L’UOMO NON È SOLO MATERIA
LA CHIESA E LE RESPONSABILITÀ PER IL FUTURO
di CAMILLO RUINI (Avvenire, 14.07.2008)
L’articolo pubblicato ieri da Aldo Schiavone su La Repubblica, con il titolo «La Chiesa nel mondo che cambia», rinnova con forza sia la critica sia la domanda che l’autore ha già rivolto più volte alla Chiesa, a proposito del suo rapporto con la società e la cultura del nostro tempo. Può essere utile perciò tentare una risposta, che tenga conto di entrambi gli aspetti. Per intenderci è bene però andare subito al cuore del problema e cioè alla tesi di Schiavone che le istituzioni e le strutture umane, alla fine l’uomo stesso, sono riconducibili «alla storia e solo alla storia». A partire da qui egli ritiene sbagliata e inaccettabile quella che gli appare come «l’intransigente chiusura cattolica su tutte le questioni che implicano un rapporto davvero trasformatore fra tecnica e naturalità umana ».
Ora, se l’uomo fosse realmente ’soltanto storia’ potrebbe essere difficile non convenire in qualche misura con Schiavone: dico ’in qualche misura’ perché proprio le vicende e le esperienze della storia, considerate nella loro concreta realtà e non secondo un unilaterale modello evolutivo-progressista, indicano come determinate istituzioni e strutture, ad esempio la famiglia monogamica, siano state e rimangano fondamentali per la formazione della persona, l’umanizzazione della convivenza e la stessa dinamicità dello sviluppo socio-economico.
Ma proprio la tesi che l’uomo in ultima analisi sarebbe solo storia è in se stessa estranea e incompatibile rispetto alla fede cristiana, oltre che, a mio parere, ad una seria e rigorosa fondazione dell’umanesimo. Schiavone evidentemente non vede e non condivide una tale estraneità, e per questo si sente autorizzato a valutare, criticare e cercare di orientare i comportamenti della Chiesa a partire da un principio (’l’uomo è soltanto storia’) che in realtà alla Chiesa rimane esterno, anzi, ha ben poco a che fare con essa.
Ritorniamo al punto: l’uomo è certamente storia, in quanto nasce, si sviluppa, vive nella storia, che per lui è qualcosa di intrinseco e di costitutivo, non certo di esterno. Ma l’uomo, per la fede cristiana, è anche e ancor prima ’immagine di Dio’, in concreto partecipe della non riducibilità di Dio alla natura come alla storia. E per questo ha un senso che Dio chiami l’uomo alla vita eterna, ben aldilà delle vicende della storia. Possiamo aggiungere che senza questa peculiarità dell’uomo non sarebbe giustificato, anzi non si sarebbe nemmeno costituito, quell’insieme di elementi etici, giuridici, filosofici, estetici..., che formano l’ossatura della nostra civiltà e ai quali, nella sostanza, nessuno vorrebbe rinunciare. D’altra parte Schiavone riconosce cordialmente che senza il contributo cattolico non è possibile dar vita a una ’etica forte’ adeguata alle responsabilità che dovremo assumerci per il futuro della nostra specie. Al riguardo egli contrappone l’atteggiamento aperto e coraggioso che la Chiesa avrebbe assunto sui grandi temi sociali, dopo «la vittoria sul comunismo» al suo arroccarsi sull’«ordine naturale» in ambito etico-antropologico e chiede pertanto che anche su questo terreno la Chiesa abbia il coraggio e la lungimiranza di aprirsi.
Penso di poter rispondere che anche la Chiesa avverte profondamente le comuni responsabilità per il futuro gravido di radicali novità che si fa avanti velocemente. Un appello come quello di Aldo Schiavone non la lascia dunque in alcun modo indifferente. Per rimanere però al confronto critico che egli fa tra gli atteggiamenti della Chiesa, aperti in campo sociale e chiusi in campo antropologico, un’osservazione viene spontanea, anche a prescindere da varie altre precisazioni che mostrerebbero come questa contrapposizione - abbastanza di moda anche in ambienti cattolici - sia più apparente che reale. Schiavone stesso afferma che l’apertura della Chiesa sui temi sociali sarebbe arrivata dopo la vittoria sul comunismo. Lascio a lui questa valutazione, ma è certamente vero che la caduta del comunismo ha, per così dire, sgombrato il campo dal rischio di un fatale fraintendimento. Perché non chiedersi allora - in maniera analoga - se la condizione base per un atteggiamento più serenamente aperto da parte della Chiesa in ambito antropologico non sia proprio il superamento di quel riduzionismo del soggetto umano alla natura e alla storia (per Schiavone alla storia, che assorbe in sé anche la natura) che oggi invece vorrebbe presentarsi come il punto più alto e più dinamico dell’attuale civiltà? In fondo si tratta, in entrambi i casi, di riconoscere che l’uomo non è solo materia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La Chiesa nel mondo che cambia
di Aldo Schiavone (la Repubblica, 12.07.2008)
Mai come ora la voce e la testimonianza della Chiesa sono state ascoltate e vissute dalla sinistra italiana, e più in genere da tutti coloro che non si riconoscono direttamente nel magistero ecclesiastico, in modo così ambivalente, per certi versi addirittura contraddittorio.
Questa oscillazione di giudizio - di cui proprio negli ultimi giorni, e ancora nel doloroso caso di Eluana Englaro, abbiamo visto nuovi evidenti segni - sta diventando un autentico scandalo del nostro tempo, nel significato originario di questa bellissima parola evangelica, e cioè un ostacolo e un inciampo - non solo intellettuale, ma etico - che riguarda certo noi interpreti, ma coinvolge anche e in primo luogo la stessa dottrina cattolica, che, come tutte le concezioni religiose, non smette di evolversi e di trasformarsi.
Da un lato, i continui e forti richiami del papa e dei vescovi sul dovere dell’accoglienza nei confronti degli immigrati, sull’ accettazione consapevole di chi è diverso, contro ogni forma di egoismo culturale e sociale; e in senso più ampio, sulla necessità di una correzione morale dell’economia, nel nome di un inderogabile principio di solidarietà (e diciamo anche di eguaglianza) universale che non esita, in alcuni casi, ad assumere i toni e i contenuti di una vera e propria drastica critica all’ordinamento capitalistico del mondo: con una potenza di concetti che ormai, fuori da questi enunciati, abbiamo purtroppo del tutto perduto altrove. Una Chiesa dal lato degli indifesi, delle vittime innocenti del mercato totale, delle nuove plebi globali; una Chiesa cui la vittoria sul comunismo sta consentendo di esprimere senza più preoccupazioni di ruolo e di schieramento tutte le potenzialità emancipatrici del proprio messaggio.
Dal lato opposto, l’ intransigente chiusura cattolica su tutte le questioni che implicano la possibilità di un rapporto davvero trasformatore fra tecnica e naturalità umana - dal più elementare controllo delle nascite alla più sofisticata bioingegneria - e su quelle che riguardano la possibilità di una scelta sui confini della vita.
L’immagine, insomma, di un cattolicesimo prigioniero di una visione metastorica e sacralizzata della natura, in perenne e lacerante conflitto con la propria epoca, portato a vedere in rapporti e pratiche sociali come la famiglia, il matrimonio, la sessualità - per non dire della stessa vita della specie - il riflesso di un presunto "ordine naturale" che dovrebbe confinare la nostra civiltà in una sorta di eterno e ripetitivo mimetismo del trascendente; mentre per ognuna di queste istituzioni o strutture è sempre più evidente che siamo unicamente di fronte al risultato provvisorio e modificabile di processi evolutivi, sia culturali, sia biologici: insomma, alla storia e solo alla storia.
Né è accettabile la risposta - del resto facilmente prevedibile - che questa duplicità di atteggiamenti sarebbe solo il prodotto di una deformazione laicista, e che essa non dipenderebbe da altro se non dalle diverse attitudini con cui si può guardare - da chi le è lontano - alla dottrina della Chiesa, che sarebbe invece, per parte sua, assolutamente univoca e coerente, arroccata intorno alla difesa di un unico principio, per quanto declinabile in modi diversi: l’inviolabilità e la dignità della vita e della persona in ogni sua forma, e con essa, del retroterra naturale che le fa da presupposto.
Si tratterebbe infatti di una replica non convincente. Perché quel che chiamiamo "persona" non è un concetto astratto, e non è dato una volta per tutte, in eterno - come ancora sembra sostenere la Chiesa - ma è esso stesso un esito storico, che cambia e si trasforma, come l’ umanità cui si riferisce. E oggi quell’ espressione - persona umana - esprime, nelle condizioni storiche date, un insieme di domande, di attese, di bisogni, di stati mentali, di differenze, di potenzialità di vita la cui piena valorizzazione e soddisfazione richiede non solo equità sociale e disciplinamento etico dell’economia, ma anche il superamento di quella soglia di "naturalità" che la Chiesa vorrebbe invece preservare come inviolabile.
In altri termini - e per rimanere su un piano elementare e immediato - senza massicci programmi di contraccezione è impossibile tutelare la "persona" di moltissime donne africane, o cinesi, o indiane; esattamente come la "persona" di molte donne e di molti uomini europei e americani non può essere valorizzata e difesa senza un’idea del rapporto fra sessualità, affettività e matrimonio che abbia rotto con un modello che non è più "naturale", di quanto lo sia un abito o una città, ma riflette solo una storia che ha smesso di appartenerci.
E questo vale anche per ogni forma di controllo tecnologico della vita e della morte, che dipendono totalmente dalla cultura, e non dalla natura. Rendersene conto, non vuol dire arrendersi al capriccio di un individualismo desiderante senza freni e senza vincoli, ma solo riconciliarsi con un’esperienza intellettuale e sociale più matura per poterla regolare con norme migliori.
Se le cose stanno così, abbiamo forse toccato qualcosa di importante, che si addensa al fondo del pensiero cattolico: qualcosa che se non è una vera e propria contraddizione, tuttavia le si avvicina molto. Voglio dire, un’altra importante traccia di quell’ atteggiamento ambivalente verso la modernità, i suoi problemi, le sue conquiste e le sue prospettive, che ha segnato tutta l’ elaborazione teorica e dottrinaria della Chiesa, dal Concilio Vaticano II in poi.
Attenzione però: questa vicenda non riguarda soltanto chi si riconosce nella fede; coinvolge al contrario tutti noi. Il mondo che ci aspetta domanda un’etica forte, adeguata alle responsabilità che dovremo assumerci, rispetto al futuro della nostra specie, e del pianeta che la ospita. Sarebbe impossibile credere che nella formazione di questa grande impalcatura morale potremo fare a meno del contributo cattolico, e della sua lunga consuetudine universalistica.
Il cristianesimo è una religione d’amore, che fin dal suo esordio ha radicalmente problematizzato e capovolto il legame storico fra monoteismo, politica e violenza; è la religione di una socialità rivoluzionata. E di questo noi abbiamo un grande e crescente bisogno. Dobbiamo perciò, tutti insieme, riuscire a creare le condizioni di un dialogo nuovo, in cui la Chiesa sappia immettere più profetismo e meno dogmatica (questo è davvero il momento di farlo), e chi non si colloca all’interno del suo insegnamento sappia evitare di confondere la convinzione nell’inevitabile storicità di ogni proprio assunto con l’adesione a un relativismo superficiale e corrivo. Non resta che da iniziare.
Inchiesta su Pilato.
I 2000 anni di solitudine dell’uomo che scelse l’arte laica del dubbio.
Un saggio di Aldo Schiavone indaga sull’incontro tra il Procuratore e Gesù: l’istante in cui iniziò la modernità
Il Nazareno, lacero e scalzo, sa ciò che accadrà mentre il Prefetto non conosce il suo destino. In quelle poche ore cruciali entrano in scena la terra e il cielo, il potere temporale e il sacro
di Ezio Mauro (la Repubblica, 16.02.2016)
TUTTO il futuro del mondo si concentra nello spazio imperiale del pretorio, a Gerusalemme, tra l’alba e l’ora sesta del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. C’è un uomo legato ai polsi dopo una notte passata davanti al Sinedrio che lo accusa di blasfemia e lo ha mandato a prendere negli orti del Getsemani col buio e i bastoni, come un brigante. Di fronte siede il Procuratore romano della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato. Dietro una tenda, fuori, raccolti nel cortile di pietra del Gabbatà aspettano i sacerdoti del tempio, i 71 sinedriti, i loro servi, molti curiosi, forse qualche seguace silenzioso del galileo incatenato.
Si è detto figlio di Dio, i giudei chiedono che Roma riconosca la bestemmia e pronunci la condanna, che spetta solo a lei. Nella stanza del pretorio, uno scriba raccoglie sulla pergamena l’interrogatorio, domande e risposte che per la prima volta fisseranno i confini del cielo e della terra.
E che passando oltre la tenda di bocca in bocca finiranno nei quattro Vangeli, negli apocrifi e nelle leggende, fino a risuonare autentiche e misteriose anche oggi, duemila anni dopo.
Il pretorio diventa così il luogo e il momento - dunque il punto della storia - dove il finito e l’infinito s’intersecano pubblicamente trasformando quel processo in un dialogo universale ed eterno, rovesciando anche i ruoli dei due attori del dramma: il nazareno ha condotto tutta la sua vita sapendo che sarebbe arrivato a questo appuntamento, lo ha temuto e insieme lo ha preparato, perché la curva della sua biografia si inserisse compiutamente nella parabola della profezia. Lui, lacero e scalzo, sa tutto quel che accade, meno il sentimento di paura della morte che comincia ad assalirlo, sconosciuto anche se messo nel conto da sempre. Il Prefetto non sa niente, se non la regola astratta del diritto romano, l’orizzonte della maestà imperiale che deve far rispettare fin quaggiù, a un mare di distanza da Cesare. Uno pronuncia ogni parola sapendo che servirà a compiere il suo destino. L’altro non capirà fino alla fine quale fato misterioso lo ha portato fin qui e perché proprio lui sia diventato artefice di un disegno che non gli appartiene ma di cui porterà il peso perenne.
Questa scena dura da sempre non perché fissa l’istante decisivo dell’antichità ma perché è uno degli atti d’inizio della modernità. Ponendo dei limiti alla potestà umana e alla pretesa divina, infatti, si esce dall’indefinito dove il potere dispiega se stesso finché la forza glielo consente, o dal buio indistinto della paura degli dei, si ragiona sugli ambiti reciproci e inevitabilmente, subito dopo, sui diritti e i doveri che ne nascono.
Proprio qui si muove l’ultimo studio sul processo a Gesù, condotto da Aldo Schiavone che mette al centro di tutto la figura di Ponzio Pilato (Einaudi). Il prefetto non può sapere che il processo contiene la scintilla dell’universale, quando entra nel pretorio dove lo aspetta l’uomo incatenato. Ha già provato, fuori, a disfarsi del processo prima di cominciare, ma la folla gli ha ricordato che tocca a lui giudicare sulla vita e sulla morte. Ora domanda nel Vangelo di Giovanni: «Sei tu il re dei giudei?».
E qui c’è il primo scarto, perché l’imputato non bada a difendersi e nemmeno a rispondere al suo giudice, ma a sorpresa cerca l’uomo: «Tu dici questo da te stesso, o altri te l’hanno detto di me?». «Sono io forse giudeo? - replica il Procuratore infastidito -. La tua gente e i sacerdoti ti hanno consegnato a me». È il secondo tentativo di Pilato di proclamare la sua estraneità al caso. Ma il galileo di fronte a lui lo spiazza un’altra volta, introducendo il soprannaturale come testimone al processo: «Il mio regno non è di questo mondo. Se lo fosse i miei servi avrebbero combattuto perché non venissi consegnato ai giudei. Ora il mio regno non è di quaggiù».
Entrano in scena la terra e il cielo, è l’irruzione del sacro, che come nota Schiavone depoliticizza Dio garantendolo disinteressato ad ogni potere temporale: ma insieme - aggiungo - sacralizza il processo, introducendo il canone ultraterreno.
Pilato non si allontana, si avvicina, tentando di restare finché può sul nucleo criminale della lesa maestà imperiale: «Dunque, tu sei un re?». «Tu lo dici» risponde Gesù, spostando i piani un’altra volta, come fosse interessato a un confronto più intimo e personale con l’uomo che ha davanti, dimenticando il Procuratore: «Per questo sono nato e venuto nel mondo, per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità sta in ascolto della mia voce ».
E qui c’è la risposta più famosa ed eterna di Pilato: «Che cos’è la verità?». Nel suo Crucifige Gustavo Zagrebelsky scrive che le parole provano il disprezzo di Pilato per qualsiasi cosa quel galileo pretenda di insegnare. Per Giorgio Agamben (Pilato e Gesù) il Prefetto vuole invece capire qualcosa in più di quel regno che il profeta sta testimoniando. Per Schiavone il Procuratore vuole spezzare la vertigine dell’assoluto che ha rapito il suo prigioniero.
Ma c’è un punto: Pilato non cambia argomento, non sposta il tono dell’interrogatorio. Circoscrive l’immensità della questione, tentando di governarla, ma la rilancia, come se domandasse: dove mi porti, cosa stiamo facendo, che storia ho davanti a me, qual è la tua vera dimensione? Quel “qualcosa” che cambia la natura di un caso giudiziario, tenendolo aperto nei secoli, comincia esattamente qui, dove s’inizia il travaglio del Procuratore di Giudea.
Marco parla a questo punto dello spaesamento di Pilato, che «restò meravigliato», dunque intimamente toccato dal “qualcosa”. E Matteo, lui soltanto tra i quattro evangelisti, lo spiega: la moglie del Procuratore, Procla, spinta dall’angoscia gli manda un messo nel pretorio, scongiurandolo: «Nulla ci sia tra te e questo giusto, perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua».
Il travaglio diventa turbamento. Per liberarsene Pilato fa ricorso alla politica e alle sue tecniche. Poiché esisteva la tradizione per il Prefetto di liberare un prigioniero nei giorni della festività, gioca quella carta proponendo una scelta che ritiene obbligata per i giudei: o il profeta galileo, inoffensivo, o un brigante di nome Barabba, sedizioso. Ma a sorpresa la folla sceglie Barabba.
C’è ancora un tentativo di non decretare la morte del galileo. Pilato decide infatti di farlo flagellare, di cingergli il capo con una corona di spine e di rivestirlo di un manto purpureo, mostrando ai giudei quella caricatura di re, umiliato e deriso, sanguinante e ridotto a puro corpo martoriato: «Ecco l’uomo», dirà infatti alla gente, cercando di muoverla a compassione. La risposta è il “Crucifige”. «Prendetelo e crocifiggetelo voi», riprova a dire il Governatore. Ma qui, i giudei giocano a loro volta la prima carta politica: «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire perché si è fatto figlio di Dio». È la carta teologica estrema, la pretesa della discendenza divina che entra nel tribunale di Cesare, doppia blasfemia, religiosa per gli ebrei, politica per i romani.
Ecco perché Pilato «prova timore sempre più forte». La costrizione politica alla condanna si fa stringente, l’oscura presenza del sacro diventa inquietante. Soltanto Matteo racconta la lavanda delle mani, il Prefetto che chiede dell’acqua, si lava davanti alla folla e invece di proclamare con coraggio l’innocenza del nazareno dichiara per paura la propria innocenza, scaricando l’onere di quanto sta per accadere: «Non sono responsabile del sangue di costui: vedetevela voi».
La scena è poco credibile per Schiavone, emblematica per la tradizione popolare. Ma la scissione tra l’obbligo politico e la convinzione privata è ormai evidente per tutti, dichiarata. Tanto che Pilato abbandona il registro giudiziario, torna da Gesù e gli rivela il suo tormento: «Di dove sei tu?». Non è la Galilea la risposta, perché la domanda cerca un’altra geografia, spirituale: qual è il tuo mondo, chi ti manda, di che sostanza sei fatto? Gesù tace, come se lo guardasse avvicinarsi, passo dopo passo.
L’unica via che rimane a Pilato è il rifugio nell’autorità smarrita: «Non vuoi parlarmi? Lo sai che ho il potere di mandarti via libero come quello di mandarti sulla croce?». «Su di me non avresti alcun potere se non ti fosse dato dall’alto - replica il nazareno -. Perciò più grande è il peccato di chi mi consegna a te». È quasi un’assoluzione preventiva. Secondo Giovanni, Pilato prova un’ultima volta a liberare il prigioniero, dopo averlo mostrato alla folla: «Ecco il vostro re». La risposta è il “Crucifige”, con una minaccia politica esplicita: «Se lo lasci libero, non sei amico di Cesare». Non resta che la consegna, e la strada del Calvario.
I due uomini che si erano avvicinati fino all’imprevedibile tornano ad allontanarsi, per sempre. Ma per Schiavone quel potere che al Procuratore è «dato dall’alto» non chiama in causa Cesare e la sua delega bensì Dio e il suo disegno. Anche gli atti del Prefetto, dunque, compreso l’ultimo che consegna Gesù alla croce, farebbero parte di un disegno ultraterreno che annullerebbe la libertà di scelta di Pilato e con lui dell’impero padrone del mondo, qui semplice strumento del volere divino.
Ma Schiavone sfugge a questa lettura strumentale, perché si convince di un segreto nascosto nelle pagine di Giovanni: la libera scelta del Governatore di assecondare il cammino di Gesù verso ciò che il prigioniero considera inevitabile. È un patto tacito con Gesù, un’accettazione da parte del Prefetto pagano del mistero del sacro, o almeno della potenza dell’ignoto che si trova di fronte. Così Pilato riscatta nella scelta nascosta l’immagine millenaria di ambiguità, la condanna eterna alla codardia.
Quello che tutti chiamano l’enigma Pilato si spiegherebbe dunque col segreto, in una tautologia della storia, come se fosse impossibile sciogliere la figura del Procuratore dalla costrizione di modelli esemplari, la viltà millenaria da un lato, dall’altro l’alleanza nascosta con l’uomo-Dio che vuole morire per riscrivere le storia secondo le Scritture, sapendo che altrimenti non darebbe vita al cristianesimo: perché invecchierebbe invece di risorgere, liberato - secondo l’immagine di Caillois - non dagli angeli del Sepolcro ma dalla sentenza di un Prefetto.
La modernità di Pilato sta invece, io credo, proprio nella solitudine della scelta, nell’assunzione del conflitto e nell’accettazione del dubbio, in una sorta quindi di proto-laicità inconsapevole ma testarda che prova a contrastare la forza incombente della pubblica ragion di Stato con la coscienza privata dell’ingiustizia e l’obbligazione della volontà divina con il sentimento umano dell’innocenza.
Forse per la prima volta da quando rappresenta Cesare, il Procuratore Pilato e l’uomo Pilato entrano in conflitto, per cinque ore, fino all’ora sesta di quel venerdì pasquale di Nisan, che nelle pagine di Bulgakov il Governatore definisce «un mese terribile», quell’anno. Poi vince la realpolitik. Ma da duemila anni, a partire da quel seggio pretorio, così va il mondo.
Ma Pilato non si lavò le mani: un documentato saggio di Aldo Schiavone riesamina la figura del governatore della Giudea
di Claudio Strinati (il messaggero, 23.01.2016 - ripresa parziale)
Di uno che non vuole responsabilità scaricando tutto sugli altri, si dice che fa come Ponzio Pilato. Se ne lava le mani! Aldo Schiavone ha scritto un libro intero (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, euro 22) per spiegare il senso profondo del celebre aneddoto, raccontando la vera vicenda del quinto governatore della Giudea per come è deducibile da un attento scrutinio dei testi antichi su questo personaggio realmente vissuto e operante all’ inizio del primo secolo. Ha riletto i Vangeli, ha riletto storici e saggisti come Flavio Giuseppe, Filone di Alessandria, Tacito, Tertulliano; ha esaminato ogni possibile traccia dell’epoca col fine di approdare alla ricostruzione di Ponzio Pilato per entrare sempre più a fondo nella reale conoscenza della figura storica del Cristo, a prescindere dall’essere credenti o non credenti. Che cosa può essere detto di filologicamente documentato quando si tocca un tema di tale delicatezza e complessità?
LE DOMANDE Nel corso del tempo sono state tante le risposte a un simile quesito e in tal senso l’ incertezza continuerà a regnare sovrana in saecula saeculorum ma bisogna dire che ogni passaggio dei Vangeli è qui seriamente scrutinato da Schiavone per estrarne una verità o almeno una verosimiglianza degna di esame e cruciale è proprio l’ episodio del lavaggio delle mani.
Ma che cosa è successo veramente? si chiede l’ autore che dà per certo come gli episodi della Passione di Cristo narrati nei Sinottici e nel Vangelo di Giovanni siano in sostanza realmente accaduti, dato che prende tali scritti come testimonianze filologicamente attendibili, da interpretare certo, ma basate su avvenimenti veri.
È l’ evangelista Matteo a raccontare il momento cruciale della storia e Schiavone lo commenta da par suo. Dopo tre rifiuti da parte dei giudei di liberare Gesù, Pilato si scoraggia: “presa dell’acqua si lavò le mani di fronte alla folla dicendo: Io sono innocente di questo sangue, vedetevela voi! E tutto il popolo rispondendo disse: il suo sangue su di noi e sui nostri figli”.
Schiavone argomenta : “non si può credere a una sola parola di questo racconto”. [...].
Ponzio Pilato, ipotesi e illazioni nella nebbia
Aldo Schiavone, «Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria», Einaudi. Storicamente inafferrabile, il ruolo svolto dal funzionario romano nella passione di Gesù è oggetto di un’analisi oscillante, troppo possibilista
di Carlo Franco (il manifesto, 07.02.2016)
Tra storia e memoria muove l’ultimo libro di Aldo Schiavone: Ponzio Pilato Un enigma tra storia e memoria (Einaudi «Storia», pp. 174, euro 22,00). Centoquaranta pagine per ragionare sul funzionario romano che condannò a morte Gesù verso l’anno 30 della nostra era, sotto il regno di Tiberio. Lo studio storico dei resoconti della passione nei vangeli fronteggia difficoltà gravissime, forse insormontabili. Lo dimostrano le divergenze della ricerca moderna: ogni fase, ogni parola della vicenda è stata discussa, accettata, respinta, riscritta.
Una recente sintesi ha avuto bisogno, per fare il punto, di oltre ottocento pagine (The Trial and Crucifixion of Jesus. Texts and Commentary, a cura di D.W. Chapman e E.J. Schnabel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015).
Il libro di Schiavone è invece agile: la documentazione è confinata in appendice, insieme alla corposa bibliografia, e i tecnicismi sono poco invadenti. La scrittura, condotta con mano sicura, si apre a sviluppi narrativi. L’indagine non si limita ai problematici dati fattuali, ma si insinua nel non detto dei testi, e soprattutto nelle intenzioni dei protagonisti. Ne consegue, pur con cautele, che il piano di «ciò che avvenne veramente» è spesso superato, a favore di inferenze suggestive e però irrimediabilmente speculative. Osservazioni utili offre l’analisi della prassi amministrativa romana, determinata ove possibile a governare con il consenso delle élites (La Giudea romana e il lavoro del secondo prefetto). Ma il riflesso di questi criteri non si lascia cogliere facilmente nella vicenda di Gesù. La tradizione su Pilato induce a credere che «il prefetto non doveva capire la religiosità giudaica»: lo mostrano gli incidenti seguiti all’introduzione a Gerusalemme di stendardi con l’effigie dell’Augusto (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2.9.2-4) o alla collocazione nel Tempio di scudi dorati in onore di Tiberio (Filone di Alessandria, Ambasceria a Gaio, 38, 299-305).
Giustamente Schiavone indaga che cosa Pilato poteva sapere sulla storia e la cultura della Giudea: è possibile, ma non sicuro, che gli giungesse l’eco della storiografia greca, che andò poi a innervare l’acida digressione di Tacito (Storie, 5. 2-10). Ignote le sue idee: che condividesse il pragmatico scetticismo dell’aristocrazia romana è però ragionevole. Soccorre l’immaginazione, che è virtù dello storico, da usare con prudenza.
Posto che «non sappiamo in quale lingua Pilato e Gesù si parlassero», l’ipotesi che il prefetto sapesse l’aramaico (come nel film The Passion) è destinata a restare tale. Le incertezze sullo svolgimento degli eventi nel pretorio di Gerusalemme sono, come è noto, fortissime: per ricostruire e interpretare gli atteggiamenti del prefetto, Schiavone attinge a un piano «psicologico», velando il dettato con frequenti formule attenuative.
Nella sezione centrale del libro, dedicata all’interrogatorio (non un «processo») di Gesù, si incontra una sequenza di «è ragionevole supporre», «è probabile», «non vi è ragione per non», «non vi è motivo di dubitare». Essa conduce oltre la soglia del conoscibile, e dello storicamente accertabile. Le riflessioni su Gesù e la sua «certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia», su Pilato, che «è possibile fosse già rimasto colpito dalla predicazione di Gesù», la cui personalità «doveva essergli apparsa, nel confronto diretto, perturbante e inattesa», accompagnano una ricostruzione indiziaria, che approda a toni talora pensosi: il dialogo tra i due «è di una potenza simbolica senza eguali», e getta da secoli una luce «abbagliante in modo quasi insopportabile». Ma dopo aver definito quella scena «storicamente persuasiva», Schiavone aggiunge enigmaticamente: «Che sia anche acceduta - nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo - potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante».
Il lettore resta perplesso: si intende che il contenuto di «verità» del soggetto è inafferrabile. Sequenze di possibilistici verbi al futuro scandiscono passaggi importanti: il grido dei sacerdoti davanti alla proclamazione di Gesù come figlio di Dio «avrà sicuramente colpito il governatore», il quale «lo avrà comparato d’istinto al comportamento del prigioniero» e «si sarà chiesto» se Gesù fosse uno dei «cosiddetti uomini divini» così frequenti in Oriente.
Che le questioni del giudaismo fossero estranee alla mentalità romana, che Pilato non fosse «in sintonia con la religione ebraica» è credibile, come si è detto; più difficile pensare che egli «subito si era reso conto della diversità di Gesù»: tale è il senso del racconto evangelico, che però ha a che fare con la memoria o con la teologia più che con i fatti. Le sottili esegesi proposte da Schiavone oscillano tra la ricerca storica e la filosofia, se non la teologia.
Certo, il racconto dei vangeli non è un «documento», ma un intreccio di memorie orali, profezie «compiute», rielaborazioni successive. Coerentemente, Schiavone non attribuisce valore storico assoluto agli eventi che analizza. E il carattere non confessionale del suo discorso permette qualche provocazione. Così circa la scena dell’Ecce homo: «Non si può credere a una sola parola di questo racconto».
Sullo sfondo sta la critica neotestamentaria: il racconto della passione fu curvato dalla tradizione in una forma che aggravava la responsabilità giudaica e alleggeriva quella romana. Schiavone attribuisce assoluta importanza a eventi di cui pure invita a dubitare radicalmente. Si veda la famosa domanda di Pilato sull’essenza della «verità» (Giovanni, 18.38). «Verità» è parola tipicamente giovannea, però si esita a considerare la frase solo una «falsificazione della memoria».
A tratti il discorso si fa ispirato: «nella sua disadorna essenzialità, la prosa di Giovanni raggiunge risultati di grande efficacia espressiva. Nulla, se non un corpo ferito e oltraggiato: e in quel corpo, la maestà e l’onnipotenza di Dio, scempiate dai carnefici».
Si percepisce un moto alterno, che segue e poi rigetta la logica del testo analizzato: in una domanda di Pilato a Gesù si coglie «un’esplicita risonanza metafisica», propria di un uomo che «non senza apprensione, sta intuendo la presenza dell’ignoto innanzi a lui». Ma Pilato la ha «pronunciata davvero»? Molto spinge a «ritenerlo possibile». Però circa la successiva risposta di Gesù si annota: «è possibile che Gesù non abbia mai pronunciato quelle parole».
Il calibratissimo ma sfiancante oscillare dell’argomentazione coinvolge anche la filologia. La domanda di Pilato ai giudei («Crocifiggerò il vostro re?»: Giovanni, 19.15) è forse un’affermazione: «Quel punto interrogativo è probabilmente l’aggiunta di un copista troppo zelante, se non è stata voluta dallo stesso autore del Quarto vangelo». La filologia è destrutturata: giacché se è vera la prima ipotesi, il testo potrebbe essere corretto, ma è strana l’idea di «correggere» Giovanni nel caso della seconda alternativa.
His fretus, l’autore giunge al centro del libro: posto che la condanna di Gesù era «necessaria» al compimento del piano messianico, tra l’accusato che non si difese e il magistrato che non lo voleva mettere a morte si strinse una sorta di «patto» sul quale il vangelo di Giovanni però tace. Anche in questo caso, un’interpretazione più filosofica che storica. Del resto Schiavone ammette «l’impressione di una insuperabile ambiguità» che emana dalla figura di Pilato, «quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia».
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
di Aldo Schiavone (la Repubblica, 11 gennaio 2010)
In questi giorni abbiamo ascoltato voci diverse, anche molto autorevoli - a cominciare da quelle dei presidenti della Repubblica e della Camera - invitare i protagonisti della nostra politica ad avere più a cuore l’«interesse nazionale» e il superiore valore dell’unità del Paese.
Si tratta di indicazioni che meritano la dovuta attenzione, e non soltanto per le personalità da cui ci giungono. Stiamo entrando in una campagna elettorale difficile, e la maggioranza annuncia di voler fare dell’anno che comincia «l’anno delle riforme». Sarà bene dunque riflettere pacatamente sul clima mentale con cui affrontare questi appuntamenti, per cercar di capire cosa fare per allontanare da noi quello «stato marziale dell’anima» (per dirla con James Hillman) che sembra ormai avvolgere tutta la politica italiana.
Dirò subito che non credo che formule come quella che abbiamo appena sentito del «partito
dell’amore» (così il Presidente del Consiglio) ci facciano fare davvero passi avanti. Mi guardo bene
sia chiaro - dal sottovalutare l’orizzonte cui si allude con questa formula. Credo anzi che l’amore
verso il prossimo - diciamo anche la questione della fraternità come regola universale nei
comportamenti sociali della nostra specie - sia il più grande nodo etico che la civiltà umana abbia di
fronte, reso attuale e ineludibile dalla forma stessa che la storia del mondo sta prendendo sotto i
nostri occhi. Se non saremo capaci di compensare con una autentica rivoluzione intellettuale morale
del nostro paesaggio interiore (delle nostre "anime", appunto) lo straordinario aumento di potenza
trasformatrice - della nostra stessa naturalità e dell’ambiente intorno a noi - di cui ormai
disponiamo, potremmo arrivare all’abisso. Ma si tratta, per ora, di un tema etico, non politico:
trasportarlo così meccanicamente su quest’ultimo piano ha qualcosa di intrinsecamente improprio e
quasi grottesco, che non fa bene. La politica - quella che conosciamo e che ancora conosceremo
abbastanza a lungo - non è amore: è distinzione, conflitto, regole, mediazione. E non vi si porge - se
non per calcolo - l’altra guancia.
Il problema che abbiamo innanzi è invece un altro. E cioè di come far sì che in una democrazia compiuta - che è sempre una democrazia dell’alternanza, fondata in qualche modo sulla bipolarizzazione dell’offerta politica - l’inevitabile conflitto fra le parti non oscuri nella coscienza collettiva quel sentimento di unità, di appartenenza condivisa e di riconoscimento reciproco costitutivo in modo primario di ogni comunità nazionale. Un sentimento che in Italia, per ragioni legate alla nostra storia profonda, fa sempre fatica ad affermarsi, senza essere prima misconosciuto, deformato o svenduto. Ed è proprio perciò, per proteggerci da questa nostra fragilità, che dobbiamo guardarci dal trasformare quegli inviti all’unità in una spinta verso accordi al ribasso, in una sollecitazione ad abdicare ai nostri princìpi, pur di ripristinare a ogni costo uno spirito di trattativa e di intesa. Non è di questo che abbiamo oggi bisogno. E non è stato così nei momenti alti della storia repubblicana: quando l’unità si è conquistata attraverso il raggiungimento di sintesi superiori e più avanzate rispetto alla dialettica che le aveva precedute, che non oscuravano le opposte posizioni di partenza, ma le trascinavano tutte su un terreno più solido e rischiarato. È accaduto per la nostra Costituzione.
Quegli ammonimenti vanno intesi piuttosto come un’indicazione alle parti politiche perché ciascuna sappia uscire dal proprio guscio, e trovi l’ispirazione e la forza per rivolgersi non solo alla propria gente ma all’intero Paese - un’attitudine che dovrebbe diventare una bandiera della sinistra che vorremmo - e perché ciascuna, nella chiarezza delle distinzioni, sappia accantonare tornaconti immediati - e per quanto riguarda la destra e il suo leader addirittura personali - in nome di un’idea condivisa di bene collettivo. Ma il punto è proprio questo: esiste oggi un simile patrimonio ideale? Esso non cade dal cielo, né è innato in un corpo sociale, e non lo si può invocare dandone per scontata la presenza. È un risultato e non un presupposto, frutto delle scelte storiche, delle esperienze stratificate nel tempo, e, per dir così, di una quotidiana pedagogia democratica. E richiede da parte di tutti un rigoroso rispetto delle regole. Non si può avere la pretesa di riformare su punti cruciali il funzionamento e la struttura stessa dell’ordinamento dello Stato, se si assume verso quelle stesse istituzioni su cui si dovrebbe intervenire "sine ira et studio", un atteggiamento di insofferenza che non esita ad assumere le tonalità della rivolta, e richiama a tratti quel "sovversivismo dall’alto" che ha sempre segnato i momenti più rovinosi nella storia delle nostre classi dirigenti. Non si può riformare, mentre si cerca di manomettere: ricordarlo all’attuale maggioranza e al suo leader non è una provocazione; significa solo far realisticamente presenti gli ostacoli da rimuovere per rendere possibile un dialogo. Quale può essere oggi "il bene comune" per il Paese? Due cose, direi, innanzitutto. La prima. Una riforma nel funzionamento della nostra macchina democratica, che ridia sicurezza, agilità e velocità alla decisione politica, trasparenza alla gestione del potere, e ruolo alle rappresentanze parlamentari.
La seconda. Creare le condizioni culturali e civili per un confronto limpido, serrato, e non disturbato dalla presenza di situazioni improprie, fra le due o tre idee d’Italia che stanno cominciando a delinearsi, e da cui dipenderà l’arresto o meno del nostro declino: quella "cattoleghista" di Tremonti e Bossi; quella della destra repubblicana di Fini e Casini; e infine quella (ancora nebulosa, ma con grandi potenzialità) di una sinistra plurale, aperta e riconciliata con il futuro. Il nostro "interesse nazionale" è tutto nella realizzazione di questa cornice.
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.07.2008)
Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione.
Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l’esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E’ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l’intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall’esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l’occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un’inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l’ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l’avventura appare soltanto all’inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E’ una modificazione dell’architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E’ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell’interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E’ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c’è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E’ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di «dialogo» - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.
Aldo Schiavone
-«Il sovversivismo è al governo ma Berlusconi ormai è sul viale del tramonto»
di Pietro Spataro (l’Unità, 23.09.2009)
“Oramai abbiamo il sovversivismo al governo...». Aldo Schiavone, storico, direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, non usa mezzi termini per descrivere lo stato presente dell’Italia. «Certo, la democrazia corre rischi seri,ma io sono convinto che il berlusconismo stia tramontando », aggiunge con sicurezza. «Questo premier non interpreta più il sentimento degli italiani».
Professore, a proposito dei sovversivi al governo il premier ha di nuovo attaccato l’opposizione accusandola di essere anti-italiana. Davvero la nostra democrazia è in pericolo?
«Guardi, Berlusconi sta stressando la democrazia, la tira per i capelli. La sta impoverendo. Per lui democrazia vuol dire: si vota, chi vince comanda. In questa idea non c’è più ruolo per il Parlamento, si figuri la divisione dei poteri. Resta solo il rapporto carismatico del leader con il popolo che lo ha scelto. In questo senso certo che c’è un rischio per la democrazia. Però, anche se l’Italia rappresenta una versione estrema, la questione democratica è globale. Io dico che in tutto il mondoc’è bisogno di un rinvigorimento della democrazia».
Ha visto quel che ha detto il ministro Brunetta? Ha parlato di golpe e di una sinistra che deve “morire ammazzata”...
«Questi atteggiamenti ricordano molto quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ceti fragili e senza storia, proiettati all’improvviso al potere, assumono posizioni sovversive, ai limiti dell’anarchia. Chi guida questa logica è Berlusconi, Brunetta non fa altro che interpretare ».
Ma è sicuro che Berlusconi sia al capolinea? Lo abbiamo sentito dire tante volte...
«Sì, il declino c’è. Ma non per la storia delle escort. Il berlusconismo è esaurito, evaporato. Si ricordi che lui vince negli anni Novanta con un messaggio di ottimismo: arricchitevi senza regole. Allora interpretava una voglia di dinamismo della società italiana. Oggi invece è costretto a rovesciare il suo discorso. E infatti nel 2008 ha vinto facendo leva sulla paura. Il disfacimento che vediamo attorno a lui è conseguenza di questa perdita di rappresentanza».
È possibile che nasca in Italia una destra non più populista?
«Credo di sì. In Italia ci sono due destre possibili. C’è quella di Bossi e Tremonti che hanno in mente un’Italia divisa, con un regionalismo lacerato. È una destra arroccata, ringhiosa, contraria al multiculturalismo, paurosa dell’Europa e della globalizzazione e che cerca di ritagliarsi un angolino ai margini. Su questa si posa l’ala protettiva della Chiesa. Poi c’è una destra che fa riferimento a Fini di cui ancora non capisco i confini ma che sembra più moderna, aperta, legalista. Possiamo dire: una destra dei diritti. Queste due destre si contendono il campo. E l’esito è ancora difficile da intravedere».
Come ha fatto secondo lei Berlusconi a cambiare lo spirito degli italiani? Come ha fatto a vincere culturalmente?
«Berlusconi è l’erede di Craxi. Lui e Craxi sono stati gli unici, anche se con pesanti limiti etici e culturali, che hanno letto la modernizzazione, hanno capito l’Italia post-industriale. Diciamo che, in un modo un po’ straccione, sono stati i Reagan e le Thatcher italiani. Berlusconi ha potuto svolgere questo lavoro in un vuoto politico, con una sinistra ancora legata al passato e incapace di interpretare il presente. Così è passato il suo messaggio: individualismo, consumismo, egoismo sociale, niente regole».
Insomma,la sinistra gli ha lasciato campo libero?
«Certo, alla fine della prima repubblica la sinistra non è stata capace di fare una proposta al Paese. Ha compiuto troppi errori, si è trasformata tardi e in modo pasticciato. Se il Pci avesse avuto il coraggio di cambiare prima, credo che Berlusconi non ci sarebbe stato. Possiamo dire, in un certo senso, che Berlusconi è la conseguenza del ritardo della sinistra ».
Ma chi ha sbagliato, Berlinguer?
«No, perché Berlinguer non poteva fare di più, era dentro la storia del comunismo. Gli errori più grandi li hanno commessi i suoi eredi tra l’84 e l’89. Si è perduto troppo tempo».
Oggi come la vede l’Italia:un paese stanco,depresso?
«Vedo un paese provato, toccato dalla crisi che avrà conseguenze che ancora non abbiamo visto. Stiamo andando verso un autunno che sarà pesante. Però io credo che l’Italia ha le risorse per reagire. Noi diamo il meglio nei momenti di difficoltà, quando siamo con le spalle al muro».
Ma come uscirne?
«Questo paese ha un grande bisogno di una leadership politica. Berlusconi non è più in grado di rispondere a questa domanda, la sua visione è entrata in crisi. All’Italia serve un leader che racconti un’altra storia».
Un bel compito per la sinistra...
«Sì, la sinistra ha una grande occasione, si sta aprendo uno spazio enorme: ora deve saper essere espressione della modernizzazione del Paese. Quando negli anni Sessanta e Settanta ha interpretato la spinta verso l’industrializzazione il Pci è diventato polo di attrazione per tante forze diverse per provenienza e matrice culturale. E lo sa perché? Perché vedevano quel partito come soggetto forte del cambiamento».
Ma che vuol dire modernizzazione? È una parola che si può declinare in modi diversi...
«Le dico alcune parole fondamentali. Uguaglianza, ma non intesa in modo seriale: penso invece all’uguaglianza del merito. Nuovi legami sociali. Solidarietà. Nuovi rapporti tra generazioni. E nuovi rapporti anche tra vita e innovazione tecnologica, perché non si può lasciare tutto al mercato. Questi devono essere, per il centrosinistra, i capisaldi della modernità. Qualcuno potrà dirmi: facile a dirsi. Lo so,ma questa è la grande sfida».
Nel suo ultimo libro “L’Italia contesa”lei sostiene che c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Ce la farà il Pd?
«Penso che il Pd abbia bisogno di una forte leadership unita a una forma partito robusta. È sbagliato mettere in contrasto partito del leader e partito organizzato, devono tenersi insieme. C’è bisogno di una pesantezza territoriale. Però attenzione alla fretta, queste sono operazioni che richiedono tempo. Quello del Pd è sicuramente un amalgama difficile ma guai se interpretassimo questa difficoltà come una impossibilità e quindi si reagisca con la voglia di tornare indietro, ai Ds e alla Margherita. Oggi non vedo altra prospettiva oltre al Pd».
Scusi, professore: che cosa c’è di sinistra nel Pd?
«Veltroni ha compiuto diversi errori ma ha avuto un’intuizione giusta. Oggi serve una nuova cultura politica. La sinistra deve essere un’altra cosa rispetto al Novecento, non si può tornare alla vecchia cultura socialista».
Qualcuno le obietterà: ma in Europa i socialisti ci sono...
«Sì, ma guardi bene. Guardi i socialisti francesi che cosa sono diventati, ormai sembrano ridotti a un’ombra di se stessi. E in Germania? La Spd soffre, non sa indicare una prospettiva e infatti vince la Merkel. Persino in Inghilterra è fallito il modello Blair che pure aveva tentato un certo rinnovamento. Questo succede perché tutte e tre le socialdemocrazie (anche se meno quella inglese) sono state esperienze legate al mondo industriale strutturato in classi, non sono state capaci di cogliere le novità dirompenti che entravano in scena. Non hanno compiuto la loro rivoluzione culturale».
C’è un’eccezione: Zapatero. Che ne dice?
«Dico: aspettiamo, bisogna vedere come va a finire. Anche nei paesi dove la tradizione socialista è forte ci sono difficoltà. Bisogna sapere vedere il nuovo: sono cambiati i confini dell’uguaglianza, dello stato sociale, del lavoro. È ora di chiudere con il Novecento. Non dico di cancellare il passato. Dico: usiamolo per fare qualcosa di veramente nuovo».
Chi è Aldo Schiavone
Studioso di diritto e di storia Ha raccontato l’«Italia contesa» Aldo Schiavone è nato a Napoli nel 1944. Laureato in Giurisprudenza, insegna Diritto romano ed è attualmente direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze - Napoli).Dal 1980 al 1988 è stato direttore dell’Istituto Gramsci. Autore di numerosi saggi di diritto ha pubblicato recentemente con Laterza «L’Italia contesa». La tesi del libro è che il berlusconismo è al declino e che nel Paese si apre un immenso spazio politico e di pensiero che la sinistra deve essere in grado di occupare costruendo un’altra idea di Italia.