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In arrivo una nuova edizione, curata da Francesco Beretta, del procedimento contro lo scienziato
Galileo, processo con il trucco
Il manoscritto del «Dialogo» fu vistato anche dal
Papa. Poi sparì
di Armando Torno *
L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due metri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui nata: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fattura e il commento dettagliato dei due volumi saranno realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segonds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formidabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi.
Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze. Beretta confida: «Capire il processo di Galileo significa innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ’600. Osservarne i meccanismi attraverso il paragone con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procedere». E ancora: «Lo "stile del tribunale" consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati come oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti».
È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi). Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edizione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziativa di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conserva le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881).
Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volume del processo», faceva un tempo parte della collezione delle materie criminali dell’Archivio del Sant’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regime circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impero, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sottomessi, iniziarono le operazioni di trasporto: al Sant’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato. Secondo l’inventario di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inquisizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi.
Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma. Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, decisero di buttar via i 4 mila volumi dei processi criminali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filosofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocento (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo - una cinquantina di carte delle originali, probabilmente la copia appartenuta a un consultore - giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani).
Galileo, arrivando a parte, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porterà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segreto vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i primi documenti del processo. Ma la sua fu opera parziale e apologetica.
A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Antonio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le carte nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista.
Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (riprende Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento reso noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico (Einaudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla storiografia della condanna per atomismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizzato per l’Indice, al fine di giustificare l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sarebbero così state relativizzate, data l’incompletezza della documentazione.
E qui arriva Beretta. Egli ha mostrato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Galileo. Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi nota. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importanza che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il verdetto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa.
Nel 1998, con l’apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trentina di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quelli del 1984, offrendo una nuova collazione degli originali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sulla natura dell’incartamento processuale.
Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cercherà di dare l’insieme completo della documentazione, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esempio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’originale era nel volume - delle sentenze, appunto - del 1633 disperso a Parigi.
Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pubblicandoli insieme cambiano l’immagine complessiva, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà seguire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Risalteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi, ma questo libro - ricordano - «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia approvazione ecclesiastica».
Ora, seguendo lo svolgimento del processo appare chiaramente che manca nell’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefice in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo.
Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza placet, pena la prigione. Durante il processo, Galileo invocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi, facendo anche allusione all’intervento del Papa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dall’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo originale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione.
Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa. Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio - mano sui Vangeli - che il movimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori. Riccardi era presente fra i consultori, e il testo della sentenza è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scienziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver concesso quell’imprimatur.
Armando Torno
Corriere della Sera, 13 ottobre 2009
Sul tema, nel sito, sai cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO.
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
"LA LINGUA BATTE DOVE IL DENTE DUOLE". Alcune note a margine di "I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741). Nuova edizione accresciuta, rivista e annotata da SERGIO PAGANO, 2009, pp. CCLVIII, 332, tav. 24 ISBN 978-88-85042-62-9. *
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UNA RIFLESSIONE DI ANTONIO CASTRONUOVO (1 novembre 2023): "Penso a Bruno e a Sarpi e a come la rivoluzione copernicana della morale sia stata avviata da frati, domenicani o serviti che siano. In qualche modo, la cosa fa sorridere; come fa sorridere il fatto che se Bruno andò al rogo, Sarpi fu invece un temuto scomunicato cui fu concesso di continuare a vivere nel proprio convento veneziano.
Ma a questi frati - ancorché versati agli esperimenti scientifici - mancò quel che a Bologna si dice "lo sbuzzo", il talento pratico, quello che determina effetti sulla realtà materiale. Ne godette Galileo, che infatti diventò sommamente pericoloso, da cui i processi, le estorte abiure ecc.
Torno spesso a questa lugubre storia, mediante un magnifico volume che nasce "da dentro", dal Vaticano. Me ne chiedo la ragione, e a volte penso che non resti altro agli sconfitti - ai nemici della scienza, alle intelligenze offuscate dalle fedi - che fare il verso di «studiare i propri errori». (A. Castronuovo).
DUE NOTE:
a) #FISICA E #METAFISICA.#Patafisica-#mente, non si è ancora ascoltato il #suono del #nome e del #cognome di #GalileoGalilei, #Galileo, #Galilei; e, ancora, non si è visto che le radici della #Terra sono #Cosmicomiche (#ItaloCalvino), e, che è "l’amor che move il sole e le altre stelle"(#DanteAlighieri).
b) #STORIA #STORIOGRAFIA E #COSMOLOGIA: "#ECCE #HOMO" (#NIETZSCHE, 1888). BRILLANTISSIMA E OPPORTUNISSIMA SOLLECITAZIONE PER RIFLETTERE NON SOLO SU #GIORDANOBRUNO E #PAOLOSARPI, MA ANCHE SU #ITALOCALVINO E "#SIGISMONDO DI #VINDOBONA" (RILEGGERE "IL #CASTELLO DEI #DESTINI #INCROCIATI). SULLA IN-#CROCIATA DISCUSSIONE SU #RAGIONE E #FEDE (#CHIESACATTOLICA), FORSE, è tempo di cambiare decisamente #orizzonte e #logica della #ricercascientiffica e filosofica: la condanna di Gesù della #Galilea, come la condanna di #Galileo #Galilei, è di natura teologica e politica prima di tutto, e, poi scientifica e tecnica: la questione fondamentale è quella antropologica (cristologica), come aveva ben capito #Kant (e già #Orazio di #Venosa): "#sàpere aude!". Ricordare anche #Feuerbach, #naturalmente!
L’italiano che ha scoperto il manoscritto a Londra. «Il complimento più bello? Dalla mia compagna»
«Un dubbio sulle date, così ho trovato la lettera di Galileo»
di Donatella Tiraboschi (Corriere della Sera, 23.09.2018)
Professore, cosa faceva alla biblioteca della Royal Society di Londra il 2 agosto?
«Quello che faccio sempre fin dai tempi del dottorato in Antropologia ed Epistemologia che ho conseguito all’Università di Bergamo nel 2011, e cioè ricerche. È una enorme miniera di scienza, manoscritti e lettere». Salvatore Ricciardo ha trovato qui la pepita d’oro della sua vita, l’originale lettera eretica di Galileo: il professore ha 40 anni, una laurea in filosofia all’Università di Milano ed è assegnista di ricerca per l’ateneo di Bergamo.
Emozionato?
«È il mio mestiere. Mi sono specializzato in Storia della Scienza nell’Inghilterra del 1600 e mi sono trovato tra le mani parecchi scritti autografi di secoli fa, in particolare di Robert Boyle, il chimico scettico, figura interessante, tanto che ci ho scritto un libro. Più che emozione, direi che mi è presa una certa eccitazione».
Ma come è arrivato a Galileo? Racconti la scoperta.
«Nell’ambito di un progetto nazionale di ricerca, la mia università ha in carico un segmento di approfondimento sulla diffusione delle sue teorie proprio nell’Inghilterra del ‘600. Quella mattina ho preso il mio pc e sono andato in biblioteca. Mi sono seduto in una delle 10 postazioni e ho digitato il nome di Benedetto Castelli, un monaco, fisico e matematico bresciano, il suo collaboratore numero uno. Si è aperto l’archivio on line con una “stringa”; una lettera datata 1613. Che strano mi sono detto. La Royal Society sarebbe stata fondata solo 47 anni dopo. Che ci fa qui una lettera di decine di anni prima? Anche la data di stesura era stata interpretata 21 ottobre, ma in realtà è stata scritta il 21 dicembre di quell’anno».
L’hanno riesumata per lei dagli archivi.
«Diamogli un’occhiata, ho pensato, magari è una delle copie già in circolazione, una di quelle 12 missive in versione edulcorata. Quando però mi hanno messo in mano quei sette fogli, ho avuto subito il sospetto che non si trattasse di una di quelle copie».
La scoperta era sotto i suoi occhi.
«Sì, ma io non me ne sono reso conto subito. Ho scattato foto e fatto scansioni. Poi ho chiamato il professor Franco Giudice a Bergamo. Guardi ho trovato questa lettera, magari è di Galileo, ma non ne sono sicuro».
Lei è uomo di scienza, servono prove certe.
«Prima della fine di agosto è arrivata la conferma. Ci siamo resi conto dalle perizie grafologiche e dalle varianti d’autore dell’autenticità del manoscritto».
Il senso del ritrovamento?
«Ci porta a rivedere l’interpretazione delle vicende che portarono alla messa all’indice del libro di Copernico e all’ammonizione di Galileo da parte del cardinale Bellarmino. Per secoli si pensò che Lorini avesse inoltrato al Sant’Uffizio una copia spuria della lettera inviata da Galileo a Castelli. In realtà l’autografo, al netto delle interpolazioni e cancellazioni, rivela che il testo della lettera inviata da Lorini ricalca l’originale stesura di Galileo».
Il più bel complimento?
«Quello della mia compagna. Sono un tipo insicuro, ma lei mi sprona: “fai sempre di testa tua che hai sempre fatto bene”».
Bella scoperta. Ritrovato l’autografo della celebre lettera galileiana inviata a Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613, all’origine dello scontro con la Chiesa
L’autocensura di Galileo è riemersa a Londra
di Paolo Galluzzi
Direttore del Museo Galileo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.18
Di Galileo si pensa di conoscere ormai tutto o quasi. E con alle spalle una tradizione storiografica più di tre secoli, non ci si aspetta certo di trovare nuovi documenti che illumino episodi importanti delle sue vicende biografiche. Ma le ricerche d’archivio riservano talvolta sorprese, facendo riemergere testi che si consideravano irrimediabilmente perduti. Ed è proprio quello che è accaduto alcune settimane fa quando alla Royal Society Library di Londra è stato rinvenuto l’autografo della celebre Lettera di Galileo a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Un documento di inestimabile valore - la prima delle celeberrime Lettere Copernicane - che è in realtà un breve trattato in forma epistolare, nel quale Galileo espone per la prima volta la propria visione dei rapporti tra scienza e religione, rivendicando la piena autonomia della ricerca scientifica dalla teologia, e difende il sistema copernicano dalle accuse di inconciliabilità con la Sacra Scrittura.
La scoperta di questo autografo - una delle acquisizioni più rilevanti degli ultimi decenni per quanto attiene agli studi
galileiani - è il frutto delle ricerche intraprese grazie al PRIN (Progetto di rilevante interesse nazionale) «Scienza e il mito di Galileo in Europa tra il XVII e il XIX secolo», finanziato dal MIUR e coordinato da Massimo Bucciantini dell’Università di Siena, che vede coinvolti studiosi di diverse università italiane in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze.
In tale contesto, l’unità locale dell’Università di Bergamo, responsabile delle indagini sulla fortuna di Galileo nell’Inghilterra del XVII secolo, ha incaricato Salvatore Ricciardo, assegnista in quell’Ateneo, di verificare se nelle edizioni di opere galileiane possedute da British Library e Royal Society fossero presenti glosse marginali, commenti o note di lettura.
Ricciardo ha notato che nel catalogo dei manoscritti della Royal Society era segnalata una lettera di Galileo a Castelli, datata 21 ottobre 1613. Ottenuto in consultazione il documento, si è accorto che la data in calce era diversa: 21 dicembre 1613, perfettamente coincidente con quella della lettera copernicana al Castelli. Vi ha inoltre verificato la presenza di numerose cancellature e correzioni della medesima mano. Ricciardo si è affrettato a inviarne una riproduzione fotografica a Franco Giudice e a Michele Camerota, responsabili rispettivamente delle unità locali dell’Università di Bergamo e di quella di Cagliari, oltre che direttori, insieme a Massimo Bucciantini, di «Galilaena», la rivista internazionale del Museo Galileo specializzata in studi galileiani. Dopo accurati controlli, anche di tipo grafologico, i tre studiosi sono giunti alla conclusione che la lettera della Royal Society è senza dubbio di mano galileiana.
L’esistenza di questo importantissimo documento non è stata mai segnalata in precedenza, nonostante fosse registrato nel catalogo dei manoscritti della Royal Society fin dal 1840, e sia indicato nel catalogo online della prestigiosa istituzione britannica. Finora la Lettera a Castelli era conosciuta soltanto attraverso copie manoscritte: i dodici testimoni collazionati da Antonio Favaro per l’edizione critica del documento pubblicata, nel 1895, nel quinto volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo.
Il ritrovamento dell’autografo rappresenta molto più di una mera acquisizione documentaria, poiché obbliga a riconsiderare non solo la dinamica di stesura del testo, ma, soprattutto, la storia della sua immediata ricezione e la funzione decisiva che recitò nel motivare le autorità ecclesiastiche ad assumere un atteggiamento di risoluta opposizione nei confronti delle novità celesti galileiane. La Lettera a Castelli è infatti all’origine delle vicende che porteranno nel 1616 alla sospensione del De revolutionibus di Copernico e all’ammonizione del cardinale Bellarmino a Galileo ad abbandonare la dottrina copernicana.
L’autografo della Lettera permette di ricostruire anche il modo nel quale Galileo reagì alla notizia che la missiva al Castelli era finita nelle mani degli occhiuti censori. Vivamente preoccupato dalla vasta circolazione del documento, il 7 febbraio 1615, il domenicano fiorentino Niccolò Lorini ne aveva infatti inviata copia a Roma, denunciando come «sospette e temerarie» le teorie espostevi da Galileo; il quale - prese cura di sottolineare - «seguendo le posizioni di Copernico» ardiva presentare come vera un’opinione «in tutto contraria alle Sacre Lettere».
Una settimana più tardi, Galileo inviò a Roma al fidato amico Monsignor Piero Dini la versione della Lettera redatta «nel modo giusto che l’ho scritta io», manifestando il sospetto che «forse chi l’ha trascritta può inavvertitamente aver mutata qualche parola», facendo «apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione». Galileo chiese a Dini di far leggere la versione “autorizzata” della Lettera al matematico gesuita Christoph Grienberger e soprattutto al cardinale Bellarmino, il principale teologo del Sant’Uffizio.
Rispetto agli altri testimoni pervenutici, la copia trasmessa a Roma da Lorini, conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano (contrassegnata dalla sigla Pr), contiene un significativo numero di varianti, che evidenziano il ricorso a espressioni più dirette e perentorie sulla mancanza di autorità delle Scritture Sacre nelle questioni naturali. Favaro segnalò quelle varianti, ma, giudicando l’esemplare vaticano lontano dalla «lezione genuina», esemplò la propria edizione sugli altri testimoni. Esattamente come Galileo, Favaro sospettava che Lorini avesse interpolato il testo della Lettera per farne risaltare maggiormente le pericolose implicazioni teologiche.
L’autografo appena riemerso dal lungo oblio racconta una storia diversa. Anzi, capovolge i termini stessi della ricostruzione fin qui dominante. Le numerose parole e intere frasi cancellate ed emendate nel manoscritto della Royal Society trovano infatti corrispondenza speculare nella copia trasmessa a Roma da Lorini. A titolo di esempio, Galileo aveva originariamente scritto che la Bibbia contiene «molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole». Tale espressione, che ricorre tale e quale in Pr, venne successivamente sostituita da quella, meno censurabile teologicamente, tramandata dal resto della tradizione manoscritta: «molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero».
L’accurato esame dell’autografo induce a concludere che Pr rappresenta una copia fedele del testo inviato a Castelli da Galileo, il quale, venuto a conoscenza della denuncia, si preoccupò di moderare le espressioni che temeva potessero urtare la sensibilità degli inquisitori. Il documento della Royal Society impone dunque non solo di riconsiderare il processo di compilazione della Lettera a Castelli, ma getta nuova luce sulle vicende che nel marzo 1616 portarono alla condanna del copernicanesimo.
La scoperta fornisce solida base documentaria alla tesi formulata da Mauro Pesce in un saggio del 1992 apparso su «Filologia e critica», nel quale contestò che Pr fosse stato artatamente manipolato da Lorini. Pesce vi sostenne - oggi possiamo dire a ragione - che il codice dell’Archivio Segreto conteneva la copia fedele della stesura originaria della Lettera a Castelli modificata successivamente da Galileo. L’autografo spiega, tra l’altro, perché, nonostante le pressanti richieste degli inquisitori, Benedetto Castelli non consegnò mai l’originale della lettera galileiana in suo possesso: avrebbe infatti dovuto spedire ai censori un testo identico a quello trasmesso a Roma da Niccolò Lorini.
Camerota, Giudice e Ricciardo pubblicheranno a breve una nuova edizione critica e un dettagliato studio storico sull’autografo della Lettera a Castelli, che lascia intravedere promettenti prospettive di approfondimento delle ricostruzioni tradizionali dei drammatici eventi innescati dalla trasmissione alle autorità ecclesiastiche romane della copia della lettera galileiana del dicembre 1613.
Londra, ritrovata la lettera "eretica" di Galileo Galilei. "E’ l’originale"
La missiva considerata perduta è stata scoperta da un ricercatore italiano nella biblioteca della Royal Society. Del testo finora si conoscevano due copie, una delle quali con toni più soft. "Ora sappiamo che lo scienziato la riscrisse"
di ELENA DUSI e MARIA FRANCESCA FORTUNATO (la Repubblica, 21 settembre 2018)
Non era neanche troppo nascosta. La lettera perduta in cui Galileo Galilei mise giù le sue tesi contro l’idea, sostenuta dalla Chiesa, che fosse il Sole a ruotare intorno alla Terra, si trovava in una biblioteca di Londra. In possesso della Royal Society - la prestigiosa associazione scientifica britannica fondata il 28 novembre 1660 - da almeno due secoli e mezzo, era inspiegabilmente sfuggita all’attenzione degli storici per tutto questo tempo. É stata rintracciata e scoperta da Salvatore Ricciardo, giovane ricercatore dell’università di Bergamo che fra l’altro visitò il 2 agosto scorso con tutt’altri obiettivi. «Non potevo credere ai miei occhi - commenta il ricercatore - si trattava della lettera che tutti hanno cercato per oltre due secoli e non si nascondeva in un posto sperduto, ma proprio nella Royal Society Library».
La missiva considerata perduta è stata scoperta proprio da questo studioso nella biblioteca della Royal Society. Del testo sinora si conoscevano due copie, ma in nessuno dei due documenti la teoria galileiana che gli costò, il 22 giugno 1633 la condanna per eresia, l’abiura forzata delle sue concezioni astronomiche e infine il confino nella sua villa di Arcetri. Si tratta di una scoperta sensazionale perché dimostra che lo scienziato, vent’anni prima del processo, ribadì in modo più netto le sue teorie.
Il documento è scritto con la sanguigna, contiene qualche correzione ed è lunga sette pagine e firmata in calce G. G. Il padre della scienza moderna la indirizzò all’amico Benedetto Castelli, monaco cristiano e illustre matematico e fisico dell’università di Pisa.
In queste pagine Galileo sostiene per la prima volta che la ricerca scientifica deve essere libera dalla dottrina teologica. Una lettera che scatenò un putiferio, ma che si tinse anche di giallo.
Il testo venne inviato all’Inquisizione il 7 febbraio del 1615 dal frate domenicano Niccolò Lorini e la copia di quella lettera è custodita ora negli Archivi Segreti Vaticani. Una settimana dopo, Galileo scrisse anche all’amico Piero Dini, suggerendo che la versione spedita dal Lorini all’Inquisizione fosse stata alterata. Galileo allegò anche una versione «edulcorata» della lettera spedita a Castelli, presentandola come la versione originale, e gli chiese di farla avere ai teologi vaticani.
Scrivendo a Dini, Galileo - che nel 1633, dopo la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sarebbe stato processato e condannato per eresia - si lamentava della malvagità e dell’ignoranza dei suoi nemici e si diceva preoccupato che l’Inquisizione potesse essere ingannata “da questa truffa, coperta dal mantello dello zelo e della carità”.
Com’era andata davvero? Galileo affidò davvero all’amico Castelli il suo sfogo contro le ingerenze e le pressioni della Chiesa o qualcuno inviò una lettera falsa all’Inquisizione contro lo scienziato?
Il documento ritrovato da Ricciardo mostra che lo scienziato avrebbe corretto ed edulcorato le proprie parole, per evitare l’ira dell’Inquisizione. Il testo - Castelli a un certo punto aveva rimandato a Galileo la sua lettera - è puntellato da correzioni, con modifiche significative, come nota Nature, che ha anticipato la scoperta. In un punto, ad esempio, l’aggettivo “falso” attribuito ad “alcune affermazioni della Bibbia” è sostituito con un “appare diverso dalla verità”. Ma sotto le modifiche e le cancellature, il testo originale risulta proprio quello trasmesso da Lorini al Tribunale dell’Inquisizione.
Ricciardo, insieme al suo supervisore Franco Giudice e allo storico Michele Camerota dell’università di Cagliari, ha verificato l’originalità della lettera confrontando singole parole con altre simili scritte da Galileo nello stesso periodo. La scoperta è descritta in un articolo che sarà pubblicato sulla rivista Notes and Records della Royal Society.
Scoperto su Marte un lago sotterraneo di acqua salata
L’ANNUNCIO IN DIRETTA
Con un radar italiano, ha tutti i requisiti per la vita
di Enrica Battifoglia *
[Foto] Rappresentazione artistica della missione Mars Express nell’orbita di Marte (fonte: Orosei et al.) © ANSA
A un chilometro e mezzo sotto i ghiacci del Polo Sud di Marte c’è un grande lago di acqua liquida e salata: lo ha scoperto il radar italiano Marsis della sonda Mars Express. Pubblicata su Science, la scoperta è stata presentata da Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), università Roma Tre, Sapienza e Gabriele d’Annunzio (Pescara), Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).
Ha tutti i requisiti per ospitare la vita, il grande lago sotterraneo scoperto su Marte dai ricercatori italiani che hanno utilizzato i dati del radar Marsis, a bordo della sonda europea Mars Express. Esiste da molto tempo, ha acqua liquida, sali ed è protetto dai raggi cosmici: questi, dicono gli autori della ricerca, sono elementi che potrebbero far pensare anche a una nicchia biologica.
La scoperta di un lago di acqua liquida nel sottosuolo di Marte "è una delle più importanti degli ultimi anni": lo ha detto il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Roberto Battiston. "Sono decenni che il sistema spaziale italiano è impegnato nelle ricerche su Marte insieme a Esa e Nasa. I risultati di Marsis - ha rilevato Battiston - confermano l’eccellenza dei nostri scienziati e della nostra tecnologia e sono un’ulteriore riprova dell’importanza della missione europea a leadership italiana ExoMars, che nel 2020 arriverà sul pianeta rosso alla ricerca di tracce di vita"
Rappresentazione artistica della sonda Mars Express nell’orbita di Marte e della traccia radar che indica la presenza di acqua nel sottosuolo del pianeta (fonte: Orosei et al.)
Ad individuare il lago, stabile da molto tempo, con un diametro di 20 chilometri e una forma vagamente triangolare, è stato il radar Marsis (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding), attivo dal 2005 a bordo sulla sonda Mars Express, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Come il radar Marsis, ideato da Giovanni Picardi dell’università Sapienza di Roma e costruito dalla Thales Alenia Space (Thales-Leonardo), sono italiani tutti gli autori della ricerca.
Rappresentazione grafica dell’acqua nel sottosuolo di Marte (fonte: ESA (fonte: ESA )
A presentare i risultati sono il responsabile scientifico del radar Marsis Roberto Orosei, dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e primo autore della ricerca, Enrico Flamini, docente di Planetologia presso l’Università di Chieti-Pescara e responsabile di progetto dell’esperimento Marsis per l’Asi, Elena Pettinelli, responsabile del laboratorio di Fisica Applicata alla Terra e ai Pianeti dell’Università Roma Tre, co-investigator di Marsis. Arriva finalmente la risposta alla domanda che dal 1976 avevano sollevato le missioni Viking della Nasa: i loro dati indicavano con chiarezza che in passato Marte aveva avuto laghi, fiumi e mari, ma finora non si sapeva che fine avesse fatto tutta quell’acqua.
"C’è stato un tempo in cui Marte era abitabile, con un clima simile alla Terra, ma nel tempo il pianeta ha perso la sua atmosfera e con essa l’effetto serra che riscaldava, e di conseguenza l’acqua è ghiacciata e poi è scomparsa. Restavano i segni lasciati dalla presenza dell’acqua, ma restava da capire dove fosse finita e capire dove andare a cercarla", ha detto Orosei, dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna dell’Inaf. Il lago, buio e salato, è probabilmente profondo qualche metro e si trova nella regione di Marte chiamata Planum Australe, nel Polo Sud del pianeta. "E’ la prima evidenza che c’è acqua liquida su Marte, in un lago subglaciale", ha detto Flamini. "E’ una notizia - ha aggiunto - che si aspettava da 30 o 40 anni". I dati raccolti dal radar Marsis fra maggio 2012 e dicembre 2015 mostrano che si tratta di una massa d’acqua stabile. Il grande lago buio e salato del Polo Sud potrebbe non essere l’unico: secondo i ricercatori potrebbero essercene altri e, adesso che sanno come cercarli, continueranno a farlo.
* ANSA, 25 luglio 2018 16:31 (ripresa parziale, senza immagini).
IL «CASO GALILEO»: LA «VITA DI GALILEO» DI PIO PASCHINI ... *
Pubblicato l’epistolario che ricostruisce la personalità del grande storico friulano
Paschini, ovvero la verità, sempre
di Stefano Damiani *
Iniziativa dell’Istituto a lui intitolato. Emergono la novità e il rigore del suo metodo basato sulle fonti, ma anche l’amarezza per la censura della sua «Vita di Galileo»
IL RITRATTO DI UNO storico, ma anche uomo, sacerdote e insegnante, che ha fatto della lettura fedele delle fonti la base del suo lavoro di ricerca della verità, tra successi, battaglie ed anche qualche amarezza. Così la figura dello storico friulano Pio Paschini emerge dal suo epistolario che è giunto in questi giorni a pubblicazione e che sarà presentato martedì 5 giugno nella sala Paolino d’Aquileia, a Udine. Ad impegnarsi nell’impresa l’Istituto «Pio Paschini» per la Storia della Chiesa in Friuli, che appunto dal grande storico prende il nome e che, come spiega il presidente dell’Istituto, Cesare Scalon, ha scelto di celebrare in questo modo i suoi 40 anni di attività.
Curata da Michela Giorgiutti ed edita da Forum nella collana di «Fonti per la storia della Chiesa in Friuli. Serie moderna e contemporanea», la pubblicazione consta di due volumi che contengono un’antologia di 922 testi, 491 selezionati tra quelli inviati da oltre millecinquecento corrispondenti e 431 fra missive e responsive intercorse con il friulano Giuseppe Vale, confratello, amico e confidente. Allegato ai volumi, c’è un cd rom con i regesti di tutte le 5.029 lettere dell’epistolario.
Nato a Tolmezzo nel 1878 e morto a Roma il 14 dicembre del 1962, mons. Pio Paschini è stato insegnante nel Seminario di Udine dal 1901 al 1913, docente di Storia ecclesiastica al Pontificio Seminario Romano Maggiore e, dal 1932 al 1957, Magnifico rettore della Pontificia Università Lateranense. Enorme la sua produzione scientifica (sono circa 500 i titoli della sua bibliografia) che ruota attorno a due filoni principali: la storia del Friuli e la storia del Cinquecento religioso in Italia.
L’epistolario fa luce sull’intera parabola umana e scientifica dello storico, dalla prima lettera, del 1898, all’ultima, scritta pochi mesi prima di morire, nel 1962. I testi delle lettere si trovano in diversi Archivi e Fondi archivistici. Come spiega la curatrice Michela Giorgiutti, la maggior parte delle lettere è conservata nella Biblioteca «P. Bertolla» del Seminario Arcivescovile di Udine, dov’è arrivata grazie ad alcune donazioni, la prima quella della sorella di Paschini, Anna; altre due recentissime, ovvero il nucleo «Caterina Moretti», dal nome della governante di Paschini a Roma, e il nucleo «Annapia Mazzanti», dal nome dell’erede di una cugina di Paschini.
«Le lettere sono rivolte ai corrispondenti più vari - prosegue Giorgiutti - oltre agli interlocutori di ambito locale, come gli arcivescovi Zaffonato, Nogara, Rossi, gli storici e archeologi, come Giovani Battista Brusin e Piersilverio Leicht, ci sono anche personalità di livello internazionale: i futuri papi Angelo Roncalli e Giovanni Battista Montini, storici del calibro di Agostino Gemelli o Louis Duchesne. In esse - prosegue Giorgiutti - emerge una prospettiva completa sui caratteri del Paschini storico, ma anche uomo e sacerdote, facendoci cogliere i riflessi del mondo ecclesiastico in cui viveva e della realtà politica del suo tempo: la Prima Guerra Mondiale, che descrive dai racconti dei seminaristi al fronte e che lo lascia sbigottito, il fascismo, che guarda con distacco, il dopoguerra, la ricostruzione».
Che personalità di Paschini emerge dalle lettere? «Sfaccettata - risponde mons. Sandro Piussi, direttore della Biblioteca “P. Bertolla” e degli Archivi e Biblioteche storiche dell’Arcidiocesi di Udine, il quale ha scritto la prefazione e seguito la ricerca -. Ci sono le lettere del periodo giovanile quando egli ha dovuto superare le critiche per la sua nuova impostazione di ricerca che mirava al vero, perché utilizzava documenti e fonti, senza volersi piegare a dimensioni tradizionaliste e apologetiche relativamente alle origini Marciane del Cristianesimo aquileiese. Ci sono poi le lettere legate alla costruzione di quel monumento che è la sua “Storia del Friuli”. Dalle lettere dei suoi interlocutori emerge poi il riconosci- mento che gli veniva attribuito a livello internazionale in virtù del metodo storico critico».
L’epistolario, infine, ci restituisce anche informazioni sull’episodio che più fece soffrire il Paschini, ovvero il cosiddetto «Caso Galileo». Nel 1942, infatti, il Paschini ricevette dalla Pontificia Accademia delle scienze l’incarico di scrivere una vita dello scienziato. L’opera venne bloccata dal Sant’Uffizio perché considerata troppo dura nel condannare l’azione svolta dai Gesuiti contro Galileo. L’autore però non ebbe mai chiarimenti su tale insabbiamento.
Il testo venne poi pubblicato nel 1964, due anni dopo la morte di Paschini, a sua firma, ma non nella versione originale, bensì con numerose modifiche del gesuita Edmond Lamalle, che ne stravolsero il senso. E proprio in questa versione l’opera venne citata negli atti del Concilio Vaticano II, in particolare nella «Gaudium et Spes», ed utilizzata paradossalmente, ricorda il prof. Gianpaolo Romanato che su questo tema interverrà alla presentazione, «proprio nel punto in cui si afferma che la Chiesa ha sempre sostenuto la libertà di ricerca e che nella tradizione ecclesiastica non ci sono mai stati interventi censori».
La questione venne portata alla luce per la prima volta in un convegno dedicato a Paschini nel 1978 a Udine, in cui il bibliotecario Pietro Bertolla denunciò le interpolazioni che erano stati apportate al testo originale nella pubblicazione.
Ne nacque un «Caso Galileo», successivamente ripreso, ricorda Piussi, «da Paolo Simoncelli con un’impostazione molto combattiva e polemica, e dopo, nel 2012, da Mario Sensi, docente alla Pontificia Università Lateranense, il quale ha evidenziato le carenze del “Galileo” di Paschini, dovute al non essere egli un professionista della Scienza, cosa che lo stesso autore, per altro aveva ammesso». In sostanza, Sensi evidenziò come il giudizio di Paschini sulla vicenda della condanna di Galileo fosse in un certo senso antistorico.
In ogni caso, le critiche alla validità scientifica dell’opera nulla tolgono alla scorrettezza del comportamento che fu tenuto nei confronti dello storico friulano, «al quale - evidenzia Piussi - per vent’anni non fu data ragione della mancata pubblicazione». E proprio l’epistolario dà testimonianza dell’amarezza con cui lo storico visse questa vicenda.
In una lettera del 1946 a Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato, così Paschini si esprime: «In tutte le mie pubblicazioni mi sono proposto di procedere colla più assoluta imparzialità, e perciò mi è riuscito di sommo stupore e disgusto che mi sia rivolta ora l’accusa di non aver fatto altro che l’apologia di Galileo. Essa intacca infatti la mia probità scientifica di studioso e di insegnante, il quale in tutto il corso della sua attività pubblicitaria e scolastica può dire di essersi sempre proposto come dovere lasciar parlare la verità e di liberarla da ogni ingombro creato dall’ignoranza o dallo spirito di parte». STEFANO DAMIANI
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Presentazione i due volumi de «L’epistolario di Pio Paschini (1898-1962)» saranno presentati martedì 5 giugno, alle ore 18, nella sala Paolino di Aquileia, in via Treppo 5/B, a Udine. Dopo il saluto delle autorità interverranno Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze storiche, Andrea Zannini, del- l’Università di Udine, Gianpaolo Romanato, dell’Università di Padova. Nel corso della presentazione Fabiano Fantini leggerà alcuni brani dell’epistolario.
La pubblicazione, edita da Forum, è promossa dall’«Istituto «Pio Paschini per la Storia della Chiesa in Friuli» nella collana «Serie moderna e contemporanea». «Nel 1978, in occasione del convegno di studio nel centenario della nascita di Pio Paschini - scrive, nella premessa ai volumi, il presidente dell’Istituto, Cesare Scalon - l’allora arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, propose di creare un Istituto di Fonti e ricerche di Storia ecclesiastica friulana a lui intitolato. La scelta era motivata per il “suo coraggioso tentativo di conciliare cultura e fede, ma anche per il suo validissimo contributo di ricerca sulle origini e sulla storia della Chiesa di Aquileia”.
Per ricordare i suo quarant’anni di vita - continua Scalon - l’Istituto aveva pensato in un primo momento a una riedizione della “Vita di Galileo”, ripulita dai tagli e dalle manipolazioni che il testo aveva subito. La proposta fu però accantonata in considerazione del fatto che gli interventi censori erano ormai noti agli studiosi e che una riedizione della “Vita” non avrebbe offerto alcun contributo originale alla ricerca storica. Nacque allora l’idea di questo “Epistolario”».
«L’ampia selezione delle lettere in ordine cronologico - conclude Scalon - ripercorre l’itinerario scientifico, la carriera accademica ed ecclesiastica del protagonista e al tempo stesso fa emergere in modo inconfondibile i tratti della sua personalità di uomo, di studioso e di sacerdote».
* LA VITA CATTOLICA, 30- 05.2018
Sul tema, in rete, si cfr.:
PIO PASCHINI (Marino Zabbia - Dizionario Biografico degli Italiani - 2014)
Federico La Sala