abitudine di muoversi liberamente nella casa di Maometto anche dopo la pubertà. A una donna che se ne lamentava, il Profeta consigliò: "Allattalo, così diventerai tabù per lui, e il dissidio nei vostri cuori svanirà". Dopo aver seguito il suo consiglio, la donna riferì che effettivamente ogni discordia nella casa era svanita.
Attia forse si rendeva conto che riproporre un comportamento simile negli uffici del Cairo oggi avrebbe gettato scompiglio fra le stanze. Così ha cercato di mitigare il precetto suggerendo che l’allattamento poteva anche compiersi non direttamente dal seno della donna. Basta che lei porga al collega un bicchiere del suo latte per 5 volte perché l’operazione di "adozione" sia completata. I colleghi, diventati parenti stretti, non potrebbero avere relazioni sessuali senza cadere nel tabù dell’incesto.
La fatwa ha scatenato polemiche su tutti i giornali egiziani e non, sollevando una bagarre al parlamento del Cairo che mercoledì scorso ha discusso la norma. Mentre Attia ripeteva che allattare un uomo, anche adulto, per cinque volte esclude ogni possibilità di "relazione impura", la fatwa è finita preda del più irriverente settimanale satirico del paese, al Dustur. Che avverte i suoi lettori: "Non vi stupite se, entrando in un ufficio pubblico, vi imbattete in un funzionario 50enne che prende il latte dalla sua collega"
* la Repubblica, 21 maggio 2007
Sull’indicazione data da Maometto alla donna, non è male ricordare l’"allattamento" di Chiara di Assisi dalla "mammella" di Francesco d’Assisi - anche qui è una questione di Legge e di "regole" (quella del "Dio" del Papa o quella del "Dio" di Francesco e di Gesù): "Chiara racconta alle sue monache di avere succhiato la mammella di Francesco, per invito del santo, durante una visione piena di strani particolari" (Chiara Frugoni, "Una solitudine abitata. Chiara d’Assissi", Latera, Bari 2007).
Sull’argomento, questi i testi fondamentali ripresi dal Processo di canonizzazione di Chiara di Assisi*:
«Sora Philippa figliola già de mesere Leonardo de Gislerio,
monacha del monastero de Sancto Damiano, giu
rando disse... Referiva ancho epsa madonna Chiara,
che una volta in•visione li pareva che epsa portava ad
sancto Francesco uno vaso de acqua calda, con uno
sciucchatoio da sciucchare le mane, et salliva per una
scala alta, ma andava cusì legieramente, quasi come
andasse per piana terra.
Et essendo pervenuta ad sancto
Francesco, epso sancto trasse del suo seno una
mammilla et disse ad•essa vergine Chiara: « Viene, receve
et sugge ». Et havendo lei succhato, epso sancto la
admoniva che suggesse un•altra volta.
Et epsa suggendo,
quello che de lì suggeva, era tanto dolce et delectevole,
che per nesuno modo lo poteria explicare. Et havendo
succhato quella rotondità o vero boccha dela
poppa donde escie [versione di Chiara Frugoni: escie,
lo] lo lacte, remase intra li labri de epsa beata Chiara; et
pigliando epsa con le mane quello che li era remaso
nella boccha, li pareva che fusse oro così chiaro et lucido,
che ce se vedeva tucta, come quasi in•uno specchio
» (cfr. FF 2967.2995).
«Sora Cecilia figliola de messere Gualtieri Caccia guerra da Spello, monacha del monasterio de Sancto Damiano, giurando disse... Ancho disse de la visione de la mammilla de sancto Francesco, quello che sora Phylippa, excepto che non se recordava de quello che epsa haveva dicto de la boccha de la mammilla, che sancta Chiara retenne nella boccha sua» (cfr. FF 3036).
*Fonte:www.antonianum.ofm.org/studimedievali/cronaca.pdf
Sul tema generale, nel sito, si cfr. anche :
AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
IL CAIRO (Ansa) |
«Incapaci» per legge, le donne egiziane si mobilitano
Egitto. Fatta trapelare alla stampa una controversa bozza di riforma del diritto di famiglia. Servirà il permesso di un uomo per sposarsi, decidere sulla salute dei figli e viaggiare. Le organizzazioni femministe: si torna indietro di 200 anni
di Chiara Cruciati (il manifesto, 07.03.2021)
Il regime egiziano mette le mani sul diritto di famiglia e le donne si mobilitano. In un paese in cui la povertà avanza a passo spedito colpendo soprattutto le categorie economicamente più fragili, tra cui le donne, in cui l’Onu stima che il 99% di loro ha subito almeno una volta nella vita una forma di violenza, in cui si calcolano centinaia di prigioniere politiche sottoposte ad abusi quotidiani (tre di loro condannate alla pena capitale), ora Il Cairo sta lavorando a un arretramento dei diritti delle donne.
Sul tavolo ci sono una serie di emendamenti al diritto di famiglia che riducono le donne a soggetti meno capaci degli uomini nella gestione della propria vita e di quella dei figli.
Nella bozza della riforma fatta trapelare alla stampa è infatti prevista la figura del guardiano, un uomo che dovrà dare il proprio consenso alla donna - che sia la figlia, la moglie o la sorella - che intende viaggiare, sposarsi o prendere decisioni sulla salute dei figli.
Quarantacinque pagine che hanno provocato la sollevazione delle organizzazioni per i diritti umani e le associazioni femministe che descrivono la bozza una riforma «arcaica» che riporta il paese indietro di 200 anni.
Tra gli articoli più controversi, c’è quello che riconosce al guardiano il diritto di annullare il matrimonio della figlia, della sorella o della nipote entro un anno se ritiene che il coniuge non sia di pari livello sociale o di suo gradimento, o se l’unione è avvenuta senza il suo consenso.
Una forma legale di oppressione, l’hanno definita sulla stampa araba svariati analisti, «che ribadisce la cultura patriarcale dominante della classe dirigente». A nulla serve avere otto ministre nel governo o quote rosa in parlamento se la stragrande maggioranza delle donne egiziane è legalmente considerata incapace di decidere per sé.
Lo mette nero su bianco un altro articolo della riforma che toglie potestà alla madre in merito alla salute e l’educazione dei figli, fino alla registrazione dei nuovi nati, possibile solo in presenza del padre.
C’è poi il capitolo poligamia: l’uomo potrà sposare un’altra donna limitandosi a informare la moglie, pena l’arresto. Alla moglie viene tolto il diritto di rigettare il secondo matrimonio e di divorziare, le condizioni previste dall’islam.
Unica nota positiva è l’«assicurazione» a favore della donna in caso di divorzio non consensuale, una previsione apprezzata soprattutto dalle classi più basse, dove un divorzio può costare alla donna che non lavora l’unica fonte di sopravvivenza economica.
Ma se la legge non è stata ancora approvata, 50 organizzazioni di donne egiziane si sono già mobilitate con una dichiarazione congiunta che chiede il rispetto dei diritti umani fondamentali e della stessa Costituzione: alla base sta la richiesta, basilare, di riconoscere l’uguaglianza legale di donne e uomini, nella società come in famiglia.
«Rigettiamo totalmente questa legge - il commento dell’Egyptian Centre for Women’s Rights - Abbiamo donne ministre che firmano contratti milionari in nome dello Stato, ma che con questa riforma non potrebbero nemmeno sposarsi liberamente o viaggiare, nemmeno per lavoro, senza il permesso del guardiano».
Gli impegni assunti dall’imam di Al Azhar.
Per l’islam il dovere della responsabilità
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 7 febbraio 2019)
E adesso la parola passa ai musulmani. Sulla firma del leader sunnita di Al Azhar congiunta a quella del Papa nel documento sulla fratellanza umana si è infranto anche l’ultimo tabù: quello di un islam impermeabile in quanto tale alle riforme. Ad Abu Dhabi il grande imam Al-Tayeb ha fatto precedere il gesto irrevocabile da un appello dai toni accorati rivolgendosi ai fratelli musulmani in Oriente: «Appartengo a una generazione che può essere definita come la generazione delle guerre... Lavorerò con mio fratello il Papa, per gli anni che ci rimangono, con tutti i leader religiosi per proteggere le nostre società».
E ancora: «Vi dico: accogliete a braccia aperte i vostri fratelli cristiani, perché sono i nostri partner nella patria, sono i nostri fratelli che, ci dice il Corano, sono i più vicini». E poi, diretto alle nuove generazioni: «Vi prego, insegnate questa barriera contro l’odio ai vostri figli, questo documento, perché è un’estensione della costituzione dell’islam, è un’estensione delle Beatitudini del Vangelo». Se la Chiesa, dal Vaticano II in qua, aveva cercato figure rappresentative tra i musulmani faticando a trovarle, nei confronti di Al-Tayeb certamente si è stabilito un dialogo non formale con l’islam, o almeno parte di esso.
Lo storico passo compiuto in terra d’Arabia, preceduto da una gestazione lunga un anno - come ha informato lo stesso papa Francesco - non solo lo ha siglato ma ne ha rafforzato il ruolo ’universale’. Tuttavia se da decenni Al Azhar è il centro accademico d’irradiazione dell’interpretazione dell’islam tollerante e aperto - seguito, senza far notizia, dalla maggioranza dei quasi due miliardi di musulmani nel mondo -, l’antitesi del settarismo e dell’estremismo wahhabita, del quale l’Isis è una patologia, abita nei regni del Golfo.
Dunque ancora più forte appare ora la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad Al-Tayeb, che già nell’incontro con il Papa al Cairo nel 2017 aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei princìpi di cittadinanza e integrazione.
Ed è proprio su alcuni punti del documento, altamente sensibili e nevralgici, che i governi e i leader religiosi sono stati messi davanti al fatto compiuto, e sui quali ora la responsabilità di uno sviluppo concreto è maggiore. In primis pensiamo all’impegno per stabilire in Medio Oriente il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine ’minoranze’ sofferto dai cristiani nativi della regione, che hanno subìto pressioni sociali e politiche e vengono trattati come cittadini di serie B. Quindi, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto, e non da ultimo il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità», lavorando «per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti».
Per quanto riguarda il terrorismo si afferma definitivamente che non è dovuto alla religione, anche se chi pratica violenza la strumentalizza, ma è dovuto a una lunga sequenza di interpretazioni errate dei testi religiosi, come anche alle politiche che alimentano fame, povertà, ingiustizia, oppressione, arroganza. Nel documento viene richiesto esplicitamente di «interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale».
Sull’assunzione di queste responsabilità siglate si gioca ora la partita decisiva. Per una vera cultura della cittadinanza e dell’uguaglianza che sembra ancora essere un sogno, davanti non solo agli al-Malik di oggi a cui serve quella credibilità di cui Francesco, come il suo omonimo santo ottocento anni fa, si è reso testimone disarmato, come cifra di una fraternità possibile fra cristiani e musulmani in terra d’islam, chiedendo pace e conoscenza dell’altro.
Papa.
Storica intesa Vaticano-al Azhar: non ci può essere violenza nel nome di Dio
Pace, libertà e ruolo della donna nella dichiarazione congiunta firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib: «Basta sangue innocente»
di Stefania Falasca, inviata ad Abu Dhabi *
Abu Dhabi 4 febbraio 2019: «In nome di Dio Al-Azhar al-Sharif - con i musulmani d’Oriente e d’Occidente -, insieme alla Chiesa Cattolica - con i cattolici d’Oriente e d’Occidente -, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Non solo. È messo nero su bianco l’impegno per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze.
Nero su bianco la condanna dell’estremismo e l’uso politico delle religioni, «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi», la protezione dei luoghi di culto e il dovere di riconoscere alla donna il diritto all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici interrompendo «tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che ne umiliano la dignità e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti». E ancora: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione
e di formazione».
È questo l’epilogo di un incontro interreligioso decisamente coraggioso in un lacerato Medio Oriente che ha visto protagonisti nel Paese-ponte del Golfo Persico papa Francesco e il Grande Imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyib. Una solenne quanto impegnativa doppia firma a un documento comune sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», che sigla un’appello congiunto senza precedenti rivolto a «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli».
Una dichiarazione non annunciata, resa pubblica solo alla fine dal Founder’s Memorial, dedicato al padre fondatore degli Emirati arabi, dove davanti ai rappresentanti delle diverse religioni il Successore di Pietro e un leader musulmano hanno sottoscritto la lista di punti “non negoziabili” e chiesto a loro stessi e ai leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di invertire la rotta delle violenze e «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace».
Un gesto forte, di parole altrettanto forti, soprattutto per la responsabilità assunta davanti ai leader e ai governanti islamici da parte di Ahmad al-Tayyib, che già nell’incontro con il Papa all’Università di al-Azhar a Il Cairo nel 2017, intervenendo alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita, aveva messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei principi di cittadinanza e integrazione.
La dichiarazione comune che muove «da una riflessione profonda sulla realtà contemporanea» condanna l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali - delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra - che porta a far «morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani - in «un silenzio internazionale inaccettabile». Condanna tutte le pratiche che minacciano la vita e chiede a tutti di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e chiede di «smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Perché Dio «non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati» nella loro vita e nella loro esistenza», «non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente».
Si dichiara perciò «fermamente» che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. «Queste sciagure - è scritto - sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione». Da qui, pertanto, in accordo con i precedenti documenti internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, viene attestata tra le atre anche la protezione dei luoghi di culto, templi, chiese e moschee e che «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del
diritto internazionale».
Tutto questo è affermato in nome di Dio - come è ribadito - che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. In nome dunque della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali - ma che è lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato, dalle tendenze ideologiche che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome «dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità». In nome dei poveri, dei più vulnerabili. «In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre». La scossa doveva arrivare ed è arrivata. Inshallah.
* Avvenire. lunedì 4 febbraio 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
La misericordia per i peccatori, spiegata nel Corano, avvicina il Dio dell’Islam a quello del cristianesimo
Perché l’essenza di Allah è nel perdono
Come dice il libro sacro: lui è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”
Non somiglia a niente. Eppure somiglia all’uomo e al mondo e questi gli assomigliano
di Pietro Citati (la Repubblica, 10.07.2017)
In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet), “nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”.
Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.
Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita. Non possiamo che implorare Allah: “O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.
Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso.
Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male - insiste al-Ghazali - e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi - dice al-Ghazali - e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno.
Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati.
Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa - sottolinea Alberto Ventura - è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica.
Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo.
Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte.
Allah perdona sopratutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”. Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è l’essenza della rivelazione di Allah.
L’Islam contro l’omosessualità
un reato dall’Iran alla Nigeria
Nessuna delle tre religioni monoteiste accetta l’unione tra due persone dello stesso sesso ma per i fedeli musulmani è una ribellione contro Dio
di Tahar Ben Jelloun (la Repubblica, 15.06.2016)
NESSUNA delle tre religioni monoteiste accetta la pratica dell’omosessualità. Per quanto riguarda l’islam, questa è condannata da quattro versetti in tre Sure che la qualificano come un’aberrazione, un crimine, una turpitudine punita molto severamente. Alla giustizia esercitata dagli uomini verso gli omosessuali si aggiunge quella di Dio: l’omosessuale è maledetto, reietto, Dio non poserà gli occhi su «quel peccatore e quel criminale » e nessuna misericordia sarà accordata a chi va contro la legge di Dio.
L’Islam considera l’omosessualità un crimine ben più grave dell’adulterio e dei rapporti prematrimoniali. Peggio di ogni altra cosa, unire due uomini è considerato una rivolta contro Dio, una disobbedienza intollerabile. Questo “crimine” è punito con la lapidazione, o con altre declinazioni della pena capitale, perché introduce nella città delle pratiche che mettono in discussione non tanto la natura quanto l’ordine stabilito da Dio. Questa “decadenza” dei costumi è considerata una forma di smarrimento.
La città di Sodoma era famosa per ospitare degli omosessuali. Ecco che cosa ne dice il Corano: «Lot disse al suo popolo: Vorreste commettere un’infamità che mai nessuna creatura ha mai commesso? Vi accostate con desiderio agli uomini piuttosto che alle donne. Sì, siete un popolo di trasgressori» (Sura VII, versetto 81). Il versetto successivo è ancora più chiaro: «E in tutta risposta il suo popolo disse: “Cacciateli dalla vostra città! Sono persone che vogliono esser pure!”».
Questo concetto di purezza è essenziale nell’Islam e regola lo svolgimento della preghiera, del digiuno di Ramadan e del pellegrinaggio alla Mecca. La purezza o purificazione è alla base di ogni pratica della fede musulmana. È per questo che le piccole abluzioni sono obbligatorie prima della preghiera e le grandi (lavare tutto il corpo) dopo l’atto sessuale. Ebbene, l’omosessuale è colui che, anche se si lava, resta internamente impuro. Non può essere un musulmano perché la sua sporcizia principale deriva dalla ribellione contro Dio. Nella Sura XXVIII la parola del Corano ritorna su questo argomento: «Scacciate dalla vostra città la famiglia di Lot! È gente che pretende di essere pura».
Il codice civile di alcuni paesi musulmani parla di “pratica contro natura” punita con la prigione. In certi casi si arriva alla pena capitale. In Iran, gli omosessuali sono puniti con la flagellazione e, se perseverano, alla terza recidiva sono condannati a morte. In Nigeria per gli omosessuali è prevista la pena di morte. Il Corano non parla di natura ma di ribellione contro la volontà divina, un po’ come per chi attenta alla propria vita: il suicidio è condannato perché è percepito come una sfida all’ordine divino.
Il Corano parla soprattutto di omosessualità maschile. L’omosessualità femminile è citata, ma senza essere criticata così severamente. Nel suo Dictionnaire du Coran, Mohammad Ali Amir-Moezzi ci informa che «la punizione delle donne colpevoli di tribadismo (sihâq) è a discrezione delle autorità ». Lo stesso vale per quanto riguarda l’amore per gli efebi (amrad) e per i travestiti, perché sono effemminati (mukanath): in questi casi l’amore è adorazione e non accoppiamento.
Nelle Mille e una notte, la famosa raccolta di novelle di autori anonimi di diversa provenienza, ci sono riferimenti a tutte le forme di sessualità, ma è una raccolta di racconti di fantasia da cui non si pretende che rispecchino la realtà. Molto probabilmente è proprio per le pagine torride in cui sono rappresentate varie perversioni sessuali che nel mondo arabo e musulmano quel libro è stato spesso messo al bando.
( traduzione di Elda Volterrani)
RIPENSARE TUTTO: "DIO, UOMO, MONDO", RIPENSARE L’EUROPA...
Chi è l’uomo arabo?
Chi è dalla parte dei profughi deve fare fronte anche ai problemi che essi si portano dietro. Per questo dobbiamo parlare del rapporto pedagogico-sociale con le sue amare verità
di Bernd Ulrich
Die Zeit, Hamburg - 14 gennaio 2016, N. 3
traduzione dal tedesco di José F. Padova
È possibile scrivere su «l’uomo arabo»? certamente no, perché c’è tanto quanto c’è «l’uomo tedesco”. Ancora più: l’Arabo, il Musulmano, l’Islamico - questi sono stereotipi che testimoniano quello sguardo colonialista tanto profondamente radicato nella cultura occidentale. Per giustificare davanti a noi stessi che fosse lecito penetrare sempre più in Arabia e maltrattare a proprio piacere la popolazione locale, gli arabi furono descritti come esseri inferiori, selvaggi, scaltri, aggressivi, lascivi e indisciplinati. Per questo si manifesta una certa sfiducia verso la propria capacità di giudizio quando «noi» cominciamo a parlare di «loro».
Tuttavia il tentativo di parlare complessivamente degli avvenimenti di Colonia e dell’immigrazione di quasi un milione di persone, senza parlare anche degli uomini arabi, nelle prime settimane di quest’anno ha portato totalmente fuori strada e per di più ha portato allo scoperto un altro pregiudizio - quello su «i tedeschi».
Dopo la notte di Capodanno a Colonia molte Istituzioni e media si sono rifugiati in quattro false speranze: 1. Speriamo che non sia successo niente. 2. Speriamo non si trattasse di arabi. 3. Speriamo che non siano coinvolti i profughi. 4. Speriamo che la violenza a sfondo sessuale fosse soltanto l’effetto secondario di crimini contro la proprietà. Tutte le speranze erano ingannevoli. Sono accadute molte cose. Peggio ancora, sono stati quasi soltanto arabi e fra loro non pochi profughi. E chi pensa che la violenza a sfondo sessuale contro le donne potrebbe essere un fenomeno concomitante di un borseggio dovrebbe rivolgersi subito per consiglio e aiuto alla delegata per la tutela dei diritti della donna più vicina a casa sua.
Oltre al non voler ammettere, nei giorni successivi è avvenuto qualcosa di ben più pesante: il non volerne parlare. Sono occorsi giorni perché polizia e politica chiamassero le cose con il loro nome e molto tempo è passato, in modo sospetto, anche in parte della stampa, specialmente su quella di destra e pro governo, finché è scattato al centro dell’attenzione ciò che subito sarebbe dovuto esserci: centinaia di uomini arabi hanno esercitato violenza sessuale di massa contro donne.
Questo non voler dire rivela un fatale pregiudizio politico che molti, nella direzione della polizia e nei media, si potrebbe anche definire la parte rilevante dell’élite, nutrono sul popolo dei tedeschi: il quale come sempre è precisamente un popolo pericoloso e a rischio, al quale si può somministrare certe verità sugli stranieri soltanto se sono ben dosate, pedagogizzate e portate a temperatura ambiente, perché altrimenti perde subito la sua contenance civilizzatrice e in un baleno regredisce nella barbarie, che vi è profondamente conficcata (ma non nelle sue élite, si capisce).
Questo pregiudizio esiste in una variante di destra e in una di sinistra. La prima vorrebbe aspettarsi dai tedeschi meno rifugiati, se possibile, la seconda possibilmente meno realtà sconvolgenti sui profughi. Entrambe però non funzionano, il milione di profughi non se ne andrà tanto presto, il numero dei nuovi arrivati durante quest’anno non può essere stimato, diciamo, meno di 200.000. d’altra parte una cultura dell’accoglienza decretata dall’alto, che ha paura della verità e della maggioranza, prima o poi fallirà.
Nel dibattito sui delinquenti di Colonia si portano avanti attualmente alcuni argomenti che dovrebbero difendere il tela “immigrati” dal fall-out di questa notte di Capodanno. A grandi linee, che fra le migliaia di uomini arabi si tratti solo di una piccola minoranza, in base alla quale non si potrebbe concludere indicando “i” profughi. Ciò è assolutamente corretto, ma non cambia il fatto che questa minoranza causerà ancora una quantità di problemi.
Anche l’argomento, usato volentieri nella discussione su islamismo e immigrati, ovvero che queste persone siano fuggite proprio per la repressione e i regimi del terrore e che di conseguenza potrebbero avere intenzioni soltanto tolleranti e pacifiche, non regge a un esame più approfondito. Una piccola parte dei profughi porta purtroppo con sé tutto ciò dal quale la maggior parte degli altri è fuggita: islamismo, disprezzo per le donne, odio per l’Occidente, criminalità. Come al solito! Non riceviamo qui alcun meglio di..., ma qualcosa, una parte dell’insieme.
Un’altra difficile argomentazione a difesa proviene in questi giorni dalle femministe, che sotto l’hashtag »#ausnahmslos« [»senzaeccezione«] sostengono che la violenza sessuale è un fenomeno maschile, né arabo né musulmano. Anche questo è vero, da principio. I giovani arabi non sono per niente emigrati nella pur sempre terra dell’uguaglianza, nel paradiso dell’equiparazione dei diritti e della libertà dalla violenza, ma in una società nella quale vi sono pur sempre violenza carnale e costrizione sessuale, anche da parte di tedeschi.
Nondimeno in questo campo decennali battaglie per l’uguaglianza dei diritti e per integrità delle donne hanno portato a risultati. Infatti in Germania vi sono stati consistenti progressi, naturalmente, fra gli altri la punibilità penale dello stupro in ambito matrimoniale nel 1997 (d’altronde contro l’opposizione di molte di quelle che oggi, poiché si tratta di musulmani, fano pressioni sui vertici del movimento femminile). Eppure perfino chi considera lo spostamento in massa dei conservatori nel femminismo più avanzato con ironia e scetticismo può essere contento su ciò che oggi sembra essere consensuale: ogni donna può dire No a ogni uomo (anche al marito), in ogni luogo (anche a letto), con ogni abbigliamento (anche nuda) e in ogni momento (anche mentre fa sesso). E questo No è valido!
In tutto questo risuona però un’amara verità, che [l’asservimento femminile] è durato spaventosamente a lungo a molte donne è costato molto, finché qui in Germania per lo meno in teoria si è arrivati a questo punto. La seconda verità è: poco parla a favore del fatto che tutti gli uomini arabi, che recentemente sono stati accolti in Germania, si adattino senza altri problemi al generale consenso. Bisogna nuovamente lottare. Anche contro il sessismo arabico e musulmano.
In questi giorni il Consiglio Centrale dei Musulmani ha fatto notare che l’Islam vieta ovviamente ai giovani maschi di toccare le donne in maniera scostumata. Ciò che è avvenuto a Colonia non può essere volontà di Allah ed espressione della fede musulmana. Ora, cari amici, quanto ingenuamente vi avrebbe preso in parola l’opinione pubblica? In fondo, noi ci ricordiamo bene che anche la fede cristiana vieta di umiliare le donne e importunarle sessualmente. Ciononostante a lungo la Chiesa cattolica ha prodotto questo pericoloso simbolo della donna con la sua inumana morale sessuale. Madonna o prostituta, santa o donnaccia. La stilizzazione della donna pudica e casta è stata utilizzata da molti uomini come biglietto di viaggio gratuito nei confronti delle donne che non corrispondevano a questa immagine. Il cattolicesimo diffonde una follia di questo genere fino ad oggi e l’Islam ancora più. Il sessismo cerca sempre per sé un’ideologia, un pretesto, una giustificazione. Per questo oggi «lo» Islam [ndt.: l’Islam come religione maschile] deve essere considerato altrettanto criticamente come lo è stato «il» cattolicesimo.
Quando una musulmana dice di portare sulla testa il suo foulard per sua libera scelta, non a causa degli uomini ma per Dio, le si deve portare rispetto. Tuttavia le prescrizioni sull’abbigliamento per le donne in ambito arabo rivelano anche qualcosa sulla sottostante struttura pulsionale dell’uomo: già la visione fuggitiva della pelle femminile minaccia l’uomo di diventare vittima della propria natura animalesca. Noi lo sappiamo anche dalle discussioni sulla prostituzione: se l’uomo non può farla esplodere nel bordello, allora... Questa immagine fondamentalmente sessista dell’uomo gli fornisce anche la propria discolpa: non ero io, era la scimmia che è in me.
La strada dall’uomo, che a causa della sua eccitazione può (e gli è permesso) perdere l’autocontrollo, all’uomo che in ogni livello di eccitazione deve ubbidire a un no senza esitare non è né corta né facile.
Ma è percorribile.
A questo punto la domanda è rivolta a tutti coloro che ora vogliono far passare la loro personale paura delle donne in paura dei profughi: se in Germania si è riusciti a civilizzare accettabilmente la mascolinità repressa di una maggioranza, perché ciò non potrebbe riuscire con una minoranza? Se perfino vecchi ossi duri conservatori e tedeschi sono potuti diventare femministi, perché non anche con giovani maschi arabi? Dopo due guerre perse militarmente e moralmente, dopo gli anni delle lotte antiautoritarie e anti patriarcali, la Germania ha sviluppato una immensa abilità nello svelenire la virilità non è vero, cari coleghi di sesso, noi stessi lo abbiamo vissuto, sui nostri corpi.
Ma noi non vogliamo definirci più ingenui di quanto siamo, noi sappiamo che qui non si tratta solamente di paura, ma di politica. Dopo la catastrofica notte di Colonia molti vedono la chance di mandare in fumo la politica dell’immigrazione del governo federale. Ma per questi speranzosi vi sono cattive notizie: così come settori delle élite devono distaccarsi dal loro atteggiamento di pedagoghi del popolo, così le destre tanto piene di odio spensierato devono capire che il loro pensiero magico ha fallito. Tutta la invelenita campagna per le espulsioni non porterà ad alcuna riduzione del numero dei profughi presenti e l’effetto intimidatorio sarà minimo. E la Cancelliera si dimetterà soltanto se non le riesce a riprendere durevolmente il controllo sull’immigrazione e ridurre in misura percettibile il numero dei nuovi arrivi. Anche se Angela Merkel dovesse essere sostituita verso la metà dell’anno da Wolfgang Shäuble il flusso dei migranti non scenderebbe a zero. L’Islam, anche l’uomo arabo, è da ora in poi per sempre un importante parte presente in Germania, appartiene all’identità di questo Paese. Abituatevi, membri di Pegida e di AfAdler [ndt.: estrema destra tedesca], questo può andare veramente bene.
Se quindi si vuole fare qualcosa contro la paura delle donne si deve attivare più polizia e operatori sociali e se veramente AfD [ndt.: Alternativa per la Germania, http://www.limesonline.com/alternativa-per-la-germania-afd-non-solo-euroscettici/57619 ] si preoccupa per l’uomo arabo dovrebbe allora mettere totalmente a disposizione le sue riserve auree delle organizzazioni femminili musulmane. Infatti le donne musulmane sono assolutamente, prima di tutto, quelle che devono far capire ai loro uomini la bellezza della parità dei diritti. E naturalmente ai loro figli.
E poi c’è ancora qualcosa: in queste ore migliaia di persone muoiono di fame in Siria, nelle città accerchiate dalle truppe di Assad, o fuggono dal fuoco che cade loro addosso dal cielo siriano. Proprio adesso migliaia di tedeschi continuano ad aiutare le maggioranze pacifiche, amiche e ambiziose dei profughi, anche maschi. La politica tedesca verso i migranti non è dunque né alla fine né fallita. Ma continua ad andare giustamente avanti.
E se tutti coloro che sono dalla parte dei rifugiati, in futuro anche dalla parte dell’assoluta verità, se costoro per primi, subito e schiettamente, parlano di tutti i problemi e i conflitti dei e sui migranti, se riconoscono di dover affrontare il rischio di avere fiducia nella maggioranza dei tedeschi, allora porteranno dalla loro parte, di nuovo, questa maggioranza. Vogliamo scommettere?!
Società arabe
I giovani maschi non vogliono più essere dei Pascià
Dietro le aggressioni a Colonia per molta gente c’è quel genere di “uomo arabo”, che anche al Cairo insulta, brancica, stupra le donne. Ma non è così semplice.
di Andrea Backhaus (Die Zeit online, Hamburg - 13 gennaio 2016) *
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Il Presidente aveva portato fiori. Con viso rattristato Abdel Fattah al-Sisi fissò lo sguardo sulle telecamere disposte accanto al letto della giovane donna. “Sono venuto qui per dire a voi e a ogni donna egiziana che questo mi addolora”, sussurrò ai microfoni. Il giorno prima la donna era stata abusata e gravemente ferita da un’orda di uomini sulla piazza Tahrir, al Cairo. Con la sua visita in ospedale al-Sisi voleva dare un efficace segnale mediatico. La violenza sessuale non trova posto nel suo Paese, voleva significare il suo intervento nell’estate 2014. Era un tentativo di salvare l’immagine dell’Egitto. Infatti la situazione non potrebbe essere peggiore.
La piazza Tahrir, un tempo sinonimo di libertà e pace, oggi ha fama di luogo del terrore. Viene citata con frequenza in questi giorni, presumibilmente per dare agli avvenimenti di Colonia un quadro di riferimento culturale, e simbolicamente sta per violenza organizzata contro le donne, sia egiziane che straniere, ciò che avviene in Egitto da alcuni anni.
Questa violenza contro le donne è arrivata all’attenzione internazionale durante le sollevazioni contro l’allora presidente Hosni Mubarak. L’11 febbraio 2011, mentre gli egiziani festeggiavano le dimissioni di Mubarak, circa 200 uomini si gettarono sulla reporter sudafricana Lara Logan e la stuprarono “con le loro mani”, come raccontò più tardi la stessa Logan. Poco dopo la giornalista Mona Eltahawy fu abusata sessualmente da poliziotti e la reporter francese Caroline Sinz infastidita da un gruppo di uomini. Dopodiché il brutale sistema si è diffuso. Dozzine di donne, malgrado le loro proteste, furono braccate, circondate, spogliate e violentate da uomini.
Molti vedono negli abusi di Colonia un parallelo diretto. Il passo verso il rancore non è molto lontano. Anche se non è chiaro che cosa è accaduto precisamente nella notte di San Silvestro, chi ha aggredito le donne e perché, molti commentatori ostentano sicurezza: deve essere stato quel tipo di “uomo arabo” che anche al Cairo insulta, afferra e violenta le donne, perché là, nel “mondo musulmano”, gli uomini fanno proprio una cosa simile. Qui il discorso è sui macho, che non sanno fare altro se non umiliare le donne - e proprio donne velate, timorose, che più di ogni altra cosa vogliono restare invisibili. Ma non è così semplice. Né a Colonia né al Cairo.
La risposta alla domanda perché in Egitto e altrove avvengono aggressioni contro le donne si articola su diversi piani. Dagli studi fatti risulta che quasi tutte le egiziane intervistate dichiarano di essere state molestate almeno una volta, indifferentemente se fossero velate o no. Gli sviluppi della situazione dopo il 2011 hanno ricacciato indietro di secoli la lotta per l’emancipazione femminile, scrive il Direttore del Centro per i Diritti delle donne, Nehad Abdul-Komsan, nelle sue relazioni. L’oppressione è praticata da tutti i settori politici. E con ciò definisce quello che i corrispondenti occidentali non si curano volentieri di vedere: le aggressioni organizzate nell’Egitto frammentato costituiscono anche una dimensione politica. Molti attivisti sono convinti che lo Stato organizzi gli attacchi come misure di dissuasione.
Gli oppositori politici strumentalizzano i rapporti sugli episodi di violenza per dimostrare la superiorità delle loro tesi: i soprusi rispecchierebbero la degenerazione morale degli appartenenti all’esercito, tuonano i Fratelli musulmani. Gli islamici vorrebbero così vendicarsi delle donne scostumate, ritengono i sostenitori di al-Sisi. Del resto fu il generale al-Sisi che, dopo la caduta di Mubarak, introdusse i “test di verginità” sulle dimostranti, effettuati dalle forze armate e stigmatizzati come torture dai sostenitori dei Diritti umani. L’avvertimento per le donne era chiaro: pagate un prezzo, se volete dimostrare, quindi state lontane dalla sfera pubblica.
Le aggressioni ordinate dallo Stato sono la drastica espressione di un onnipresente discredito della donna. Lo schioccare delle dita [in segno di disprezzo] passando loro accanto, la mano sul sedere in metropolitana: tutto questo ha meno a che fare col sesso e molto più con la sensazione di avere il controllo, almeno in un ambito. Questo è un’altra dimensione che si finge di non conoscere. I giovani sono resi insicuri dai cambiamenti e frustrati per la crescente povertà e disoccupazione. Le tensioni sociali collidono con la levatura mentale di una società disuguale: l’idea che la donna sia subordinata all’uomo è ampiamente diffusa in Egitto. E non soltanto in Egitto.
Quando la vittima stessa dovrebbe essere colpevole
In Marocco milioni di donne sono regolarmente vittime di violenza - anche di stupri in pubblico. Poiché la legge punisce il sesso extramatrimoniale, le stesse vittime di abuso sessuale sono spesso perseguite penalmente. Anche in Arabia Saudita accade che le donne, dopo uno stupro di gruppo, siano punite a frustate, poiché hanno avuto un rapporto sessuale fuori dal matrimonio. Negli Emirati Arabi Uniti le vittime di stupro sono prima di tutto condannate e poi - anche a causa della pressione internazionale - amnistiate. Le organizzazioni per i diritti delle donne stigmatizzano da anni che nelle società patriarcali non gli autori dei reati, ma le vittime sono soggette a punizione.
Quanto sia diffusa la convinzione che le donne provochino gli abusi si verifica in Egitto nella vita di ogni giorno. La perturbazione sessuale, così suona il mantra di molte madri e nonne, non esisterebbe in Egitto. Se si verifica, ne sono causa le ragazze: per i vestiti succinti, per i profumi seducenti.
Tabù
Questo incrementa l’estraneità fra i sessi. Infatti in Paesi come l’Egitto nella vita quotidiana uomini e donne possono liberamente incontrarsi molto raramente, perché i loro spazi vitali sono troppo separati gli uni dagli altri. Il sesso senza il contratto matrimoniale è impensabile, il matrimonio serve da fondamento della società. Tuttavia le cerimonie nuziali sono costose e quasi nessuno può permettersi pomposi festeggiamenti. Questo è problematico in un Paese nel quale manifestazioni d’amore pubbliche, contraccezione e aborti sono tabù, dove non vi è né informazione né educazione sessuale. E nel quale il tipico ruolo esige che le donne debbano essere arrendevoli e gli uomini [le] sovrastino.
Tuttavia questo si fonda meno sulla religione che sulla tradizione. In Egitto ci sono anche donne cristiane che escono di casa soltanto con il permesso del marito e tengono sempre coperta la loro persona. Anche in molte famiglie di religione copta l’emancipazione femminile e l’autodeterminazione sessuale fanno parte dei tabù più grandi.
Chiamata a una rivoluzione sessuale
Per questi motivi molte donne chiamano a una rivoluzione sessuale. A esempio, la giornalista egiziana-americana Mona Eltahawy, che si definisce e promuove come “musulmana laica, radicale, femminista”, definisce la violenza contro le donne come una forma di terrorismo. O la giornalista Shereen El Feki, che nel suo libro Sesso e cittadella scrive che lo sviluppo politico-sociale ristagnerebbe se l’approccio con la sessualità non fosse più libero. Negli Stati arabi il cambiamento deve essere anche sessuale.
Eppure il cambiamento si è stabilito. Le “donne arabe” non sono in assoluto oggetti che subiscono passivamente, come molti commentatori in questo Paese vogliono far credere. Nel mondo arabo le donne non sono soltanto vittime, ma anche soggetti che agiscono. Nei loro Paesi hanno sempre portato avanti movimenti di protesta. In Egitto, dopo la Prima guerra mondiale, le nazionaliste hanno combattuto contro gli occupanti inglesi. Dopo il colpo di Stato contro il re Faruk, negli anni ’50, le donne sono scese in strada e hanno chiesto parità dei diritti e giustizia sociale.
Nel 1956 avevano ottenuto lottando il diritto di voto, nel 1962 la prima donna entrava nel Parlamento. In Tunisia dal 1956 le donne hanno imposto il divieto della poligamia, il diritto di voto e il diritto al divorzio. E più tardi con la rivoluzione del 2011 si annunciò un profondo riordinamento: le donne lottarono qui con gli uomini per la loro dignità e libertà. Per le strade del Cairo e di Tunisi scandirono parole d’ordine contro i despoti, organizzarono sit-in, infiammarono le masse con slogan scottanti. Con enorme potenza d’urto le donne hanno catapultato le loro richieste nella percezione a livello mondiale.
Anche gli uomini lottano per la parità dei diritti
Oggi si avverte il risveglio dappertutto, fra i sessi, ma anche fra le generazioni. Molte ragazze discutono oggi con i loro padri e fratelli di politica, naturalmente. Non si fanno imporre più dalla famiglia colui che dovrebbero sposare. Vogliono fare da sole le loro scelte. Oppure, come scrive la blogger egiziana Ghada Abdelaal nel suo Voglio sposarmi: “Noi non cerchiamo soltanto un compagno tranquillo o uno che protegga sua moglie, ma un uomo che prenda parte alla sua vita, che la rispetti e che lei possa rispettare.
Soprattutto le donne si difendono con grande veemenza contro la violenza sessuale, come mai accaduto prima. Le egiziane hanno condotto campagne su Facebook, scrivono articoli e dirigono campagne di protesta nelle loro città. Molte nuove iniziative cercano di fare luce, come Anti-sexual harassement o Shayfeencom (“Noi vi vediamo”). Sul sito Internet harassmap.org le donne possono indicare i luoghi nei quali sono state importunate. E molti giovani sostengono le donne, condividendo con le loro amiche i volantini, accompagnandole alle manifestazioni di protesta per proteggerle od organizzando flashmob contro la violenza sessuale.
Mai la separazione fra “femminile uguale a privato, maschile uguale a pubblico” è apparsa tanto superata. Infatti anche molti giovanotti battono su un nuovo ruolo tipico, nel quale non spetta più a loro la parte del pascià. Molti s’impegnano per la parità dei diritti. Uomini come il giovane egiziano Fathi Farid, che per collera contro le aggressioni alle donne ha fondato al Cairo il gruppo Shoft Ta7rosh (“Ho visto importunare sessualmente”) e che distribuisce incessantemente in strada fogli informativi sulla violenza sessuale. O che sale su un palco improvvisato e grida: “Importunare sessualmente è un reato”.
Le generalizzazioni non aiutano più
Il presunto tipo, valido in generale, di “maschio arabo” non c’è più. La mancanza culturale di idee è salita al livello di pericolosa isteria, che offusca le realtà della vita e impedisce le differenziazioni. Questo intorbidisce la vista sulla questione centrale, ovvero perché vi è violenza contro le donne e che cosa possiamo fare noi per contrastarla. E per fare luce non aiuta fare campagne persecutorie contro i migranti dal Nord africa. Sarebbe molto più necessario un dibattito sulla corporeità, sui tabù e la (doppia) morale. Qui [in Germania]. E anche nei Paesi arabi. Perché la violenza contro le donne in molti Paesi è un tema discusso. Anche in quelli del Vicino Oriente.
* http://www.zeit.de/politik/2016-01/tahrir-gewalt-frauen/seite-1
Una serie di documenti sulle origini misconosciute dell’Islam
Da Gesù a Maometto
La recente attualità dimostra l’urgenza di una rilettura dei testi sacri islamici mediante un’analisi del contesto della rivelazione. Poco conosciuto e molto poco diffuso sui media, lo studio del Corano, portato avanti da ricercatori interdisciplinari, potrebbe contribuire a lottare contro il radicalismo religioso, testimoniando i lavori sulla posizione essenziale di Gesù nei primi tempi dell’Islam.
di Akram Belkaid (Le Monde Diplomatique, dicembre 2015, pag. 23)
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Non è per niente facile affrontare la questione dell’Islam e delle sue origini sfuggendo all’attualità e alle tematiche ricorrenti che questa impone, fra le quali l’imprescindibile «jihad». Quindi è un vero e proprio tour de force il documentario realizzato da Gérard Mordillat e Jérôme Prieur in sette episodi e dedicato all’influsso del Cristianesimo sull’Islam, per lo meno di quello dei primi tempi dalla Rivelazione (1).
I documentari di cui si tratta sono reperibili su Arte (molto interessanti, ma purtroppo soltanto in francese):
Jésus et l’Islam - La série, en VOD, DVD - ARTE Boutique
http://boutique.arte.tv/f10576-jesus_et_islam_serie
Il primo merito di questo lavoro è di dimostrare che lo studio interdisciplinare del Corano- vale a dire, quello che si estende al di là del solo commento teologico - è una scienza in divenire. Il Libro sacro dei musulmani è spesso presentato come un «testo senza contesto», a causa della sua complessa struttura letteraria e dell’impossibilità di datare le sue sure (capitoli) o anche di determinare l’insieme dell’ordine cronologico della loro rivelazione. La posta in gioco è importante, perché una conoscenza migliore del contesto storico e sociale nel quale è comparsa l’ultima delle tre grandi religioni monoteiste aiuterebbe a superare le sfide politico-religiose contemporanee.
Il dialogo fra cristiani e musulmani, così come la separazione fra il temporale e lo spirituale, non possono che trarre beneficio dal richiamo della vicinanza originaria fra la croce e la mezzaluna. Come il documentario, nel corso del quale intervengono numerosi ricercatori di nazionalità e d’orizzonti diversi, illustra nei dettagli, l’Islam fa di Gesù un personaggio tanto essenziale quanto lo è Adamo, il primo uomo. Aissa ibn Mariam, ovvero Gesù, figlio di Maria, è colui che viene alla fine dei tempi per uccidere l’Anticristo. Ora, un buon numero di musulmani, pur sapendo bene che colui che designano con il termine di massih, detto altrimenti «il Messia», è effettivamente uno dei «loro» profeti, non hanno consapevolezza del posto fondamentale, unico, che egli occupa nel Corano. Egli vi è presentato come «lo spirito», «il soffio» e «il verbo» di Dio. È un uomo bello, fuori dal comune e capace di fare miracoli. Al contrario il Libro Sacro è quanto mai laconico per tutto quanto riguarda Maometto (Mohammad) il quale, uomo comune - non compie miracoli - non è «altro che» il messaggero (rassul) di Allah e un profeta (nabi), uno fra i tanti. Questa prossimità fra le due religioni si dimostra anche per l’importanza accordata a Maria che, nel Corano, è la sola donna designata con il suo nome e ricordata più volte, la sura XIX le è dedicata.
Una semplice talea del cristianesimo?
Quando si diffonde un vocabolario dividente - si pensi in particolare al ricorrere della parola «crociati» usata dagli islamisti radicali per designare i cristiani, o alla confusione fra Islam e islamismo politico da parte di un buon numero di Occidentali - l’evidenziazione di una parentela di questo genere potrebbe placare i rapporti tesi. Allo stesso modo, in una società europea occidentale, segnata da una scomparsa progressiva del fatto religioso, questa affinità smentisce gli abituali discorsi sull’alterità dell’Islam in rapporto al sistema di riferimento giudaico-cristiano.
Beninteso, si potrà obiettare che le differenze teologiche sono notevoli. Così il Corano rifiuta la natura divina di Gesù, affermando che Dio «non saprebbe partorire o essere partorito». Ugualmente nega che Gesù sia morto crocifisso. D’altra parte il documentario riserva ampio spazio a queste problematiche, ricordando due versetti (157 e 158) della sura IV, dove è scritto che coloro che hanno creduto di vedere il Messia sulla croce sono stati vittime di un’illusione. Inoltre l’Islam fustiga il cristianesimo, che accusa di aver rotto con uno stretto monoteismo associando (chirk) Gesù e lo Spirito Santo a Dio (2).
Queste divergenze hanno alimentato innumerevoli polemiche e una quantità di conflitti. Un altro aspetto interessante del lavoro di Mordillat e Prieur: riferiscono, citandone i testi, che diversi ricercatori hanno dimostrato come l’Islam non è nato in opposizione al cristianesimo, ma come una certa forma di continuazione, perfino come un tentativo di riforma. In effetti, la religione musulmana riprende o riformula le dottrine cristiane, che continuavano a essere diffuse nel VII secolo. È il caso del docetismo, un’eresia dei primi tempi del cristianesimo, secondo la quale era impossibile che sulla croce Cristo fosse morto. E la posizione di Maria nel Corano si chiarisce alla lettura di certi testi apocrifi, che cioè si oppongono a quelli, canonici, riconosciuti dalla Chiesa, che neppure ne fa menzione.
Sul piano storico, l’Islam nascente non è quindi estraneo ai dibattiti teologici della sua epoca. In un certo qual modo finisce per chiudere le interminabili dispute sulla natura di Cristo. La preminenza dunque di Gesù nel Corano fa quindi addirittura pensare che Maometto si rivolga anche ai cristiani, e non soltanto unicamente ai politeisti della Mecca e della Penisola Arabica, allo scopo di convincerli alla sua causa. Si tratta d’altronde di una delle ragioni - e non della sola - della folgorante velocità con la quale le popolazioni cristiane del Levante adottano questa nuova religione.
Allora l’Islam non sarebbe altro che una talea del cristianesimo? Certamente è dubbio che una risposta puntellata sui piani scientifico e storico sia possibile. Rimane il fatto che, come affermano gli esperti in materia qui interrogati, vi è proprio una «intertestualità» fra l’Islam nascente e il cristianesimo come esisteva nel VII secolo.
Il documentario imbocca un’altra pista in grado di consolidare un dialogo interreligioso altrettanto importante, se non addirittura più urgente. Esiste oggi nel mondo musulmano un sentimento antiebraico alimentato dalla situazione dei Palestinesi, ma che non si può negare si fondi anche su una certa lettura del Corano (3).
Da qui la necessità di tenere nel debito conto il contesto nel quale sono apparsi i versetti coinvolti. Quando accusa gli ebrei di aver rivendicato la morte di Cristo il Corano riprende, anche qui, idee cristiane molto diffuse nel VII secolo e che avranno vita dura. Effettivamente sarà necessario attendere il 1963 perché Papa Giovanni XXIII chieda in una preghiera: «Perdonaci la maledizione con cui abbiamo ingiustamente oppresso gli ebrei. Perdonaci per averti crocifisso una seconda volta con il nostro peccato (4)».
Allo stesso modo, un certo numero di esperti, interrogati nel documentario, ricordano che il conflitto che oppose Maometto alle due tribù ebree di Medina, città nella quale trovò rifugio dopo la sua fuga da La Mecca (l’egira, nel 622, ovvero dodici anni dopo l’inizio della rivelazione) era d’ordine politico ma anche teologico. Sul piano storico il Profeta, allineandosi sulla scia di Mosè e di Gesù e intendendo riformare l’ebraismo e il cristianesimo, considerati nel Corano come un’alterazione della religione originale, si è probabilmente urtato contro i rabbini. Questo porta gli specialisti ad affermare oggi che questo libro non è antiebraico, ma antirabbinico.
Un secolo dopo la sua apparizione l’Islam, in piena espansione territoriale, si affrancherà a poco a poco dalla figura tutelare di Gesù e darà spazio preponderante a Maometto. La divergenza con il cristianesimo si accentuerà sul filo dei secoli. Ma si nota bene l’interesse di una rilettura del Corano alla luce del contesto storico e sociale nel quale è stato rivelato. Si tratta qui di una tappa indispensabile per portare a buon fine un’esegesi ambiziosa, destinata a rinnovare il pensiero islamico. Congelata dall’XI secolo questa ijtihad, in altre parole l’interpretazione dei testi, così ricca nel corso dei secoli che seguirono la morte del Profeta nel 632, non è più che un ciclo iterativo, nel quale si succedono i medesimi commentari di commentari del Libro Sacro.
La linguistica - per lo studio approfondito e dettagliato dell’arabo coranico e dei suoi numerosi prestiti da altre lingue, in particolare dal siriaco, una lingua semitica derivata dall’aramaico - così come l’antropologia sono preziosi strumenti per questa necessaria revisione. Vi si aggiunga l’archeologia, le cui scoperte permetterebbero di comprendere meglio il contesto storico della rivelazione - a condizione però che l’Arabia Saudita autorizzi un maggior numero di scavi sul suo suolo. In seguito si tratterà di diffondere gli insegnamenti ottenuti dalla reinterpretazione del testo coranico, nel modo seguito da questa serie documentaria. Si può presumere che ciò non si farà senza problemi.
(1) Gérard Mordillat e Jérôme Prieur, Jesus et l’Islam, sette documentari da 52 minuti, diffusi su Arte 8, 9 e 10 dicembre 2015.
(2) Questa esigenza di uno stretto monoteismo è uno dei fondamenti del wahabismo e spiega l’iconoclastia (opposizione all’adorazione delle immagini sacre) da parte di certe correnti radicali.
(3) Esther Benbassa et Jean-Christophe Attias (sotto la direzione di -), Juifs et musulmans, retissons les liens! [Ebrei e musulmani, riannodiamo i legami], CNRS Editions, Paris, 2015.
(4) Citato dagli Autori nella loro opera.
Quest’anno il Natale cristiano e quello musulmano cadono la stessa notte
Non accadeva da mezzo millennio. Una bella coincidenza di questi tempi
Quando gli dei si parlano
di Monika Bulaj (la Repubblica, 20.12.2015)
L’HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25 dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce quando nasce Gesù. Sarà il secondo Mawlud del 2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto - e oggi pare così strano ricordarlo - le due religioni si sono rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica "strada" e il fanatico "asino che porta sulla groppa una pila di libri".
Sono zone franche. Come le donne armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e i musulmani che pregavano assieme nella moschea di Damasco, o quelli che hanno rimesso a posto le pietre del monastero di Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuitˆ millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civilt ˆ, luoghi dove la catena delle vendette si rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Marocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo o ebraico non importa, svela comunque una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
Dalla parte dei calendari
di Enzo Bianchi
LA SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della natività di Gesù e la commemorazione del profeta Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano, distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”, perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24 dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare conflitti religiosi.
"Anch’io sul cammino di Santiago"
di Elena Loewenthal (La Stampa, 10/06/2011)
Carità spagnola è il titolo del nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua, appena uscito in Israele. I lettori italiani dovranno aspettare l’autunno per leggerlo: nell’edizione Einaudi si chiamerà La scena perduta , per evocare il mistero di un’assenza, di una lontananza nel tempo e nella mente. È un libro complesso, insolito per questo grande narratore. Forse un bilancio personale, di vita e letteratura. Anche e soprattutto una storia scabrosa nel suo affondo psicologico, nel non detto che tiene insieme - ma soprattutto separa - le intriganti personalità dei protagonisti.
«È un romanzo che ha al centro la questione della creatività. Il suo mistero. Che parla dell’arte, nelle sue forme più diverse. Questo tema lo affronto attraverso la storia di un vecchio regista per il quale viene allestita una vasta retrospettiva, a Santiago de Compostela, in Spagna. Qui il cinema “incontra” la teologia, perché la sede di questo evento è uno spazio cattolico. Il regista si chiama Moses ed è un tipico esponente del fior fiore (in ebraico si direbbe “il cuore del cuore”) della società israeliana: gerosolimitano di origine tedesca, di famiglia colta e illuminata. Assieme a lui arriva alla restrospettiva la compagna con cui ha un rapporto fuori degli schemi, indefinibile. Lei è la “sua” attrice, ma prima era la donna dello sceneggiatore che ha organizzato la manifestazione, e che è una vecchia conoscenza del regista. Hanno lavorato insieme sino a una drastica rottura, originata da un litigio insolubile. Anche lo sceneggiatore è un uomo speciale, speculare rispetto al regista: è arrivato in Israele bambino, dal Nord Africa. Insieme hanno fatto film surrealistici, simbolici, grotteschi. D’avanguardia. Poi è sceso il ghiaccio, fra loro».
L’edizione in ebraico ha una copertina molto eloquente. Vi si trova la fotografia di un celebre quadro, dove è raffigurato un vecchio curvo, di spalle, che succhia al seno di una giovane donna dall’aria molto triste. Qual è il nesso tra questa immagine e il romanzo?
«Non voglio svelare troppo al lettore... ma questa scena è cruciale. È una raffigurazione della “caritas romana”, evocata nel mito di Pero e Cimone e ricordata per allusione nel titolo del mio romanzo: un padre condannato a morire di fame in prigione e salvato dalla pietà della figlia che gli offre il suo latte. I protagonisti del libro si ritrovano come per caso di fronte a questo quadro, a Santiago, in occasione della retrospettiva. E tornano immediatamente con la memoria a quel litigio di tanti anni prima, quando l’attrice - all’epoca compagna di Trigano, lo sceneggiatore - si rifiutò di girare una scena, per la sua scabrosità, trovando l’appoggio del regista... e tutto cominciò, anzi finì, fra loro tre. In sostanza, attraverso il quadro si scopre il fondamento mitologico e dunque culturale di quel loro vicolo cieco sentimentale di tanto tempo prima - che non era un capriccio ma qualcosa di molto profondo. Per quanto mi riguarda, ho voluto in questo libro esplorare il mistero della creazione artistica - letteraria, figurativa, cinematografica - e in particolare l’interazione tra il genio della fantasia, dell’invenzione provocatoria, che “sfonda” la realtà, e l’imprescindibile fondamento costruttivo, il metodo e la costanza che sono elementi necessari all’artista».
La critica israeliana ha accolto con il consueto entusiasmo, e in qualche caso un po’ di sconcerto, questo libro insolito - particolarmente ricco di divagazioni e spunti dotti. Molti hanno rilevato che il romanzo porta un’impronta personale come nessun altro dei suoi libri. In parole povere, è vero che in Moses c’è molto di Yehoshua, e che questa è anche una retrospettiva dei suoi libri, oltre che dei film del protagonista?
«Non ho mai scritto di uno scrittore... Ma questa volta desideravo esplorare, come dicevo, le forze della creazione artistica, le forze che agiscono al momento di produrre, e che valgono per ogni manifestazione artistica. È vero, dunque, che in Moses c’è qualcosa di me e di ciò che agisce in me quando creo. È anche vero che due o tre dei film evocati nel romanzo e presentati nella retrospettiva sono echi di miei libri. Ma nulla di più. Diciamo allora che m’interessava esplorare quella tensione simbolica, surrealistica, grottesca, così presente in tutta l’arte europea del secondo dopoguerra, da Beckett a Camus e Fellini e tanti altri. Una tensione così forte e potente, in Europa ma anche in Israele».
A proposito di Israele, pare di individuare in questo romanzo una specie di «superamento» della dimensione locale, anzi qualcosa di più. Azzardando, viene da pensare quasi a una fascinazione esercitata in lei dall’«altro» per eccellenza nell’identità ebraica (e israeliana): l’universo religioso e umano del cattolicesimo. Santiago, la scena, la carità: luoghi e simboli di una fede «altra».
«Il libro è cattolico solo nella sua cornice, nell’ambientazione - e non nella sostanza. È indubbio che però per me il rapporto tra questa religione e l’arte sia carico di fascino, attrazione - anche e soprattutto perché, all’opposto, l’ebraismo è una fede “avara”, anzi ostile, nei confronti dell’arte. Ho dunque attinto all’immaginario cattolico, innestandolo in una storia secondo me profondamente israeliana».
Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana il testo della dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro del forum cattolico-musulmano. *
Il forum cattolico-musulmano è stato creato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata Una Parola Comune, alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il suo primo seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti 24 partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo". Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco".
Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l’esempio dell’amore di Dio e del prossimo è l’amore di Dio per suo Padre, per l’umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L’amore di Dio è posto nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L’amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all’altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-17). L’amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L’amore del prossimo non si può separare dall’amore di Dio, perché è un’espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell’amore sacrificale di Cristo, l’amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l’amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma il rispetto umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l’amore umano per il Dio uno e trino. Un hadit mostra che la compassione amorevole di Dio per l’umanità è persino più grande di quella di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana dell’unico che è "amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l’umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L’ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadit leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama il suo prossimo come ama se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona, dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, le è stato permesso di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà di individuo, comunità e governo, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell’umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L’amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell’imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere una attenta informazione sulla religione dell’altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall’attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest’ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo. Alla fine del seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Grand Mufti Mustafa Ceric, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo.
*
L’editto religioso per voce di donna, la rivoluzione dell’islam
di ConboniFem
Nel mondo islamico cade un baluardo maschile: le fatwa che riguardano le questioni femminili potranno essere emesse dalle donne. L’apertura, destinata a suscitare non poche contestazioni, arriva dalla massima autorità religiosa della Siria: il Gran Mufti Sheikh Ahmed Badriddin Hassun
Riprendiamo questo articolo dal sito
http://www.combonifem.it/articolo.aspx?a=480&t=N *
12.06.2008:
La voce dalla quale arriva il lasciapassare al mondo femminile islamico è influente: si tratta della massima autorità religiosa della Siria, il Gran Mufti Sheikh Ahmed Badriddin Hassun. La decisione storica, destinata di certo a far discutere, riguarda una vera e propria rivoluzione nel mondo religioso: anche le donne potranno svolgere una funzione di guida nell’islam ed emettere editti religiosi ufficiali.
Il proclama è arrivato direttamente dai canali della tivù satellitare Al Arabiya. Il Gran Mufti ha scelto un mass media di grande impatto per segnare questo passaggio importante non solo in campo religioso ma anche sociale. Il privilegio di emettere la fatwa (secondo il diritto islamico è una sorta di sentenza emessa, solitamente, da un esperto religioso e generalmente vincolante per l’individuo e per tutti) finora era una prerogativa riservata ai soli imam maschi. Ma il Gran Mufti non ha dubbi: «Il Profeta stesso ha permesso ad alcune madri e discepole di recitare lezioni di fede di fronte a migliaia di uomini», per questo sovrintenderà personalmente a questo importante progetto che porterà alcune donne a diventare membri effettivi del Consiglio della fatwa.
Rimane però una cosa da dire: gli editti religiosi emessi dalle donne riguarderanno solo questioni femminili. E se gli uomini storcono il naso, temendo che questa “concessione” faccia perdere loro potere sul mondo femminile, le donne accolgono l’editto con entusiasmo. La predicatrice Huda Habash, che insegna il Corano alle 5mila studentesse della moschea di Al Zahra a Damasco, ha commentato: «Benvenuto questo editto, finalmente toglierà dall’imbarazzo le donne nell’andare a chiedere lumi sulle loro vicende a imam maschi».
Un appello contro le liste di proscrizione di Magdi Allam
Appello publicato dalla rivista Reset
Senza entrare nel merito delle accuse specifiche rivolte nell’ultimo libro di Magdi Allam a singoli colleghi noti a chiunque si interessi di questioni relative al Medio Oriente e all’islam non solo come ricercatori seri e qualificati, ma persino come persone coinvolte in svariate forme di impegno civile, intendiamo pro testare fermamente davanti alla sfrontatezza di chi afferma che le università italiane «pullulano» di docenti «collusi con un’ideologia di morte profondamente ostile ai valori e ai principi della civiltà occidentale e all’essenza stessa della nostra umanità».
Ci pare davvero eccessivo che quanti, in sede di dibattito scientifico e civico, esprimono posizioni differenti da una pretesa unica «verità interpretativa» divengano automaticamente estranei a universali valori di civiltà o, addirittura, alieni dalla comune umanità. Una tale impostazione non solo è lontanissima dallo spirito e dai valori di una democrazia costituzionale - e molto più in linea con ideologie totalitarie - ma si pone anche a siderale distanza dal senso critico che sta alla base della ricerca storica e scientifica e dalla stessa, difficile ma essenziale, missione dell’informazione giornalistica in una società plurale. Tutto ciò rischia di contribuire, purtroppo, al preoccupante imbarbarimento dell’informazione in un paese come il nostro che già si trova a pagare un prezzo troppo alto alle varie forme di partigianeria che lo travagliano. Già abbiamo visto sentenze discutibili coinvolgere colleghi noti per la loro serietà ed equilibrio nell’affrontare il tema dell’islam, con addirittura condanne penali che prevedono la pena detentiva.
Il giornalismo rischia di cadere in una logica da tifo calcistico piuttosto che analitica e razionale, soprattutto quando si toccano temi delicati e sensibili come quelli religiosi e, in particolare, relativi all’islam ed alle questioni legate all’ area medio-orientale. La libertà di ricerca ne paga il prezzo, schiacciata tra opposti estremismi interpretativi, e non solo. Ci auguriamo che tali tendenze trovino presto voci più equilibrate e meno partigiane a contrastarle, e che queste trovino a loro volta ascolto nel mondo dell’informazione, in quello politico, in quello culturale e in quello religioso.
Le adesioni
Paolo Branca
David Bidussa
Giancarlo Bosetti
Enzo Bianchi
Gadi Luzzatto Voghera
Angelo d’Orsi
Paolo De Benedetti
Nasr Hamid Abu Zayd
Nina zu Fürstenberg
Giovanni Miccoli
Marco Varvello
Alberto Melloni
Agostino Giovagnoli
Ombretta Fumagalli Carulli
Patrizia Valduga
Michelguglielmo Torri
Pippo Ranci Ortigosa
Anna Bozzo
Dario Miccoli
Isabella Camera D’Aff l i t t o
Francesca Corrao
Ugo Fabietti
Brunello Mantelli
Sumaya Abdel Qader
Diego Abenante
Giorgio Acquaviva
Roberta Adesso
Claudia Alberico
Marco Allegra
Massimo Alone
Daniela Amaldi
Maurizio Ambrosini
Sara Amighetti
Lubna Ammoune
Michael Andenna
Giancarlo Andenna
Carlo Annoni
Caterina Arcidiacono
Barbara Armani
Monica Bacis
Pier Luigi Baldi
Anna Baldinetti
Giorgio Banti
Gianpaolo Barbetta
Roberto Baroni
Elena Lea Bartolini
Annalisa Belloni
Giovanni Bensi
Michele Bernardini
Giovanni Bernardini
Francesca Biancani
Giovanna Biffino Galimbert i
Valentino Bobbio
Giuliana Borello
Franco Brambilla
Daniela Bredi
Alberto Burgio
Paola Busnelli
Maria Agostina Cabiddu
Fabio Caiani
Alfredo Canavero
Paolo Cantù
Fanny Cappello
Franco Cardini
Paola Caridi
Lorenzo Casini
Fabrizio Cassinelli
Paolo Ceriani
Maria Vittoria Cerutti
Francesco Cesarini
Michelangelo Chasseur
Antonio Chizzoniti
Franca Ciccolo
Cornelia Cogrossi
Chiara Colombo
Annamaria Colombo
Silvia Maria Colombo
Alessandra Consolaro
Giancarlo Costadoni
Antonio Cuciniello
Giovanni Curatola
Irene Cusmà
Cinzia Dal Maso
Monia D’Amico
Laura Davì
Francesco D’Ayala
Fulvia De Feo
Fulvio De Giorgi
Paolo di Giannatonio
Miriam Di Paola
Rosita Di Peri
Maria Donzelli
Camille Eid
Fabrizio Eva
Guido Federzoni
Alessandro Ferrari
Valeria Ferraro
Nicola Fiorita
Francesca Flores d’Arcais
Filippo Focardi
Daniele Foraboschi
Guido Formigoni
Ersilia Francesca
Annalisa Frisina
Carlo Galimberti
Enrico Galoppini
Laura Galuppo
Antonella Ghersetti
Mauro Giani
Aldo Giannuli
Manuela Giolfo
Fabio Giomi
Emanuele Giordana
Demetrio Giordani
Gianfranco Girando
Elisa Giunghi
Carlo Giunipero
Anna Granata
Francesco Grande
Fabio Grassi
Maria Grazia Grillo
Laura Guazzone
Rachida Hamdi
Abdelkarim Hannachi
Ali Hassoun
Alexander Hobel
Giuseppina Igonetti
Virgilio Ilari
Massimo Jevolella
Massimo Khairallah
Chiara Lainati
Giuliano Lancioni
Filippo Landi
Angela Lano
Clemente Lanzetti
Paolo La Spisa
Raffaele Liucci
Claudio Lojacono
Silvia Lusuardi Siena
Monica Macchi
Paolo Maria Maggiolini
Paolo Magnone
Roberto Maiocchi
Diego Maiorano
Gabriele Mandel Khan
Patrizia Manduchi
Ermete Mariani
Annamaria Martelli
Paola Martino
Elisabetta Matelli
Vincenzo Matera
Gabriella Mazzola Nangeroni
Carlo Maria Mazzucchi
Alessandro Mengozzi
Alvise Merini
Saber Mhadhbi
Ferruccio Milanesi
Stefano Minetti
Marco Mozzati
Vincenzo Mungo
Beniamino Natale
Enrica Neri
Sergio Paiardi
Francesco Pallante
Monica Palmeri
Simona Palmeri
Maria Elena Paniconi
Irene Panozzo
Michele Papasso
Daniela Fernanda Parisi
Antonio Pe
Fausto Pellegrini
Claudia Perassi
Alessio Persic
Marta Petricioli
Martino Pillitteri
Daniela Pioppi
Paola Pizzo
Alessandro Politi
Paola Pontani
Antonietta Porro
Gianluca Potestà
Rossella Prandi
Elena Raponi
Savina Raynaud
Riccardo Redaelli
Giuseppe Restifo
Michele Riccardi
Franco Riva
Marco Rizzi
Maria Adele Roggero
Maria Pia Rossignani
Ornella Rota
Monica Ruocco
Rassmeya Salah
Ruba Salih
Brunetto Salvarani
Giovanni Sambo
Marco Sannazaro
Paolo Santachiara
Milena Santerini
Maria Elena Santomauro
Cinzia Santomauro
Giovanni Sarubbi
Federico Ali Schuetz
Giovanni Scirocco
Deborah Scolart
Lucia Sgueglia
Ritvan Shehi
Rita Sidoli
Stefano Simonetta
Piergiorgio Simonetta
Lucia Sorbera
Carlo Spagnolo
Salvatore Speziale
Stefania Stafutti
Oriella Stamerra
Giovanna Stasolla
Piero Stefani
Alessandra Tarabochia
Dario Tarantini
Maurizio Tarocchi
Andrea Teti
Massimiliano Trentin
Emanuela Trevisan Semi
Lorenzo Trombetta
Michele Vallaro
Marisa Verna
Marco Francesco Veronesi
Fabrizio Vielmini
Edoardo Villata
Franco Zallio
Patrizia Zanelli
Francesco Zappa
Luciano Zappella
Boghhos Levon Zekiyan
Ida Zilio Grandi
Raffaello Zini
Processo per la morte di Hina, manifestazione in tribunale
Il presidio è stato orrganizzato dall’Associazione delle donne marocchine. Adesioni trasversali. La presidente dell’Acmid Souad Sbai: «Nessuna strumentalizzazione politica»
di Cinzia Gubbini (il manifesto, 28.06.2007)
Si apre stamattina a Brescia l’udienza preliminare per l’omicidio di Hina Saleem, la ventiduenne pachistana uccisa e sepolta nel giardino dell’abitazione dei suoi genitori e per il quale sono imputati suo padre, suo zio e due cognati. Hina, che conviveva da qualche tempo con il suo fidanzato italiano, fu uccisa perché si ribellava al codice comportamentale che la sua famiglia voleva imporle.
Il caso di Hina è stato il più eclatante tra le molte storie di violenze a carico delle donne straniere che vivono in Italia, e ha infuocato il dibattito politico. Stamattina davanti al tribunale, a mostrare solidarietà e a protestare contro la violenza sulle donne, ci saranno anche molte altre donne, italiane e straniere, che arriveranno da diverse città d’Italia.
Ad organizzare il presidio - l’appuntamento è alle 8,30 in via Moretto 78 - è stata l’Associazione delle donne marocchine, presieduta da Souad Sbai, che ha anche chiesto di potersi costituire parte civile al processo in corso. Stessa cosa ha annunciato il ministero delle Pari opportunità.
Inutile negare che la associazione guidata da Sbai non raccoglie molte simpatie a sinistra: l’associazione svolge un lavoro giudicato meritorio con le donne straniere, ma contemporaneamente si schiera a favore di questioni di tutt’altro tenore, come la Carta dei Valori, o addirittura il recente Family Day. Tra le maggiori «sponsor» dell’Acmid la deputata di Alleanza nazionale Daniela Santanchè, che ha partecipato all’organizzazione del presidio. Proprio per questo è interessante osservare come l’iniziativa dell’Associazione donne marocchine sull’omicidio di Hina Saleem ha raccolto adesioni trasversali. Un esempio, una volta tanto, della politica che si fa sui contenuti, aldilà delle appartenenze. Alla decisione di costituirsi come parte civile sono arrivate le adesioni - tra l’altro - dell’Associazione usciamo dal silenzio, e il sostegno dell’Unione delle donne italiane (Udi).
Stamattina, davanti al tribunale, ci sarà anche una delegazione del centro interculturale Trama di Terre di Imola. Spiega la sua presidente, Tiziana Dal Pra: «Lavorando anche nell’accoglienza abitativa tocchiamo con mano quanto sia serio il problema della violenza sulle donne straniere, ma anche il problema della loro solitudine, della mancanza di punti di riferimento. La questione della violenza riguarda certamente e in larga parte le donne italiane, ma non c’è dubbio che le donne straniere vivono una doppia discriminazione - dice Dal Pra - per questo abbiamo trovato debole la mobilitazione del movimento femminile italiano di fronte all’atroce morte di Hina. E abbiamo deciso di esserci. Inutile dire che una come me non ha nulla a che spartire con Daniela Santanchè o con chi va al Family Day ma questo non ci può impedire di esserci. Io sono stufa di partecipare ai dibattiti. Penso sia arrivato il momento di trovare forme di mobilitazione per un femminismo interculturale. Non saremo strumentalizzate se avremo le idee chiare, e le abbiamo: la violenza sulle donne non ha né colore né religione. Ma ha un sesso: quello maschile».
Sulla stessa linea la direttrice del centro interculturale di Torino Alma Mater, Anna Ciciaco: «Non ci saremo più che altro perché non ne sapevamo nulla. Ma abbiamo parlato molto del caso di Hina, la violenza sulle donne è in aumento in modo preoccupante e tutte le forme di mobilitazione che ci aiutino ad uscire dal silenzio sono importanti e vanno sostenute». Non ha ricevuto comunicazioni sul presidio neanche la deputata del Prc Mercedes Frias, donna di origine straniera e impegnata da anni sul fronte delle questioni femminili: «Tenere l’attenzione alta è fondamentale. Anche se, dalla mia visuale nel "palazzo", non posso non osservare come sul caso di Hina ci sia stata una reazione che purtroppo non spetta ai tanti altri casi di violenza. Trovo mortale la volontà di focalizzare il problema sulla cultura: non ci sono culture che dicono di ammazzare le donne, ma in tutte le culture è presente l’idea del dominio e del controllo sul corpo della donna». Per quanto riguarda il presidio di stamane, spiega Souad Sbai: «La nostra non è una battaglia religiosa. E non vogliamo essere strumentalizzate politicamente, perché tra le nostre fila ci sono donne di tutti gli orientamenti politici».
Hina: aggredita esponente di Acmid
Dounia Ettaib spinta e minacciata vicino a viale Jenner *
(ANSA) - MILANO, 29 GIU - Dounia Ettaib, vice presidente lombarda dell’Acmid ha denunciato un’aggressione a Milano nei pressi della moschea di viale Jenner. La circostanza e’ in corso di accertamento da parte delle forze dell’ordine. L’associazione delle donne marocchine in Italia, proprio ieri, aveva chiesto senza ottenerlo di costituirsi parte civile nel processo per l’omicidio di Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa dai famigliari. Due connazionali avrebbero spinto la donna minacciandola pesantemente.
* ANSA Notizia del 29 giugno 2007 - 21:15
(ANSA) - MILANO, 1 LUG - Dounia Ettaib, la marocchina aggredita da due connazionali, verra’ scortata. ’Ho paura - dice - ma portero’ avanti il mio impegno’. Tra le donne che avevano partecipato alla manifestazione davanti al palazzo di giustizia di Brescia per la vicenda di Hina, la ragazza pakistana uccisa nel bresciano dal padre e da altri parenti, c’era anche Dounia, vice presidente lombarda dell’Associazione donne marocchine in Italia. Proprio il suo attivismo sarebbe stato all’origine delle minacce.
* ANSA » 2007-07-01 14:00
L’Islam è votato al dialogo
di MUHAMMAD HOSNI MUBARAK (La Repubblica, 17-06-2007)
In un’epoca in cui predomina il discorso sullo scontro invece del discorso sul dialogo tra le civiltà, può essere opportuno tornare indietro ed esaminare come l’Islam, una delle più grandi religioni dell’umanità, considera i suoi rapporti con gli altri. Da questa considerazione potrebbe emergere uno strumento diverso, e sicuramente più positivo, per la coesistenza delle civiltà, delle culture e delle religioni.
Componenti insite nella fede islamica sono l’accettazione, il riconoscimento e la credenza nella verità delle due religioni celesti che hanno preceduto l’Islam: il Giudaismo e il Cristianesimo. Una delle prime lezioni che apprendiamo dal Corano è che non possiamo essere veri Musulmani se non crediamo in "Dio, nei suoi Angeli, nei suoi Libri e nei suoi Profeti"(2: 2851).
Il Corano va oltre e afferma che i veri credenti non fanno differenza alcuna tra i profeti di Dio. Per esempio, per i musulmani, Abramo, patriarca di tutte le tre religioni che portano il suo nome, è musulmano come Muhammad, il Profeta dell’Islam, perché era un vero credente, come lo erano, secondo il Corano, Noè, Giacobbe e i suoi figli, Mosè e Gesù.
In questo senso, nell’Islam, l’interazione, la coesistenza e il dialogo tra le religioni e le civiltà sono più di una semplice necessità dettata dalla prossimità geografica di nazioni che il nostro mondo moderno rende sempre più vicine. Sono invece un prerequisito per l’autorealizzazione dei veri Musulmani, come afferma il sacro Corano: "O voi umani, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina, e vi abbiamo diviso in nazioni e tribù perché facciate reciproca conoscenza"(49: 131)
Questa natura dell’Islam, aperta a tutta la conoscenza, è riassunta in uno dei detti più famosi del Profeta dell’Islam: "seguite la via della conoscenza, dovreste per questo andare fino in Cina". Seguendo il detto del Profeta, i primi scienziati e studiosi musulmani hanno potuto sia assimilare l’eredità delle civiltà precedenti sia arricchire l’umanità con la loro civiltà basata sulla creatività e sull’inventiva in campi come la medicina, l’astronomia, la poesia, la matematica, ecc.
Oggi, questi principi dell’Islam - il riconoscimento e il rispetto della fede e della cultura dell’altro e la ricerca di un’interazione, - sono forse lo strumento migliore per la coesistenza nel nostro mondo moderno in cui alcuni sono più interessati allo scontro di civiltà che al dialogo e alla cooperazione tra i loro popoli. Il 24 luglio 1219, San Francesco d’Assisi intraprese la prima delle sue numerose azioni coraggiose. Nel mezzo delle Crociate, partì con i suoi compagni per la Palestina, poi raggiunse Damietta, in Egitto. Lì ammonì i Crociati che assediavano la città da più di un anno: seguendo la via della morte e della distruzione si allontanavano sempre più dalla via di Dio. San Francesco predicò che alla fine, sarebbero stati sconfitti e scacciati dall’Egitto ed ebbe ragione. San Francesco continuò la seconda parte della sua missione - convincere i Musulmani che non tutti i cristiani erano Crociati. Nel mezzo del caos della guerra, circondato da violenza e morte, si arrischiò a chiedere un incontro con il Sultano d’Egitto al-Malik-al-Kamil. Il Sultano accettò di incontrare il coraggioso monaco e trascorse con lui alcuni giorni.
Questa ricca esperienza fu sicuramente il primo esempio di dialogo musulmano-cristiano della storia. Da Damietta, San Francesco proseguì alla volta di Gerusalemme dove incontrò Aissa, Sultano di Damasco al quale consegnò una lettera di raccomandazione del Sultano d’Egitto. Con il suo senso di compassione e la sua dottrina pacifista, San Francesco riuscì laddove erano fallite le armi.
A mio avviso, non esiste uno scontro di civiltà o di religioni, ma uno scontro di interessi. I conflitti ai quali assistiamo oggi trovano la loro motivazione nei gruppi politici alla ricerca di dominio e distruzione che prendono in ostaggio le religioni e le strumentalizzano per realizzare i loro obiettivi. Guardando indietro alla storia di San Francesco e di chi ha seguito il suo esempio nel XIII Secolo, possiamo sentire una speranza. Oggi, in tutte le religioni c’è ancora chi segue l’esempio del Santo e decide di costruire ponti tra i seguaci di religioni diverse e di promuovere la pace tra le civiltà. (questo articolo è contenuto nel libro che verrà donato oggi al Papa dai frati francescani di Assisi)
PIANETA ISLAM
Perché l’islam potrebbe non aprirsi al «moderno»
di Samir Khalil Samir (Avvenire, 24.07.2007)
Il 12 luglio si è tenuto al Senato di Parigi, su iniziativa di quattro gruppi senatoriali, un convegno intitolato «Europa-Oriente: dialogo con l’islam», sotto il patrocinio del presidente del Senato. Cinque temi erano affrontati, ognuno con tre interventi di 15 minuti e un dibattito con la sala (circa 300 persone): Corano, islam e modernità; esegesi islamica; cristiani in Paesi musulmani; islam ed Europa; pluralismo e democrazia. Gli intervenenti erano studiosi francesi, musulmani e no, tunisini, siriani, libanesi ed egiziani. Un convegno denso, ricchissimo, che ha aperto tante piste di ricerca da approfondire. Vorrei fermarmi sull’intervento di Abdel Majid Charfi (Tunisi) intitolato: «L’islam è compatibile con la modernità?». L’autore, emerito, è stato professore di civiltà araba e del pensiero islamico, decano della facoltà di Lettere e titolare della cattedra Unesco delle religioni comparate. È membro di vari comitati di redazione di riviste accademiche. A questa domanda sono tre le risposte possibili.
La prima, categorica, è quella di Bernard Lewis ed altri: contrariamente al cristianesimo e all’ebraismo, l’islam è assolutamente incompatibile con la modernità, tenuto conto della sua natura beduina, fatalista, bellicosa. Questa posizione si ritrova con quella degli islamisti per i quali la modernità è il male assoluto (depravazione etica, edonismo, materialismo) che si deve combattere con tutti i mezzi per conservare la purezza dell’islam. Questa posizione, in contraddizione con i dati storici, è diffusa sia in Occidente sia nella letteratura islamista e le tv arabe finanziate dalla penisola arabica. La seconda è quella dei riformisti salafiti della fine dell’Ottocento: la modernità ha degli aspetti positivi che i musulmani devono acquistare, e degli aspetti negativi, in particolare materialismo ed immoralità. Loro non vedono la radicalità dei cambiamenti intervenuti sotto l’effetto della modernità, né la relazione tra i fondamenti filosofici della modernità e le realizzazioni materiali che ne derivano. Pensano che basta tornare ai «pii anziani» (salaf) per conquistare il mondo come nel settimo secolo. Questa posizione è stata scartata sia dai movimenti nazionalisti che da quelli islamisti, in particolare dai Fratelli Musulmani nati in Egitto nel 1928.
Queste due posizioni sono sorpassate. Le difficoltà originate dall’interpretazione dell’islam sono aumentate a causa del ritardo storico delle società musulmane in tutti i settori della vita. La secolarizzazione effettiva delle coscienze e delle istituzioni, la tendenza all’individualismo, la crisi dei valori ereditati, sono altrettanti segni del crescente problema. In questo contesto la religione fornisce dei riferimenti e delle strutture di sociabilità che tranquillizzano.
La terza è una riflessione che mira a liberare le menti dal dogmatismo e a promuovere un pensiero libero e responsabile, mentre l’integralismo invadente propone delle risposte prefabbricate ed è incoraggiato dai Paesi petroliferi. L’insufficienza della riflessione ha varie cause.
La prima è la situazione internazionale. È inutile fare appello alla ragione, quando le masse musulmane si sentono umiliate dall’occupazione dei loro territori, in particolare in Palestina e nell’Iraq. Quest’occupazione esaspera il ripiegamento identitario e l’attaccamento ai simboli religiosi (hijab, barba).
La seconda riguarda i regimi politici arabi autocratici e dispotici, i quali ricorrono alla religione per legittimare le loro posizioni.
La terza: il livello bassissimo dei programmi scolastici, basati sulla memoria e la ripetizione, senza spirito critico né riflessione.
La quarta: la situazione della donna musulmana mantenuta in uno stato d’inferiorità giuridica: poligamia, ripudio, matrimonio forzato, imposizione del velo, disuguaglianza nell’eredità sono piaghe del sistema islamico. La quinta: la struttura patriarcale delle società islamiche tradizionali è causa di molti guai. Ma per cambiarla ci vuole la scienza, la tecnica e l’industrializzazione, e più ancora la diffusione dei valori dei diritti umani. Paradossalmente, la ricchezza petrolifera, lungi da risolvere i problemi, li ha solo nascosti.
Sesta e ultima causa: la modernità materiale può coesistere con il pensiero religioso tradizionale. Perciò occorrono sia il rinnovo del pensiero religioso sia la modernità materiale. La globalizzazione sta diffondendo in modo insensibile l’emergenza di una società secolarizzata, con una reazione religiosa identitaria per resisterle. Speriamo che quest’analisi aiuti gli uni e gli altri ad agire per armonizzare islam e modernità.
Le «impari opportunità» delle giornaliste italiane
di Gaia Rau *
Sempre di più, e sempre più precarie. C’è di che preoccuparsi, a leggere il rapporto presentato dall’Associazione Stampa Romana sul lavoro delle donne nel mondo dell’informazione. Una fotografia scattata dalla Commissione Pari Opportunità dell’Associazione, il cui titolo, non senza ironia, recita: «Maltempo in redazione, analisi sul clima nei giornali, ovvero stress, ansie e nevrosi, e in particolare rischio mobbing», e presentata venerdì 8 giugno nella sede del sindacato giornalistico romano con un convegno intitolato «Le impari opportunità: è la stampa, bellezza».
A parlare sono, come sempre, i dati. Secondo le informazioni raccolte dall’Inpgi (l’Istituto per la previdenza dei giornalisti italiani), la presenza femminile nelle redazioni di giornali, televisioni, radio, agenzie e uffici stampa è cresciuta nel 2005 di quasi 3 punti percentuali, raggiungendo il 36 per cento. In pratica, più di un giornalista su 3 è donna. La bella notizia, però, finisce qui. Se guardiamo alle posizioni ricoperte all’interno delle redazioni, infatti, tutto l’ottimismo perde la sua ragion d’essere. Le donne che ricoprono incarichi di dirigenza sono diminuite, nel corso del 2006, del 2,35 per cento, e, per avere un’idea più concreta, basta pensare che, nei quotidiani che raggiungono le 50mila copie, non c’è nemmeno un direttore donna. Insomma, il famoso glass seiling, il "soffitto di cristallo", rimane, o, per dirla come Silvia Garambois, segretario dell’Associazione Stampa Romana, «nell’informazione "pesante" la direzione rimane nelle mani di filiere gerarchiche rigorosamente maschili».
Ma non è finita qui. Le cifre parlano di un mestiere, in generale, sempre più soggetto alla precarizzazione, e il fenomeno, di per sé già grave, fa le sue maggiori vittime proprio tra le donne. Per avere un’idea, basta guardare alle iscrizioni al sindacato, in particolare a quello romano, che, con una forte presenza femminile, rappresenta in qualche modo un’anomalia nel panorama italiano. Nell’ultimo anno, le iscrizioni delle «contrattualizzate» (le giornaliste assunte con una trattenuta dello 0,30 per cento) sono diminuite di 123 unità, mentre le free lance sono praticamente raddoppiate. Sono diminuite, di circa cento unità, anche le cassintegrate e le disoccupate. Quest’ultimo dato, spiega la Garambois, «non porta con sé buone notizie, significa invece che difficilmente le colleghe espulse da un lavoro buono e stabile sono riuscite a ritrovarne un altro con le stesse caratteristiche, e hanno dovuto invece adattarsi a lavori precari, come collaboratrici e free lance. Qualcuna, lo sappiamo, ha persino mollato, ha scelto - o meglio ha dovuto scegliere - altri mestieri».
Alle giornaliste "a riposo", poi, le cose non vanno meglio, visto che ricevono una pensione inferiore di oltre un quarto rispetto ai loro colleghi uomini. In media, infatti, un pensionato uomo dell’Inpgi percepisce 63mila 620 euro lordi l’anno, mentre una donna 46mila e 200 euro: il 27 per cento in meno. Il diverso trattamento deriva, oltre che da differenze di carriera e di stipendio, da un minor numero di contributi: per le donne, infatti, l’anzianità media contributiva è di 23 anni, mentre per gli uomini di 28 anni e due mesi. Questo anche se le donne, in media, lasciano il lavoro più tardi: nonostante l’età pensionabile sia più alta per gli uomini (65 anni contro 60), l’età media della pensione è di 59 anni per gli uomini, di 59 anni e tre mesi per le donne.
«Stiamo tornando - osserva Silvia Garambois - a un’emarginazione che ricorda gli anni Sessanta, a battaglie, come quella per la maternità, e per l’armonizzazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, che pensavamo di esserci lasciate alle spalle». Una realtà preoccupante, continua, perché «un’informazione che non sa utilizzare lo sguardo delle donne, rischia di essere un’informazione dimezzata». Eppure, il percorso per liberarsi dal ruolo di «ancelle» e diventare «signore» dell’informazione è sempre più in salita. Si è detto spesso che l’assenza delle donne dai luoghi di potere sia frutto di una sorta di «autoesclusione», che le donne siano meno disponibili a un impegno totalizzante, che rifiutino i «giochi indispensabili» per arrivare ai vertici. Eppure è riconosciuto, al tempo stesso, che esse siano più creative, più flessibili, insomma, un valore aggiunto per le aziende, non di meno per quelle della comunicazione. Il soffitto di cristallo, insomma, è un soffitto tutto culturale, che, oltretutto, spiega Mimosa Martini, giornalista del Tg5, si inserisce nel contesto generale di un Paese «che la parola meritocrazia non sa nemmeno cosa significhi».
Il dibattito porta inevitabilmente sulle tanto discusse «quote rosa». Poco per volta, le giornaliste italiane stanno abbattendo il loro scetticismo iniziale. Uno scetticismo che rimane, certo, in quanto strumento di per sé insufficiente, in quanto basato sulla cooptazione, e perché l’ingresso delle donne non significa automaticamente un accesso a posizioni di reale responsabilità. E poi rimane la fastidiosa percezione del sentirsi «panda da proteggere». Eppure, spiega la sottosegretaria al ministero delle Pari Opportunità, Donatella Linguiti, «credo anche una legge sia necessaria. È una battaglia per la laicità, non solo per la democrazia».
* l’Unità, Pubblicato il: 08.06.07, Modificato il: 08.06.07 alle ore 20.56
IRAQ, UCCISO A BAGHDAD UN FAMOSO CALLIGRAFO DEL MONDO ARABO *
Roma, 27 mag. (Apcom) - Uno dei più noti calligrafi del mondo musulmano è stato ucciso ieri a Baghdad. Stando a quanto riportato oggi dalla Bbc, Khalil al-Zahawi era davanti alla sua abitazione nel quartiere Nuova Baghdad della capitale irachena, quando è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Al-Zahawi era il principale cultore dell’arte della scrittura in caratteri arabi classici in tutto l’Iraq. Negli anni novanta, il calligrafo aveva studenti provenienti da tutto il Medio Oriente. Chiunque volesse essere considerato un esperto nell’arte calligrafica aveva bisogno della sua approvazione. La salma di Al Zahawi è stata trasportata oggi nella provincia di Diyala, di cui era originario, per la sepoltura.
Campagna “Difendiamo chi difende i diritti umani delle donne in Iran”
di M.G. Di Rienzo
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it] per questo suo intervento *
Le attiviste per i diritti umani delle donne stanno facendo esperienza di una nuova fase di oppressione governativa, che va dagli interrogatori da parte di agenti del controspionaggio alla galera. Tutte vengono accusate di azioni contrarie alla “sicurezza nazionale” per le loro attività, completamente legali, che promuovono i diritti umani delle donne e obiettano alla loro discriminazione.
Zeinab Peyghambarzadeh, studentessa di sociologia e membro dell’organizzazione degli studenti universitari “Daftar Tahkim Vahdat” è l’ultima vittima in ordine di tempo. E’ stata portata alla prigione di Evin il 7 maggio u.s., perché la sua famiglia non è in grado di pagare la pesante cauzione richiesta per lasciarla in libertà. Durante le ultime settimane, dozzine di attiviste per i diritti umani sono comparse nei tribunali o portate in uffici del controspionaggio o della polizia per gli interrogatori.
Gli arresti sono cominciati l’anno scorso, il 12 giugno, durante una manifestazione pacifica che protestava contro le leggi che discriminano le donne in Iran. Più di settanta donne vennero arrestate. Durante una seduta della corte che ne giudicava tre, il 4 marzo 2007 numerose sostenitrici delle accusate hanno manifestato davanti al tribunale. Il raduno, assolutamente pacifico, è stato disperso con estrema violenza, e 33 altre donne sono state arrestate. A tutte queste donne viene contestato di minacciare la “sicurezza nazionale”, e tutte verranno processate. Fra esse ci sono due intellettuali femministe, Noushin Ahmadi Khorasani e Parvin Ardalan, ovvero le principali ispiratrici della campagna “Un milione di firme”, che invoca uguaglianza di genere e mutamento delle leggi discriminatorie. In prigione con la sentenza definitiva ci sono già le organizzatrici della campagna Fariba Davoudi Mohajer, Sousan Tahmasbi e Shahla Entesari. Nel frattempo, gli uffici di tre ong legate all’iniziativa sono stati perquisiti e poi chiusi dalle forze dell’ordine. I loro conti bancari sono stati congelati e le loro attività si sono praticamente chiuse.
Per la campagna “Fermiamo per sempre le lapidazioni”, Shadi Sadr, Asien Amini e Mahboubeh Abbasgholizadeh, già fra le arrestate del 4 marzo, hanno avuto i loro uffici chiusi dalle autorità e presto saranno processate.
Una petizione internazionale che chiede la cessazione della persecuzioni contro le attiviste iraniane, indirizzata al presidente Mahmoud Ahmadinejad, è visibile al sito: http://www.meydaan.org/English/petition.aspx?cid=52&pid=12
Per sapere di più sulla campagna “Un milione di firme” potete andare al sito: http://we-change.org/english e per quella riguardante le lapidazioni: http://www.stopstoning.org/
E’ anche possibile contattare direttamente Shadi Sadr (shadisadr@gmail.com) o Soheila Vahdati (soheilavahdati@gmail.com).
M.G. Di Rienzo
* IL DIALOGO, Sabato, 26 maggio 2007
Femminismo islamico
Intervista ad Asra Q. Nomami
di Ziya Us Salam (trad. M.G. Di Rienzo) *
Asra è una creatura rara, quasi parte di una specie in pericolo di estinzione: è infatti una femminista islamica che ricorre alle scritture religiose, alle tradizioni del Profeta ed al Corano per le sue rivendicazioni. Madre “single”, non sposata, Asra ha organizzato la prima sessione di preghiera mista, e guidata da una donna: la prima nella storia islamica a partire dal settimo secolo. Nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti, Asra Nomani, nata a Mumbai e residente negli Usa, continua a seminare idee lungo il suo sentiero. Alcuni l’hanno lodata come la donna che ha riguadagnato il terreno perso a vantaggio delle forze patriarcali. Altri l’hanno accusata di eresia. Ma Asra resta una donna indipendente, una compiuta giornalista ed una scrittrice coraggiosa.
Ziya Us Salam: Tu hai detto di aver reclamato la voce che il Profeta garantì alle donne 1.400 anni orsono. Puoi spiegarti meglio?
Asra Nomani: Le donne musulmane del settimo secolo se la passavano meglio di molte donne musulmane del ventunesimo. Le donne pregavano nella moschea del Profeta, mentre oggi in tutta l’India alle donne viene persino impedito entrare nelle moschee. Non era richiesto alle donne di velarsi il viso. La prima moglie del Profeta Maometto, Cadigia, era la sua datrice di lavoro ed una donna d’affari di successo, mentre oggi il messaggio che più spesso arriva dal pulpito è che le donne non devono lasciare le loro case. Penso che il Profeta piangerebbe, se vedesse le ingiustizie a cui le donne sono soggette attualmente. Invece di progredire siamo andati all’indietro. Penso sia critico, per l’Islam, ritornare ai propri valori progressisti. Ho letto il rapporto del Comitato Sachar sullo status delle popolazioni in India, e le condizioni dei musulmani sono andate persino al di sotto di quelle dei Dalit (la casta degli “intoccabili”, ndt.). Non usciremo mai da questo ghetto sino a che non praticheremo i valori progressisti dell’Islam.
Ziya Us Salam: L’Islam proibisce il mischiarsi di donne ed uomini. Come pensi di riuscire ad ottenere il diritto, per una donna, di guidare le preghiere per donne ed uomini?
Asra Nomani: L’Islam non proibisce il libero incontrarsi di uomini e donne. Solo un’interpretazione puritana lo proibisce. I musulmani e i non musulmani devono imparare a riconoscere questa differenza, se vogliamo vedere il giorno in cui non sarà più consentito esclusivamente ai fondamentalisti il definire cos’è l’Islam o qualsiasi altra religione. Quando ho saputo che una donna musulmana, Umm Waraqa, guidava la preghiera nel settimo secolo per donne ed uomini insieme ho pensato: E perché non oggi? Sin dalla mia infanzia, non sono mai stata incoraggiata a credere di poter essere una leader per la mia comunità. E questa mancanza, di cui soffrono le bambine, è una perdita seria, la perdita della metà delle risorse della comunità musulmana.
Ho organizzato la preghiera in cui la dottoressa Amina Wadud ha guidato donne ed uomini perché era tempo, per le donne, di entrare non dal retro della moschea (quand’anche possano entrare) ma dalla porta principale: non solo nella forma, ma nello spirito. Non è stato un evento che è rimasto lì senza dar frutti. Congregazioni miste lo hanno ripetuto in tutti gli Usa e in Canada. Poiché siamo donne, ci è stato suggerito che non siamo abbastanza buone. Io ho sconfitto le mie stesse paure rispetto all’inadeguatezza, e sto nella mia congregazione come “la imama”.
Ziya Us Salam: Nel tuo libro più famoso, “Standing Alone in Mecca”, non dici molto della tua esperienza indiana. Puoi raccontarci qualcosa dei tuoi primi anni?
Asra Nomani: Sono nata a Bombay nel 1965. Poco dopo la mia nascita la famiglia si trasferì a Hyderabad, e là ho vissuto per i primi quattro anni della mia vita. Mio padre era lettore all’Università di Osmania, e per conseguire il dottorato in filosofia si spostò negli Usa con mia madre. Il mio fratellino maggiore ed io restammo con i nonni, e ci ricongiungemmo a loro quando io avevo appunto quattro anni. Arrivammo all’aeroporto Kennedy di New York da soli, vestiti in modo sgargiante e identico perché non andassimo persi in caso ci smarrissimo. Dal mio primo viaggio transatlantico ho vissuto la vita alienata di molti immigrati indiani: mi cambiavo gli abiti durante il viaggio, sull’aereo, se tornavo dai nonni per le vacanze estive, e detestavo i messaggi della mia famiglia estesa indiana, ovvero che il silenzio per una ragazza è d’oro, che le ragazze non devono far questo e quello, eccetera. Ma c’era anche molto amore per me, e l’identità musulmana che io ho costruito per me stessa deve molto ai valori dell’onestà, dell’etica, dell’amore e del lavoro che ho assorbito dai miei parenti indiani.
Ziya Us Salam: Nel libro parli delle donne musulmane negli Usa, in India e Pakistan, fra le altre. Sono incastrate in una società patriarcale ovunque? O tutto dipende dal fatto che i chierici non permettono un libero dialogo sulle scritture?
Asra Nomani: L’Islam non ha il monopolio del sessismo. Purtroppo, esso è virtualmente il marchio di tutte le società. I chierici musulmani non sono i solo a volere che la loro interpretazione da “club degli uomini” sia vissuta come legge religiosa. Se al primo posto delle lettere che ricevo, per numero, ci sono quelle delle donne musulmane, al secondo posto ci sono quelle delle donne cristiane, frustrate dalle restrizioni che si trovano ad affrontare. Frequentando i templi Hindu mi immaginavo l’esperienza di una religione priva di segregazione per genere, ma non ho visto una sola donna sacerdotessa, in quei templi. Credimi, l’ordine che rende inferiori le donne è la maledizione di tutte le società e noi dobbiamo sfidarlo.
Ziya Us Salam: La comunità musulmana statunitense come ha reagito alle tue azioni?
Asra Nomani: Per molti musulmani è stato uno shock non solo il fatto che io abbia concepito un figlio al di fuori del matrimonio, ma anche che abbia osato parlarne apertamente, invece di passare il resto della mia vita in un angolo della moschea a pregare per il perdono. Sono stata chiamata con ogni termine possibile per offendere una donna. Non importa. Tutto quello che mi hanno detto non è nulla di cui non avessi timore io stessa. Ho vissuto i nove mesi della gravidanza con il senso dell’illegittimità, ma quando il mio bellissimo figlio è nato, e sul suo viso non vi era traccia delle lacrime che io avevo pianto, ho preso la decisione di vivere una vita libera dalla vergogna.
Questa scelta mi ha permesso di ergermi con chiarezza e forza rispetto ai valori profondi che io credo sia necessario risuscitare nella nostra comunità musulmana: compassione, amore, tolleranza, giustizia sociale e diritti delle donne. E sono entusiasta di poter dire che ho fatto la differenza, a livello personale e persino globale. La più grande organizzazione musulmana negli Usa ha rilasciato un rapporto, nel 2005, in cui testimonia tutti i modi che le moschee stanno adottando per riformarsi e diventare “amiche delle donne”. Una moschea, a S. Francisco, ha abbattuto il muro dietro il quale dovevano sedere le donne. Un’altra a Chicago ha nominato per la prima volta una donna nel consiglio d’amministrazione. A Seattle, una nonna dell’Asia del sud ha sussurrato il richiamo alla preghiera nell’orecchio del suo nipotino appena nato, una tradizione che tipicamente si riserva agli uomini. La prima voce che un maschietto della nuova generazione ha udito, rispetto all’Islam, è quella di una donna, per la prima volta nella storia della sua famiglia. Questo è ciò che il cambiamento comporta.
* IL DIALOGO, Sabato, 26 maggio 2007
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione della intervista a Asra Q. Nomami realizzata da Ziya Us Salam per “The Hindu”, 26.5.2007
SCHEDE: *
"Una solitudine abitata". Chiara d’Assisi di Chiara Frugoni
Chiara d’Assisi fu la prima donna a scrivere una regola originale per le donne, rifiutandosi di declinare al femminile una preesistente regola maschile: una regola stupefacente, piena di dolcezza, tesa a comprendere più che a giudicare e punire. Di lei scrissero soprattutto uomini: il biografo, il papa e le gerarchie ecclesiastiche, scrissero tutti per farla dimenticare. Chiara consumò la vita dietro le mura del monastero di San Damiano. Contrariamente a quanto avrebbe desiderato, fu costretta alla clausura, ma la sua solitudine fu abitata da molti affetti e da una fortissima tensione spirituale. Nelle pagine di Chiara Frugoni, le voci fresche e vivaci delle consorelle e dei testimoni laici del processo di canonizzazione raccontano una santa assai diversa dal ritratto agiografico ufficiale. Accanto a loro, parla Chiara stessa, questa volta ascoltata con orecchio fine di storica dalla Frugoni, che intreccia fonti scritte e figurate: miniature, tavole, affreschi, alcuni dei quali restaurati con risultati sorprendenti. Documenti noti, tra le cui pieghe si nascondeva una biografia diversa.
"Una solitudine abitata" - Chiara d’Assisi
di Chiara Frugoni
Editore Laterza
S. CHIARA D’ASSISI
Santa Chiara, al di là della tradizionale immagine della monaca di clausura contemplativa tesa ad una totale rinuncia a questo mondo e ad una tensione forte e costante a Dio, dovette più volte combattere la superbia e la prepotenza degli uomini del suo tempo. Quando non aveva ancora vent’anni, difese strenuamente la sua scelta religiosa dalle violentissime resistenze dei suoi familiari: dopo aver usato parole persuasive, costoro passarono alle minacce e infine alle percosse. In due occasioni riuscì a far valere le sue ragioni di fronte a quelle di Gregorio IX: nel 1228 quando chiese ed ottenne il Privilegium paupertatis, cioè il documento che garantiva per lei e per la sua comunità la possibilità di rifiutare ricchezze e donazioni, e perciò di sopravvivere con quel poco di elemosina che mettevano insieme; nel 1230, irritata da un nuovo provvedimento papale che la privava dell’assistenza spirituale dei frati, rimandò al ministro generale dell’Ordine tutti i frati preposti alla questua quotidiana poiché, non avendo più chi provvedeva al pane dello spirito, era decisa a rinunciare anche al pane materiale. Questi sono episodi che ci offrono un’immagine diversa da quella un po’ statica tramandata dalla tradizione iconografica e letteraria. A proposito di questo aspetto, è conservata una biografia scritta nel 1492 da Magdalena Steimerin, clarissa nel monastero di S. Chiara di Strasburgo: sono inventate due dispute fra Chiara e Gregorio IX, che prendono certamente ispirazione dagli episodi sopra indicati. Il primo fatto si riferisce alla richiesta da parte dei frati affinché venga avviato il processo di santificazione di S. Francesco; ad essi si associa Chiara, ma senza ottenere alcun esito: allora, ordina a tutte le monache, e a quei frati che vivono nel suo monastero come membri permanenti della comunità, alcuni giorni di digiuno. Il Papa, meravigliato di un simile comportamento, abbandona ogni indugio e manda un fiduciario incaricato di raccogliere testimonianze sui miracoli operati da Francesco. La canonizzazione non tarderà a venire. Nel secondo episodio, Gregorio IX vuole che Chiara e la sua comunità accettino la Regola dove compare il nome di S. Benedetto ed è previsto il possesso di proprietà e beni. Anche in questo caso, Chiara ha di che replicare: accettare di possedere ricchezze, significherebbe vanificare tutte le lodi rivolte al Signore da cui ha ricevuto sempre il necessario per vivere; all’insidiosa domanda se non riconosce la santità di Benedetto, risponde che ci crede senz’altro, ma che conosce quella di Francesco per averla veduta di persona. Non si conoscono altri casi che offrono una rappresentazione così audace - e per nulla banale - della personalità della celebre seguace di Francesco d’Assisi: la tradizione giunta sino ai nostri giorni non è più uscita dai ben noti canoni agiografici, avendo proposto instancabilmente l’immagine di una donna silenziosa, modello di una mansuetudine intesa come passiva accettazione di ogni disciplina.
* Fonte: http://www.medioevoinumbria.it/ita/spiritualita/santiebeati/s_chiara.htm
RIFLESSIONE
Nel libro «Gesù di Nazaret» di Benedetto XVI la proposta di una rinnovata amicizia fra ebrei e cristiani in nome dell’unico Dio
L’unica alleanza
Il dialogo a distanza con il rabbino americano Jacob Neusner, che si pone sinceramente la domanda sulla divinità di Cristo
di Elio Guerriero (Avvenire, 29.05.2007)
Le molte religioni e l’unica alleanza, l’uomo alla ricerca del sacro e la rivelazione di Dio, le vie molteplici delle religioni e Dio che si rivela al Sinai, anzi scende dal cielo per porre la sua tenda tra gli uomini. Sto parlando dell’introduzione a Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI che la critica ha finora passato sotto silenzio. In essa il Papa accenna alla via delle religioni che in Mesopotamia, in Egitto o nel mondo indoeuropeo hanno aiutato l’uomo a scoprire la sua dignità, sono state all’origine della formazione della società, della costruzione della polis.
All’apice di questo percorso, Dio si manifesta ad Abramo. Cominciava, allora, il tempo della Rivelazione. Come scrive Julien Ries: «Alla lunga ricerca dell’uomo, Dio risponde con la sua manifestazione». Da questo momento, ha inizio il cammino della promessa che, come la stella dei Magi, sostiene il viaggio delle generazioni: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te... un profeta pari a me, a lui darete ascolto» (18,5). Il Nuovo Testamento, di conseguenza, si apre con l’annuncio che l’antica promessa si è avverata, che sul Nuovo Sinai, la Montagna delle beatitudini, siede ora il nuovo Mosè, che insegna non come un rabbi che arriva all’incarico dopo lunga preparazione, ma come l’inviato di Dio. Più di Mosè che vide Dio solo di spalle, egli può parlare del Padre, perché « Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Questo permette al Papa di affermare che non solo vi è concordia tra Antico e Nuovo Testamento, ma che l’alleanza stretta al Sinai e quella proclamata da Gesù sul monte delle beatitudini è unica. Gesù è venuto per portare a compimento, a pienezza l’alleanza. Così hanno insegnato quei personaggi umili e grandi (il Magnificat) che hanno adempiuto la Legge e segnato il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. Il Papa pensa anzitutto alla Vergine Maria, ma poi anche a Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, a Simeone ed Anna e agli apostoli tutti. Pii israeliti, essi non smisero di osservare la Legge e conservarono il cuore puro, che li predispose alla chiamata di Colui che è più grande. Per questo sono immagine tipo di tutti i discepoli di Gesù.
Si inserisce a questo punto il dialogo, che ha suscitato scalpore, tra il Papa e il rabbino ortodosso americano Jacob Neusner. Autore di un volume dal titolo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Neusner pone due importanti quesiti nella sua opera. Egli immagina di essere contemporaneo di Gesù e di recarsi, piacevolmente sorpreso dalla fama che precede il giovane Rabbi della Galilea, a sentire il discorso della Montagna. Non trova, tuttavia, alcunché di nuovo nella Torah di Gesù. Tutto gli era già noto dall’Antico Testamento e dalle tradizioni rabbiniche fissate nella Mishnah e nel Talmud. E’ inevitabile, allora, la domanda: perché è venuto Gesù, quale è il senso della sua Torah rispetto a quella di Mosè? Risponde il Papa: «Israele non esiste semplicemente per se stesso, per vivere nelle "eterne" disposizioni della Legge, esiste per diventare la luce dei popoli». Con il passare dei secoli era divenuto sempre più evidente che il Dio di Israele era Dio di tutti i popoli e di tutti gli uomini. Gesù è venuto per annunciare l’eudochìa di Dio, il suo beneplacito verso gli uomini tutti. Del resto una delle immagini più care alla tradizione cristiana è quella dei Magi, venuti a Gerusalemme per adorare il re dei Giudei (Mt 2,2). «Alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 528) Ricordato nell’epifania, una delle grandi feste cristiane, l’episodio manifesta il senso della venuta di Gesù: la realizzazione della promessa fatta ad Abramo per la quale la grande massa delle genti entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la dignità israelitica.
L’altra domanda sollevata da Neusner riguarda la divinità di Gesù. Egli legge con interesse l’episodio del giovane ricco e come il Maestro di Nazaret guarda a lui con simpatia. Ma perché il Maestro non si accontenta del suo rispetto della Legge, perché gli chiede di vendere tutto e seguirlo? Non si pone, così, allo stesso livello di Dio? San Giovanni e il Concilio di Nicea che hanno proclamato la divinità di Gesù non si sono sbagliati. Gesù chiede veramente di essere riconosciuto come Dio. Per questo il rabbino americano si allontana, mentre: «Con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta con un cenno del capo e va via, per la sua strada. Senza "se" o "ma"...; proprio da amici». Al distacco, tuttavia, segue un ultimo gesto di comunione, che è particolarmente significativo per il rapporto fra ebrei e cristiani: alla sera nella sinagoga: «Noi offriamo la nostra preghiera serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l’eterno Israele».
La pubblicazione di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è stata affidata a un editore laico, forse un segnale rivolto agli uomini di cultura perché si rendano conto della portata del dialogo ebreo-cristiano. L’invito, tuttavia, è rivolto soprattutto agli ebrei. Come dicono il Papa e Neusner qui non si tratta affatto di un dibattito per stabilire la superiorità di una religione sull’altra ma di ritrovarsi nella discendenza di Abramo e di Mosè, per coltivare l’amicizia e la fraternità nel riconoscimento dell’unico Dio.
IL VIAGGIO DEL PAPA *
Vivere da convertiti segno che parla a tutti
L’omelia alla Messa davanti al Sacro Convento «Il peccato impediva a Francesco di vedere nei lebbrosi i propri fratelli: l’incontro con Cristo lo aprì a una misericordia più grande della filantropia»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci dell’omelia tenuta dal Papa domenica ad Assisi.
Cari fratelli e sorelle,
che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza? Oggi tutto qui parla di conversione, come ci ha ricordato monsignor Domenico Sorrentino (...). La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti. La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale. (...) L’uomo è davvero grandezza e miseria (...). «Tu sei quell’uomo»: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità. Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.
Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco. Lui stesso (...) guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui «era nei peccati» (cfr 2 Test 1: FF 110). Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena.(...) Gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare. La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, «sociale», ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio (...).
Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo. (...) «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6,17). (...) Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne. (...) Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza. (...) Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».
E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore. (...) A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. (....) Che cosa è stata la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo «vivere secondo la forma del santo Vangelo» (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri. È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di «trasformarsi» in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini. Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, «la nostra pace» (cfr Ef 2,14). (...)
Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento. La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
Lo «spirito di Assisi», che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Gv 14,6), unico Salvatore del mondo. (...)
Ai giovani: «Come il Poverello, cercate la vera felicità»
Il discorso tenuto a Santa Maria degli Angeli: «Siamo qui per imparare a incontrare Cristo. Anche noi siamo chiamati a riparare la Chiesa» «Centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo, nell’amore, a Dio e ai fratelli»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci delle parole rivolte da Benedetto XVI ai giovani sul piazzale della basilica di Santa Maria degli Angeli.
Carissimi giovani, grazie per la vostra accoglienza, così calorosa, sento in voi la fede, sento la gioia di essere cristiani cattolici. Grazie per le parole affettuose e per le importanti domande che i vostri due rappresentanti mi hanno rivolto. (...)
Questo momento del mio pellegrinaggio ha un significato particolare. San Francesco parla a tutti, ma so che ha proprio per voi giovani un’attrazione speciale. (...) La sua conversione avvenne quando era nel pieno della sua vitalità, delle sue esperienze, dei suoi sogni. Aveva trascorso venticinque anni senza venire a capo del senso della vita. Pochi mesi prima di morire, ricorderà quel periodo come il tempo in cui «era nei peccati» (cfr. 2 Test 1: FF 110).
A che cosa pensava, Francesco, parlando di peccati? Stando alle biografie, ciascuna delle quali ha un suo taglio, non è facile determinarlo. Un efficace ritratto del suo modo di vivere si trova nella Leggenda dei tre compagni, dove si legge: «Francesco era tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare» (3 Comp 1,2: FF 1396). Di quanti ragazzi anche ai nostri giorni non si potrebbe dire qualcosa di simile? Oggi poi c’è la possibilità di andare a divertirsi ben oltre la propria città. (...) Si può «girovagare» anche virtualmente «navigando» in internet. Purtroppo non mancano - ed anzi sono tanti, troppi! - i giovani che cercano paesaggi mentali tanto fatui quanto distruttivi nei paradisi artificiali della droga. Come negare che sono molti i ragazzi, e non ragazzi, tentati di seguire da vicino la vita del giovane Francesco, prima della sua conversione? Sotto quel modo di vivere c’era il desiderio di felicità che abita ogni cuore umano. Ma poteva quella vita dare la gioia vera? Francesco certo non la trovò. (...) La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore. Lo ha detto un altro grande convertito, Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confess. 1,1).
Sempre lo stesso testo biografico ci riferisce che Francesco era piuttosto vanitoso. (...) Nella vanità, nella ricerca dell’originalità, c’è qualcosa da cui tutti siamo in qualche modo toccati. Oggi si suol parlare di «cura dell’immagine», o di «ricerca dell’immagine». (...) In certa misura, questo può esprimere un innocente desiderio di essere ben accolti. Ma spesso vi si insinua l’orgoglio, la ricerca smodata di noi stessi, l’egoismo e la voglia di sopraffazione. In realtà, centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: noi possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo nell’amore, amando Dio e i nostri fratelli.
Un aspetto che impressionava i contemporanei di Francesco era anche la sua ambizione, la sua sete di gloria e di avventura. (...) La stessa sete di gloria lo avrebbe portato nelle Puglie, in una nuova spedizione militare, ma proprio in questa circostanza, a Spoleto, il Signore si fece presente al suo cuore, lo indusse a tornare sui suoi passi, e a mettersi seriamente in ascolto della sua Parola. È interessante annotare come il Signore abbia preso Francesco per il suo verso, quello della voglia di affermarsi, per additargli la strada di un’ambizione santa, proiettata sull’infinito (...).
Cari giovani, mi avete ricordato alcuni problemi della condizione giovanile, della vostra difficoltà a costruirvi un futuro, e soprattutto della fatica a discernere la verità. Nel racconto della passione di Cristo troviamo la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). (...) Anche oggi, tanti dicono: «ma che cosa è la verità? Possiamo trovarne frammenti, ma la verità come potremmo trovarla?» È realmente arduo credere che questa sia la verità: Gesù Cristo, la Vera Vita, la bussola della nostra vita. E tuttavia, se cominciamo, come è una grande tentazione, a vivere solo secondo le possibilità del momento, senza verità, veramente perdiamo il criterio e perdiamo anche il fondamento della pace comune che può essere solo la verità. E questa verità è Cristo. La verità di Cristo si è verificata nella vita dei santi di tutti i secoli. I santi sono la grande traccia di luce nella storia che attesta: questa è la vita, questo è il cammino, questa è la verità. (...).
Sostando questa mattina a San Damiano, e poi nella Basilica di Santa Chiara, dove si conserva il Crocifisso originale che parlò a Francesco, ho fissato anch’io i miei occhi in quegli occhi di Cristo. È l’immagine del Cristo Crocifisso-Risorto, vita della Chiesa, che parla anche in noi se siamo attenti, come duemila anni fa parlò ai suoi apostoli e ottocento anni fa parlò a Francesco. La Chiesa vive continuamente di questo incontro.
Sì, cari giovani: lasciamoci incontrare da Cristo! Fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua Parola. (...) Ad Assisi si viene per apprendere da san Francesco il segreto per riconoscere Gesù Cristo e fare esperienza di Lui. (...)
Proprio perché di Cristo, Francesco è anche uomo della Chiesa. Dal Crocifisso di San Damiano aveva avuto l’indicazione di riparare la casa di Cristo, che è appunto la Chiesa. (...) Noi tutti siamo chiamati a riparare in ogni generazione di nuovo la casa di Cristo, la Chiesa. (...) E come sappiamo, ci sono tanti modi di riparare, di edificare, di costruire la casa di Dio, la Chiesa. Si edifica poi attraverso le più diverse vocazioni, da quella laicale e familiare, alla vita di speciale consacrazione, alla vocazione sacerdotale. (...) Se il Signore dovesse chiamare qualcuno di voi a questo grande ministero, come anche a qualche forma di vita consacrata, non esitate a dire il vostro sì. Sì non è facile, ma è bello essere ministri del Signore, è bello spendere la vita per Lui! (...)
Sono felice, carissimi giovani, di essere qui, sulla scia dei miei predecessori, e in particolare dell’amico, dell’amato Papa Giovanni Paolo II. (...)
Se oggi il dialogo interreligioso, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è diventato patrimonio comune e irrinunciabile della sensibilità cristiana, Francesco può aiutarci a dialogare autenticamente, senza cadere in un atteggiamento di indifferenza nei confronti della verità o nell’attenuazione del nostro annuncio cristiano. Il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore. (...)
Cari giovani, è tempo di giovani che, come Francesco, facciano sul serio e sappiano entrare in un rapporto personale con Gesù. È tempo di guardare alla storia di questo terzo millennio da poco iniziato come a una storia che ha più che mai bisogno di essere lievitata dal Vangelo. Faccio ancora una volta mio l’invito che il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, amava sempre rivolgere, specialmente ai giovani: "Aprite le porte a Cristo". Apritele come fece Francesco, senza paura, senza calcoli, senza misura. Siate, cari giovani, la mia gioia, come lo siete stati di Giovanni Paolo II. Da questa Basilica dedicata a Santa Maria degli Angeli vi do appuntamento alla Santa Casa di Loreto, ai primi di settembre, per l’Agorà dei giovani italiani.
* Avvenire, 19.06.2007
Socialista e musulmana, Asmaa Abdol-Hamid è candidata alle prossime elezioni politiche
Danimarca, destra e sinistra contro la «femminista con il velo»
I conservatori insorgono: «Un gesto fondamentalista». Anche nel suo partito le critiche non mancano: «Un simbolo di repressione delle donne»
di Monica Ricci Sargentini (Corriere della Sera, 20 maggio 2007)
Il velo sulla testa lo porta con orgoglio anche se lei si sente una donna occidentale, una vera danese, di quelle che «nel privato ognuno fa ciò che vuole, se è gay o no, non mi interessa». Eppure è musulmana e di quelle toste che quando incontrano un uomo si rifiutano di stringergli la mano «perché è una questione di rispetto». Venticinque anni, una grinta fuori dal comune, Asmaa Abdol- Hamid sta mettendo in subbuglio la Danimarca. Con ogni probabilità sarà lei la prima donna velata a diventare membro di un Parlamento europeo. Il suo partito, la Lista dell’Unità, le ha garantito un seggio sicuro nelle elezioni che si terranno al più tardi nel febbraio del 2009. E già si è scatenato il dibattito. Se fosse eletta potrebbe entrare nel Folketing, il Parlamento danese, indossando l’hijab? «Ovviamente no», insorge l’estrema destra, «sarebbe un gesto fondamentalista, come mettersi la croce nazista». Ma anche tra i suoi, a sinistra, c’è chi storce il naso all’idea di vedere in aula «un simbolo di repressione delle donne».
Lei non si scompone e va avanti per la sua strada. Dispensa lodi per la sua terra d’adozione «che mi ha accolto con amore all’età di sei anni quando ero una rifugiata palestinese», ma a togliersi il velo non ci pensa nemmeno. In un inglese impeccabile spiega al Corriere perché nessuno potrà fermarla: «Penso che in Danimarca la libertà individuale sia un bene tutelato - dice -. Non vedo perché dovrebbe essere considerato un problema la presenza di una donna velata in Parlamento. Se lo fosse sarebbe veramente un oltraggio alla nostra democrazia». Ma la questione non sembra essere di lana caprina se un sondaggio commissionato dal Jyllands Posten, il giornale che pubblicò le vignette danesi, fotografa una Paese spaccato in due sul velo in Parlamento: 48% a favore e 48% contro, con un 4% di indecisi.
Asmaa l’hijab comincia a portarlo a 14 anni quando la sua famiglia si trasferisce dall’accogliente villaggio di Genner, nel sud dello Jutland, alla meno paradisiaca Røde Kro dove la ragazza sente per la prima volta la sua diversità: «Ho voluto farlo per una questione religiosa anche se ero la sola a scuola vestita così. Ci sono state delle conseguenze: non ho più potuto giocare a pallavolo». Lì la vita improvvisamente diventa più difficile. «A Genner - dice - c’era una sola comunità. Quando eravamo piccoli andavamo anche in Chiesa, per cerimonie speciali come la comunione o la messa di Natale. Quando abbiamo cambiato ho capito cos’era la discriminazione».
La passione politica nasce lì. Sui banchi di scuola. Era il 1998, anno di elezioni. «Fino ad allora l’unica differenza tra me e i danesi - racconta - era il mio essere musulmana. Invece spuntarono fuori parole nuove: immigrato, rifugiato, minoranza etnica. Volevo combattere la discriminazione. Secondo me il problema non sono le minoranze etniche ma le classi sociali, a questo divario è dovuta la mancanza di integrazione». Per aiutare i poveri Asmaa diventa assistente sociale e consigliere comunale nel ghetto di Vollsmose, alla periferia di Odense, sull’isola di Fionia, dove nel 2000 lancia con successo un club ricreativo per le ragazze del quartiere: «Tutta l’attenzione era volta ai maschi. Lo trovavo ingiusto». Lo scorso anno, dopo lo scandalo delle vignette danesi, conduce un programma per la tv pubblica. Velata. Naturalmente. La prima volta per la Danimarca. E le proteste non mancano.
Oggi Asmaa assapora il successo infischiandosene di chi la definisce una contraddizione vivente. Dice di se stessa: «Sono una femminista perché sono dalla parte delle donne, una socialista perché sto dalla parte dei poveri e sono una musulmana devota. Tutto questo insieme». La sua filosofia? «Essere moderni e musulmani allo stesso tempo». Con qualche impuntatura. Come quando si è rifiutata di stringere la mano a un deputato di destra che gliela porgeva. Lui non ha apprezzato ma lei oggi si difende così: «Quando incontro un uomo mi metto la mano sul cuore e in questo modo gli mostro il mio rispetto e la mia onestà. Perché non posso farlo?». Perché la Danimarca sta cambiando. Nonostante il benessere (il pil pro capite è di 35mila euro l’anno), la disoccupazione quasi inesistente, le unioni gay legalizzate dall’89, l’accesso gratis alla fecondazione assistita per single e omosessuali, cresce l’intolleranza verso «il diverso». Nel 2005 il premier Rasmussen vinse il secondo mandato proprio grazie al giro di vite su immigrazione e richieste d’asilo. E nel 2009 non si sa come andrà. Ma una cosa è certa. Asmaa Abdol-Hamid darà battaglia.