Verso un’era collegiale
di Franco Cardini
in “Quotidiano.Net” (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione) del 13 febbraio 2013
È ancora presto per aspettarsi risposte sicure o comunque più attendibili e verosimili alla domanda che tutti ci andiamo ponendo in queste ore: quali sono state, nello specifico, le vere grandi ragioni che hanno indotto Joseph Ratzinger a rinunziare al suo alto ufficio?
Dalla ridda delle ipotesi va emergendo una direzione interpretativa che non va sottovalutata: che cioè Benedetto XVI si sia tirato indietro non in quanto disorientato dinanzi all’enigma delle prove che ancora attendono il pontificato e la Chiesa bensì, al contrario, in quanto fin troppo conscio della loro qualità ed entità. Non è escluso che l’autentico nucleo del messaggio inviato con queste dimissioni sia che sta giungendo per l’intera comunità cristiano-cattolica il momento di voltare sul serio pagine.
La ‘Profezia di Malachia’, qualunque sia il valore che vogliamo attribuirle, assegna al prossimo pontefice, Petrus Romanus, il ruolo di ultimo papa: e poi? Fine della Chiesa e magari fine del mondo, si è detto. Ma forse - proseguiamo nel gioco dell’attribuzione di un qualche valore a quell’antico e dubbio testo - ciò cui si allude è semplicemente un sia pure rivoluzionario mutamento istituzionale.
È la funzione pontificia che potrebbe venir messa in discussione ed esser fatta oggetto di cambiamenti radicali in un futuro magari prossimo. E potrebb’essere la consapevolezza di questa incombente rivoluzione ad aver suggerito a papa Benedetto che è ormai arrivata l’ora di farsi da parte. È a questo punto più chiaro il senso delle polemiche relative al valore e alla funzione del Concilio Vaticano II, che negli ultimi tempi erano arrivate a un livello d’intensità e di durezza che non si giustificava solo con la coincidenza del cinquantesimo anniversario di quell’evento.
In effetti potremmo affermare, parafrasando Marx ed Engels, che uno spettro si aggira nella storia della Chiesa cattolica moderna: il Concilio. L’assemblea dei capi delle singole comunità (le «chiese» vere e proprie) che nel loro insieme costituivano la comunità dei credenti nel Cristo, si affermò fino dai primi tempi di libera vita della Chiesa a partire dal IV secolo. I vescovi si riunivano periodicamente per regolare le questioni concernenti i dogmi, la liturgia e la disciplina comuni. Tali riunioni riunivano di solito solo alcune circoscrizioni locali, ma in casi di maggior importanza tutti i vescovi del mondo cristiano erano tenuti a partecipare: si aveva allora il «Concilio ecumenico», durante il quale si prendevano le grandi decisioni.
In tutto, la Chiesa ha fino ad oggi tenuto 21 Concilii ecumenici: fondamentali tra essi quelli del IV-V secolo (di Nicea, di Efeso, di Calcedonia), nei quali letteralmente si fondarono dogma, liturgia e disciplina; tra gli altri, ebbero speciale rilievo i quattro Concili lateranensi del 1123, del 1139, del 1179, del 1215, durante i quali si andò affermando, dopo lo scisma che aveva separato dal 1054 la Chiesa greca dalla latina, il principio - già del resto precedentemente proposto - del «primato di Pietro», cioè dell’autorità e del potere del vescovo di Roma come capo effettivo e supremo della compagine ecclesiale latina.
Il nucleo profondo della vita della Chiesa, espressa attraverso i vari Concili, era la continua necessità di riformarne la vita e i costumi. Reformatio è quasi la parola magica che attraversa il mondo ecclesiale soprattutto tra XI e XVI secolo. Ma appunto durante il medioevo apparve sempre più chiaro che autorità personale del vescovo di Roma e autorità collegiale degli altri vescovi erano in obiettivo conflitto tra loro.
Esso divenne drammatico nella prima metà del Quattrocento allorché - dopo il lungo periodo avignonese e il cosiddetto «Grande Scisma d’Occidente» che lo aveva seguito a ruota, tra 1378 e 1414 - la deposizione l’uno dopo l’altro di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) in soli cinque anni tra 1409 e 1414 e la successiva convocazione di due grandi Concilii, a Costanza fra ’14 e ’17 e a Basilea (poi trasferito a Ferrara e quindi a Firenze) fra ’39 e ’49, mise talmente in discussione l’autorità papale da consentir la nascita di una nuova dottrina, detta appunto “conciliarismo”, che postulava la superiorità del Concilio sul papa in termini di direzione della Chiesa.
Una di quelle coincidenze non infrequenti nella storia volle che fosse proprio l’intellettuale che come segretario del Concilio di Basilea aveva contribuito in modo determinante alla nascita della dottrina conciliaristica, il senese Enea Silvio Piccolomini, una volta divenuto papa col nome di Pio II si rivelò il più deciso e feroce paladino del monarchismo pontificio.
Dopo la metà del Quattrocento, i Concilii diventarono molto rari. Il V Concilio lateranense tra 1512 e 1517, che avrebbe dovuto decisamente riformare la Chiesa sconvolta dal malcostume dei pontefici e dei prelati del secolo precedente, si concluse con quella che è passata alla storia come la «Riforma» per eccellenza, la protestante, che coincise peraltro con un grande scisma all’interno della Chiesa d’Occidente.
Dopo allora, il fallimento al suo principale scopo del Concilio di Trento, che si svolse dal 1545 al 1563 con l’iniziale obiettivo del risanamento dello scisma avviato da Lutero, servì quasi da vaccino per i vertici della Chiesa romana: dopo allora non si convocarono più Concilii ecumenici prima del grande Vaticano I del 1870, che fu riunito appositamente per rafforzare l’autorità del papa di Roma e addirittura - in un grave momento di crisi politica, la fine del potere temporale - ne proclamò l’infallibilità ex cathedra.
Il Vaticano II emendò, modificò e corresse l’indirizzo del Concilio precedente e dette vita a una nuova stagione di teorie neoconciliariste, sostenute soprattutto dalla scuola dei teologi e degli storici dossettiani di Bologna. Dopo allora, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II coincise con una rinnovata era di forte monarchismo papale, del quale Joseph Ratzinger fu il teologo. Ma è proprio lui, una volta divenuto papa, che dopo un governo di otto anni lascia significativamente l’incarico subito dopo un concistoro di cardinali che (non lo sappiamo) può essere stato tempestoso.
E allora, la domanda che è legittimo formulare è questa: che la nuova età della Chiesa, quella che Benedetto XVI ha compreso necessaria ma non si è sentito di gestire, sia quella di una rinnovata proposta conciliaristica di direzione non più monarchica, bensì collegiale della Chiesa cattolica? Il prossimo conclave e il nuovo pontefice risponderanno a questa domanda.
Un viaggio mozzafiato nel Continente chiave del mondo
di Franco Cardini (il manifesto, 27 Novembre 2015)
«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” - è il caso di dirlo - sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.
Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.
E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.
In un raid mozzafiato, rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni, l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e lunedì.
Senza per nulla minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che - il papa ci tiene - non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il papa visiterà la grande moschea della capitale.
Se non ci saranno intoppi gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono 200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile, intollerabile.
In Africa c’è anche una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando così l’impressione di una potenza intercontinentale che non possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate - Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib.
Quel ch’è accaduto il 20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una goccia nell’oceano, che per giunta - come assicura padre Mussie Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia - finirà quasi del tutto nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano.
Il papa lo sa; e sa benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che - se non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne le centrali - i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso.
Ma alla base di tutto v’è una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono 700 milioni) e che è aggravata dall’informazione.
Non esiste povero e isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più. Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte, scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile.
di Franco Cardini (il manifesto, 14 marzo 2013)
Roma, piazza San Pietro, alle 7,06 del pomeriggio. Folla enorme, grida, bandiere. Un cielo cupo, una pioggia fitta e sottile, un delirio di voci e di colori. Poi la pioggia si calma, mentre scende il buio. Miracolo, dice qualcuno. Fumata bianca: anzi candida, come non si era mai vista finora: grazie anche ad alcuni additivi chimici, dicono. Luci di flash, poi i suoni delle bande militari, i colori delle bandiere e delle uniformi pontificie e italiane.
Bandiere di tutto il mondo e bandiere italiane, inno nazionale italiano e inno pontificio. «Viva il papa!», in molte lingue ma soprattutto in italiano: è la vecchia Roma, la Roma di Belli e di Trilussa e al tempo stesso la Roma eterna e universale.
Certo, i mass media hanno amplificato la festa: con toni anche pesanti e stucchevoli. Ma lo spettacolo era indubbiamente straordinario: i continui flash fotografici che per lunghissimi minuti hanno lampeggiato incessanti brillando in mezzo alla folla davano l’effetto di un firmamento sceso in terra. La tensione, intanto, cresceva: e ci si andava ripetendo tra la folla perché si stesse tardando tanto nell’annunzio. In effetti, il protodiacono pontificio si è affacciato solo alle 8,20, circa un’ora e un quarto dopo la candida fumata, per il fatidico Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
L’uomo che di lì a pochi istanti si è affacciato al balcone della basilica è il capo della Chiesa universale, e al tempo stesso è il vescovo di Roma. Il suo primo gesto sovrano è stata la benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo. Poi poche parole, una preghiera e un semplice, cordiale augurio di buona serata.
In un italiano all’inizio un po’ incerto ma corretto, con un lieve ma distinto accento piemontese. Da buon argentino, il nuovo papa ha origini italiane. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, la più europea delle grande città latinoamericane. Settantaseienne, un passato ecclesiale radicato nella Compagnia di Gesù, un forte impegno nei confronti dei ceti più fragili e umili della metropoli della quale è stato pastore e anche alcuni aspetti del suo carattere che hanno già dato adito a polemiche: chi lo dice molto visino alla presidentessa Kirschner, chi adombra una sua qualche connivenza con la dittatura militare. Sono voci confuse, contrastanti: sulle quali forse nei prossimi giorni sapremo cose più precise, ma che nulla tolgono comunque a un evento che ha dello straordinario.
Diciamo la verità: non se lo aspettava nessuno. Un papa latinoamericano sì, ma ci aspettavamo allora un brasiliano d’origine tedesca, personaggio molto interessante.
Bergoglio è il risultato di un accordo, è l’outsider spuntato all’ultimo istante di un conclave molto breve, appena cinque elezioni in tre giorni? E che cosa significa che un non-favorito abbia così rapidamente conseguito la maggioranza qualificata del collegio votante?
Bergoglio viene dalla Compagnia di Gesù: pare vi fosse una specie di tacito accordo, all’interno dei vertici della Chiesa, secondo il quale chi ha il "papa nero" non avrebbe mai avuto un "papa bianco". Ma tutto ciò faceva parte evidentemente di una leggenda: oppure siamo davvero dinanzi a un mutamento epocale anche nelle consuetudini più radicate?
Qualcuno ha commentato, a caldo, che un papa gesuita ci sarebbe voluto dai tempi del candidato Carlo Maria Martini. Ma il fatto è che questo argentino d’origini italiane, gesuita, scompiglia le carte - anche quelle di molti suoi confratelli cardinali: c’è da scommetterci - e va a scegliersi un nume come Francesco.
Incredibile. Inaudito, nel senso etimologico del termine. Dal VI secolo, con pochissime eccezioni, i pontefici romani hanno scelto regolarmente il nome di un loro predecessore. Bergoglio rompe la tradizione e, nel momento nel quale l’istituzione ecclesiastica sembra esitare, senza dubbio colpita dalla rinunzia di un papa "istituzionalista" per eccellenza, rilancia nel nome del càrisma, della profezia. Perché Francesco significa l’adesione intima al Cristo povero e crocifisso; Francesco significa il rifiuto della potenza, della ricchezza, perfino della scienza; e che l’Ordine francescano nei secoli sia stato molte cose meravigliose ma non questo non vuol dir nulla.
Lui, il Povero d’Assisi, era questo. Che cosa significa chiamarsi Francesco per un papa che viene dall’America latina, uno dei continenti più poveri del mondo, un continente nel quale la chiesa cattolica da decenni sembra indietreggiare sotto il colpi dell’offensiva missionaria delle sètte protestanti?
Francesco I è un nome difficile da portare. Ma è anche un nome che è un programma. La scelta di papa Bergoglio è inaspettata, inimmaginabile, impressionante. Nomen omen, si usa dire. Vedremo in che modo il nuovo papa sarà rispondere alla sfida che egli stesso ha lanciato alla Chiesa e al mondo.
Habemus Papam: è Bergoglio
Il protodiacono ha annunciato il nome del successore di Ratzinger: Francesco I *
20.10 Il nuovo papa è Bergoglio
20.20 Il nuovo papa è l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergolio, nato i 17 dicembre del 1936 nella stessa città argentina di cui oggi è arcivescovo. È gesuita.
20.23 «Il dovere del Conclave era dare un vescovo a Roma: sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo». Sono le prime parole pronunciate da Papa Francesco I, con un riferimento alla sua origine argentina. Incominciamo questo cammino della chiesa di Roma, vescovo e popolo insieme, di fratellanza, amore, fiducia tra noi, preghiamo uno per l’altro, per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Questo cammino di chiesa sia fruttuoso per l’evangelizzazione».
«Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi preghiate Dio di benedire il vostro vescovo».
E’ stata tangibile la commozione in piazza San Pietro tra i fedeli, quando papa Francesco I ha chiesto che fedeli pregassero per alcuni istanti per lui. È stato un continuo vociare di fedeli che dicevano «Bravo, bravo».
Papa Francesco ha benedetto in latino tutti i presenti, concedendo l’indulgenza plenaria. "Buona notte e buon riposo" ha detto congedandosi dalla folla
* La Stampa, 13/03/2013 - ripresa parziale
LA SISTINA
Sotto lo sguardo di Dio
di Giacomo Gambassi (Avvenire, 11 marzo 2013)
Varcheranno la soglia della Cappella Sistina in processione invocando lo Spirito Santo con il canto del Veni Creator. «E, quando i cardinali elettori entreranno nella sala, il loro sguardo si poserà immancabilmente sulla destra. L’immagine che vedranno sarà l’affresco del Perugino con la Consegna delle chiavi a Pietro da parte di Cristo», spiega il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci.
Nel capolavoro del Tibi dabo claves si pone l’accento sull’autorità conferita al primo degli Apostoli. «L’iconografia è talmente chiara che il messaggio può essere percepito da chiunque osservi la scena - afferma Paolucci -. Ed è un richiamo preciso ai cardinali che si appresteranno a scegliere il successore di Pietro».
Per la venticinquesima volta l’aula che porta il nome di papa Sisto IV della Rovere ospiterà il Conclave. Un «rito che da sempre affascina il mondo», sostiene Paolucci, e che fa dell’antica Cappella magna all’interno del Palazzo apostolico un simbolo identitario per la Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II l’ha definita il «luogo dell’azione dello Spirito Santo» quando ha inaugurato i restauri degli affreschi nel 1994. E Benedetto XVI ci ha scorto «un invito alla lode» da «elevare al Dio creatore, redentore e giudice dei vivi e dei morti».
È quanto raccontano i cicli pittorici delle sue pareti e del soffitto che l’hanno elevata a gioiello indiscusso dell’arte sacra e della creatività a servizio della gioia di credere. -«Perché qui - assicura il direttore dei Musei Vaticani - sono sintetizzati i contenuti della Rivelazione. Direi che la Sistina è un compendio di tutto quanto può essere raccolto in intere biblioteche ecclesiastiche. Le verità della fede ci parlano da ogni parte. Si va dal fit lux all’Apocalisse, dalle storie di Mosè a quelle di Cristo, fino al Giudizio finale».
Quando gli occhi si alzano verso la volta, i passi della Genesi vengono come narrati dalla mano di Michelangelo che fra il 1508 e il 1512 li ha dipinti su incarico di Giulio II. E quell’incontro fra due dita nella Creazione di Adamo ne rappresentano l’emblema.
«Sono affreschi che dimostrano la capacità mitopoietica di Michelangelo, ossia la sua abilità nell’inventare situazioni figurative radicalmente inedite - sottolinea Paolucci -. Fino a quel momento la Creazione dell’uomo era stata una traslitterazione del primo libro della Bibbia con Dio che impasta la terra, gli dà forma e soffia il suo Spirito. Invece Michelangelo immagina un uomo già perfettamente formato. E ci propone un Adamo che viene dalla terra ed è parte della terra».
Qui avviene l’abbraccio con Dio attraverso il dito del Padre che protende verso di lui. «E, invece di un fluido elettrico, il Signore gli dà anima e destino immortale - spiega l’ex ministro dei Beni culturali -. Si tratta di un’invenzione artistica formidabile che non ha mai cessato di suscitare domande. Recentemente uno studioso americano ha creduto di vedere nei lineamenti di Dio, che giunge in una ghirlanda di angeli ed è avvolto da un mantello rosso gonfiato dal vento della Creazione, il profilo di un cervello umano. Quasi che tutto ciò mostrasse un Michelangelo creazionista. Questo per dire quante interpretazioni ancora oggi consentono di offrire i testi figurativi della Sistina».
Nella Cappella grandi artisti fiorentini e umbri, da Botticelli al Pinturicchio, dal Ghirlandaio a Signorelli, si sono spinti fino all’ultimo orizzonte della teologia, additando l’alfa e l’omega e componendo un’opera dove il bello è epifania della bellezza suprema dell’Onnipotente. Le centoquindici sedie dei cardinali correranno lungo le pareti laterali che ospitano le fasce quattrocentesche con le storie di Mosè e di Cristo.
«È un percorso che sembra una sorta di lectio divina - segnala Paolucci - da cui emerge l’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento nel dipanarsi della storia della salvezza, che dagli eventi dell’Esodo porta alla pienezza della rivelazione in Cristo. E nelle storie del grande legislatore e del Figlio di Dio non è difficile cogliere simmetrie e richiami, quasi fossimo in un gioco di specchi.
Ad esempio, se da un lato possiamo notare la chiamata degli Apostoli che ha sullo sfondo il lago di Tiberiade e che quindi rimanda a una vicenda di acqua e di salvezza, abbiamo di fronte il passaggio del Mar Rosso che è anch’esso momento in cui l’acqua salva. E, quando viene proposto il Discorso della montagna di Cristo, troviamo dirimpetto l’episodio di Mosè che consegna le tavole della Legge al popolo d’Israele. Di fatto assistiamo a un’imponente spola all’interno del testo sacro con continue citazioni della Scrittura».
Nelle decorazioni della Sistina, che da martedì torna a essere il più prestigioso seggio elettorale, Giovanni Paolo II leggeva un «inno a Cristo» a cui «tutto conduce». «Il protagonista è il Salvatore, l’Emmanuele, che può avere il volto sia del Cristo atteso, sia di quello incarnato, sia del Cristo giudice», sostiene il direttore dei Musei Vaticani.
E sull’altare ai piedi del Giudizio universale sarà posta l’urna dove i porporati faranno scivolare le schede da un vassoio. «Nella scena di Michelangelo - dichiara Paolucci - siamo di fronte a un Salvatore che possiede in sé un’antica grazia e che ci presenta il mistero della sua gloria legato alla Risurrezione». Un Cristo di cui il genio nato nell’Aretino esalta la sua umanità fra lo splendore dei corpi glorificati e sottoposti alla condanna eterna.
Ed è ammirando anche questo scorcio che papa Wojtyla ha parlato della Sistina come di un «santuario della teologia del corpo umano». «Nell’ambito della luce che proviene da Dio - precisa lo storico dell’arte - anche il corpo umano mantiene la sua magnificenza e la sua dignità. Ciò spinse Michelangelo a un dilagante primato del nudo che lasciò interdetti i benpensanti dell’epoca. Tanto è vero che, dopo la sua morte, si provvide a celare alcune delle nudità più evidenti. Ma Michelangelo aveva buon gioco nel rispondere ai suoi detrattori: dinanzi agli occhi di Dio il corpo può rimanere scoperto e conservare la sua purezza. Un concetto teologicamente ineccepibile che, tuttavia, apparve a molti sconvolgente».
Lo scorso 31 ottobre, per i cinquecento anni dall’inaugurazione della volta, Benedetto XVI ricordava che gli affreschi della Cappella «trovano nella liturgia il loro ambiente vitale». E aggiungeva: «La Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più autentica e si rivela in tutta la sua ricchezza». «Sarà l’esperienza che faranno i cardinali elettori - afferma Paolucci - che nell’atteggiamento orante dei giorni del Conclave potranno gustare la bellezza dell’aula e la pregnanza del suo significato». Più difficile per il turista che in questo tempio del colore e delle forme conclude il suo percorso fra i Musei Vaticani. «Eppure gli affreschi hanno un impatto comunicativo che travalica appartenenze e culture. Tutti vengono toccati dall’emozione spirituale che i dipinti provocano. Ed è un effetto psicologico talmente intenso che turba e interroga anche chi non crede».
Pesch: Roma è illimitatamente riformabile, Gesù non ha istituito il papato
di Ja die neue Kirchenzeitung
in “www.ja-kirchenzeitung.at” n° 10 del marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Gesù non ha lasciato esplicite direttive relativamente alla forma della chiesa né a chi l’avrebbe diretta. Questo significa, secondo il teologo tedesco Otto Hermann Pesch: “Concretamente: il papa e la curia romana sono riformabili senza limiti, se necessitano di riforme”.
Questo vale oggi quanto nei primissimi tempi “ogni qualvolta la situazione è apparsa senza prospettive”, scrive Pesch in un articolo sulla rivista “ Bibel und Kirche ” (Bibbia e chiesa), pubblicata dalla “ Katholisches Bibelwerk ” di Stoccarda. Il contributo dell’emerito professore di dogmatica di Amburgo nel quaderno 4/2012 dedicato a “ Die Gewänder des Petrus ” (gli abiti di Pietro) ha il titolo: “ Jesus hat kein Papsttum gestiftet! ” (“Gesù non ha istituito il papato!”)
È urgentemente necessaria una riforma del papato, che nel corso del tempo ha subito cambiamenti storici e che è stato fortemente trasformato dalla tradizione, dice Pesch. Non è sufficiente che Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica “ Ut unum sint ” (1995), inviti le chiese non romane a riflettere con lui sullo stile e sulle modalità di esercizio della funzione papale. Poiché nella stessa enciclica Giovanni Paolo II ha chiarito ciò che riteneva indispensabile nella sua missione, e cioè di dover vegliare “come un guardiano” affinché in tutte le singole chiese “si faccia sentire la vera voce di Cristo pastore”. Pesch afferma che di fronte a questa rivendicazione, sia stato “comprensibile che nessuno abbia voluto accogliere l’invito al dialogo”.
Il criterio per ogni riforma del papato è, secondo le parole del teologo, “se il ministero petrino, storicamente accresciuto, offra veramente un utile servizio petrino”. Si raggiungerebbe questo se anche con la forma attuale di papato si realizzasse ciò che al tempo dei primi cristiani si diceva di loro: “ Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune (...) lodavano Dio e godevano della simpatia di tutto il popolo ” (At 2,44-47), ha citato Pesch dagli Atti degli Apostoli.
Da umili inizi a forza potente
Con un sintetico sguardo retrospettivo, Pesch delinea lo sviluppo del papato dagli inizi nel periodo biblico fino all’oggi, e ci presenta così varie notizie sorprendenti.
I racconti biblici ci fanno capire che Gesù vide avvicinarsi il tempo della morte, ma che al contempo vide anche la continuità del suo messaggio del “Regno di Dio” - ulteriormente annunciato dai dodici presenti all’ultima cena e in seguito da tutti coloro che credevano alle loro prediche. “Dalla bocca di Gesù non sappiamo altro - niente su strutture, costituzioni o cariche, afferma Pesch.
Il fatto è questo: Pietro doveva essere, secondo la volontà di Gesù, il portavoce autorizzato dei dodici. Gli scritti che si riferiscono agli apostoli nelle prime comunità cristiane sono stati scritti solo dopo la morte di Pietro a Roma, mostravano comunque la sua “posizione speciale nella giovane Chiesa” e la considerazione onorevole a lui riservata.
Secondo Pesch, la comunità romana ancora alla fine del primo secolo era guidata da un collettivo, un “presbiterio”, mentre la guida della comunità in Palestina e in Siria si realizzava tramite un unico vescovo.
Allontanamento tra Oriente ed Occidente
Nel Medioevo si era giunti ad un “allontanamento tra Roma e l’Oriente”, tra Roma e Bisanzio quale sede dell’imperatore: “I primi concili, così importanti per la formulazione della confessione di fede, erano tutti sinodi della Chiesa orientale a cui i rappresentanti dell’Occidente, se mai presenti, non collaboravano” e talvolta addirittura “rimanevano chiusi fuori”, ricorda Pesch. Le decisioni di questi concili, fino ad oggi determinanti, sono sempre state accolte solo posteriormente e non sempre a quanto pare sotto la direzione di Roma in Occidente”.
Dopo lo scisma d’Oriente nel 1054 e dopo la separazione tra la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, “lo sviluppo storico del primato papale è stato solo una faccenda interna alla Chiesa d’occidente.”, scrive Pesch. Per secoli si è trascinato un conflitto di poteri tra papi e imperatori, con sempre più esplicite rivendicazioni di potere da parte dei papi.
Papa Gregorio VII pretese nel 1075 sovranità universale non solo sulla Chiesa, ma anche sulle autorità civili. Bonifacio VIII dichiarò nel 1302 che “era necessario per qualsiasi essere umano essere sottomesso al papa romano”
Il papa sta al di sopra della bibbia?
Però, fa notare Pesch, era chiaro anche all’interno dei gruppi “papalini” convinti, del tardo Medioevo, che difendevano l’autorità del papa come superiore a quella del concilio, che fondamentalmente anche un papa poteva diventare eretico e che quindi avrebbe potuto insegnare cose sbagliate alla Chiesa. Come criterio valeva il fatto che il papa contraddicesse o meno la Sacra Scrittura.
Questa convinzione ha svolto un ruolo fondamentale - nel caso di Martin Lutero - anche nello scisma di Occidente. Questa “catastrofe per la teologia e per la storia della chiesa” può essere fatta risalire anche al teologo papale di corte Silvester Prierias, che come posizione di Roma di fronte ai riformatori affermò: eretico è chi contesta il fatto che anche la Sacra Scrittura ha forza e autorità (robur et auctoritatem) solo sulla base dell’insegnamento del vescovo di Roma”.
Considerare la Scrittura non più come criterio per la giusta credibilità del papa, ma porre quest’ultimo al di sopra della Scrittura, era inaccettabile per Lutero e lo fece addirittura parlare del papa come “anticristo”, ricorda Pesch.
È vero che la tesi del Prierias non è affatto una dottrina della Chiesa e neppure è coperta dal dogma del Concilio Vaticano I sul primato di giurisdizione e insegnamento del papa. Ma - è la critica di Pesch - una presa di distanza dalle posizioni del 1518 che sono servite come base del processo romano contro Lutero, a tutt’oggi non c’è ancora stata.
Il «Conclave delle donne»
di Bureau du Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il “Comité de la Jupe” con il sostegno della Conferenza dei Battezzati e delle Battezzate, ha deciso di riunire il “Conclave delle donne”, il 9 marzo prossimo, a Parigi.
Questo “Conclave delle donne” prende atto del fatto che le donne hanno delle cose da dire sulle richieste spirituali dei nostri contemporanei e sui mezzi che si ritiene che siano necessari alla Chiesa per essere in grado di compiere la sua missione in futuro. Alla vigilia dell’apertura del Conclave, conclave di uomini (maschi), “mezzo conclave”, è opportuno ricordare il valore del contributo delle donne su questioni essenziali.
Vi parteciperanno settantadue donne, come i settantadue discepoli che Gesù aveva inviato in missione (Luca 10). Settantadue donne che danno voce a tutte quelle donne in vearie parti del mondo, la cui fede, le cui competenze, il cui coinvolgimento per il bene comune o la causa dei più deboli potrebbero fare di loro delle “cardinalesse” di grande valore.
Se desiderate far parte del Conclave delle donne, inviate la vostra richiesta nello stesso modo in cui
si inviano i commenti.
http://www.comitedelajupe.fr/evenement/le-conclave-des-femmes/
Vi risponderemo nella misura dei posti disponibili.
Svolgimento del Conclave delle donne (senza pubblico)
Il conclave delle donne comporterà due momenti di preghiera, per portare le nostre riflessioni davanti al Signore e chiedergli il suo aiuto. La maggior parte dei lavori dell’incontro consisterà nell’ascoltare i contributi delle partecipanti sui cinque temi seguenti:
1.
Le urgenze del nostro tempo
Che cosa aspettano i nostri fratelli e le nostre sorelle (credenti e non), quali sono i loro
dolori, le loro gioie, i loro tesori (“L
à dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”, Mt 6,21)?
2.
La nostra fede
In che cosa consiste la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, dov’è la salvezza,
come la mettiamo col male?...
3.
Il modo in cui la Chiesa rende conto della sua missione
La Chiesa risponde alla sua missione? Come testimonia un Dio che libera, un Dio che ama,
un Dio che fa sperare?
4.
I mezzi che la Chiesa si dà per essere configurata alla sua missione
Quali disposizioni assume? Collegialità, sussidiarietà, trasparenza, finanziaria in particolare,
misericordia... Come aveva chiesto Giovanni XXIII, che il Concilio Vaticano II eserciti “la
medicina della misericordia”, c’è oggi una misericordia da esercitare (verso i divorziati
risposati, ad esempio), occorre chiedere che siano superate tutte le condanne e le
discriminazioni fatte in base al sesso.
5.
Gli atti profetici che ne derivano
Dovranno essere proposti dalle partecipanti e saranno oggetto di votazione.
L’Ufficio del Comité de la Jupe
Dante Alighieri, Inferno (Canto XIX, vv.103-117)
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
Appello per la riforma della Chiesa ... prima che sia troppo tardi!
di Leonardo Boff *
La Chiesa-istituzione come “casta meretrix”
di Leonardo Boff 27/02/2013 *
Chi ha seguito le notizie degli ultimi giorni sugli scandali dentro al Vaticano, portati a conoscenza dai giornali italiani “La Repubblica” e “La Stampa”, che parlano di una relazione di 300 pagine e elaborata da tre cardinali provetti sullo stato della curia vaticana, deve naturalmente, essere rimasto sbalordito. Immagino i nostri fratelli e sorelle devoti, frutto di un tipo di catechesi che celebra il Papa come “il dolce Cristo in Terra”. Devono star soffrendo molto, perché amano il giusto, il vero e il trasparente e mai vorrebbero legare la sua immagine a notorie malefatte di assistenti e cooperatori.
Il contenuto gravissimo di queste relazioni rafforza, a mio parere, la volontà del papa di rinunciare. E’ la riprova di un’atmosfera di promiscuità, di lotta per il potere tra “monsignori”, di una rete di omosessuali gay dentro al Vaticano e disvio di denaro attraverso la banca del Vaticano come se non bastassero i delitti di pedofilia in tante diocesi, delitti che hanno profondamente intaccato il buon nome della Chiesa-istituzione.
Chi conosce un poco la storia della Chiesa - e noi professionisti dell’area dobbiamo studiarla dettagliatamente - non si scandalizza. Ci sono state epoche di vera rovina del Pontificato con Papi adulteri, assassini e trafficanti di immoralità. A partire da Papa Formoso (891-896) sino a Papa Silvestro (999-1003) si instaurò, secondo il grande storico cardinale Baronio, l’“era pornocratica” dell’alta gerarchia della Chiesa. Pochi papi la passavano liscia senza essere deposti o assassinati. Sergio III (904-911), assassinò i suoi 2 predecessori, il Papa Cristoforo e Leone V.
La grande rivoluzione nella Chiesa come un tutto è avvenuta, con conseguenze per tutta la storia ulteriore, col papa Gregorio VII, nel 1077. Per difendere i suoi diritti e la libertà della istituzione-Chiesa contro re e principi che la manipolavano, pubblicò un documento che porta questo significativo titolo “Dictatus Papae” che tradotto alla lettera significa “la dittatura del Papa”. Con questo documento, lui assunse tutti poteri, potendo giudicare tutti senza essere giudicato da nessuno. Il grande storico delle idee ecclesiali Jean-Yves Congar, domenicano, la considera la maggior rivoluzione avvenuta nella chiesa. Da una chiesa-comunità è passata a essere una istituzione-società monarchica e assolutista, organizzata in forma piramidale e che arriva fino ai nostri giorni.
Effettivamente il canone 331 dell’attuale Diritto Canonico si connette a questa lettura, con l’attribuzione al Papa di poteri che in verità non spetterebbero a nessun mortale se non al solo Dio: “in virtù del suo Ufficio, il Papa ha il potere ordinario, supremo, pieno, immediato, universale” e in alcuni casi precisi, “infallibile”.
Questo eminente teologo, Congar, prendendo la mia difesa davanti al processo dottrinario mosso dal cardinale Joseph Ratzinger in ragione del libro “Chiesa: carisma e potere” ha scritto un articolo su “La Croix” 08.09.1984) su “Il carisma del potere centrale”. Scrive: “il carisma del potere centrale è non aver nessun dubbio. Ora, non aver nessun dubbio su se stessi è, nello stesso tempo, magnifico e terribile. È magnifico perché il carisma del centro consiste precisamente nel rimanere saldi quando tutto intorno vacilla. E è terribile perché a Roma ci sono uomini che hanno limiti, limiti nella loro intelligenza, limiti del loro vocabolario, limiti delle loro preferenze, limiti nei loro punti di vista”. E io aggiungerei ancora limiti nella loro etica e morale.
Si dice sempre che la Chiesa è “Santa e peccatrice” e deve essere “riformata in continuazione”. Ma questo non è successo durante secoli e neppure dopo l’esplicito suggerimento del concilio Vaticano II e dell’attuale papa Benedetto XVI. L’istituzione più vecchia dell’Occidente ha incorporato privilegi, abitudini, costumi politici di palazzo e principeschi, di resistenza e di opposizione che praticamente impediscono o distorcono tutti i tentativi di riforma.
Solo che questa volta si è arrivati a un punto di altissimo degrado morale, con pratiche persino criminali che non possono più essere negate e che richiedono mutamenti fondamentali nella struttura di governo della Chiesa. Caso contrario, questo tipo di istituzionalità tristemente invecchiata e crepuscolare languirà fino a entrare nel suo tramonto. Scandali come quelli attuali sempre ci sono stati nella curia vaticana, soltanto non c’era quel provvidenziale Vatileaks per renderli di pubblico dominio e far indignare il Papa e la maggioranza dei cristiani.
La mia percezione del mondo mi dice che queste perversità nello spazio sacro e nel centro di riferimento di tutta la cristianità - il papato - (dove dovrebbe primeggiare la virtù e persino la santità) sono conseguenze di questa centralizzazione assolutista del potere papale. Questo rende tutti vassalli, sottomessi e avidi perché stanno fisicamente vicino al portatore del supremo potere, il Papa. Un potere assoluto, per sua natura, limita e perfino nega la libertà degli altri, favorisce la creazione di gruppi di anti-potere, fazioni di burocrati del sacro contro altre, pratica largamente la simonia che è compravendita di favori, promuove adulazioni e distrugge i meccanismi di trasparenza. In fondo tutti diffidano di tutti. E ognuno cerca la soddisfazione personale nella forma migliore che può. Per questo è sempre stata problematica l’osservanza del celibato all’interno della curia vaticana, come si sta rivelando adesso con l’esistenza di una vera rete di prostituzione gay. Fino a quando questo potere non sarà decentralizzato e non permetterà maggior partecipazione di tutti gli strati del popolo di Dio, uomini e donne, alla conduzione dei cammini della Chiesa, il tumore che sta all’origine di questa infermità continuerà a durare. Si dice che Benedetto XVI consegnerà a tutti i cardinali la suddetta relazione perché ciascuno sappia che problemi dovrà affrontare nel caso che sia eletto papa. E l’urgenza che avrà di introdurre radicali trasformazioni. Dal tempo della Riforma che si sente il grido: “Riforma nel capo e nelle membra”. E siccome mai è avvenuta, è nata la Riforma come gesto disperato dei riformatori di compiere tale impresa per conto proprio.
Per spiegare meglio ai cristiani e a tutti gl’interessati di problemi di Chiesa, torniamo alla questione degli scandali. L’intenzione è di sdrammatizzarli, permettere che se n’abbia una nozione meno idealista e a volte idolatrica della gerarchia e della figura del Papa e liberare la libertà a cui il Cristo ci ha chiamati (Gal 5,1). In questo non c’è nessun cattivo gusto per le cose negative né volontà di aumentare sempre di più il degrado morale. Il cristiano deve essere adulto, non può lasciarsi infantilizzare né permettere che gli neghino conoscenze teologiche e storiche per rendersi conto di quanto umana ed smodatamente umana può essere l’istituzione che ci viene dagli apostoli.
Esiste una lunga tradizione teologica che si riferisce alla Chiesa come casta meretrix, tema abbordato dettagliatamente da un grande teologo, amico dell’attuale Papa, Hans Urs von Balthasar (vedere in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1971, 203-305). In varie occasioni il teologo Joseph Ratzinger è ritornato su questa denominazione.
La chiesa è una meretrice che tutte le notti si abbandona alla prostituzione; è casta perché Cristo, ogni mattina ne ha compassione, la lava è la ama.
L’habitus meretricius, il vizio del meretricio, è stato duramente criticato dai santi padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gerolamo e altri. San Pier Damiani arriva chiamare il suddetto Gregorio VII “Santo satanasso” (D. Roma, compendio di storia della Chiesa, volume secondo, Petropolis, 1950, p. 112). Questa denominazione dura ci rimanda a quella di Cristo diretta Pietro. Per causa della sua professione di fede lo chiama “pietra”, ma per causa della sua poca fede e di non capire i disegni di Dio lo qualifica come “satanasso” (Vangelo di Matteo 16,23). San Paolo pare un moderno quando parla ai suoi oppositori con furia: “magari si castrassero tutti quelli che vi danno fastidio” (Galati, 5,12).
C’è pertanto un luogo per la profezia nella Chiesa e per le denunce delle malefatte che possono capitare in mezzo agli ecclesiastici e persino in mezzo ai fedeli.
Vi riporto un altro esempio tratto dagli scritti di un santo amato dalla maggioranza dei cattolici per il suo candore e bontà: Sant’Antonio da Padova. Nei suoi sermoni, famosi all’epoca, non appare niente affatto dolce e gentile. Fa una vigorosa critica ai prelati corrotti del suo tempo. Dice: “i vescovi sono cani senza nessuna vergogna perché il loro aspetto ha della meretrice e per questo stesso non vogliono vergognarsi” (uso l’edizione critica in latino pubblicata a Lisbona in due volumi nel 1895). Questo fu pronunciato nel sermone della quarta domenica dopo Pentecoste (pagina 278). Un’altra volta chiama i prelati “ scimmie sul tetto, da lì presiedono alle necessità del popolo di Dio”. (Op. cit p. 348). È continua: “Il vescovo della Chiesa è uno schiavo che pretende regnare, principe iniquo, leone che ruggisce, orso affamato di rapina che depreda il popolo povero” (p.348). Infine nella festa di San Pietro alza la voce e denuncia: “Attenzione che Cristo disse tre volte: pasci e neanche una volta tosa e mungi... Guai a quello che non pasce neanche una volta e tosa e munge tre o quattro volte...lui è un drago a fianco dell’arca del Signore che non possiede altro che apparenza e non verità” (volume secondo, 918).
Il teologo Joseph Ratzinger spiega il senso di questo tipo di denunce profetiche: “il senso della profezia risiede in verità meno in alcune previsioni che nella protesta profetica: protesta contro l’autosoddisfazione delle istituzioni, l’autosoddisfazione che sostituisce la morale con il rito e la conversione con le cerimonie” (Das neue volk Gottes, Düsseldorf 1969,250, esiste traduzione italiana Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971).
Ratzinger critica con enfasi la separazione che abbiamo fatto in riferimento alla figura di Pietro: prima della Pasqua, il traditore; dopo la Pentecoste, il fedele. “Pietro continua a vivere questa tensione del prima e del dopo; lui continua ad essere tutte due le cose: la pietra e lo scandalo...Non è successo lungo tutta la storia della Chiesa che il Papa era simultaneamente il successore di Pietro e la pietra dello scandalo” (p.259)?
Dove vogliamo arrivare con tutto questo? Vogliamo arrivare a riconoscere che la Chiesa-istituzione di papi, vescovi e preti è fatta di uomini che possono tradire negare e fare del potere religioso un affare e uno strumento di auto soddisfazione. Tale riconoscimento è terapeutico dato che ci cura di ogni ideologia idolatrica intorno alla figura del Papa, ritenuto come praticamente infallibile. Questo è visibile nei settori conservatori e fondamentalisti del movimento cattolico laici e anche di gruppi di preti. In alcuni è ancora viva una vera papolatria, che Benedetto XVI ha sempre cercato di evitare.
La crisi attuale della Chiesa provocato la rinuncia di un Papa che si è reso conto che non aveva più il vigore necessario per sanare scandali di tale portata. Ha buttato la spugna con umiltà. Che un altro più giovane venga e assuma il compito arduo e duro di pulire la corruzione nella curia romana e dell’universo dei pedofili, eventualmente punisca, deponga e invii i più renitenti in qualche convento per far penitenza e emendare la propria vita .
Soltanto chi ama la Chiesa può farle le critiche che gli abbiamo fatto noi citando testi di autorità classiche del passato. Se tu hai smesso di amare una persona un tempo amata, ti diventano indifferenti la sua vita e il suo destino. Noi ci interessiamo come fa l’amico e fratello di tribolazione Hans Kung (è stato condannato dalla ex inquisizione), forse uno dei teologi che più ama la Chiesa e per questo la critica.
Non vogliamo che i cristiani coltivino questo sentimento di poca stima e di indifferenza. Per quanto gravi siano stati gli errori e gli equivoci storici, l’istituzione-Chiesa custodisce la memoria sacra di Gesù e la grammatica dei Vangeli. Essa predica la libertà, sapendo che generalmente sono altri che liberano e non lei.
Anche così vale stare dentro la chiesa, come ci stavano S. Francesco, dom Helder Camara, Giovanni XXIII e noti teologi che hanno aiutato a fare il concilio Vaticano II e che prima erano stati tutti condannati dall’ex inquisizione, come de Lubac, Chenu, Congar, Rahner e altri. Dobbiamo aiutarla a uscire da quest’imbarazzo, alimentandosi di più col sogno di Gesù di un regno di giustizia, di pace e di riconciliazione con Dio e di sequela della sua causa e destino, piuttosto che di semplice giustificata indignazione che può scadere facilmente nel fariseismo e nel moralismo.
Altre riflessioni del genere si trovano nel mio libro Chiesa: carisma e potere, ed. Record, 2005, specialmente in appendice con tutte gli atti del processo celebrato all’interno dell’ex inquisizione nel 1984.
Traduzione: Romano Baraglia - romanobaraglia@gmail.com
La primavera della chiesa
di Hans Küng (la Repubblica, 2 marzo 2013)
La primavera araba ha scosso dalle fondamenta una serie di regimi autocratici. Le dimissioni di papa Benedetto XVI apriranno la strada a qualcosa di simile nella Chiesa cattolica: una Primavera Vaticana? Ovviamente il sistema della Chiesa cattolica più che alla Tunisia o all’Egitto assomiglia a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita. In tutt’e due i casi non è stata fatta nessuna riforma autentica, solo concessioni minori. In tutt’e due i casi l’assenza di riforme viene giustificata con il rispetto della tradizione: in Arabia Saudita la tradizione risale solo a due secoli fa, per il papato è vecchia di duemila anni.
Ma è autentica, questa tradizione? In realtà per un millennio la Chiesa andò avanti senza un papato assolutista come quello che conosciamo oggi. Fu solo nell’XI secolo che una «rivoluzione dall’alto», la Riforma gregoriana avviata da papa Gregorio VII, introdusse i tre aspetti perduranti del sistema cattolico: un papato centralista e assolutista, un clericalismo forzato e l’obbligo del celibato per i preti e altri membri laici del clero.
Gli sforzi dei concili riformatori del XV secolo, la Riforma protestante del XVI secolo, l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese nel XVII e XVIII secolo e il liberalismo del XIX secolo ebbero un successo solo parziale. Perfino il Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965, fu frenato dal potere della Curia. Ancora oggi la Curia, che nella sua forma attuale sembra un prodotto dell’XI secolo, è l’ostacolo principale a qualsiasi tentativo di riforma generale della Chiesa cattolica, a qualsiasi intesa ecumenica sincera con le altre Chiese cristiane e le altre religioni mondiali, e a qualsiasi atteggiamento critico costruttivo nei confronti del mondo moderno.
Nel 2005, in una delle sue poche iniziative audaci, papa Benedetto ebbe per quattro ore un’amichevole conversazione con il sottoscritto, nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo. Ero stato suo collega all’Università di Tubinga, e anche il suo critico più severo. Per 22 anni, a causa della revoca della mia autorizzazione all’insegnamento ecclesiastico per aver criticato l’infallibilità papale, non avevamo avuto il minimo contatto. Prima dell’incontro, avevamo deciso di mettere da parte le nostre divergenze e di discutere di argomenti su cui potevamo trovare un’intesa: il rapporto positivo fra la fede cristiana e la scienza, il dialogo fra religioni e civiltà e il consenso etico fra fedi e ideologie diverse.
Per me, e per l’intero mondo cattolico, quell’incontro fu un segnale di speranza. Purtroppo, però, il pontificato di Benedetto XVI è stato caratterizzato da disastri e decisioni sbagliate. Papa Ratzinger ha fatto irritare le Chiese protestanti, gli ebrei, i musulmani, gli indios latinoamericani, le donne, i teologi riformisti e tutti i cattolici progressisti.
I grandi scandali intervenuti durante il suo pontificato sono ben noti: il riconoscimento della Società di San Pio X, l’organizzazione dell’arcivescovo ultraconservatore Marcel Lefebvre, ferocemente contrario al Concilio Vaticano II, e del vescovo negazionista Richard Williamson. Poi ci sono stati i tanti abusi sessuali a danni di bambini e ragazzi perpetrati da membri del clero, di cui il Papa porta gravi responsabilità per averli insabbiati quando era cardinale. E poi c’è stato l’affaire Vatileaks che sembra sia una delle ragioni che hanno maggiormente contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni.
Il primo caso di dimissioni papali in quasi settecento anni mette a nudo la crisi di fondo che incombe da tempo su una Chiesa fossilizzata. E ora il mondo intero si chiede: il prossimo Papa potrebbe riuscire, nonostante tutto, a inaugurare una nuova primavera per la Chiesa cattolica? Le disperate necessità della Chiesa non possono essere ignorate. C’è una catastrofica carenza di preti, in Europa, in America Latina e in Africa. Tantissime persone hanno lasciato la Chiesa o hanno effettuato un’«emigrazione interna», specialmente nei Paesi industrializzati. Dietro la facciata, il palazzo si sta sgretolando.
In questa drammatica situazione la Chiesa ha bisogno di un Papa che non viva intellettualmente nel Medioevo, che non si faccia portabandiera di teologie, liturgie o costituzioni della Chiesa che risalgono a quell’epoca. Ha bisogno di un Papa aperto alle problematiche poste dalla Riforma, dalla modernità. Un Papa che sostenga la libertà della Chiesa nel mondo non solo impartendo sermoni, ma combattendo con le parole e con i fatti per la libertà e i diritti umani all’interno della Chiesa, per i teologi, per le donne, per tutti i cattolici che vogliono esprimere la verità apertamente.
Un Papa che non costringa più i vescovi a sottomettersi a una linea reazionaria, che metta in pratica una democrazia vera nella Chiesa, modellata su quella del cristianesimo degli albori. Un Papa che non si lasci influenzare da un «Papa-ombra» stanziato in Vaticano, quale sarà Benedetto XVI con i suoi fedeli seguaci.
Il Paese di origine del nuovo Papa non ha molta importanza. Sfortunatamente, dai tempi di Giovanni Paolo II è in uso un questionario per costringere tutti i vescovi a seguire la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica sulle questioni controverse, una procedura suggellata da un voto di obbedienza incondizionata al Papa. Per questo finora non c’è stato nessun dissenso pubblico fra i vescovi.
Eppure la gerarchia cattolica è a conoscenza della distanza che la separa dalla gente comune su questioni importanti. In un recente sondaggio, in Germania, è venuto fuori che l’85 per cento dei cattolici è favorevole a eliminare il celibato dei preti, il 79 per cento è favorevole a consentire che le persone divorziate possano risposarsi in Chiesa e il 75 per cento è favorevole al sacerdozio femminile. In molti altri Paesi probabilmente le percentuali sono simili.
Queste problematiche devono essere discusse pubblicamente, prima e durante il conclave, senza imbavagliare i cardinali come successe nel 2005, per tenerli in riga. Io, che sono l’ultimo teologo ancora in attività (oltre a Benedetto XVI) ad aver preso parte al Concilio Vaticano II, mi chiedo se non ci sarà all’inizio del conclave, come ci fu all’inizio del Concilio, un gruppo di cardinali coraggiosi disposto ad affrontare a viso aperto la fazione intransigente della Chiesa, e pretendere un candidato che sia disposto ad avventurarsi lungo strade nuove, magari con un nuovo Concilio riformatore o, meglio ancora, con un’assemblea rappresentativa di vescovi, preti e gente comune?
Se il prossimo conclave dovesse eleggere un Papa che andrà avanti per la stessa vecchia strada, la Chiesa non conoscerà mai una nuova primavera: al contrario, precipiterà in una nuova era glaciale e correrà il pericolo di ridursi a una setta sempre più irrilevante.
(Hans Küng è professore emerito di teologia ecumenica presso l’Università di Tubinga e autore del libro di prossima pubblicazione dal titolo «La Chiesa può ancora essere salvata?»)
Soluzione monarchica o via comunitaria?
di Franco Cardini (il manifesto, 1 marzo 2013)
Fu il pescatore del lago di Tiberiade Simone detto Cefa, «la Pietra» - forse perché indole forte e ostinata, forse perché duro di comprendonio -, che Gesù pose secondo l’esegesi cattolica del Vangelo a capo della comunità dei suoi seguaci destinata a divenire la Chiesa universale. Un epiteto glorioso e difficile da portare: «Pietra scartata dai costruttori, ma divenuta pietra angolare», sostegno e fondamento di un edificio spirituale destinato a durare nei millenni, è nella tradizione ecclesiale il Cristo stesso.
E fu probabilmente non senza una qualche implicita polemica nei confronti della Pietra dei fedeli che il suo tardo condiscepolo e quindi fratello-rivale, il fariseo Saul di Efeso di professione tessitore di tende e fiero di essere - a differenza del pescatore galileo - cittadino romano, latinizzò il suo nome ebraico scegliendone uno romano che foneticamente gli somigliava, Paulus, che etimologicamente significa «il Piccolo», «colui che vale poco».
Con una certa ostentata umiltà, l’efesino sottolineava così il suo gracile aspetto fisico e alludeva a una sua scarsa portata spirituale e culturale in cui era in realtà il primo a non credere. Prima della conversione (la celebre caduta «sulla via di Damasco») il rabbino Saul, allievo del grande Gamaliele, aveva a lungo perseguitato quei blasfemi eretici suoi correligionari i quali sostenevano che Gesù di Nazareth fosse l’atteso Messia: e sembra si debba a lui l’iniziativa di far uccidere a colpi di pietra uno di loro, il diacono Stefano, che la Chiesa venera come «Protomartire», primo dei martiri.
Pietro e Paolo, dioscuri cristiani, subirono entrambi il martirio in Roma durante la persecuzione neroniana: Pietro, custode della chiave d’oro che apre le porte del cielo e di quella d’argento che le chiude, morì su una croce che però, nel suo caso, i carnefici piantarono rovesciata; Paolo ebbe in quanto cittadino romano l’onore di passare sotto la scure del littore, anche se in seguito l’iconografia cristiana, poco familiare con gli usi giuridici romani, immaginò che lo strumento del suo martirio fosse una lunga spada, quella che di solito si usava nel medioevo per le decapitazioni. Ed entrambi vegliano, chiavi e spada rispettivamente alla mano, ai lati degli altari e degli stipiti dei portali di tanti chiese cattoliche.
A giudicare dagli Atti degli Apostoli, non è che si conoscessero, s’intendessero e si amassero granché: sembra che Pietro difendesse a lungo la tesi che la Rivelazione del Messia fosse destinata esclusivamente al popolo ebraico, secondo l’adempimento delle sue Scritture, e non riguardasse i goim, i «gentili» (cioè quelli che appartenevano alle gentes, i pagani), mentre da parte sua l’ebreo ma cittadino romano Paolo militasse convinto a favore della grandiosa visione profetica d’un credo universale in un Salvatore venuto per tutti i popoli.
Nonostante il permanere a lungo, in Palestina, di comunità esclusivamente «giudaico-cristiane», la visione ecumenica di Paolo prevalse: e fu lui «l’Apostolo delle Genti». Eppure, l’onore di divenire capo della comunità dei credenti romani (quindi primo «vescovo di Roma») non spettò al colto tessitore di Efeso che parlava e probabilmente scriveva correntemente greco - nonché, con buone probabilità, un po’ anche latino -, bensì al meno raffinato pescatore nativo del villaggio di Cafarnao sulla sponda occidentale del «mare di Galilea», dove ancora si mostrano i resti archeologici della sua modesta dimora a lungo e con amore studiati da un archeologo italiano, il francescano Virginio Corbo che colà è sepolto. A pochi metri dalla casupola di Pietro e dalla tomba di padre Corbo si erge, mirabilmente restaurata, una sinagoga ebraica in stile romano-ellenistico del I-II secolo d.C., un’autentica indimenticabile meraviglia archeologica.
La storia iniziata allora, oltre duemila anni or sono, tra lago di Tiberiade, Gerusalemme, Efeso e Roma, potrebbe secondo alcuni concludersi tra non troppi anni.
Secondo la corrente e tutt’altro che sicura interpretazione di un oscuro inquietante testo profetico redatto a quel che sembra nel XII secolo dal vescovo irlandese Malachia, vicino all’ordine cisterciense e amico di Bernardo di Clairvaux, Benedetto XVI sarebbe il penultimo dei «papi», termine corrente di origine siriaca con il quale almeno dal IV secolo si indicano abitualmente i vescovi di Roma; dopo di lui ve ne sarebbe ancora un altro, destinato a scomparire in una feroce persecuzione che segnerebbe la fine della Chiesa e del mondo.
La «profezia di Malachia» (in realtà forse un falso del Cinquecento) mette in fila non dei nomi, ma una serie di motti latini, ciascuno designante un papa futuro: a colui che gli esegeti ritengono Benedetto XVI spetta l’epiteto di De gloria olivae; colui che uscirà dal prossimo conclave, e che secondo il controverso testo poetico sarebbe l’ultimo, vi è designato come Petrus Romanus. Naturalmente, gli esegeti alla Dan Brown si sono scatenati e sono da tempo in frenetica attività: è ovvio che, essendo l’olivo il simbolo della pace, esso si addica a papa Ratzinger che avrebbe rinunziato al soglio pontificio nell’interesse della pacificazione all’interno della Chiesa; quanto a Petrus Romanus, si sta cercando nel collegio cardinalizio qualcuno che potrebbe portare tale epiteto e qualcuno fa notare che il cardinal Tarcisio Bertone si chiama Pietro come secondo nome di battesimo ed è nativo del paese di Romano in Piemonte. Se non è vera, è ben pensata.
Fin qui storia, esegesi, fantastoria e profezia. Ma quali scenari concreti si aprono adesso sul futuro della comunità cattolica?
Non c’è dubbio che la rinunzia di Benedetto XVI sia un segno di crisi e di sofferenza: non tanto e non solo di un singolo personaggio anziano, desideroso di riposo e di solitudine, che ha per questo deciso - e senza dubbio dopo un periodo forse lungo di tormentata meditazione - di compiere un gesto che nella Chiesa di Roma resta unico (gli spesso citati paragoni con Celestino V e con Gregorio XII non reggono). Il punto centrale da comprendere correttamente sarebbe se e fino a che punto Joseph Ratzinger si sia ritirato in quanto convinto che siano davvero soltanto le sue personali forze fisiche, psichiche e spirituali inferiori alle necessità attuali di un’istituzione profondamente scossa da gravi eventi (la questione dello Ior, i Vatileaks, i problemi connessi con i diffusi episodi di pedofilia, le polemiche sul ruolo del concilio vaticano II che lo vide giovane ma autorevole teologo e che più di recente lo ha visto critico piuttosto severo) e minacciata da ancor più gravi questioni strutturali, come la crisi delle vocazioni sacerdotali, la discordia e l’indisciplina di molti prelati, l’urgere di temi che dal celibato dei preti e dal sacerdozio femminile arrivano fino all’eutanasia e alla bioetica, il distacco dal cattolicesimo di milioni di fedeli che ad esempio in America latina stanno ormai passando in massa alle Chiese e alle sètte protestanti sostenute da forti rimesse in danaro e da un formidabile apparato propagandistico d’origine statunitense.
È così, siamo dinanzi a un’umanamente comprensibilissima ammissione di stanchezza, d’inadeguatezza, magari perfino di sfiducia? Se così fosse, inutili e ingenerose sarebbero le critiche, inopportuni polemiche e schiamazzi. Non resterebbe che rispettare la volontà di questo anziano e schivo studioso che così potentemente ha contribuito alla vita e al governo della Chiesa almeno per un buon mezzo secolo e che ora, dopo otto anni di pontificato intenso e difficile, chiede di restar solo al cospetto del suo Dio: quel Signore che - sono accorate parole della sua ultima pubblica allocuzione - negli ultimi tempi troppo a lungo «è sembrato tacere». Il «silenzio di Dio» è l’estremo, insondabile problema di tanti teologi, di tanti mistici, di tanti credenti.
Ma forse c’è di più. Se davvero il papa si è ritirato costatando quanto sia ardua la gestione autocratica di un organismo gerarchicamente ordinato, il vertice che è oggi profondamente diviso al suo interno, e si sente inoltre drammaticamente lontano dinanzi a una base disorientata, a sua volta discorde e indecisa tra desiderio di nuova coesione, insofferenza della disciplina gerarchica, insoddisfazione per la lontananza tra fede, pratica ecclesiale, bisogni e desideri concreti dei fedeli - specie degli «Ultimi» - e apostasia (sono i problemi tante volte agitati da Andrea Gallo, la sensibilità del quale è condivisa da un numero crescente di sacerdoti e di laici), allora riemerge potente la questione già affrontata nel XV secolo e quindi esorcizzata con la Controriforma e messa a tacere dal concilio di Trento.
Può la Chiesa procedere sulla via della soluzione «monarchica» pontificia, o è più consigliabile riprendere il cammino dei primi tempi della sua storia, quello poi di nuovo scelto nelle comunità ecclesiali ortodosse e orientali e ripreso poi, in circostanze differenti, sia dalla Chiesa anglicana a partire dal Cinquecento, sia da quella episcopale statunitense dalla fine del Settecento? Il cammino cioè della gestione comunitaria attraverso un supremo organo collegiale di tutti i vescovi, il concilio?
Era la situazione viva nei concili del IV secolo, gestiti - è vero - sotto la suprema autorità imperiale, e di nuovo prospettata già fino dal 1414-17 nel concilio di Costanza. Quella situazione messa da parte e considerata inadeguata e desueta dal Quattro-Cinquecento in poi, può adesso venir considerata idonea a gestire la nuova fase della vita della Chiesa cattolica nel mondo del III millennio, caratterizzato da quella che Zygmunt Bauman definisce «la Modernità liquida» e che assisterà forse all’eclisse delle fedi religiose, ma forse al contrario a un loro rinnovarsi su basi adatte ad affrontare i problemi odierni?
È questa la domanda ch’è lecito porsi: in attesa che dal prossimo conclave, tra non molti giorni, esca un papa - forse non europeo, magari perfino di pelle non proprio chiara - in grado di superare con energia la crisi attuale o provvisto del mandato affidatogli dai confratelli di convocare, mezzo secolo dopo il vaticano II, un nuovo concilio di rifondazione ecclesiastica.
di Massimo Faggioli (Huffington Post Italia, 27 febbraio 2013)
L’ultimo discorso di papa Benedetto XVI, tenuto in piazza San Pietro all’ultima udienza generale di mercoledì 27 febbraio, non è forse il più importante del suo pontificato dal punto di vista teologico e politico, ma è di certo il più importante e il migliore tenuto da Joseph Ratzinger da vescovo.
In un certo senso, questo discorso potrebbe plasmare la sua eredità e percezione, e fare di Benedetto XVI un papa emerito molto più "popolare" di quanto non lo sia stato come papa sulla cattedra di Pietro in questi otto difficili anni. Nel discorso il papa non ha nascosto le difficoltà attraversate dal pontificato, e non ha nascosto - cosa rimarchevole per un papa - la sensazione di abbandono da parte di Dio, la stessa sensazione che tanti altri cristiani provano in molti momenti della loro vita.
Il discorso non è stato privo di accenti tipici dei discorsi di Giovanni XXIII, tesi a ridimensionare la "mistica papale" - quell’aura di sacralità creata nei secoli attorno al papato non solo come ufficio nella chiesa, ma anche attorno alla persona. Ma allo stesso tempo, il ridimensionamento della mistica papale ha un contrappasso, vale a dire il suo ruolo universale, e non solo per la chiesa o i cattolici: "il cuore di un Papa si allarga al mondo intero". Questo è uno dei costi maggiori e più difficili da sostenere per il papa e per il cattolicesimo contemporaneo, ma che fanno della chiesa cattolica un’antenna molto sensibile per comprendere il mondo globale.
Questo discorso rappresenta una chiave di lettura importante per comprendere il ruolo di questo pontificato nella chiesa contemporanea. Se per alcuni versi il pontificato di Benedetto XVI va letto in continuità culturale e teologica con quello di Giovanni Paolo II, questo discorso invece ne sottolinea le diversità: in primo luogo per la capacità di spersonalizzare il papato, o meglio, di viverlo in modo personale senza imprigionarlo dentro un atletismo mistico che non si confà a Joseph Ratzinger.
In una chiave tipica della "umiltà istituzionale" che è nella teologia del papato dal concilio Vaticano II in poi, Benedetto XVI ha enfatizzato la dimensione pastorale del ministero: "Ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa - non un’organizzazione, non un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti".
Morire in pubblico, come Giovanni Paolo II, o ammettere in pubblico la difficoltà, anche per papa Benedetto XVI, di rinunciare a qualsiasi "privacy" (termine che oggi forse entra per la prima volta nel vocabolario dei pontefici romani): "il papa appartiene a tutti, non appartiene più a se stesso". Sono due modi diversi, entrambi contro-culturali, di testimoniare il messaggio cristiano al mondo contemporaneo.
Assistiamo in questi giorni a un’eccezionale ridefinizione del ruolo del papa nella chiesa e nel mondo. Su quella straordinaria scena del sacro in Occidente che è la piazza di San Pietro in Roma, il papa si congeda dal pubblico, ma non dalla chiesa.
Quel che Martini voleva dire al Papa
di Georg Sporschill (Corriere della Sera, 25 febbraio 2013)
L’8 agosto 2012, su richiesta del cardinale Martini, gli ho fatto visita a Gallarate insieme a Federica Radice Fossati Confalonieri; è stato il nostro ultimo incontro. Abbiamo celebrato la Santa Messa in quattro nella cappella della casa dei gesuiti. Pregava, ormai con un filo di voce, per una missione a favore dei bambini di strada della Transilvania, per i giovani e per la donna impegnati in quel Paese.
Al momento della Comunione ha voluto alzarsi e con un aiuto ci è riuscito. Non dimenticherò mai quella scena, quanto fosse profondamente prostrato e nello stesso tempo forte. La fiducia di quest’uomo proveniva da un altro mondo. Dopo la Messa l’ho riportato in camera sulla sua sedia a rotelle. Era la stanza modesta di un gesuita.
Nel parlare, il cardinale cercava faticosamente ogni parola. Compiangeva la Chiesa che pure amava. Solo la sua fede in Dio spiega perché abbia lasciato le istituzioni ecclesiastiche e il ricco mondo occidentale con parole di critica radicale.
«La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi». Con fede, fiducia, coraggio. Per consentire l’ingresso dello Spirito Santo nell’Istituzione il cardinale ha suggerito al Papa e ai vescovi di circondarsi di persone vicine ai giovani e ai poveri. Naturalmente tra queste vi devono essere anche donne. Solo con uomini anziani sarebbe impossibile.
La principale preoccupazione del cardinale era la perdita di credibilità che la Chiesa aveva subito presso vaste schiere di persone. Non si trattava delle leggi o dei dogmi, ma della capacità di assistenza, di ascolto. «Sappiamo occuparci delle domande dei giovani, dei problemi delle famiglie allargate, dei non credenti?», chiedeva dubbioso. Coloro che sono lontani dalla Chiesa hanno un messaggio per noi, sosteneva. Più che la coincidenza di vedute gli interessavano il dialogo, la comune ricerca. Il suo pensiero ammetteva le contraddizioni, come la Bibbia.
Più volte ha chiesto che la Chiesa si scusasse per quanto aveva affermato in passato sul tema della sessualità. Con un coraggio, come quello che aveva mostrato Giovanni Paolo II quando in Israele chiese perdono agli ebrei per i peccati della Chiesa. A questo proposito scrisse a papa Benedetto XVI personalmente. Spesso citava ad esempio l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, un Papa al quale era particolarmente legato. Affermava poi che la medicina e la psicologia avevano molto di nuovo da dirci sulla famiglia e la sessualità.
Le critiche espresse dal cardinale nel suo ultimo colloquio erano come un testamento, scritto per amore. Con fermezza poneva alcune persone al centro: i poveri, coloro che ricercano la fede, le donne e gli stranieri. A loro si era dedicato con tutte le forze per l’intera vita. Non a caso le sue richieste hanno preso il nome di «Agenda Martini» per il conclave.
Il cardinal Martini era molto vicino a papa Benedetto XVI. Per oltre un decennio, come cardinali sono stati membri della Congregazione per la Dottrina della Fede, avevano anche la stessa età.
Eppure i due uomini avevano sentimenti e pensieri molto diversi. Ciò nondimeno la lealtà dell’anziano cardinale al Santo Padre era indiscutibile. Era il giugno del 2012 quando il cardinal Martini ha visto per l’ultima volta papa Benedetto XVI, in visita a Milano. In quella occasione, è tornato nel palazzo che aveva lasciato nel 2002. Lo ha fatto in sedia a rotelle e il Papa si è chinato su di lui. Quando ha quasi ordinato al Pontefice di accomodarsi, questi contro ogni regola dettata dal protocollo si è seduto e l’anziano vescovo ha potuto ravvisare nei suoi occhi stanchi la fragilità del coetaneo. Il coraggio l’ha così abbandonato, non poteva fargli le proposte che aveva preparato. Gli ha detto solo: «Santo Padre, prego per Lei e per la Chiesa».
Il cardinale ha raccontato commosso di quell’incontro con il Pontefice e aggiunto con una nota umoristica: «Il sarto del Papa dev’essere un artista per fargli star bene gli abiti». La sua infermiera gli ha chiesto allora: «Eminenza, Lei, debole e anziano, lascerebbe l’ufficio di Papa o vescovo?». Il cardinale deve aver risposto: «Sì, mi ritirerei a Montecassino». Era come se avesse spianato la strada alla grande e sorprendente decisione del Pontefice.
Cosa dice l’«Agenda Martini» a proposito del profilo del nuovo Papa? Deve essere un ottimista come Giovanni XXIII: non difendere ciò che è antiquato, ma aprire le porte della Chiesa al nuovo. Deve avere molta comprensione umana e fiducia nel futuro. Deve avere amore come Paolo VI. Forse aveva un eccessivo timore delle possibilità offerte dalla tecnologia, dalla medicina e dalla libertà sociale, ma era una preoccupazione per l’uomo, come amava sottolineare il cardinal Martini quando criticava l’Enciclica Humanae Vitae . Lo poteva testimoniare egli stesso, poiché Paolo VI lo invitava spesso come un amico, a discutere di questioni bibliche.
Deve essere deciso come Giovanni Paolo II. Il cardinal Martini raccontava che il Papa polacco aveva nominato lui, originario di Torino, arcivescovo di Milano, senza ascoltare le obiezioni. Aveva deciso e basta. Con la sua forza riusciva a muovere molte cose in Vaticano e nella politica ecclesiastica. Una forza che ha fatto addirittura crollare la cortina di ferro.
Cosa deve avere dei suoi predecessori il nuovo Papa? Può costruire su ciò che ha fatto Benedetto XVI che voleva preservare la Chiesa dai pericoli, voleva tenere tutti nella comunità ecclesiastica, anche la Fraternità San Pio X. Puntava sulle élite , che vedeva nei nuovi movimenti. Ora ci vuole l’ agere contra , un movimento rivolto alle parrocchie, la rivalutazione delle chiese locali e l’ascolto del mondo intero, come coraggiosamente faceva il cardinal Martini. Benedetto XVI nel suo clericalismo era spinto da forze centripete, ora occorrono energie centrifughe. Con un vescovo proveniente dal Nuovo Mondo, dall’Africa o dalle Filippine, lo Spirito Santo ci può sorprendere più che con un difensore del Vecchio Mondo. Quanto deve essere giovane, straniero, sfrontato o di colore oggi uno strumento dello Spirito Santo?
Il papato e l’ecumenismo
di Fulvio Ferrario
“Riforma” - settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi” del 22 febbraio 2013
Per una volta, i commenti sono unanimi: l’abdicazione di Benedetto XVI, oltre che un gesto di alto profilo spirituale, costituisce un evento di portata storica. Certo, sappiamo tutti che si tratta di un’eventualità prevista dal diritto canonico della Chiesa romana, ma il fatto che l’ultimo dei rarissimi precedenti risalga al Medioevo basta da solo a indicare l’assoluta eccezionalità del caso.
Gli osservatori protestanti si sono sentiti spesso domandare, in questi giorni, se un fatto di questo genere possa avere conseguenze per quanto riguarda il cammino verso l’unità della chiesa: se, cioè, le note riserve delle chiese evangeliche nei confronti di un ruolo universale del papato risultino modificate. Una risposta generale e di principio è naturalmente negativa: le riserve protestanti sul papato riguardano la comprensione generale di questa funzione, la quale non risulta in alcun modo modificata, né potrebbe esserlo, da una scelta personale.
È più rilevante domandarsi se quello al quale abbiamo assistito possa costituire un primo passo verso un modo diverso di vivere l’esercizio del ministero papale, in quanto sottolinea la distinzione tra la persona e la funzione.
Giovanni Paolo II affermava che un modo diverso di esercitare l’autorità pontificia sarebbe un contributo all’unità cristiana. Valutare questa proposta è impossibile finché non è chiaro come si configuri tale novità.
Giovanni Paolo II non ha offerto indicazioni in tal senso, né lo ha fatto il suo successore se non, appunto, mediante la sua abdicazione. Vedremo se il nuovo pontefice fornirà qualche spunto che possa maturare nel corso dei decenni e dei secoli.
È legittimo, però, domandarsi se il cammino verso l’unità possa attendere i tempi di maturazione di un’istituzione come quella papale, i quali, appunto, non sono precisamente fulminei. Un confronto che prenda sul serio il dato reale, che cioè il ministero pontificio costituisce una caratteristica di una chiesa, e non può svolgere, al momento, un ruolo di rappresentanza universale, sarebbe certamente più costruttivo.
“Sogno un papa senza ricchezze”
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2013)
"Chi desidera una Chiesa più aperta al mondo (teologi della liberazione) non vuole un papa latino- americano, o africano o coreano. Vuole un papa italiano che sia il vescovo di Roma e rispetti l’autonomia delle chiese locali. Chiediamo a Dio di dare alla Chiesa di Roma, madre dell’unità delle chiese, un pastore semplice e modesto che non abbia bisogno dell’aura di santità, né che la sua persona venga chiamata santa così come le congregazioni della curia e tutto ciò che circonda il suo ministero. È l’indicazione del Concilio Vaticano II”. Risposta di Marcelo Barros, teologo benedettino, 69 anni, cresciuto a Recife, nord angosciato del Brasile, all’ombra di Helder Camara, vescovo “rosso” per le burocrazie vaticane, “vescovo dei poveri” per i diseredati del continente latino.
Barros fa il priore nel monastero di Goias ed è membro dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo mondo. Una volta si è rivolto a Paolo VI con “lettera personale” nella quale delineava una Chiesa “più umana, più solidale, più aperta alla ricchezza delle differenze”. Proposte cadute nell’inevitabile silenzio: “Ogni domenica migliaia di comunità cattoliche del Brasile non hanno il prete per celebrare il culto della Parola. Lei sa perché ricevono la visita di un prete solo due volte l’anno. Perché lei non accetta di riaprire la questione del celibato e di ordinare uomini sposati, degni e preparati per il ministero... e perché in America Latina la Chiesa cattolica è l’unica delle Chiese occidentali che proibisce di ordinare le donne”. Risponde il segretario di stato cardinale Villot: “Il papa la ringrazia della lettera ma le ricorda che non siamo più ai tempi del Vangelo”. Un papa-pastore resta la speranza di Barros, pontefice il cui carisma deve essere la povertà.
Ricorda un racconto di Helder Camara: “Ho sognato che il papa aveva un accesso di follia. Dava fuoco al Vaticano e alla basilica di San Pietro. Usciva nelle strade di Roma per distribuire ai poveri il denaro della Chiesa. È triste pensare che per vivere davvero il Vangelo di Gesù dobbiamo sognare che il papa diventi matto”.
Leonardo Boff è il teologo francescano disarmato dagli inquisitori guidati dal cardinale Ratzinger. Insegna Teologia e Filosofia all’Università di Pedropolis dopo l’abbandono del saio francescano. 65 anni, unisce la voce alle voci di Barros e Frei Betto nella Teologia della Liberazione rimproverata dal Vaticano come eresia protestante.
ACCOGLIE l’addio di Benedetto XVI “con grande tristezza”. Ne conosce la timidezza e ne immaginava il disagio “quando abbracciava le folle e baciava i bambini”. Ha sperimentato la riservatezza quando era stato suo allievo in Germania, 1965-1970. “Gli era piaciuta la mia tesi, Il posto della Chiesa nel mondo secolarizzato”. Si era offerto di cercare un editore. “E poi assieme nella rivista Concilium: ci incontravamo ogni anno a Pentecoste. Passeggiavamo discutendo di teologia. Gli ultimi incontri rompono la simpatia appena Ratzinger diventa mio inquisitore nel processo dell’ex Sant’Uffizio concluso con l’imposizione del ‘silenzio ossequioso’ e la proibizione di pubblicare libri. Immagino si sia lasciato trascinare dal giudizio dei conservatori che vogliono la Chiesa immobile”.
La Folha di San Paolo, grande quotidiano, gli fa le solite domande dopo la rinuncia di Benedetto. Boff risponde per scritto, risposte che non sono piaciute. L’intervista finisce nel cestino. La ripropone: “Benedetto XVI ha frenato il rinnovamento indicato dal Concilio. La Chiesa di oggi non accetta di rompere col passato: preferisce acquattarsi nella tradizione. Chiesa romana nelle mani di un Papa al quale è affidata la guida di un popolo immenso come la Cina”.
Come deve essere il successore di Ratzinger? “Non papa di potere legato alle istituzioni. Il potere cancella l’amore e oscura la misericordia. Abbiamo bisogno di un pastore vicino al popolo e a ogni essere umano, poco importa della situazione morale, etnica e politica della quale creature diverse e lontane sono portatrici. Non deve rappresentare l’Occidente estraneo alla storia della maggioranza dei fedeli ma uomo che arriva dal mondo globalizzato, sofferente e testimone della terra devastata dalla voracità del consumismo. Insomma, obbediente al Vangelo senza spirito di proselitismo, guida profondamente spirituale aperta a tutti i percorsi religiosi per riunire la speranza nel cuore di ogni persona: quella misteriosa presenza di Dio. Uomo profondamente buono nello stile di Giovanni XXIII, tenero con gli umili, ma con la fermezza profetica che denuncia le incubatrici della violenza e gli affari delle guerre strumenti di dominazione in ogni regione del mondo. Spero che lo Spirito Santo illumini il Conclave”
Autorità nella Chiesa cattolica
di esponenti della Chiesa cattolica universale
in “www.churchautority.org” dell’ottobre 2012 (versione italiana nel sito)
Dichiarazione di studiosi cattolici
In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (1962-1965), invitiamo tutti i membri del Popolo di Dio a esaminare la situazione nella nostra chiesa.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica.
Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio.
Una della principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione.
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede.
Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita della fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto.
I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità, è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e, il più possibile, democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II.
La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi.
La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti, con indipendenza, per la loro competenza professionale.
Questi non sono per nulla tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano di una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future.
Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna.
La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.
I nomi dei primi 160 firmatari, Sponsor Accademici della Dichiarazione (tra i quali citiamo: Leonardo Boff, Pedro Casaldaliga, Hermann Häring, Hans Küng) e dei (ad oggi 19 febbraio) 2048 sottoscrittori sono visibili al sito: http://www.churchauthority.org/.
UNA SCELTA "DEBOLE" TUTTA INTERNA AL SISTEMA
di Marcello Vigli (Adista Notizie, n. 7 del 23/02/2013)
La “rinuncia” di Benedetto XVI costituisce indubbiamente un evento eccezionale. Ne sono testimoni l’attenzione dei media di tutto il mondo e la diversità delle valutazioni che ne sono state date nelle diverse sedi religiose e politiche. Valga per tutte quanto scrive Paolo Naso (Nev, n. 7/13): questo gesto «ha una evidente ricaduta sull’ecclesiologia e forse sulla stessa teologia cattolica: come pochi altri umanizza e vorrei dire “secolarizza” l’istituzione papale».
Nulla sarà più come prima. Una simile scelta, per la prima volta del tutto libera, desacralizza per forza di cose l’istituzione. Ridimensiona la stessa immagine che il papato ha di se stesso attraverso la potenza e la debolezza di un atto solitario espresse nelle parole dello stesso papa che attribuisce la sua rinuncia alla sua «incapacità di amministrare bene il ministero» a lui affidato derivante dal venir meno del «necessario vigore sia del corpo, sia dell’animo».
Si può aggiungere, sono in molti a pensarlo, che al di là della sua debolezza fisica, tale incapacità sia stata determinata dal riconoscimento della sua impotenza a governare una Santa Sede afflitta da scandali, intrighi e lotte di potere aggravati da una struttura accentrata della Curia e mal gestita da quella Segreteria di Stato che Wojtyla aveva voluto ne fosse il perno per garantirne l’efficienza. Non ha avuto l’energia e gli strumenti necessari per attuarla come pure aveva lasciato intendere di voler fare nella sua dura denuncia contro il carrierismo, alla vigilia della sua elezione, confermata nell’omelia alla messa delle ceneri, il 13 febbraio scorso.
I suoi tentativi di ammodernamento e di moralizzazione sono falliti di fronte a meccanismi che non è riuscito a modificare perché, in verità, non intendeva radicalmente ridimensionarli. Ne è testimone la sua scelta di assumere il Concistoro come primo destinatario della sua comunicazione, implicitamente riconoscendogli una preminente funzione istituzionale. Solo dopo due giorni l’ha estesa al Popolo di Dio raccolto per l’udienza settimanale. Ben altro sarebbe stato l’impatto con la pubblica opinione. Soprattutto ben altra forza avrebbe avuto il messaggio destinato al prossimo Conclave sulla necessità di assumere come primo problema da affrontare la riforma della Curia.
Se può sembrare fuori della realtà l’auspicio di un papa che, nell’esercizio della sua funzione di governo, si rapporta direttamente al Popolo di Dio, non lo è un appello alla collegialità sinodale.
La ri-convocazione del Sinodo dei vescovi (la cui ultima assemblea si è svolta nell’autunno scorso), per annunciare la sua volontà di rinunciare, avrebbe avuto quel carattere epocale e rivoluzionario da molti attribuito al suo gesto: indubbiamente innovatore, ma non eversivo dell’attuale assetto centralistico del governo della Chiesa. Tale fu quello compiuto da Giovanni XXIII con la convocazione del Concilio che, proprio con la creazione del Sinodo dei vescovi, aveva avviato una radicale riforma, subito bloccata prima dalla pavidità di Paolo VI, poi dall’autoritarismo pre-conciliare di Giovanni Paolo II.
Il sistema curiale può avere avuto una funzione in passato: quando prima l’imperatore e/o le famiglie nobili romane e poi i sovrani degli stati cattolici interferivano pesantemente nella designazione del successore di Pietro.
In tempo di secolarizzazione - accettata dal Concilio come salutare strumento di purificazione per la Chiesa, pari alla fine del potere temporale riconosciuta come liberatrice da Paolo VI - una piena collegialità è l’antidoto efficace alla solitudine del papa attorniato da collaboratori da lui stesso scelti, portatori magari delle diverse sensibilità ecclesiali diffuse sul territorio, ma non certo delle sempre nuove esperienze di Chiesa sollecitate dall’accelerazione dei processi storici e vissute nella dimensione comunitaria.
PS: Se i cattolici conciliari si autoconvocassero per formulare proposte al Conclave da inserire nell’agenda del futuro papa?
* della Comunità di Base di San Paolo, Roma
“Sorores carissimae et admirandae”
La presenza femminile al Concilio Vaticano II
di Andrea Lebra ("Settimana”, n. 32, 9 settembre 2012)
Da poche settimane è arrivato in libreria, per i tipi di Carocci Editore (luglio 2012), un gradevole ed istruttivo studio sulla presenza delle donne al Concilio Ecumenico Vaticano II. Ne è autrice Adriana Valerio, teologa e storica, tra le fondatrici del “Coordinamento Teologhe Italiane”, docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiesa all’Università “Federico II” di Napoli, studiosa di tematiche riguardanti la presenza delle donne nel cristianesimo.
Come scrive nella “presentazione” Marinella Perroni, Presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, il libro, dal titolo “Madri del Concilio - Ventitre donne al Vaticano II”, è stato scritto per “tirare fuori finalmente dagli archivi della memoria i volti e le vite di ventitre donne che, per la prima volta nella storia, hanno preso parte ad alcune sessioni di un Concilio e, pur rispettando l’ordine di tacere nelle assemblee generali, hanno saputo trovare le occasioni giuste per pronunciare parole efficaci”.
Ad auspicare l’aumento del numero di “uditori laici” al Concilio e a fare in modo che questo incremento comprendesse delle donne, era stato il 22 ottobre 1963 il cardinal Suenens nel corso di un suo vigoroso discorso sui carismi nella Chiesa. Paolo VI, accogliendo l’invito, aveva deciso di ammettere alle sedute conciliari alcune rappresentanti degli ordini religiosi femminili ed alcune rappresentanti qualificate del laicato cattolico: complessivamente dal settembre 1964 al luglio 1965, furono chiamate ventitre uditrici (dieci religiose e tredici laiche). Delle tredici laiche, nove erano nubili, tre vedove e una sola coniugata: tutte (eccetto una, Gladys Parentelli) rigorosamente vestite di nero con un velo sul capo.
“Amate figlie”
E’ sintomatico che, quando il 14 settembre 1964, per l’inaugurazione della III sessione del Concilio, il papa salutò le uditrici (“le nostre amate figlie in Cristo...alle quali per la prima volta è stata data la facoltà di partecipare ad alcune adunanze del Concilio”), in realtà di uditrici in aula non c’era neppure l’ombra. Motivo ? Non erano ancora state designate: infatti le prime nomine ufficiali avvennero dopo il 21 settembre. Perché - si chiede l’Autrice - questa clamorosa sfasatura dei tempi ? “E’ difficile dirlo se non ipotizzando la resistenza di alcune personalità della Curia a far partecipare le donne” ad una assemblea costituita da soli maschi. Sta di fatto che la prima donna ad entrare in aula il 25 settembre 1964 fu una laica francese, Marie-Louise Monnet, fondatrice del MIASMI (“Mouvement International d’Apostolat des Milieux Sociaux Indépendants”), sorella di Jean, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea.
Nonostante Paolo VI, l’8 settembre 1964 a Castel Gandolfo, avesse parlato di rappresentanze femminili al Concilio certamente “significative” ma “quasi simboliche”, non avendo diritto né di parola né di voto, ben presto queste ventitre straordinarie “madri del Concilio”, salutate con enfasi da alcuni “padri conciliari” con le parole “carissimae sorores”, “sorores admirandae” o “pulcherrimae auditrices”, trovarono il modo di partecipare in modo attivo e propositivo ai gruppi di lavoro, presentando memorie scritte e contribuendo con la loro cultura e sensibilità alla stesura dei documenti, in particolare di quelli riguardanti temi come la vita religiosa, la famiglia e la presenza dei laici (uomini e donne) nella Chiesa e nella società o, più semplicemente e prosaicamente, invitando a pranzo vescovi influenti ai quali comunicare i propri “desiderata”. In ciò incoraggiate dalla Segreteria di Stato che, nel settembre 1964, chiarì che la loro presenza non doveva essere intesa in senso passivo, essendo esse invitate a dare un apporto di studio e di esperienza alle commissioni incaricate di ricevere e di emendare gli schemi destinati alle sessioni conciliari.
Un contributo significativo
La più vivace delle uditrici laiche fu senza dubbio la spagnola Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (UMOFC). Per ben due volte, in nome del divieto paolino di 1 Cor. 14,34 “le donne tacciano in assemblea”, citato dal segretario del Concilio, Pericle Felice (pare, in difficoltà a rivolgere la parola alle uditrici, anche solo per salutarle), le fu impedito di parlare in assemblea generale, nonostante fosse stata espressamente nominata portavoce del suo “gruppo di studio”. Il secondo rifiuto le fu opposto verso la fine del Concilio: nell’occasione era stata semplicemente incarica di esprimere ai padri conciliari la gratitudine sua e delle colleghe per il privilegio loro accordato di partecipare al Concilio. Ancora una volta il rifiuto fu motivato con l’anacronistico e ridicolo “mulieres in ecclesiis taceant”. Al grande teologo domenicano e perito conciliare Yves Congar che, nell’ambito del gruppo sullo schema dell’apostolato dei laici, voleva inserire nel documento un’elegante espressione con la quale le donne erano paragonate alla delicatezza dei fiori e ai raggi del sole, la (fisicamente) minuta ma energica uditrice australiana Rosemary Goldie disse, a mo’ di rispettosa tiratina d’orecchie: “Padre, lasci fuori i fiori. Ciò che le donne vogliono dalla Chiesa è di essere riconosciute come persone pienamente umane”.
La messicana Luz Maria Longoria, presente al Concilio con il marito Josè Alvarez Icaza, pose in discussione quello che i manuali di teologia, in uso prima del Concilio, definivano fini “primari” e “fini secondari” del matrimonio, dove primaria era la procreazione dei figli e secondario il rimedio alla concupiscenza dell’atto sessuale. La copresidente del MFC (“Movimiento Familiar Cristiano”), molto attiva all’interno del gruppo che doveva esaminare lo “schema XIII”, chiese di liberare l’atto sessuale dal senso di colpa e di restituire ad esso la sua insita motivazione d’amore. Ad un padre conciliare disse: “Disturba molto a noi madri di famiglia che i figli risultino frutto della concupiscenza. Io personalmente ho avuto molti figli senza alcuna concupiscenza: essi sono il frutto dell’amore”.
Verso la chiusura del Concilio, il 23 novembre 1965, uditori e uditrici laiche pubblicarono una dichiarazione congiunta, per rendere conto del lavoro fatto. Consapevoli di essere stati testimoni di una tappa storica di apertura della Chiesa alla sua componente laica, sottolinearono l’importanza vitale di alcuni documenti ai quali avevano dato un significativo contributo con discussioni e scambi di idee. In particolare fecero riferimento al cap. IV della “Lumen gentium” dedicato ai “laici”, alle parti della “Gentium et spes” riguardante la partecipazione dei credenti alla costruzione della città umana e al decreto sull’apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem”.
Nella dichiarazione congiunta uditori e uditrici richiamarono anche l’attenzione che, grazie a loro, il Concilio aveva trattato questioni come la costruzione della pace, il dramma della povertà nel mondo, l’esistenza di diseguaglianze e ingiustizie che richiedono una più equa distribuzione delle ricchezze, la difesa della libertà di coscienza, i valori del matrimonio e della famiglia, l’unità di tutti i cristiani, di tutti i credenti e di tutta l’umanità. Il 3 dicembre 1965 vollero redigere un comunicato stampa nel quale ribadirono il loro ruolo attivo svolto, apprezzato dai padri conciliari che si erano spesso rivolti a loro per consigli e a volte si sono fatti eco delle loro opinioni nell’aula conciliare.
Nomi e cognomi
Consapevole del grande impegno profuso nell’adempimento del compito loro assegnato, il 7 dicembre 1965, Paolo VI, ricevendo uditori e uditrici, espresse la propria soddisfazione “per la collaborazione preziosa” assicurata dagli uni e dalle altre, in modo “discreto ed efficace”, “ai lavori dei padri e delle commissioni”.
Nomi e cognomi delle ventitre “madri del Concilio”, ormai quasi tutte tornate al casa del Padre, vanno doverosamente ricordati. Uditrici religiose: Mary Luke Tobin (Usa); Marie de la Croix Khouzam (Egitto); Marie Henriette Ghanem (Libano); Sabine del Valon (Francia); Juliana Thomas (Germania); Suzanne Guillemin (Francia); Cristina Estrada (Spagna); Costantina Baldinucci (Italia); Claudia Feddish (Usa), Jerome Maria Chimy (Canada). Uditrici laiche: Pilar Bellosillo (Spagna); Rosemary Goldie (Australia); Marie-Louise Monnet (Francia); Anne Marie Roeloffzen(Olanda); Amalia Dematteis (Italia); Ida Marenchi-Marengo (Italia); Alda Miceli (Italia); Catherine McCarthy (Usa); Luz Maria Longoria (Messico); Margarita Moyano Llerena (Argentina); Gladys Parentelli (Uruguay); Gertrud Ehrle (Germania); Hedwig von Skoda (Cecoslovacchia).
Leggendo le loro biografie, ricostruite da Adriana Valerio con materiale inedito, un dato emerge con sufficiente chiarezza: nonostante il decisivo riconoscimento, a livello teorico, operato dal Concilio della dignità della donna e del ruolo insostituibile che può e deve svolgere, in forza del battesimo, nella comunità ecclesiale come nella società civile, molto rimane da fare per ridimensionare, a livello pratico, il monopolio clericale e androcentrico sulla storia e sulla vita della Chiesa in nome della vera uguaglianza che vige fra tutti i membri del popolo di Dio.
Andrea Lebra
Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose
di Maria Cristina Bartolomei (“Jesus”, gennaio 2013)
L’atmosfera natalizia colora di sé l’inizio del nuovo anno, proseguendo liturgicamente nella celebrazione della maternità di Maria, della Sacra Famiglia e dell’Epifania. Anche indipendentemente dalla fede, tali festività comunicano un forte messaggio simbolico di attenzione al mistero di vita nuova che ogni neonato reca con sé in dono per tutti, alla famiglia e, in modo tutto particolare, alla figura della madre. Ma quanto tali simboli hanno veramente improntato di sé la nostra civiltà? Gli orrendi crimini che si consumano oggi sui bambini (pedofilia, traffico d’organi, sfruttamento del lavoro, schiavizzazione, prostituzione) sono versioni aggiornate di una violenza sui minori che, semmai, in epoca moderna si è attenuata, e che oggi viene almeno condannata e combattuta sul piano sociale e legislativo.
Sembra invece accrescersi, anziché attenuarsi, la violenza sulle donne, che presenta forme sempre più estreme. Maltrattamenti, stupri, molestie, molte forme di oppressione e schiavizzazione, fino al femminicidio: nel 2012 nella sola Italia più di cento donne sono state uccise da uomini quasi sempre loro partner o familiari. Una strage sulla quale ci si deve interrogare e che impone risposte sul piano del costume e della cultura.
Quando si parla della famiglia non si dovrebbe dimenticare, accanto a tutte le note positive, anche tale nota sinistra: di famiglia le donne non solo vivono, ma anche muoiono. Per questo, la stessa esaltazione della figura materna può rivelarsi un’arma a doppio taglio, giacché rischia di ridurre la donna a una, per quanto nobile e altissima, funzione, invece di valorizzarla in sé, in quanto essere umano.
L’attenzione alla madre può infatti celare e indurre una distorsione dello sguardo: la donna vale in quanto e perché genera, perché genera uomini. E, così, le categorie entro le quali la vita femminile è stata a lungo compresa e compressa (vergine-sposa-madre), che ci danno un’immagine della donna non come un soggetto che guarda il mondo, ma come un oggetto, come una guardata dagli uomini, definita dalla sua relazione con l’universo maschile.
Mai si è, invece, pensato di poter comprendere l’uomo riducendolo alle categorie di vergine-sposo-padre, che pure gli si attagliano. La coscienza media ecclesiale non si sente investita dal fenomeno della violenza sulle donne quanto dovrebbe, giacché, nonostante la forza liberante dell’Evangelo, della prassi di Gesù e della comunità cristiana primitiva, e benché il cristianesimo abbia contribuito moltissimo alla liberazione delle donne, le tradizioni e la mentalità ecclesiastiche sono state e sono ancor oggi profondamente contaminate da misoginia, dal disprezzo per le donne, dalla non percezione della necessità del loro apporto nella vita sociale e ancor più ecclesiale, dal non riconoscimento che la loro umanità e quella dell’uomo sono equivalenti nella loro diversità, segnate da una non adeguata coscienza della piena soggettività e libertà femminili e da molte consuetudini e pregiudizi ad esse avverse.
Il 25 novembre scorso si è celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nello stesso giorno ricorre la memoria liturgica di santa Caterina d’Alessandria che, secondo la tradizione, subì il martirio nel 305: si era infatti rifiutata di adorare gli dei pagani durante i festeggiamenti per il tetrarca Massimino Daia, cercando, anzi, con argomentazioni profonde, di convertire quest’ultimo. Data la sua giovinezza, bellezza e il suo essere di stirpe regale, l’imperatore tentò di salvarla, inviandole un gruppo di filosofi e retori per indurla ad abiurare la sua fede. Ma fu lei a persuaderli: aderirono al cristianesimo e morirono martiri.
È difficile distinguere in tutto ciò la storia dalla leggenda (tanto che per quattro decenni la Chiesa cattolica la escluse dal martirologio, riammettendovela nel 2002), essendo i documenti disponibili assai tardivi. Santa Caterina - alla quale Giustiniano intitolò il celebre monastero sul monte Sinai, dove narra la leggenda il suo corpo sia stato trasportato dagli angeli - è tuttavia venerata da tempi antichissimi da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi e che ci hanno in tal modo trasmesso il messaggio della capacità apostolica, teologica e filosofica delle donne.
Una cosa così inaudita per la cultura patriarcale e androcentrica da far pensare che la storia sia vera: tanto è difficile immaginare che se la siano inventata! La figura di santa Caterina addita una via decisiva: valorizzare le capacità dello spirito e della mente delle donne, liberandole dall’essere ridotte allo sguardo della cultura androcentrica. Ciò è a vantaggio non solo delle donne, ma di tutta l’umanità, e al fine di una maggiore trasparenza della Chiesa nel servizio all’Evangelo.
Il rinnovamento della società e della politica in crisi richiede l’apporto delle donne. E perché il messaggio evangelico possa raggiungere le donne, queste debbono sentirsi rispettate e riconosciute: non ci sarà un’evangelizzazione veramente nuova senza che le donne ne siano piene destinatarie e coprotagoniste.
Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”
di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.
Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.
Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.
In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.
Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?
Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?
Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.
Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.
Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.
Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.
Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.
Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?
Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia. Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?
Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.
LE DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI E GIOACCHINO DA FIORE
di Emiliano Morrone (Il Quotidiano della Calabria,13 febbraio 2013, pagg. 1-19)
Le dimissioni di Benedetto XVI lasceranno un segno profondo. Molti commentatori si sono già sbilanciati sulle cause, spesso collegando la data dell’annuncio, lo scorso 11 febbraio, a precisi eventi della storia: l’apparizione di Maria a Lourdes nel 1858, i Patti Lateranensi del 1929 o l’Editto costantiniano di Milano (313 d.C., giorno incerto). Nei vari giudizi sul suo pontificato, il papa teologo è stato definito custode della tradizione cattolica, aperto all’accoglienza cristiana e politicamente debole; magari troppo per sopportare l’agenda e la “diplomazia” di un capo di Stato, insieme pastore della Chiesa.
Alcuni, poi, hanno riflettuto sulla Croce, già richiamata da Giovanni Paolo II, che Benedetto avrebbe deposto per evitare il calvario umano del predecessore. Espressi dubbi sulla salute di Joseph Ratzinger, presto fugati da padre Federico Lombardi; proposti accostamenti a Celestino V, che fece «il gran rifiuto», e alla figura di Karol Wojtyla, diversa per emotività, comunicativa e comunicazione. Uno avvezzo alla speculazione filosofica, impegnato a giustificare la fede come deliberato della ragione; l’altro intento a erodere il comunismo politico dalle fondamenta, come ricostruito da Ferruccio Pinotti e Giacomo Galeazzi in un loro libro.
Nei tanti articoli di ieri, non sono mancati riferimenti a profezie, per esempio a quella di san Malachia: 112 motti latini che descriverebbero altrettanti papi, compreso Benedetto, sino alla fine della Chiesa. Un opinionista cattolico ha rammentato delle visioni di Pio X e la preghiera di san Michele Arcangelo, convinto che si annuncino tempi durissimi: la lotta tra bene e male sarebbe al culmine e la Chiesa avrebbe problemi proprio a Roma; ben oltre, si può interpretare, i misteri del Vatileaks, le questioni dello Ior e gli scandali sessuali.
Il cardinale Carlo Maria Martini criticò dall’interno certe scelte della Chiesa, insistendo sulla promozione della persona umana come obiettivo dell’evangelizzazione. Egli intervenne, per esempio, a proposito del referendum sulla procreazione medicalmente assistita. Era l’anno 2005. Allora il cardinale Camillo Ruini invitò i cattolici all’astensione e Martini sembrò interrogarsi sugli effetti di quella posizione, soprattutto su come maturò. Inoltre, da biblista, rilevando pecche di esegesi nel libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, Martini discusse del metodo del pontefice, che nello specifico riunì il Cristo storico e il Cristo della fede. Il papa ha compiuto sforzi enormi per sistemare in modo coerente la lettera della Bibbia e la dottrina, comprensibilmente preoccupato dal dominio culturale dell’individualismo.
È quest’ultimo un punto fondamentale per tentare di capire le ragioni della rinuncia del papa. Pensatori progressisti l’hanno spiegata argomentando che la secolarizzazione, dunque la modernità, è entrata in Vaticano e nel giudizio del pontefice. Peraltro, nei loro ragionamenti hanno considerato soltanto la dimensione clericale della Chiesa; come se il Vaticano II non avesse qualificato la Chiesa come «il Corpo mistico di Cristo»; come se il Concilio non avesse mai introdotto, se così possiamo definirla, la categoria del «Popolo di Dio».
Nonostante la rivoluzione conciliare, quando si parla di Chiesa, s’intende di solito la gerarchia ecclesiastica. Forse la ragione risiede nel fatto che, parafrasando il “Gesù” di Ratzinger, l’impero «ha cercato di trasformare la fede in fattore politico, sostenendo la debolezza della fede col potere politico e militare». Da qui il connubio tra potere spirituale e potere temporale, autorità religiosa e autorità politica, come noi lo conosciamo nel 2013.
In una discussione telefonica, Gianni Vattimo - padre del pensiero debole e autore di “Dopo la cristianità”, volume che affronta il significato attuale del gioachimismo - ci ha anticipato un suo pezzo sul “Fatto Quotidiano” di oggi. Se ne riporta un estratto in merito alle dimissioni del papa, viste (da Vattimo) come atto di coscienza. «Non è affatto stravagante - sostiene Vattimo - pensare che questa crisi di coscienza papale possa essere davvero, o almeno essere legittimamente interpretata, come un evento decisivo nei rapporti del cristianesimo con la “razionalità occidentale”. La quale da tempo, e con buone ragioni, ha ormai liquidato i preambula fidei; svelandosi per quello che è: la razionalità calcolante del mondo “economicamente” organizzato, dei tecnici motivati dal loro sapere “oggettivo” e, alla fine, della logica bancaria che tutti conosciamo e soffriamo sulla nostra pelle». «Insistere sull’idea che la fede in Gesù Cristo è una scelta razionalmente motivata - afferma Vattimo - significa davvero condannarsi a perire insieme all’Occidente capitalistico ormai in disfacimento».
Benedetto XVI ha riconosciuto per iscritto l’importanza della profezia della Terza Età, dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore. Il pontefice ha invece contestato lo storicismo di Marx ed Hegel, nel suo “Introduzione al cristianesimo”. Per il papa, quell’Età, cioè il tempo dello Spirito preconizzato da Gioacchino, rappresenterebbe la direzione giusta della Chiesa: finalmente pura, liberata dalle logiche e dai rapporti di forza del capitalismo, esso vittima della sua stessa ragione disumana.
Forse la debolezza che ha indotto Ratzinger a rinunciare, non è da rintracciare tanto nell’età. Piuttosto, non è blasfemo pensare che, proprio nel messaggio di Gioacchino, Benedetto abbia trovato la forza per compiere un atto destinato a pesare, più di quanto si possa prevedere, nel futuro della Chiesa, dei cattolici e dell’intero sistema mondiale.
Emiliano Morrone
La Chiesa ha bisogno di una riforma profonda
di Christian Terras*
in “Le Monde” del 15 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Che il papa dia le dimissioni a causa dell’età, è già un fatto eccezionale! Ma che aggiunga a questa motivazione quella di un mondo che avanza troppo rapidamente per lui è una cosa da sottolineare. A questo punto, come interpreterà il suo atto, il suo successore? Per governare la barca di Pietro in un mondo ricco di cambiamenti, occorre un pontefice che li accolga o che li rifiuti? Alcuni riterranno che a questa alternativa manca la prospettiva di un’accoglienza critica della postmodernità. Perché, di fatto, le dimissioni di Benedetto XVI illuminano di nuova luce la crisi attraversata dalla Chiesa.
Dopo il grande discorso d’addio di Gesù, i suoi discepoli sanno di essere nel mondo senza essere del mondo, ma non hanno ancora finito di discernere il modo in cui possono essere testimoni del Vangelo. Ma da quando la religione non struttura più la realtà sociale, siamo messi di fronte ad una situazione inedita nella storia dell’umanità: quest’ultima può vivere come se Dio non esistesse!
Benedetto XVI ha lottato contro questa scomparsa di Dio come fondamento della verità dell’umano. Avrebbe lottato fino all’esaurimento? Stando così le cose, le sue dimissioni non sarebbero il segno di un fallimento di questa battaglia persa in anticipo?
Il prossimo papa potrebbe chiarire in quale modo la mentalità contemporanea ci permette di scoprire un nuovo volto di Dio, in fedeltà con l’itinerario di Cristo. Per il papa attuale, solo la sottomissione a Dio, e quindi alla sua Chiesa che ne interpreta le volontà, permette di scoprirla. Ma non è possibile immaginare diversamente la relazione con la trascendenza?
La Chiesa ci mostra un Dio nascosto nella carne del mondo che le autorità religiose rifiutano di vedere! Dio non è più in competizione con l’umanità. La sua alterità penetra il nostro desiderio, il suo infinito vive nella nostra finitezza. Gesù ci ha insegnato a scoprirlo nei più piccoli, che sono i suoi fratelli. La questione della verità è quindi intimamente legata a quella della solidarietà. Se Dio si fa solidale, è per insegnarci un altro modo di vivere con gli altri.
L’imitazione di Cristo ci proibisce quindi di assomigliare agli scribi che impongono agli altri i fardelli di una legge falsamente divina. Se il pontefice romano vuole assomigliare a Gesù dovrà, come lui, essere accogliente e dialogante, soprattutto con coloro che sono rifiutati. Non si tratta di carità compassionevole, ma di una lotta con coloro che rifiutano le strutture economiche e politiche inique.
Ma che la verità si trova in un dialogo solidale implica anche un nuovo modo di governare. I vescovi, tra cui quello di Roma, non possono più pretendere di sapere per e al posto degli altri. Sono al contrario invitati a cercare un Dio sempre più grande che sfugge ai nostri ragionamenti.
La Chiesa istituzionale adotta ancora nella maggior parte dei casi il comportamento dei farisei, nel meglio e nel peggio. Come loro, corre il rischio allontanarsi da coloro che credono, pensano e vivono diversamente da come prevedono le sue definizioni.
Certo, la Chiesa ha fatto, dal Vaticano II, degli sforzi di dialogo, ma a livello pastorale. La teologia non ne è stato toccata. Il catechismo resta lo stesso e le voci discordanti all’interno della Chiesa faticano a farsi sentire. E il cardinale Ratzinger è stato l’artigiano di una “stretta” sui teologi, privando la chiesa di una ricerca indispensabile, in particolare in dialogo con le scienze umane.
Questo modo di governare è diventato insopportabile per i nostri contemporanei per i quali l’autonomia è ineliminabile. È anche in contraddizione con la testimonianza del Nuovo Testamento.
Dall’accoglienza della Samaritana o dell’adultera a quella del buon ladrone sulla croce, Gesù ha spezzato i confini delle leggi disumane. Ogni incontro è stato l’occasione per dire un Dio che libera. Ha aiutato i suoi discepoli a trasgredire delle tradizioni percepite come divine mentre erano solo umane.
La Chiesa è ancora invitata a proseguire questo lavoro di decostruzione. Del resto Luca negli Atti non nasconde i conflitti che portarono la Chiesa ed abbandonare certe prescrizioni, inventando nuovi ministeri e precisando le esigenze della fede. Questi racconti devono ispirare l’agire pontificio.
In materia di morale familiare, ad esempio, è indispensabile un vero dialogo all’interno della Chiesa con le coppie divorziate risposate o le persone omosessuali, nonché il tener conto delle problematiche del genere. Le donne non potranno più essere ancora a lungo messe da parte e impiegate in compiti subalterni.
È anche urgente che il ministero petrino sia messo in tensione con la figura di Paolo: Pietro non ebbe ragione senza l’apostolo dei gentili. Tra i vescovi deve circolare una parola libera su tutti i problemi cruciali del nostro mondo. Non sono semplici cinghie di trasmissione della curia romana.
Inoltre, è altrettanto urgente uno scambio franco e onesto con le Chiese sorelle, soprattutto con i protestanti. È una condizione perché il vangelo si radichi in tutte le culture. Il papa non potrà neppure trascurare l’opinione dei fedeli. Ascoltare come rendono conto del loro modo di vivere, permetterà alla Chiesa di sfuggire alla logica caricaturale del bianco e nero, cercando il senso in tutte le zone grige delle nostre esistenze, per parlare come il defunto cardinal Martini.
In questo senso, ciò di cui la Chiesa ha bisogno non è tanto un nuovo concilio di vescovi, quanto una riforma fondamentale sui temi istituzionali e dottrinali. Essa potrà così essere testimone della pertinenza del cristianesimo nella nostra postmodernità e dire Dio diversamente in un nuovo modo di fare Chiesa, in un dialogo aperto con il mondo, per tentare di raccoglierne le sfide. *redattore capo di “Golias Hebdo” e di “Golias Magazine”
Il concilio necessario
di Franco Cardini (il manifesto, 15 febbraio 2013)
Ora che dal Vaticano è iniziata a filtrare qualche notizia un po’ più qualificata delle indiscrezioni o delle chiacchiere. Ora che soprattutto in margine alla cerimonia delle ceneri qualche parola sintomatica è filtrata attraverso il tradizionale riserbo vaticano, siamo forse in grado di dire qualche parola in più su quella che è forse la crisi di un uomo, ma certamente è quella di un’istituzione nel più ampio quadro della crisi che investe tutto il mondo.
Risulta ancora più chiaro oggi che, a proposito dell’abdicazione (o della «rinunzia», come qualcuno preferisce chiamarla) di Benedetto XVI al soglio di Pietro, le polemiche sul «coraggio» o sulla «viltà», sul «fallimento» o sull’«onestà», sulla «sconfitta» o sul «realismo» di Joseph Ratzinger siano del tutto fuori luogo.
Abdicare è un conto, mettersi fuori gioco è un altro. Non partecipare al prossimo conclave, come è giusto e ovvio che avverrà, è un conto; non influirvi affatto, com’è logico che non avverrà, è tutto un altro. Vedere nella «rinunzia» soltanto il dramma umano della constatazione dell’insufficienza delle proprie forze - e l’aver rilevato da parte del papa tale insufficienza può ben essere stato, intendiamoci, al tempo stesso un sincero e sacrosanto diritto e anche un preciso dovere - sarebbe un’imperdonabile ingenuità.
Siamo di fronte a un preciso disegno strategico e a un rigoroso, incisivo messaggio. Per capire di cosa si tratti, è tuttavia necessario non essere troppo distratti, e tantomeno smemorati. Ricordate Paolo VI, e «il fumo di Satana» penetrato nella Chiesa? Qualcuno rise e si chiese se il santo padre fosse in vena di horror, qualcun altro si scandalizzò e gridò alla superstizione.
Evidentemente siamo bassini, quanto a filologia e semiologia: e tendiamo a dimenticare che il linguaggio è una funzione eminentemente simbolica.
Ora, teologicamente parlando, il diavolo è - dal greco diàbolos, «divergenza», «discordia» - Maestro di menzogna e di divisione. E quel «fumo di Satana», negli ultimi anni, deve aver ammorbato parecchie stanze vaticane, come parecchi ambienti della Chiesa di tutto il mondo (né solo di essa, peraltro). Erano parecchi i vaticanisti che a più riprese, negli ultimi mesi, ci avevano avvertito che il papa era stanco e che circolava la voce che volesse «lasciare». La cosa era inusitata e quindi sembrava inaudita. Ma vi siete dimenticati dell’Angelus del 1° marzo 2009, quando Benedetto XVI ritornò alla carica con la «vecchia superstizione medievale» (come la chiamò qualcuno) del diavolo, e chiese l’aiuto della preghiera di tutti i fedeli.
Anche allora qualcuno sorrise, qualcun altro s’indignò: e nessuno o quasi notò che quel giorno era la prima domenica di quaresima, nella quale la chiesa commemora la pagina evangelica della tentazione subita da Gesù nel deserto. Inoltre, in quello stesso giorno, iniziava la XII assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, appunto iniziata la prima domenica di quaresima nella chiesa di san Paolo fuori le mura: e si era a pochi giorni di distanza dalla polemica causata da quella ch’era sembrata un’apertura troppo incauta del pontefice ai gruppi lefebvriani, quindi un attacco sia pure implicito e indiretto al Vaticano II.
Le polemiche e le divisioni in seno alla Chiesa, che erano già largamente affiorate allora, si sono in seguito aggravate e intensificate. Al punto da divenire forse intollerabili: e chissà che la goccia che ha fatto traboccare il vaso non sia stata proprio la discussione dell’11 febbraio scorso, in sede di concistoro, dove papa e cardinali erano chiamati a discutere sull’opportunità di santificare in blocco un gruppo di poveracci vittime di un’incursione turca nel Salento avvenuta nel 1480: una pagina lontana e dimenticata, rinverdir la quale per alcuni prelati avrebbe forse significato rischiare una nuova ondata di violenze e di proteste in un mondo musulmano che l’avrebbe interpretata come una malevola provocazione, mentre altri forse hanno difeso l’opportunità di quella scelta proprio in quanto gesto che ribadisce come lo «scontro di civiltà» tra mondo cristiano e Islam non è il frutto delle elucubrazioni di qualche teocon americano.
Ma uno scontro del genere, se davvero c’è stato, può aver disturbato e prostrato, oppure indignato, il papa in quanto si tratta di un ulteriore sintomo del male profondo, la divisione di una Chiesa nella quale convivono gli affaristi senza scrupoli della banca vaticana e i preti come don Andrea Gallo, i Legionari di Cristo e le suore di Teresa di Calcutta. Nella «casa di Dio», come diceva Giovanni Paolo II, ci sono tante dimore, è vero: va detto tuttavia che certe differenze sono sul serio eccessive, e pertanto certe convivenze sono difficili.
E allora, altro che resa dinanzi alle proprie forze che fanno difetto: al di là della sensazione del santo padre di sentirsi magari solo e attaccato da troppi, che può essere anche soggettivamente giustificata, qui siamo davanti a un gesto nuovo, rivoluzionario, con il quale il pontefice ha inviato un energico messaggio e ha impartito una chiara lezione alla Chiesa e al mondo. Un gesto che potrebbe anche sottintendere la necessità di cominciar a interpretare la funzione papale in un altro modo. Ad esempio rivalutando, accanto ad essa, quella sinodale: cioè conciliarista.
La storia della Chiesa potrebb’essere riassunta, per quanto riguarda il suo vertice, in un lungo duello tra la tendenza monarchica papale e quella conciliaristica fondata sull’istanza di un governo collegiale da parte dell’insieme dei vescovi: si ricorderà del resto che il papa stesso è tecnicamente un vescovo egli stesso, il vescovo di Roma, primus senza dubbio, però inter pares.
Dopo un forte momento di egemonia conciliarista, nel primo Quattrocento, la monarchia papale vinse il duello, superò la Riforma, si rafforzò con il concilio di Trento nel Cinquecento e venne ribadita in extremis nel 1870, mentre le truppe del regno d’Italia aggressore stavano entrando in Roma e il pontefice si preparava a una lunga prigionia. In quell’occasione, un papato ch’erano in molti a considerare agonizzante si munì addirittura di una nuova certezza dogmatica, quella dell’infallibilità.
Meno di un secolo dopo, il quadro era completamente cambiato: in un clima e in un contesto di ottimismo politico e morale ((l’età kennediana) e di prosperità economica dell’Occidente, il vaticano II dette spazio alle istanze di modernizzazione e di democratizzazione delle quali molta parte del mondo cattolico era portatrice.
Ora, il quadro è completamente mutato: e non a caso le celebrazioni del cinquantenario del Vaticano II hanno dato luogo a vere e proprie contestazioni e a risse anche piuttosto pittoresche tra «conservatori» e «progressisti»: ammesso che questi due termini, una volta così chiari e rassicuranti, abbiano ormai senso.
Ma, se volgiamo capire sul serio, andiamo oltre la chiesa cattolica. All’alba del XXI secolo,la Modernità è in crisi. Zygmunt Bauman parla di «Modernità fluida», cioè di una Postmodernità che è già iniziata. Ma la Modernità si era riassunta, dal XV secoli in poi, in tre elementi fondamentali: individualismo; volontà di potenza dell’Occidente; primato dell’economia, della scienza e della tecnica.
È l’Occidente-Modernità dell’uomo prometeico e faustiano che è entrato in crisi. Papa Benedetto XVI, abdicando, pone la Chiesa e il mondo dinanzi a questa realtà. La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, è stata più volte in grado d’interpretare il mutamento dei tempi.
Deve farlo di nuovo: ed è del tutto comprensibile che non sia un quasi nonagenario, che è semmai l’ultimo rappresentante del vecchio ordine ecclesiale scaturito dal Vaticano II, a guidare il rinnovamento.
Un rinnovamento che, in termini ecclesiali, equivale a una parola chiara, ma complessa, costosa, rischiosa: concilio.
Se divisione e discordia sono davvero arrivate al punto da imporre a un pontefice di abdicare, l’unica risposta a una situazione ormai insostenibile è una verifica e una ridefinizione radicale della Chiesa, delle sue istituzioni, delle sue strutture, dei suoi rapporti interni e di quelli con il mondo. Un mondo nel quale la ricchezza si va sempre più concentrando nelle mani di poche centinaia tra famiglie e lobby mentre la miseria dilaga. Un mondo nel quale non c’è giustizia, quindi non può esserci pace. Un mondo sempre più nelle mani dei più biechi tra i colleghi della gentaglia che duemila anni fa Gesù cacciò dal Tempio rovesciando i banchi su cui essa accumulava i proventi dei suoi luridi affari.
Se la magia del sacro è sconfitta
di Raniero La Valle (il manifesto, 17 febbraio 2013)
Quasi volesse non farsi rimpiangere, il papa alla fine si è lasciato andare ad una confidenza che ha svelato tutta la difficoltà che sul piano personale egli ha avuto nel vivere il Concilio come una delusione. Nella «chiacchierata» in cui ha raccontato come lui «ha visto» il Vaticano II, c’è forse la chiave per capire come non gli bastassero più le forze per guidare una Chiesa che, come aveva detto nel 2005 nel suo primo discorso alla curia, nel Concilio aveva avuto la sua vera «discontinuità» riconciliandosi con l’età moderna, quella modernità che egli non ha invece ancora accettato e che patisce come «relativismo».
Questo risvolto personale del suo difficile rapporto col Concilio, che già era venuto fuori in un suo discorso estivo, in montagna, al clero del Triveneto, quando aveva negato che dal Concilio potesse scaturire «la grande Chiesa del futuro», è emerso con grande sincerità nel suo discorso di giovedì a un altro clero particolare, quello di Roma. Al presbiterio di cui, come vescovo di Roma, è il capo, Benedetto XVI ha voluto parlare come se fosse uno dei vescovi che aveva partecipato al Concilio, sul filo dei ricordi personali, piuttosto che con «un grande, vero discorso» da papa.
Da questa confidenza risulta che nel vissuto di Ratzinger non c’è stato un solo Concilio, ma ci sono stati diversi concili. Il primo, l’unico che gli sia veramente piaciuto, è stato quello dell’entusiasmo iniziale, quando «speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste». Il secondo è quello soprattutto condotto dall’«alleanza renana», cioè dai vescovi francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che vi hanno introdotto i temi «più conflittuali», come quello del rapporto tra papa e vescovi (con quella discussa parola, «collegialità», a cui forse Ratzinger avrebbe preferito «comunione»), la «battaglia» sul rapporto tra scrittura e tradizione, la «lite» sull’esegesi che tenderebbe «a leggere la scrittura fuori della Chiesa, fuori della fede», l’ecumenismo.
Poi c’è stato il terzo Vaticano II, in cui «sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio» gli americani degli Stati Uniti e dell’America Latina, l’Africa, l’Asia: ed è stata la fase della responsabilità per il mondo, della libertà religiosa, del dialogo tra le religioni, per cui «sono cresciuti problemi che noi tedeschi all’inizio non avevamo visto»; e sono nate le grandi questioni del rapporto non solo con gli ebrei, ma con l’Islam, il buddismo, l’induismo; e qui la cosa che è ancora «da capire meglio» è il rapporto tra la sola vera religione e le altre di cui un credente non può pensare, secondo il papa, che «siano tutte varianti di un tema», anche se le esperienze religiose portano «una certa luce della creazione». Molti problemi aperti dal Concilio sono dunque ancora «da studiare» e molte applicazioni non sono ancora complete, sono «ancora da fare».
Ma la contraddizione principale che il papa dice di aver vissuto, è stata tra il «vero Concilio», che era quello dei padri e il Concilio dei media. Il primo era un Concilio della fede che si realizzava nella fede, il secondo era il Concilio dei giornalisti che si realizzava non nella fede, ma nelle categorie politiche di una lotta per il potere nella Chiesa. Starebbe nel fatto che il Concilio giunto alla Chiesa, reso accessibile a tutti, fosse quello dei giornalisti e non quello «reale», la vera causa della crisi della Chiesa: «tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata»; sarebbe questo Concilio dei media che avrebbe invaso le chiese, profanato la liturgia, negato il culto, trasformato il «popolo di Dio» nella «sovranità popolare», messo fine alla religione del sacro, intesa come «cosa pagana».
Sicché il vero Concilio, l’ultimo, starebbe arrivando ora, dopo 50 anni, che sono i decenni in cui i vescovi se ne sono stati a casa, la Chiesa è stata sottoposta alla robusta cura romana, la controriforma è giunta a buon punto, la liturgia restaurata e i giornalisti, non dovendo più misurarsi con la missione e la fede della Chiesa, sono tornati a fare i «vaticanisti».
È un peccato che su questo punto cruciale dei media il Papa sia male informato e forse, allora, non abbia capito il Concilio. Ed è singolare che oggi si attribuiscano tutti i mali della Chiesa a quelli che, nelle due prime parole del primo documento del Concilio, Inter mirifica , erano definiti «cose meravigliose», cioè appunto i mezzi di comunicazione sociale. È vero invece che si è rischiato che ci fossero due Concili: un Concilio dei padri, e un Concilio dei media.
Ma questo era il progetto della Chiesa preconciliare, che aveva creduto di nascondere il Concilio chiudendone le porte e decretandone il segreto, lasciando ai giornali la sola via dello «scoop»; ma questo finì subito, all’inizio della seconda sessione, quando il segreto fu rotto, e il Concilio irruppe nella coscienza dei fedeli e nel popolo di Dio, che nessuno mai pensò di paragonare al popolo sovrano, come nessuno interpretò le discussioni teologiche sulla sacramentalità dell’episcopato e la successione dei vescovi al collegio degli apostoli come una «lite» o lotta di potere, come ora il papa rivela che per molti sia stato, dicendo addirittura che nel Concilio dei padri «forse qualcuno ha anche pensato al suo potere».
E quello che allora il giovane prof. Ratzinger non vide fu che tra i giornalisti che «fecero» il Concilio c’erano uomini di grandissima fede: per esempio l’abbé Laurentin, mariologo, per Le Figaro , Jean Fesquet e poi Nobécourt per Le Monde , Grootaers per l’Olanda, Juan Arias per El Pais , e tra gli italiani cristiani come Giancarlo Zizola, Ettore Masina, Lamberto Furno, e anche Gianfranco Svidercoschi, che poi addirittura diventò vicedirettore dell’ Osservatore Romano ; e padre Caprile della Civiltà Cattolica ; e padre Roberto Tucci, oggi cardinale, e mons. Clemente Riva, poi vescovo ausiliare di Roma, che ogni giorno informavano i giornalisti italiani dei contenuti, e non solo delle coreografie, dei lavori.
Quanto a me, se è lecito aggiungere ricordi a ricordi, papa Giovanni scrisse sul suo diario, dopo avermi ricevuto una mattina dell’agosto 1961: «Ho ricevuto il giovane (30 anni!) direttore dell’ Avvenire d’Italia , una promessa per la causa cattolica»; e L’Avvenire d’Italia, a spese della Santa Sede, fu mandato a tutti i padri conciliari per tutto il corso del Concilio, e non credo che ciò fosse per spiantare la Chiesa.
Ma io ora sono grato al papa che ci lascia, perché andandosene ci dice che proprio questo è il problema: l’attuazione del Concilio, la fede per l’età moderna, una Chiesa non incapsulata nella magia idolatrica del sacro.