Sovranità e Sacerdotalità - universali.
VIRGILIO, DANTE ... E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH: DIO è AMORE ... in ‘volgare’ - E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMI-COMICHE”!
Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”, c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!! L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro".
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze: sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, cfr. F. La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”, www.ildialogo.org/filosofia, 08.07.2005).
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!! Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"! E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’ , al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio) , il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “ L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”, www.ildialogo.org/filosofia, 30.05.2006).
Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!! Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Italo Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma. Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria -Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’ Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (opera Mohammed Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
*
Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?! Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Costituzione e la Repubblica che è in noi
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
LETTERATURA EUROPEA*, IMMAGINARIO PLATONICO, E IMMAGINAZIONE “EDENICA”. Nella speranza, e con l’augurio, che il dono del Sessantotto non risulti esser stato sprecato ...
Note a margine di "Volevamo la Luna" di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019):
SULLA BASE DELLE INDICAZIONI DEL “TELESCOPIO” (DI LEOPARDI) E DEL “PALOMAR” (DI CALVINO), FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE LA “NAVIGAZIONE” CON GALILEO ...
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II);
.... E CON NOE’ - IL CORVO E LA COLOMBA (“PALOMA”):
“E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che avea fatta nell’arca,
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la prese, e la portò con sé dentro l’arca.
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca.
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè capì che le acque erano scemate sopra la terra” (“Genesi”: 8, 6-11 );
* ... E CON DANTE ( ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica).
P. S. - LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino (cfr. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI “DUE SOLI”).
Federico La Sala
Cercando Virgilio
Tutti i volti del poeta che cambiò il mondo
di Francesca Montorfano (Corriere della Sera, 16.10.2011)
Quando nell’autunno del 1896, dagli scavi di una villa romana presso Hadrumetum (l’odierna Sousse, in Tunisia) venne alla luce quel mosaico del III secolo dopo Cristo, apparve subito chiaro che si trattava di una scoperta dalla portata straordinaria. Tra Calliope, musa della poesia epica, e Melpomene, musa di quella tragica, era infatti seduto Virgilio, lo sguardo assorto, il rotolo con alcuni versi dell’Eneide in mano, il volto dai tratti ben caratterizzati. Morto nel 19 avanti Cristo, a 51 anni, di ritorno da un viaggio in Grecia, il sommo poeta aveva conosciuto subito un’immensa fortuna e la sua immagine, la sua vicenda biografica e letteraria, ispirato un numero infinito di opere d’arte e affascinato nei secoli Leonardo, Giorgione e Michelangelo, così come Petrarca e Boccaccio, Ariosto e Leopardi, che volle addirittura essere sepolto accanto a lui o Thomas Eliot, che negli anni bui della Seconda Guerra Mondiale a Virgilio si riferirà come a un modello superiore di classicità e armonia. Tuttavia la scoperta avvenuta in terra d’Africa aveva qualcosa di diverso, di più. Non rappresentava solo un’altissima testimonianza dell’influenza culturale romana anche in quei luoghi, ma un’iconografia nuova del poeta, forse l’unica, credibile immagine del volto di Virgilio, probabilmente derivata da un ritratto eseguito quando era ancora in vita.
Oggi il celeberrimo mosaico conservato nel Museo del Bardo di Tunisi è per la prima volta uscito dai confini nazionali ed esposto a Palazzo Te, nella bella mostra curata da Vincenzo Farinella e voluta nella città che al poeta ha dato i natali e che già nel 1190 un’iscrizione celebrava come urbs virgiliana. Sarà proprio Virgilio, cantore del viaggio di Enea e guida d’eccezione nella Divina Commedia, a condurci lungo un percorso millenario che dall’epoca classica, dal Medioevo e dal Rinascimento arriva al Barocco al Romanticismo e al Novecento, a scoprire tutta la forza seduttiva che il suo volto e la sua opera hanno esercitato su letterati e artisti, autori sconosciuti come maestri celebrati.
Pochi altri autori classici si sono rivelati così attuali, aperti ad ogni stimolo come Virgilio, mantovano di nascita, milanese di formazione, romano d’adozione, pugliese per morte, partenopeo per sepoltura. «La sua modernità consiste anche nella capacità di vivere il suo tempo, in quella consapevolezza del presente che lo porterà a coniugare arte e potere, a scrivere l’Eneide su commissione di Augusto per celebrare la romanità e la pace dopo anni di lotte politiche e sociali e nel contempo creare un altissimo capolavoro, così come dopo di lui farà Raffaello nelle Stanze Vaticane - commenta Vincenzo Farinella -. Pregio di questa mostra è la possibilità di apprezzare tutta la grandezza del poeta non solo attraverso i versi che ha scritto, ma anche attraverso le immagini che a lui si riferiscono, più di sessanta pezzi tra sculture, incisioni, monete, medaglie, antiche edizioni a stampa illustrate, dipinti e bozzetti attentamente selezionati, che ne documentano la fama goduta nei secoli. Opere famose, ma anche poco note o pressoché inedite pur di altissima qualità, come la seicentesca "Morte di Didone" di Pietro Testa per lungo tempo ritenuta perduta e riemersa dai depositi degli Uffizi dopo un recente restauro, un capolavoro di forte tensione drammatica un tempo attribuito addirittura a Poussin, o le edizioni del corpus virgiliano dalle illustrazioni manieriste su disegni del Beccafumi e messe qui a confronto con la celeberrima edizione di Strasburgo del 1502, curata dal grande umanista Sebastiano Brant e resa ancora più preziosa da xilografie acquarellate».
Tanti i «volti» del poeta che è possibile ricostruire con i pezzi esposti nella suggestiva Ala Napoleonica dove è allestita la mostra. Dal Virgilio in cattedra in marmo rosso di Verona, emblema civico e politico della Mantova duecentesca, a una stampa del Mocetto, a un frammento di affresco del poeta con la sirinx, il flauto a più canne, forse di Rinaldo Mantovano, al disegno autografo di Giulio Romano conservato a Monaco di Baviera, alla ricca numismatica di epoca gonzaghesca, dove Virgilio viene rappresentato quasi una sorta di nume protettivo fino ai giorni dell’ottavo duca, Carlo I Gonzaga Nevers (1627-1637).
A raccontare la fortuna figurativa di Virgilio sono quindi le grandi tele sei e settecentesche ispirate a motivi letterari, a episodi della Divina Commedia e dell’Eneide, come quelle di Filippo Napoletano e di Rutilio Manetti, dove è messo in scena l’ingresso dei due poeti nel regno degli Inferi o quella, rococò, di Sebastiano Conca, con l’episodio di Enea nei Campi Elisi. In epoca neoclassica e preromantica sarà invece il sepolcro del poeta a Piedigrotta, diventato quasi una tappa obbligata del Grand Tour, a influenzare la sensibilità di artisti e viaggiatori, tra cui Joseph Wright of Derby che durante un soggiorno in Campania rimase talmente suggestionato dall’atmosfera del luogo da dipingerne ben sei vedute. Ma la presenza, l’eredità di Virgilio, non si è mai affievolita, si è dimostrata viva e vitale anche nelle epoche successive, nel Novecento. Come dimostrano i tanti progetti e bozzetti per il monumento che nel 1927 Mantova ha dedicato al suo glorioso cittadino, «de li altri poeti onore e lume» e che chiudono cronologicamente il percorso.
Così il «padre dell’Occidente» apparve sulla montagna sacra
Al centro dello scontro fra romanità e germanesimo
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 16.10.2011)
Lo scontro tra romanità e germanesimo è forse la costante principale nella storia intellettuale del nostro continente. E Virgilio costituisce la figura centrale di questa storia. Virgilio «padre dell’Occidente», secondo la visione di un grande interprete tedesco della cultura latina e italiana, Rudolf Borchardt (1877-1945). Nel 1930, quando il bimillenario virgiliano divampava non solo in Italia, egli scrisse un mirabile saggio intitolato Virgilio.
Scrive Borchardt: «La Germania rimasta libera, che nel Cinquecento alla Chiesa, erede sacra dell’autorità di Roma, contrappose la Scrittura e lo scisma, ha contrapposto conseguentemente, tre secoli più tardi, Omero e l’ellenismo a Virgilio, da cui si dichiarava emancipata. Ma l’Occidente, quella famiglia culturale rimasta umanistica, mai divenuta ellenica e omerica, porta quel nome inciso nelle pietre delle sue fondamenta; conserva issata, altissima e lontana, di tutti e di ognuno, questa figura di Virgilio. Egli è il capostipite dell’intera poesia illustre di Francia e di Olanda, di Spagna e Portogallo, e per gran parte, di qua e di là del confine antico, anche di quella inglese e germanica, così come è custode e insieme espressione della carta costitutiva della civiltà italiana, l’atto di nascita della sua poesia nazionale». E proseguiva osservando che «più saldamente di ogni sua razza, stato e popolo», il concetto di Europa converge nel nome di Virgilio.
Così, pochi anni prima dell’ondata pangermanistica e anti-romana innescata dal nazismo, l’ebreo di Königsberg Rudolf Borchardt, convertitosi al calvinismo durante la guerra, catturato dalla Gestapo nei pressi di Lucca nel 1944, deportato verso la Germania e morto a Innsbruck al principio del ’45, apriva la strada a quella valorizzazione del mondo latino come essenza europea che avrebbe costituito per altre vie e grazie ad altri studiosi e in virtù di complicati intrecci - ivi compresa la tensione tra le due potenze dell’«Asse» -, la risposta umanistica, dell’umanesimo filo-latino, alla rivendicazione politico-razziale della supremazia germanica sull’Europa.
Non era stato lineare il cammino intellettuale di Borchardt nei critici primi anni di vita della neonata e poco amata prima repubblica tedesca. Itinerario, il suo, per certi versi analogo a quello di Thomas Mann, approdato, dopo le inquietanti Considerazioni di un impolitico (1918), impregnate dell’idea di una specificità germanica minacciata dall’occidentalismo, alla straordinaria e accesa disputa tra Naphta e Settembrini intorno alla figura di Virgilio (La montagna magica, sesto capitolo). La polemica Naphta-Settembrini è l’architrave ideologico, che mette a contrasto liberalismo e rivoluzione. Non a caso il personaggio Naphta scaturisce dalla diretta conoscenza che Mann fece di György Lukács a Vienna nel 1922. Lo scontro tra i due su Virgilio è forse il cuore di quella battaglia sfociata di lì a non molto in un vero e proprio duello.
Naphta, che riconosce e ammira la grandezza di Dante, trova che l’adesione profonda di Dante alla figura di Virgilio non sarebbe dovuta che ad una «pregiudiziale benevolenza nei confronti della sua epoca». Dante, secondo Naphta, ha attribuito indebito rilievo «a quel mediocre versificatore», «laureato di corte e leccapiedi della stirpe Giulia, letterato metropolitano, retore pomposo senza una scintilla di creatività», per nulla poeta, «bensì un francese con parrucca a boccoli dell’epoca augustea» (cito dalla traduzione, ormai insostituibile, di Renata Colorni).
Donde tanta acrimonia, e perché per il rivoluzionario-gesuita Naphta Virgilio è un così aborrito bersaglio? Naphta si richiama esplicitamente ai «maestri della giovane chiesa» (cristiana), i quali «non si erano stancati di mettere in guardia dalle menzogne dei poeti e dei filosofi dell’antichità e in particolare dallo sporcarsi le mani con il fiorito eloquio di Virgilio»: un insegnamento che torna attuale, secondo Naphta, «oggi che un’epoca scende nella tomba e una nuova alba proletaria va spuntando». In sostanza, Naphta si fa assertore di un ritorno alla rivoluzione culturale cristiana volta alla distruzione dei classici, a fare table rase come rozzamente si diceva nel 1968.
Se dietro Naphta c’è Lukács, il Lukács iperbolscevico dei primi anni Venti, allora questa equiparazione tra rivoluzione culturale cristiana e alba proletaria ben si comprende giacché l’accostamento tra l’antica rivoluzione cristiana e la moderna rivoluzione proletaria era già stato un topos della riflessione per esempio di Engels, ma anche di Kautzky e, decenni dopo, di Deutscher. Il bivio dinanzi al quale il pensiero cristiano si era trovato dopo la generazione dei «maestri della giovane chiesa», era stato tra la tabula rasa e il recupero quanto possibile ampio della cultura passata, nel nome di una asserita, non sempre ben argomentabile, continuità. E Virgilio era, poté efficacemente essere, l’architrave, l’asse portante di tale continuità. Un ruolo che trova il suo culmine nella scelta dantesca di farne la guida nel viaggio ultraterreno descritto nelle prime due cantiche della Commedia.
CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA-CATTOLiCA:
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 01.08.2010)
«Molti anni fa un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un dono caro. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, aveva un potere segreto: rendere grato a Dio e agli uomini chiunque la portasse...». Comincia così la parabola che Nathan, un saggio ebreo gerosolimitano, narra al sultano Saladino nel 1192, durante una parentesi delle lotte tra musulmani e cristiani in Terrasanta. Questa parabola è nota a tutti nel suo esito finale, anche perché secoli prima che Ephraim Lessing nel 1779 la incastonasse nel suo poema drammatico Nathan il saggio, fatto di 3.849 pentapodie giambiche, il nostro Boccaccio l’aveva messa in bocca a "Melchisedech giudeo" nella terza novella della prima giornata del suo Decameron.
L’anello, lasciato in eredità di generazione in generazione, «giunse alla fine a un padre di tre figli, tutti e tre ugualmente obbedienti e da lui amati allo stesso modo... Così, con affettuosa debolezza, egli promise l’anello a tutti e tre». Ma come alla fine assegnarlo? La soluzione è nota: ne fece cesellare altri due identici e, in punto di morte, chiamò i figli uno per uno e a ciascuno consegnò un anello. Nessuno dei tre sapeva quale fosse quello vero.
La metafora è sciolta da Lessing nello spirito della tipica liberalità illuministica, che animava il nostro autore tedesco e che sarà celebrata anche dal famoso elogio della tolleranza intessuto da Voltaire.
I tre monoteismi, incarnati dai tre anelli, devono coesistere in spirito ecumenico e armonico. Sarà ciò che espliciterà il giudice a cui i tre figli ricorrono per dirimere la questione dell’autenticità e, quindi, del primato: «Ognuno di voi ebbe l’anello da suo padre, ognuno di voi sia sicuro che esso è quello vero. Egli vi ha amati ugualmente tutti e tre; non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno solo. Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi! Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra del suo anello! E aiuti questa virtù con la dolcezza, con indomita pazienza, con la carità e con profonda devozione a Dio».
Giustamente nella nuova edizione di questo "dramma di idee", il curatore Leo Lestingi appaia alle parole del giudice un passo del Corano molto significativo di cui il testo di Lessing sembra essere quasi una «riscrittura laica»: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate, allora, nelle opere buone perché tutti a Dio tornerete e in quel momento Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 46-48).
Non è ora nostro compito illustrare la tesi di Lessing, secondo il quale la vera religione è quella che rende migliore l’uomo, adottando così un parametro veritativo esistenziale, etico e antropologico. Come osserva Lestingi, per lo scrittore tedesco «ciò che conta non è il fatto di essere cristiani, ebrei o musulmani, se ciò porta a oscurare la dignità umana, ma è l’essere uomini; decisivi sono i valori e i compiti di un umanitarismo qualitativo».
Questa concezione esalta, certo, il pluralismo, ribadisce che ogni religione ha un suo frammento di verità, ma anche introduce consequenzialmente una sorta di soggettivismo e persino di relativismo.
Infatti, i tre devono adattarsi a considerare come autentici tutti e tre gli anelli, ignorando la realtà oggettiva per la quale uno solo è l’anello vero. A questo proposito desidererei accennare molto sinteticamente a una questione più attuale e più complessa nelle sue formulazioni teoriche e pratiche.
Intendo riferirmi al dialogo interreligioso che ai nostri giorni ha un rilievo straordinario, soprattutto con l’irruzione della globalizzazione e con l’affacciarsi impetuoso di un monoteismo, quello islamico, nelle nostre città cristiane. Il dialogo tra le religioni è diventato, quindi, anche un nuovo capitolo della teologia contemporanea. Anzi, aveva ragione il teologo Heinz R. Schiette quando, già nel 1963, nel suo saggio Le religioni come tema della teologia osservava che «ci si trova di fronte a un terreno dogmaticamente nuovo, paragonabile alle zone in bianco degli antichi atlanti».
Al tradizionale paradigma dell’ “esclusivismo” (extra ecclesiam nulla salus) si è sostituito quello dell’ “inclusivismo”, suggerito soprattutto dal famoso teologo tedesco Karl Rahner, mentre il Concilio Vaticano II ha dato impulso «al dialogo e alla collaborazione dei cristiani coi seguaci delle altre religioni» (Nostra Aetate 2), così come si sono tentate mediazioni ulteriori tra i due paradigmi citati attraverso la proposta di un cristianesimo "relazionale".
Si è, però, corso anche il rischio di procedere verso la deriva di un pluralismo che in pratica faceva perdere l’identità alla teologia cristiana stingendone, se non estinguendone, il volto proprio. Si pensi, ad esempio, al cosiddetto paradigma "geocentrico" proposto dal teologo presbiteriano britannico John Hick nelle sue opere Dio e l’universo delle fedi (1973) e Dio ha molti nomi (198o), destinato a cancellare la speciticità cristologica. In sede meno teorica e più etico-politica - e, quindi, con minore assertività - si è mosso anche il noto Progetto per un’etica mondiale, elaborato nel1990 da Hans Küng (in italiano fu tradotto da Rizzoli nel 2001) e adottato dal "Parlamento delle religioni" di Chicago nel 1993: esso si basava su un consenso morale minimo verso cui le grandi tradizioni culturali e religiose dovevano convergere per essere al servizio dell’humanum, così da creare un mondo «giusto, pacifico e sostenibile».
È significativo notare che Küng rimandava proprio a Lessing, affermando che la bontà o meno di una religione, e quindi la sua "verità", dipende dalla sua promozione autentica della dignità dell’uomo e del bene comune.
Se è vero che il fondamentalismo etnocentrico e integralistico è la negazione esplicita del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo, lo sono però anche le forme di sincretismo e relativismo, che più facilmente tentano civiltà stanche e divenute meno identitarie come quelle occidentali.
Anche questo atteggiamento - come quello che propone vaghe religioni "unitarie" su pallidi e inoffensivi denominatori comuni (ne sono esempi le tesi dello storico inglese Arnold Toynbee o del pensatore indiano Vivekananda) - si oppone al vero dialogo. Esso, infatti, suppone nei due soggetti un confronto di identità e di valori, certo per un arricchimento reciproco, ma non per una dissoluzione in una generica confusione o in un appiattimento.
Come l’eccesso di affermazione identitaria può diventare duello non soltanto teorico, ma anche armato, così il concordismo generico può degenerare in un incolore uniformismo o in una "con-fusione" relativistica. Conservare l’armonia della diversità nel dialogo e nell’incontro, come accade nel duetto musicale (che crea armonia pur nella radicale differenza dei timbri di un basso e di un soprano), è la meta di una genuina e feconda esperienza multiculturale, interculturale e interreligiosa.
Lestingi è, comunque, convinto che Lessing «non abbia mai voluto sfilarsi di dosso il cristianesimo come una vecchia tunica logorata, ma ha inteso interpretarlo in maniera nuova e ardita facendogli fare un salto in avanti». Un salto, però, piuttosto rischioso che ha sotto di sé anche il vuoto di uno smarrimento della specificità e dell’autenticità teologica.
Gotthold Ephraim Lessing, «Nathan il saggio», a cura di Leo Lestingi, Palomar, Bari, (via Nicolai, 47), pagg. 246, € 24,00.
Laici e sacerdoti oggi
di Luigi Bettazzi (L’Osservatore Romano, 25 aprile 2010)
Quando si parla di "vocazione", nella Chiesa si intende normalmente la chiamata (in latino vocatio) al sacerdozio, o, quasi per affinità, la chiamata alla vita religiosa. E questo corrisponde alla mentalità diffusa che i sacerdoti sono l’espressione tipica, qualificata, della Chiesa. Lo si vede oggi anche dal clamore che si fa come sfida alla Chiesa per le mancanze di suoi sacerdoti. V’è quasi l’idea che "la Chiesa sono i preti" (tanto più i vescovi), mentre la massa dei fedeli costituirebbe l’insieme dei beneficiari dell’azione (magisteriale e ministeriale) della gerarchia.
Ora, è vero che la gerarchia è indispensabile per la garanzia della vita della Chiesa, per la certezza della dottrina e l’efficacia della trasmissione della grazia; e per questo dobbiamo pregare perché il Signore chiami tanti alla vita sacerdotale (e religiosa) e perché chi vi è chiamato risponda con generosità.
Tutto questo però poneva la condizione del clero su di un livello di superiorità, che si traduceva poi in una specie di promozione o di difesa di "casta". Forse certi silenzi e coperture di cui si parla anche oggi corrispondono a questo atteggiamento di difesa e di riguardi, evidente anche nella espressione che si usava per il sacerdote che lasciava la sua condizione e che veniva "ridotto allo stato laicale". Il concilio Vaticano II ha richiamato una verità che è tipica della Rivelazione, che nel Nuovo Testamento parla di Gesù come l’unico mediatore tra Dio e l’umanità, il sommo ed eterno sacerdote. Se ogni cristiano, col battesimo, viene inserito in Gesù Cristo, morto e risorto, dobbiamo concludere che ogni cristiano è sacerdote, portatore del divino nel mondo e consacratore della realtà creata. Perché questo si realizzi, e in modo sempre più pieno, ci sarà bisogno di un sacerdozio ministeriale, continuatore ed estensore del ministero degli Apostoli, ma l’efficacia della loro funzione sarà proporzionale alla comprensione e alla dedizione del loro servizio (in latino ministerium).
Questa precisione di visuale è sollecitata dall’impostazione stessa che i Padri conciliari hanno voluto per la costituzione sulla Chiesa (la Lumen gentium): mentre la prima stesura dopo una riflessione sulla natura della Chiesa affrontava il tema della gerarchia e al terzo posto quello dei fedeli laici, i vescovi del concilio hanno voluto che, dopo la trattazione sulla natura della Chiesa (come "mistero" che attinge la Santissima Trinità) si parlasse invece dell’intero popolo di Dio, e al terzo posto della gerarchia, che è appunto al servizio del popolo di Dio. È così che il "magistero" dovrà sentirsi in funzione non solo o non tanto dell’esattezza delle formule dogmatiche quanto della "profezia" dei cristiani, della loro comprensione della Parola di Dio e della loro coerenza nel viverla, come ci è stato raccomandato dalla costituzione Dei Verbum. E il sacerdozio ministeriale non dovrà solo guardare alla solennità e all’esattezza della liturgia, ma dovrà preoccuparsi che essa diventi realmente la preghiera vissuta della gente, "culmine e sorgente della vita cristiana", come dice la costituzione sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium). Questo farà sì che la gerarchia colga sempre più l’invito conciliare alla "collegialità" che, se si esprime compiutamente nella collaborazione dei vescovi col Papa e dei vescovi tra di loro, si ritrova a ogni livello della Chiesa nello spirito e nella prassi della "comunione". La costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (la Gaudium et spes) ci invita peraltro a considerare quanti "semi del Verbo" ci sono nel mondo, quanta diffusione di grazia ci sia nel creato anche al di fuori delle strutture ecclesiali.
La presenza di dialogo e di confronto col "mondo" qualifica la "vocazione" dei cristiani laici, a cui il battesimo affida il compito di lievitare la società e l’intera umanità verso il "regno di Dio", cioè verso un mondo di coscienza e di amore quale Dio lo vuole. E questo qualifica anche la "vocazione presbiterale" in ordine a una missione aperta e fiduciosa, che valuti il primato delle persone sulle strutture (pure indispensabili nella loro funzionalità), e che dia la priorità - come fece Gesù - non ai vertici sociali, ai notabili, fossero anche quelli esteriormente più in vista (com’erano allora i farisei e i dottori della Legge), bensì ai piccoli, ai poveri, ai sofferenti, agli emarginati. Con felice intuizione la Conferenza episcopale italiana, nel 1981, affermava che bisogna "partire dagli ultimi".
Tutto questo non attenua l’impegno di santificazione dei presbiteri. Al contrario, se una guida autoritaria, fatta in prevalenza di comandi, si basa sul valore delle cose comandate e sulla prevalenza del comando, una guida autorevole, basata cioè sulla persuasione e sull’esempio, esige in chi guida "un supplemento di umanità e di santità".
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa (la Repubblica, 29.12.2008)
In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l’ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l’apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un’opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell’intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l’occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l’essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all’altro l’intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all’altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all’infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l’occasione fermerò l’attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com’è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso).
Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell’uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l’elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un’inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l’insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell’esercizio delle loro attività artigianali?
Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s’alza o s’abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com’è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d’una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino.
«Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un’affermazione d’identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata).
È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt’altro che casuale.
L’origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d’esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
Leopardi figlio di Galileo
Un libro di Gaspare Polizzi sul legame tra lo scienziato e il poeta
di Pietro Greco *
C’è un filo rosso che lega la storia della grande letteratura italiana, da Dante a Galileo fino a Giacomo Leopardi. Questo filo rosso - anzi questa «vocazione profonda» - diceva Italo Calvino, è la filosofia naturale. Qui tre grandi - e poi lo stesso Calvino - hanno considerato «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Cosicché tra la grande letteratura e la scienza, in Italia, non c’è mai stata quella separazione denunciata cinquant’anni fa da Charles Percy Snow nel suo famoso libro sulle «due culture». Ma c’è stata una reciproca influenza? Quanto la figura di Dante ha contato per Galileo? E quanto Galileo ha pesato su Leopardi?
Alla prima domanda si può rispondere di sì: chi è venuto dopo si è lasciato influenzare dal grande che lo ha preceduto. Basti ricordare, per quanto riguarda Galileo, che la sua carriera accademica è iniziata virtualmente nel 1588, con le "Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante", il ventiquattrenne figlio del musicista Vincenzio dimostra di essere sia un valente matematico che un profondo conoscitore del Sommo Poeta.
Per quanto riguarda l’influenza che lo stesso Galileo avrà su Leopardi abbiamo prove meno evidenti. Nelle sue opere il poeta nato a Recanati non cita spesso lo scienziato nato a Pisa. Eppure è possibile dimostrare che «la figura e l’opera di Galileo [hanno un ruolo decisivo] sulla filosofia di Leopardi e sul suo stile». L’affermazione è di Gaspare Polizzi. E gli argomenti, solidi e documentati, a favore della sua impegnativa tesi sono contenuti nel libro, «Galileo in Leopardi» (pagine 220, euro 22,00) che lo storico della scienza in forze all’università di Firenze ha da poco pubblicato presso la casa editrice Le Lettere.
Gaspare Polizzi ha passato in rassegna con grande rigore tutta l’opera di Leopardi alla ricerca di tracce, dirette o indirette, che riconducono a Galileo. Giungendo, a nostro avviso, a tre conclusioni di grande rilievo e a una considerazione che riteniamo di stringente attualità.
La prima conclusione finora niente affatto scontata è che, malgrado il nome dell’"Artista Toscano" (le definizione è del poeta John Milton) ricorra relativamente poco negli scritti di Leopardi - tranne in quelli resi pubblici della "Crestomazia della Prosa" e in quelli inediti dello "Zibaldone" - la presenza di Galileo nel pensiero e persino nello stile del poeta di Recanati non solo c’è, ma è addirittura decisiva.
Leopardi, infatti, non solo ha letto Galileo e le opere su Galileo. Ma lo considera: il più grande fisico di tutti i tempi; un filosofo di primaria importanza nella storia del pensiero umano; e, insieme a Dante, appunto, il più grande rappresentante della letteratura italiana. Galileo è «per la sua magnanimità nel pensare e nello scrivere» un (forse "il") modello per Leopardi.
La seconda conclusione documentata da Gaspare Polizzi è che Giacomo Leopardi, pur conservando, questa sintonia di fondo con Galileo, modifica e aggiorna e affina nel tempo i suoi giudizi sullo scienziato toscano. Gaspare Polizzi è così abile da mostrarci come Leopardi scopre nel tempo Galileo. Quali opere legge. E da quali è particolarmente colpito.
La terza conclusione è che, per quanto grande e addirittura decisiva sia l’influenza che Galileo esercita su Leopardi, l’epistemologia del poeta di Recanati non si esaurisce totalmente in quella dello scienziato pisano. Anzi, vi sono talvolta delle differenze. Entrambi, certo, considerano lo studio della natura, attraverso certe dimostrazioni e sensate esperienze, il nuovo modo, superiore, di filosofare intorno ai fatti del mondo fisico. Ed entrambi credono nella "potenza della ragione", capace di leggere il libro della natura e superare le false credenze degli antichi. Tuttavia Leopardi insiste molto più di Galileo sui limiti della conoscenza umana anche sui fatti della natura e, dunque, sulla relatività delle verità scientifiche. Ha un’attenzione per la matematica e per il suo valore epistemologico molto meno marcata dello scienziato toscano. E, più di Galileo, focalizza la sua attenzione sulla complessità del mondo. Anzi, per dare risalto a questa sua visione molto articolata del mondo fisico - dove piccole cause all’apparenza insignificanti possono produrre grandi effetti - Leopardi non esita a "tirare" fino a distorcere il pensiero di Galileo.
Galileo, dunque, ha una grande influenza su Leopardi. Ma, come sempre accade con i giganti che salgono sulle spalle di giganti, Leopardi ha una lettura critica e personale di Galileo.
C’è, infine, una ultima considerazione che ci propone il libro di Gaspare Polizzi e che ha un qualche riverbero nell’attualità. Nei suoi scritti Leopardi mostra una certa riluttanza a parlare della teoria copernicana e opera delle censure abbastanza sistematiche sul "processo a Galileo". Uno dei motivi, scrive Polizzi, è da attribuire al conflitto a distanza con il padre intorno alla legittimità della proposta galileiana. Ma, probabilmente, c’è anche una certa ritrosia - forse un vero e proprio timore - del giovane di Recanati ad assumere posizioni non conformi alla lettura che la Chiesa cattolica a due secoli di distanza fa del «processo a Galileo».
* l’ Unità, Pubblicato il: 29.04.08, Modificato il: 29.04.08 alle ore 19.49
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
SAVERIO ANSALDI: LUCREZIO, BRUNO E LA "POLITICA DELL’AMORE" *
Scrive Giordano Bruno nel De Immenso, mentre il XVI secolo volge ormai al termine: "Quando, in estate, cadono dall’aere gocce di pioggia sulla Terra infuocata, battuta dall’Apulo e dal Libico, dalla polvere incotta nasce repentinamente la rana e uguaglia il numero delle gocce, tanto che tu potresti credere, mirando al suolo, che tante rane siano cadute dal cielo (...). Tale e’ l’origine del serpente, del pesce, del topo, della rana gracidante, tale quella del cervo, della volpe, dell’orso, del leone, del mulo e dell’uomo". Di qui una visione del progresso dell’umanita’ fondato sull’attivita’ pratica e sulla conoscenza naturale, che Bruno e Lucrezio, poeti-filosofi, condividono. La civilta’ e’ sempre il risultato di una lotta e di una conquista, dal momento che l’uomo non gode di alcun privilegio metafisico e morale in un universo infinito in perenne trasformazione.
Lucrezio e’ una fonte e un punto di riferimento filosofico costante del pensiero di Bruno. Il De rerum natura e’ citato sia nei dialoghi italiani che nelle opere latine. Gli aspetti principali del pensiero di Lucrezio presenti in Giodano Bruno possono essere chiaramente identificati. In primo luogo troviamo una teoria dell’atomo e del "minimo" come parti originarie e costituenti della materia. Questa teoria si innesta su una concezione dell’infinito fisico e cosmologico che implica a sua volta una critica del cosmo finito di derivazione aristotelica. Un altro punto essenziale riguarda la teoria di un’antropogenesi spontanea, vale a dire la nascita del genere umano a partire dai processi di aggregazione naturale degli atomi. Per Bruno, come per Lucrezio, l’umanita’ costituisce una forma di vita fra le altre, sorta per effetto dei fenomeni naturali.
L’infinito materiale della vita
Dei molti temi che caratterizzano l’uso bruniano del De rerum natura, tuttavia, uno merita di essere messo in luce con particolare attenzione. Si tratta della concezione dell’amore, che prende forma in Bruno a partire da un doppio movimento filosofico: da una parte, la tradizione platonica e neoplatonica (Marsilio Ficino e Leone Ebreo), dall’altra Lucrezio. Vale a dire che Bruno riunisce, in una sintesi originale, una visione puramente materialistica dell’amore, come quella lucreziana, e una visione animistica, quale si riscontra nei grandi autori neoplatonici del Rinascimento italiano.
Il risultato di questa sintesi teorica e’ cio’ che potremmo definire una "politica dell’amore", che Bruno sviluppa in una delle sue ultime opere, il De vinculis del 1591. Qui, Bruno scrive che "tutti i vincoli si riconducono al vincolo d’amore, ne dipendono, riposano in esso (...) E’ infatti manifesto che l’amore costituisce il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama niente non ha di che temere, sperare, gloriarsi, insuperbirsi, osare, disprezzare, accusare, scusare, umiliarsi, emulare, adirarsi e aprire la porta ad altri esempi del genere. La materia ha dunque ampio campo; (...) e questa riflessione non si deve giudicare troppo lontana dalle norme della vita civile, dal momento che e’ straordinariamente piu’ estesa di quanto attiene alla mera norma della vita civile".
Nel quadro della filosofia politica del Rinascimento, quella di Machiavelli s’intende, le affermazioni di Bruno sembrano prive di senso: l’orizzonte della politica e’ quello dell’interesse, del conflitto e della guerra, dell’uso della forza e dello scontro. Potremmo quasi dire che Bruno non coglie i fondamenti reali della politica e che probabilmente intende parlare d’altro. Ma in realta’ si tratta di comprendere il senso esatto della sua nozione: che cos’e’ e su cosa si fonda una "politica dell’amore"? Quali i suoi principi e i suoi presupposti? L’azione politica, per Bruno, poggia innanzitutto sulla materia vivente che costituisce la trama dell’universo infinito. Il "modello" della vita politica e’ rappresentato dall’universo infinito materiale, attraversato dalla potenza inesauribile della vita. E la vita cosmica non e’ altro che amore, poiche’ tutte le cose che vivono nell’universo infinito sono "vincolate" e strette le une alle altre dalla forza dell’amore. L’amore e’ la potenza cosmica che connette tutti gli esseri dell’universo, dai pianeti alle stelle, dai vegetali all’uomo.
Per Bruno, che riprende qui Marsilio Ficino, la potenza dell’amore e’ una vera e propria possibilita’ permanente di trasformazione e di metamorfosi: l’amore e’ una forza che rigenera e rinnova, e’ la resurrezione immanente della natura infinita. Perche’, allora, la materia vivente e "amorosa" diventa il modello della vita politica? Perche’ si tratta per Bruno di riprodurre, nella politica e nella vita civile, i vincoli d’amore che legano gli esseri nell’universo infinito.
Questo il significato straordinario della sua tesi, per cui la finalita’ della politica consiste nel perfezionare in modo esponenziale la potenza della natura umana, pratica e teorica, definita dai vincoli d’amore. Quei vincoli, cioe’, che costituiscono le metamorfosi "sociali" e che permettono le trasfomazioni incessanti della natura umana, secondo i ritmi e le variazioni della natura infinita. Il fine della politica si trova proprio nella necessita’ e nell’imperativo di favorire al massimo le possibilita’ di metamorfosi e di trasformazione dell’uomo e della sua natura. Ecco perche’ il "vincolo sociale" non puo’ essere altro che un vincolo d’amore, vale a dire un processo di cambiamento fondato sulla rigenerazione permanente delle forme della vita umana: affettive, economiche, giuridiche.
La politica non deve difendere un ordine naturale originario e normativo o promuovere un vitalismo primitivistico cosi’ come elaborato dal filosofo conservatore Oswald Spengler; essa deve piuttosto costruire un "mondo" all’interno del quale la natura umana possa vivere affermando ed esprimendo tutte le sue possibilita’ e tutte le sue potenzialita’. Le metamorfosi della natura umana costituiscono in tal senso la sola e unica "utilita’" della vita politica: la potenza umana e’ "utile" quando vive e si nutre dei vincoli d’amore. L’"uso" della vita umana - ed e’ questo probabilmente l’aspetto piu’ sovversivo del pensiero di Bruno - non rimanda all’ordine trascendente dell’agostiniana "citta’ di Dio" o all’ordine legale del "dio mortale" di Hobbes. Si radica invece nel ritmo incessante delle metamorfosi infinite della materia vivente, con le sue variazioni e le sue vicissitudini. L’uso comune della vita umana e’ l’amore della metamorfosi, e in questo amore la politica rivela la sua piu’ profonda e legittima utilita’.
La politica deve quindi essere all’origine di una "vita nuova", di un uso della vita umana come resurrezione materialistica dei corpi e delle menti, attraverso l’amore dei vincoli comuni che ci legano gli uni con gli altri.
Vincoli che non sono propri dei soli esseri umani. Tutti gli esseri naturali sono uniti dall’amore cosmico. L’utilita’ della politica deve quindi coinvolgere la "natura" nel suo complesso. Si potrebbe affermare che la politica umana, per Bruno, deve essere un effetto necessario della potenza infinita della natura; la natura non e’ "oggetto" della politica (non si tratta, con Heidegger, di prendersi "cura" della natura, o di "difenderla", con Jonas e il suo principio di responsabilita’) ma e’ piuttosto la politica a essere prodotta dalla natura infinita come infinito processo di metamorfosi.
Una luce sulla vita errante
La politica e’ solo un aspetto o un’"ombra", per utilizzare una terminologia bruniana, dell’amore infinito e della vita che si rinnova costantemente nella materia dell’universo. La vita nuova dell’amore e dei suoi vincoli e’ la legge che ogni politica dovrebbe poter applicare, poiche’ tale legge e’ l’unica forma di vita adeguata all’uso comune e giusto della natura infinita. Entro un universo ormai privo di gerarchie e di ordini trascendenti, Bruno scopre le regole di una vita nuova, "vincolata" all’utilita’ comune che non rimanda ne’ al concetto d’interesse ne’ a quello di profitto. Facendo del vincolo d’amore il solo e unico imperativo categorico della politica, Bruno mette in luce il rapporto di "cooperazione" fra la natura umana e finita da un lato e la materia infinita dall’altro, che l’azione politica deve costantemente costruire e inventare, contro ogni forma di ingerenza e di dominio, ideologico, culturale, economico o teologico.
La filosofia politica di Giordano Bruno rappresenta cosi’, all’interno della tradizione del pensiero moderno, una vera e propria "utopia", una sorta di non-luogo, estraneo tanto al nascente realismo dello Stato assoluto di Bodin e di Hobbes, quanto all’universalismo cattolico di Campanella o al progressismo scientifico di Bacon. Essa occupa una zona d’ombra, dalla quale si irradia la luce di una vita nomade ed errante, impegnata nella ricerca dei vincoli d’amore, nelle metamorfosi incessanti del mondo.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 431 del 20 aprile 2008
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 dicembre 2007, col titolo "Metamorfosi amorosa della natura umana" e il sommario "Da oggi a Milano un convegno internazionale su ’Lucrezio nella Modernita’’. La teoria dell’atomo del filosofo e poeta latino come base di una ’politica dell’amore’, dove l’infinita potenza della vita e’ fonte di una pratica della trasformazione sociale" riprendiamo uno stralcio della relazione di Saverio Ansaldi al convegno "Lucrezio nella modernita’" svoltosi il 13 e 14 dicembre 2007 all’Universita’ di Milano-Bicocca (convegno cosi’ presentato in una nota di Nicola Marcucci dal titolo "Lucrezio, l’incontro alla Bicocca di Milano" apparsa sullo stesso foglio: "Le diverse interpretazioni moderne di Lucrezio, seppur nella loro pluralita’, sono legate da una comune condanna o, al contrario, dalla rivendicazione di una comune appartenenza, sotterranea ed eccentrica rispetto ai canoni della storiografia filosofica ufficiale. Spinoza ne ha tracciato con forza i confini: ’L’autorita’ di Platone, di Aristotele e di Socrate - scrive a un suo superstizioso corrispondente - non ha per me gran valore. Sarei stato molto sorpreso se mi aveste citato Democrito, Epicuro, Lucrezio o qualche altro atomista o sostenitore dell’atomismo’. In una altra modernita’, ma entro i medesimi confini perimetrati da Spinoza, Marx ’traduceva’ Lucrezio, nel primo libro del Capitale, sottolineando come il valore, non potendo esser creato dal nulla, fosse piuttosto trasformazione di forza lavoro e come questa fosse ’anzitutto un complesso di sostanze naturali trasformate in organismo umano’. E’ alla tante modernita’ lucreziane e alla problematica definizione di questa comune appartenenza - caratterizzata dall’antifinalismo, dalla critica alle superstizioni religiose e all’antropomorfismo, dal rifiuto della filosofia come mera meditazione della morte - che sara’ dedicato il convegno ’Lucrezio nella modernita’’...").
Saverio Ansaldi e’ docente e saggista; dalla medesima fonte riprendiamo la seguente scheda: "Saverio Ansaldi e’ professore associato di Filosofia politica all’Universita’ di Montpellier III - Paul Valery. Si e’ occupato di filosofia tedesca (Schelling), di filosofia moderna (Spinoza) e lavora attualmente sulla filosofia politica del Rinascimento italiano (Machiavelli, Bruno, Campanella). Ha pubblicato articolo e saggi su Spinoza e Giordano Bruno (Spinoza et le baroque. Infini, desir, multitude, Kime’, 2001; Nature et puissance. Giordano Bruno et Spinoza, Kime’, 2006). Ha curato l’edizione francese dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Vrin, 2006) e tradotto in italiano Spinoza e il problema dell’espressione di Gilles Deleuze (Quodlibet, 1999). E’ membro del comitato di redazione della rivista ’Multitudes’"]
DANTE LETTO NELLE PIAZZE PARLA ALLA GENTE
di DANIELE PICCINI (Avvenire/Agorà, 17.04.2008)
In giro per l’Italia si sta rianimando l’uso delle «lecturae Dantis», dopo la sistematica e completa immersione di Vittorio Sermonti di qualche anno fa e dopo la popolatissima performance di piazza e di teleschermo di Roberto Benigni. Proprio l’attore toscano, per l’effetto di schiacciamento che i grandi media inducono, diviene un punto di partenza interessante e insieme contrastivo. Il pubblico più largo e generico è suggestionato a pensare che l’unica «lectura» possibile sia di quel tipo. Una messa in scena appassionata, magari con divagazioni attualizzanti e satiriche, e con la mediazione necessaria di un attore, di un «performer» appunto. Ma la storia, come sempre, è più lunga e complessa. Basti pensare che la prima «lectura Dantis» della storia venne tenuta da Giovanni Boccaccio a Firenze nella chiesa di Santo Stefano di Badia nel 1373.
Anziano e malandato, in una sessantina di lezioni pubbliche, Boccaccio arrivò a commentare circa la metà della prima cantica. In una chiesa, si diceva. Quello che Dante chiama nel «Paradiso» «sacrato poema» e ancora il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» può essere meditato, ’ruminato’ e letto in un luogo per l’appunto sacro: la parola umana, umana al quadrato grazie alla tecnica poetica, aspira tuttavia, nell’altissima pretesa della Commedia, ad essere parola di verità, con l’autore autopromosso a «scriba Dei». Così a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, si è promosso un ciclo di quattro letture, intitolato «Comincia la commedia», proprio nella cattedrale romanica del paese: analisi e commento del primo canto di ognuna delle tre cantiche affidati a un dantista e a seguire lettura integrale del testo da parte di un attore (con la serata finale del 18 aprile dedicata alla versione in dialetto locale dell’«Inferno»: la Commedia è stata ’reinventata’ non solo in innumerevoli lingue straniere ma in tanti idiomi dialettali della penisola). A Milano poi, all’Università Statale, è ancora in corso la nuova edizione degli «Esperimenti danteschi», quest’anno dedicata all’«Inferno», con la presenza di prestigiosi dantisti italiani e stranieri. Che cosa suggeriscono queste «lecturae» rinate? Che la «Commedia» è stata letta per secoli nei modi classici della lectio accademica. E che Benigni è un felice episodio di una lunga trafila. E poi ci ricordano il potere ’salutare’ (come avrebbe detto Luzi) del poema: non solo in senso religioso, ma in chiave di pienezza della lingua, messa a frutto in tutta la sua efficacia ed economicità.
La potente scaturigine dantesca richiama all’origine, alle fonti di una parola armonizzata per «legame musaico» e per ciò stesso sottratta a ogni usura, consumo, deprivazione di energia. Parla perciò alla comunità civile. E a volerla e saperla ascoltare, parla anche ai dispersi poeti della tarda modernità, non come un bene di rifugio, consolatorio, ma come una spinta a riconsiderare i fondamenti del loro dire, perché possa nuovamente risuonare (anche attraverso una riforma tecnica e metrica) pubblico e comunitario.
Benedetto Lutero
di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia di Roma
Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di Lutero su alcuni quotidiani italiani. L’occasione è stata la notizia che, nel prossimo dei consueti incontri che ha con i suoi ex-allievi, il Papa intenderebbe occuparsi del pensiero del riformatore tedesco. Dall’incontro ci sarebbe da attendersi una rivalutazione degli elementi “cattolici” nel pensiero di Lutero. Il Financial Times bollava la presunta iniziativa con toni sarcastici: una cosmesi sull’immagine di Lutero non cambierebbe il dogmatismo di Benedetto XVI e non accrediterebbe una liberalizzazione della chiesa di Roma. Il portavoce di Roma precisava infine che nessuna riabilitazione di Lutero è in vista e che il tema del prossimo incontro di papa Ratzinger con i suoi allievi non è ancora fissato.
Staremo a vedere se e che cosa dirà il Papa di Lutero. Se la questione di fondo sarà, come si esprime Giacomo Galeazzi su La Stampa, stabilire se Lutero “voleva creare una frattura o, invece, intendeva sì riformare, ma senza traumi, la storia millenaria della Chiesa”, e se la risposta accoglierà la seconda ipotesi, vorrà dire che anche Roma riconosce ora, quasi 500 anni dopo, ciò che da decenni è accertato sul piano della storiografia e del dialogo ecumenico. Lutero intese sostanzialmente ripristinare su basi bibliche la cattolicità della chiesa, cioè la sua universalità in Cristo, che riteneva compromessa dalla tradizione della chiesa romana. Egli era convinto che la chiesa una, santa, cattolica e apostolica esiste in Cristo, dalla sua venuta fino al suo ritorno, e si manifesta là dove la comunità cristiana vive nella fede, è santificata dallo Spirito, ed amministra rettamente i sacramenti. Per questa sua interpretazione della cattolicità, universale e non “romana”, che deriva direttamente dal Credo niceno, fu scomunicato e messo al bando. Sarà interessante vedere come si parlerà di Lutero - se lo si farà - , in questi tempi in cui sempre più la chiesa di Roma si erge a criterio e misura della cattolicità, che ritiene di detenere compiutamente.
La comparsa passeggera di Lutero sulla stampa solleva però immediatamente un altro problema, tipico del nostro paese e della nostra cultura, che non esiterei a definire “questione protestante”. L’apporto che il protestantesimo, da Lutero in avanti, ha dato alla coscienza cristiana e alla società moderna, è in Italia semplicemente ignorato, strutturalmente rimosso. Si sa bene o male che c’è una minoranza protestante anche in Italia. Ma, se posso dirlo con una battuta, non si sa che cosa ci si è perso, come italiani, negli ultimi 500 anni.
Non si sa che è emersa una postura cristiana che ha contribuito a forgiare la modernità, quella di chi sostiene che nella chiesa non esiste clero ma tutti sono ugualmente laici e sacerdoti, soggetti liberi e responsabili, con la schiena dritta e la testa alta davanti ad ogni pretesa di assolutezza e di obbedienza, soggetti solo alla Parola di Dio che li chiama e li giudica. Una postura che, avendo declericalizzato la chiesa, ha desacralizzato la politica, contribuendo ad aprirla al pluralismo delle convinzioni e alla negoziazione delle decisioni.
L’emergere di questa postura ha segnato la storia di gran parte dell’Europa, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Ma in Italia si può ancora ragionare come se tutto questo non ci fosse stato e, dai talk-show televisivi ai convegni sulla laicità, si può rappresentare un pluralismo variegato ma sempre rigorosamente senza confronto con le ragioni del protestantesimo. Che compare invece quando c’è qualcosa che suona come scoop. Non di scoop l’Italia ha bisogno, ma di recuperare dimensioni della storia moderna che le sono mancate, e che, tuttavia, potrebbero ancora farle un gran bene. (NEV, 10-11/2008)
Articolo tratto da
NEV - Notizie Evangeliche
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* il dialogo, Giovedì, 13 marzo 2008
Il Dante di Benigni "vale come una preghiera"
di Andrea Tornielli *
«Quella di Roberto Benigni, quella dei grandi interpreti della letteratura in televisione, è una scommessa vincente. Il servizio pubblico deve essere capace di compiere scelte coraggiose e promuovere vera cultura». Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia università Lateranense, l’ateneo del Papa, ha davanti a sé la pagina del Giornale con l’intervista a Benigni. «Mi ha molto colpito, domani (oggi per chi legge, ndr) devo tenere un incontro con molti sacerdoti e partirò proprio da alcune delle sue espressioni su Gesù».
La sorprende questo successo delle letture di Dante?
«Nella sua trasmissione non c’è solo il fatto positivo di riportare in primo piano un grande protagonista della letteratura, c’è anche un grande interprete che fa gustare Dante e avvicina i giovani alla Divina Commedia: è una svolta di cui non solo la televisione, ma più in generale il nostro Paese ha bisogno».
La letteratura, l’incontro con grandi autori, può aiutare la fede cristiana?
«L’incontro tra letteratura e cristianesimo è uno dei più fecondi. La letteratura indaga il mistero dell’uomo, ci fa capire in modo espressivo che nel cuore dell’uomo albergano interrogativi, grandi domande di senso, di significato. Domande che non possono essere espresse con il linguaggio scientifico. La letteratura evoca, ci fa intuire il grande mistero dell’esistenza e le domande costitutive del nostro essere uomini».
Forse, ci sarebbe più bisogno di maestri in grado di far vibrare quei testi...
«Guardiamoci alle spalle: che cosa sarebbe stata l’umanità senza Omero, Sofocle, Dante Alighieri, Pascal o Papini, Bernanos e Peguy? In questi come in altri grandi autori risplende una capacità di esprimere la bellezza del cristianesimo, più che in tanti libri di teologia. Penso al Diario di un curato di campagna e a come quelle pagine esprimano la forza di un amore che ama e perdona». Ci sono stati maestri ed educatori che hanno avvicinato generazioni alla lettura dei classici. Ad esempio don Luigi Giussani, che citava il ... Canto alla luna di Leopardi per evocare la domanda di felicità e compimento dell’uomo.
«La letteratura, non necessariamente cristiana, provoca il credente, la fede, la teologia a percepire la drammaticità dei grandi interrogativi del cuore umano. È stata anche la mia esperienza personale di docente, quando insegnavo alla IV ginnasio e iniziavo le mie lezioni con le pagine del Piccolo principe di Saint-Exupéry. Grazie a quelle pagine arrivavo ai nodi fondamentali dell’antropologia e della fede. Non vorrei poi che dimenticassimo che la Bibbia stessa ha testi stupendi di alta letteratura e di alta poesia. Prendiamo il Cantico dei Cantici o i salmi, o gli interrogativi espressi nel libro di Giobbe. Heidegger riconosceva che la poesia è la forma culminante per esprimere la realtà. Arte e letteratura sono una ricchezza inestimabile per la religione, che senza queste espressioni sarebbe impoverita e non esprimerebbe il mistero di Dio che si fa uomo».
Benigni ha detto: «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Il Vangelo ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro se stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé»...
«Parole che indicano quanto sia entrato nella profondità delle pagine evangeliche. Gesù, il figlio di Dio, con la sua esistenza ha dato una risposta alla nostra domanda di felicità e di significato».
Questo approccio ha qualcosa da insegnare a chi predica o insegna il catechismo?
«La bellezza va contemplata e contemplare significa anche rimanere in silenzio ad ascoltare chi ci propone un brano di letteratura. Vorrei ricordare, a proposito dell’inno “Vergine Madre Figlia del tuo Figlio”, che per noi quelle parole di Dante diventano preghiera, nella Liturgia delle Ore, in occasione di ogni festività mariana».
Benigni osserva che «tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo».
«È un’osservazione acutissima. Credo dovremmo prendere coscienza del fatto che tutto ciò che respiriamo trova compimento e fondamento in quel messaggio d’amore che è il Vangelo».
DIVINA COMMEDIA SUPERSTAR
(ANSA) - ROMA, 14 GEN - Il successo delle letture di Benigni la dice lunga. Applaudita in teatro e nelle piazze, la Divina Commedia continua ad emozionare. In Italia, certo. Ma anche all’estero, dove l’Opera del Sommo Poeta conquista il top nella hit del libro italiano più emozionante, che si rileggerebbe più volentieri.
A sottolineare il primato è il sondaggio mensile commissionato dal sito Internet della Società Dante Alighieri www.ladante.it: l’opera di Dante, che in una indagine precedente era già risultata la più significativa per la nostra identità nazionale con il 40% dei voti, prevale in questo caso con il 9% dei voti complessivi, seguita a ruota da altri big della letteratura del belpaese, da Umberto Eco a Manzoni e Tomasi di Lampedusa, Primo Levi. Non solo: perché in Brasile, dove certo non mancano grandi poeti nazionali, La Divina Commedia, secondo il portale Web ’Dominio Pubblico’ (citato dalla Dante Alighieri) è risultato il testo più letto dagli studenti che si stanno preparando per la prova obbligatoria di accesso all’università. Divina commedia superstar, quindi. Sebbene in quest’ultimo sondaggio, fanno notare dalla Società Dante Alighieri, il podio é stato insidiato fino all’ultimo giorno da ’Il nome della rosa’ di Eco, che ha raccolto l’8% delle preferenze. Ma anche da ’I promessi sposi’ di Alessandro Manzoni e ’Il Gattopardo’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (7%) e ’Se questo e’ un uomò di Primo Levi (6%). Nettamente distaccato, con il 3%, un altro vecchio classico, ovvero ’Cuore’ di De Amicis, seguito da ’La coscienza di Zeno’ di Italo Svevo (2%), in buona compagnia con ’Le avventure di Pinocchio’ di Collodi, ’Il barone rampante’ di Calvino, ’La storia’ di Elsa Morante e ’Và dove ti porta il cuore’ di Susanna Tamaro. Il maggior numero di contatti, riferiscono dalla Società Dante Alighieri, è arrivato dal continente americano, Argentina e Brasile su tutti. In Europa la palma d’oro va alla Svizzera, seguita da Francia, Spagna, Polonia ed Olanda. La novità assoluta arriva dall’Africa, in particolare il Marocco, con un notevole incremento di contatti rispetto al passato. La graduatoria, ricordano dalla Società è pubblicata sul portale della ’Dante’, dove si possono anche consultare i risultati finali di tutti i sondaggi precedenti. Con il 2008, infine, la Dante Alighieri lancia un nuovo quesito: "Qual è il poeta italiano, contemporaneo o classico, che preferisce?" , la gara è aperta, ognuno dica la sua.
E la Chiesa inventò il ballottaggio
Le istituzioni religiose modello di quelle laiche
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 17/10/2007 - 8:33)
Il monoteismo ostacola la democrazia? Gli studi storico-giuridici dimostrano che la democrazia moderna ha radici già nel V secolo, quando la Chiesa reintroduce due grandi principi. Il primo, riscoperto da Leone I nel 440, insegna che colui che deve governare su tutti deve essere eletto da tutti. Il secondo, spiega che ciò che interessa tutti come singoli va discusso e approvato da tutti. La decisione di affidare a un’assemblea (che ha la summa potestas) la scelta di colui che guiderà un’abbazia apparve nel VI secolo chiaramente stabilita nel capitolo 64 della regola benedettina; con l’elezione, a chi veniva affidato il comando era anche precisato il fine politico del mandato: adattare il suo governo alle circostanze e ai caratteri dei sudditi.
Il consenso popolare nelle assemblee ecclesiali veniva sottoposto allo scrutinio. Scrutari significa pesare, ponderare, esaminare, penetrare il significato esatto della portata dei voti espressi in un’assemblea. Lo scrutinio permise la nascita del voto segreto e la Chiesa lo accettò nei monasteri già dal V secolo: diventerà prassi comune con il Concilio di Trento. Nei Comuni, voto segreto e scrutinio apparvero per la prima volta negli statuti di Verona del 1225. Tanto per essere casuidici: il Parlamento inglese ammise il voto e lo scrutinio segreto solo nel 1872. La nascita della democrazia parlamentare viene fatta coincidere con l’istituzione del parlamento inglese, la «Magna Charta» del 1215, ma già nel 1115 i cistercensi si erano già dotati di una «Charta Charitatis» con cui ricorrevano a un parliamentum (parola e istituzione, quindi, nascono monastiche) che si riuniva per chiedere l’accordo della comunità prima di impegnarla in azioni e gravarla di imposte.
Per rendere accessibile il voto segreto a coloro che erano analfabeti, la fantasia democratica cristiana del VI secolo ricorse alle ballotte: fave chiare e scure, monete e medaglie di colore diverso: un colore per il «sì», l’altro per il «no». Dalle ballotte derivano infatti la parola ballottaggio e la locuzione parlamentare inglese «to black ball», bocciare una legge. Ai monaci illetterati i moderni parlamentari inglesi devono il loro usuale metodo di votazione: alzarsi in piedi per approvare o respingere. Quando gli ecclesiastici erano colti, lo scrutinio avveniva per schedulas segrete deposte in modo visibile nell’urna. Il voto di fiducia, invece, nacque certosino, a cavallo del Mille: ogni anno l’assemblea si riuniva giudicando l’operato del superiore, in base al quale quest’ultimo veniva confermato o deposto.
Anche la convocazione legale di un’assemblea e il quorum hanno un’impronta ecclesiastica. Nella storia dei Comuni il sistema maggioritario apparve solo nel 1143, nella Chiesa era in uso da otto secoli. Ai Domenicani si deve il bicameralismo, il voto di fiducia, la libera elezione dei rappresentanti alle assemblee elettive e legislative e l’espressione dei tre principi strutturali della democrazia parlamentare: corpo elettivo, collettività deliberante, autorità esecutiva. Ai Predicatori e al loro Definitorio dobbiamo la struttura dei consigli dei ministri; furono loro a conferire alle assemblee legislative il diritto di revocare a metà mandato il superiore eletto, secondo il grado di attuazione del programma espresso nel momento in cui si era candidato al superiorato. I nostri ordinamenti comunali, provinciali e regionali traggono buona parte delle loro istituzioni dalle costituzioni domenicane di Raimondo di Peñafort del 1238-1240 e di Raimondo Bandello del 1254-1256. Il sindaco, ad esempio, era un laico a cui veniva affidata la gestione dei beni di un istituto religioso.
La maggioranza qualificata resuscitò nella Chiesa nel 915, divenendo regola per l’elezione del Papa a partire dal 1179, ma è sulla maggioranza relativa che vale la pena riflettere: non piaceva a nessuno, nel 1205 il Papa la vietò e per tutto il XIII secolo scomparve da ogni istituzione. Ma, dotate di maggiore realismo sulle realtà soggettive e quelle strutturali, le comunità monastiche ignorarono il precetto papale e continuarono a decidere come sempre: maggioranza assoluta nei primi due scrutini, maggioranza semplice a partire dal terzo. Anche il Papa capitolò e nel 1247 Innocenzo IV canonizzò l’intuizione di Benedetto da Norcia che, sei secoli prima, aveva intravisto una presunzione di maggior saggezza nella maggioranza, non nella massa. Non è quindi un caso se oggi le uniche assise elettive sovrannazionali dove il voto di un africano abbia lo stesso valore di quello di un americano sono il conclave moderno. E, a leggere la lista dei Papi che hanno saputo liberamente eleggere, ai cardinali cattolici
Dio non fa venire alcun complesso antidemocratico: hanno sempre scelto personalità capaci di attraversare il loro tempo con la bussola della pace in mano.
Insieme a loro, i credenti nel Dio di Gesù Cristo si stanno educando a riconoscerlo vivo e presente nella diversità dei popoli e delle culture. Invece, la divinità degli idoli ciclicamente proposti in nome della complessità sociale sembra soprattutto dedita a predicare l’omologazione di tutti verso il quasi niente. Stiamo pensando all’Onu e all’Unione europea: siamo proprio sicuri che il potere di veto concesso ai cinque membri permanenti del Palazzo di vetro e l’unanimità imposta al Consiglio dei capi di governo dell’Unione, con gli approssimativi sistemi giuridico-politici che ne conseguono, siano la panacea imprescindibile per organizzare il mondo globalizzato in senso democratico e partecipativo?
Sul tema, da un punto di vista storico-filosofico, nel sito si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
50 anni fa: su l’Unità l’addio di Calvino al Pci
di Alessia Grossi *
È il 7 agosto 1957. Italo Calvino si dimette dal Pci. «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito». Con questa lettera lo scrittore piemontese si univa alle fila dei fuoriusciti. Per lui, come per altri arriva immediata la stroncatura del partito. In questi stessi giorni, a cinquant’anni di distanza da allora l’Unità pubblica un inserto con le pagine storiche del giornale. Momenti salienti come questo in cui la storia d’Italia e degli uomini che l’hanno fatta si incrociano sulle pagine del nostro giornale.
L’articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale, allora organo del partito comunista. Il titolo esplicativo è già un anatema: «Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino». Subito sotto, in basso a destra, la risposta del comitato direttivo. Il tono più che di condanna è di recriminazione. In quegli stessi mesi, dalle pagine di Città Aperta e di Rinascita, Calvino e Ferrara polemizzano con racconti ambientati nel mar delle Antille.
La decisione di Calvino di abbandonare il Pci arriva in agosto, ma sono già in molti ad aver lasciato il partito dagli ultimi mesi del ’56. Sono gli anni della diaspora, segnati dai fatti di Ungheria, dalla lettura che di quegli avvenimenti dà il Pci e anni in cui il dibattito aperto dalla questione ungherese si riflette necessariamente per scrittori e giornalisti, sulle pagine dell’Unità. Coloro che come Calvino, Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri, Eugenio Reale così come i 101 intellettuali che firmano il manifesto di dissenso, solo per citare qualche esempio, prendono le distanze dalla linea di Togliatti e del Pci. «I compagni e gli avversari» devono sapere, dice lo scrittore piemontese e non solo lui. E con lo stesso criterio i dirigenti accusano i rivoltosi di voler dare spettacolo della crisi del partito dandola in pasto con i loro articoli alla stampa borghese. Il fatto è che dopo la rivolta d’Ungheria, il 1957 per molti intellettuali e militanti doveva essere l’anno della svolta. La svolta rinnovatrice che sarebbe dovuta uscire dall’VIII congresso del Pci . Coloro che rimasero delusi dal congresso, i cosiddetti rinnovatori, non videro altra possibilità che quella di uscire dal partito. Entrambe le parti, fuoriusciti e militanti, misero bianco su nero le rispettive delusioni. Da parte di entrambi la speranza di un possibile rincontro.
Nel caso di Calvino questi anni difficili e questi avvenimenti, contrariamente alle sue dichiarazioni iniziali, segneranno un lento ma progressivo allontanamento dalla politica .
La lettera di dimissioni di Calvino
Italo Calvino si dimette dal Pci. Come altri compagni chiede che la sua lettera venga pubblicata sul L’Unità. Le ragioni della sua fuoriuscita sono chiare: «La via seguita dal Pci [...]» dichiara Calvino dalla settima pagina dell’Unità del 7 agosto 1957 «attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, m’è apparsa come la rinuncia ad una grande occasione storica». La delusione dello scrittore è evidente. Il suo dissenso, oltretutto, sarebbe solo d’ostacolo alla sua partecipazione politica. Astenersi da «ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa» per evitare una «nuova infrazione disciplinare» non è più un comportamento plausibile per lo scrittore piemontese.
Per Calvino, entrato nel Pci dopo aver combattuto contro i nazifascisti, iniziato alla scrittura con la collaborazione con Il Politecnico e L’Unità quello di voler essere un intellettuale indipendente resta una desiderio insindacabile. «Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro» spiega nella lettera ai compagni. Ma lo scrittore sa benissimo come il termine indipendenza, per lui tanto necessario non verrà accolto in modo benevolo dal partito. E, si affretta a spiegare, «non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone nel cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. E continuerò ad esserlo» Così Calvino saluta i compagni. «Non rinnego il passato» dice «vorrei rivolgere un saluto anche ai compagni più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi, al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente e a tutti; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano dei quali continuerò a considerarmi il compagno».
La stroncatura del comitato direttivo di Torino
«Il Comitato direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione». La risposta del direttivo è inevitabile. Calvino aveva chiesto la pubblicazione della lettera di dimissioni per sottrarsi ai colloqui previsti dallo statuto che - aveva detto lo scrittore - non avrebbero fatto che «incrinare la serenità» del suo commiato. Il partito non accetta il tacito accordo e replica immediatamente. «Nessuno contesta a Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l’unica misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave conclusione di lasciare il Partito» - tuona il comitato direttivo da Torino. Calvino è accusato di aver preso le distanze «dal metodo di valutazione marxista, per il quale dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive del Partito». Così stando le cose le ragioni dello scrittore sono in contraddizione l’una con l’altra. Parla di indipendenza, reagiscono dal comitato. «Indipendente da chi e da cosa?», si chiedono. Le formule di Calvino su un nuovo tipo di partecipazione alla vita del partito sono solo «formule che propongono una inaccettabile rinuncia». Il tono di recriminazione non cessa. «Proprio nel momento attuale» continua la lettera, la decisione dello scrittore denota «un cedimento rispetto alle sue responsabilità».
Ma la stroncatura arriva sul finale, apparentemente incoraggiante. «È da respingere con fermezza l’opinione che il Pci sia andato attenuando i propostiti rinnovatori in un sostanziale conservatorismo». Da qui la rimarcata intenzione da parte del direttivo di restare sulle sue posizioni e il vuoto augurio a fine lettera che «Calvino riesca a ritrovare la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante quale Calvino dichiara ancora di voler essere». Fermo restando la condanna del suo gesto e la critica dei suoi errori da parte del Pci.
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* l’Unità, Pubblicato il: 07.08.07, Modificato il: 07.08.07 alle ore 14.35
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007
500 citazioni: tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia Ma non basta: tutto lo schema delle tre cantiche risulta impostato sul modello dei due Testamenti.La tesi di uno studioso
Dante tra Mosè e san Giovanni
Il poema illustrerebbe l’ascesa dalla Torah (e dai classici greci e latini) allo Spirito: l’Inferno è il regno della legge biblica, il Paradiso quello del Vangelo, mentre nel Purgatorio domina la misericordiaL’Alighieri rifiuta ogni interpretazione letterale dei testi sacri e ogni morale assoluta: le leggi riguardano solo Cesare e non devono essere attribuite a Dio. Persino la collocazione dantesca delle anime nei gironi della pena o nei cerchi della gloria non ha valore definitivo, ma conserva solamente un significato spirituale.
di Pietro Gibellini (Avvenire, 14.06.2007)
Mezzo migliaio, uno più uno meno. Tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia, fra citazioni, allusioni e reminiscenze. A tacere delle molte edizioni commentate del poema, non mancano studi dedicati ai singoli aspetti, a partire dagli atti del convegno che vent’anni fa l’associazione «Biblia» dedicò al tema e che furono pubblicati da Olschki.
Eppure credo che il volume di Lodovico Cardellino, Dante e la Bibbia, sia il primo tentativo di interpretazione sistematica di quel delicato e cruciale rapporto. L’opera cade in tempi maturi per una riconsiderazione, anche da parte della cultura laica, della formidabile incidenza che il testo sacro ha avuto nella letteratura e nell’arte dell’Occidente: convegni e pubblicazioni al riguardo si vanno infittendo, anche al di là delle Alpi e dell’Atlantico. Ma quest’opera esce vicino a noi. La pubblica infatti Sardini di Bornato Franciacorta come quaderno a latere della rivista Bibbia e Oriente (pp. 224, euro 24). L’autore non è un accademico: aostano, si è laureato in fisica e in filosofia, ha girato mezzo mondo come addetto agli Istituti italiani di cultura.
Occorrevano forse la libertà dall’accademia, l’ardore e l’ardire del dilettante in senso nobile e una ventennale fatica per tentare un’impresa che fa tremar le vene e i polsi. Sono vent’anni, infatti, che Cardellino pubblica ricerche su singoli aspetti del problema, tessere ora riunite in mosaico compiuto e complesso.
Sì, il libro è complesso (per quanto lodevolmente chiaro), ma la tesi portante può riassumersi in breve. Il Vangelo insegna a leggere l’Antico Testamento in senso spirituale, al di là del senso letterale. San Gregorio Magno esprimeva questo programma esegetico nell’immagine di due ruote che si corrispondono punto a punto: «Il Nuovo Testamento è una ruota dentro la ruota del Vecchio», svela ciò che l’altro celava. Dante sviluppa questa immagine nel cielo della sapienza, dove due corone di beati ruotano attorno a Beatric e (immagine del Verbo divino) tessendo le lodi rispettivamente di Francesco, alter Christus, e di Domenico, che sarebbe un «doppio» del Battista, ancora vòlto verso la Legge e l’Antico Testamento. Un nuovo lustro appare infine attorno alle due ruote, come nuovo «poema sacro» (Paradiso XXIII 62 e XXV 1). Dante infatti ha impostato il suo poema per illustrare entrambe le Scritture: l’Inferno sarebbe il regno della legge biblica, il Paradiso brilla per l’assoluzione evangelica di tutto ciò che in inferno era apparso condannato. E il Purgatorio? Vi regnerebbe la misericordia biblica, concessa dopo confessione, pentimento e penitenza, secondo il richiamo dei Profeti e del Battista. Le tre cantiche segnerebbero l’ascesa dalla Torah (e dalla sapienza dei classici greco-latini) allo Spirito evangelico, di cui l’autore (diversamente da quanto oggi si tende generalmente a fare) avverte più lo stacco che la continuità con quei due Mondi antichi (ma nell’occhio dell’aquila celeste pone equamente due beati ebrei, due pagani e due cristiani...).
Nella costruzione del suo poderoso edificio, Dante guarderebbe continuamente al Vangelo di Giovanni, anche se, invece di cominciare come lui «in principio» (a imitazione della Genesi), inizia con «nel mezzo», dalla fase legalista, una fase di transito come quella di Israele nel deserto e di Lazzaro: ha colto il senso della risurrezione di Lazzaro e l’ha applicato a sé, riconoscendo anche il valore di stimolo, se non del peccato in sé, almeno della consapevolezza del peccato.
Cardellino legge così il poema come un esame di coscienza fatto da Dante, riconoscimento autocritico essenziale alla conversione e al ritrovamento di Dio in sé. La Commedia, come il Vangelo, si oppone a ciò che lo studioso chiama «fondamentalismo etico ed esegetico»: rifiuta ogni interpretazione letterale delle Scritture e l’attribuzione a Dio di leggi morali assolute, scritte nella pietra. Dunque un Alighieri anarchico o buonista? Senz’altro no: Dante riconosce la necessità di leggi nella società, purché queste riguardino Cesare e non siano attribuite a Dio. Il divieto evangelico di giudicare rivive nel poema, dove Beatrice lo sottolinea nell’Eden raccomandando a Dante di farne tesoro. Ma allora Dante, che ha ficcato all’inferno papi e sovrani, smentisce se stesso? Qui sta il punto per Cardellino: come la Bibbia non va letta secondo la lettera ma secondo lo spirito, così Dante vuole che il suo poema sacro non sia preso alla lettera: la visione delle anime proposta sarebbe virtuale, anzi consapevolmente inattendibile (come conferma il IV canto del Paradiso). Ma, anziché negare se stessa o disperdersi nell’inconoscibile buio dei mistici, la visione dantesca mantiene un preciso significato spirituale, chiarito dalla presenza in paradiso di spiriti che ricordano comportamenti molto simili a quelli dei dannati e dei purganti.
L’autore del saggio ne deduce che il senso di tutta la visione, e il suo oggetto primo, è la condizione morale di Dante, e con lui di ogni lettore: egli vede tutti in inferno quando in lui dòmina una atteggiamento «legalista» o «fondamentalista», mentre trova tutti in paradiso quando è davvero convertito, passato cioè dalla scuola di Virgilio e del Deuteronomio a quella di Beatrice, cioè del Verbo espresso nel Vangelo: la stessa escatologia proposta da Giovanni.
Certo, vari punti del saggio appaiono suscettibili di discussione, e alcuni perfino sconcertanti: si pensi all’ipotesi di un Virgilio di cui Dante si farebbe burla, cogliendolo in contraddizioni e svarioni: l’ipotesi collima con l’immagine del poeta pagano inconsapevole profeta che reca la lucerna dietro la schiena rischiarando la via a chi lo segue ma non a sé. Ma urta contro la riverenza così spesso esibita dal mistico pellegrino al suo duca e auctor. Ovvero all’abbondanza di figure mitologiche proprio nel Paradiso, nella cantica cioè dove più forte dovrebbe essere la distanza dal sapere pre-cristiano (non si tratterà dun que di una scelta retorica, da stilus tragicus?). E come conciliare la svalutazione del senso letterale della Commedia con il concetto di figura elaborato da Auerbach universalmente accolto? Resta un fatto: questo è un libro che costringe a ripensare la Commedia nel suo significato complessivo. E, con essa, anche il Vangelo di Giovanni.
la rivista
Il Sommo anticlericale?
Alla «Ricezione cattolica di Dante» e in particolare alla lettera apostolica di Paolo VI «Altissimi Cantus» (1967) è dedicato il saggio dell’italianista Mario Scotti che appare sull’ultimo numero del quadrimestrale della civiltà italiana «Il Veltro». In quel documento - tuttora molto attuale - il Pontefice umanista volle risolvere alcune questioni teologiche che avevano trasformato il Sommo poeta in figura di riferimento per l’anticlericalismo liberale. La rivista diretta da Vincenzo Cappelletti offre poi altri interventi su «Erasmo da Rotterdam e la cultura europea» (Cesare Vasoli), «L’immagine dell’Italia di allora in Luigi Pirandello» (Carlo Ghisalberti), «Etica e medicina» (Dietrich von Engelhardt) e «Istruzione e crescita economica» (Mario Draghi).
DANTE: ALLE ORIGINI DEL MODERNO, AL DI LA’ DELLA SECOLARIZZAZIONE E DEL CATTOLICISMO ROMANO.
In antologia l’analisi del pensatore cattolico, per il quale il rifiuto di Dio è il problema della modernità, non il suo destino inevitabile
Del Noce cura le piaghe dell’ateismo
La tecnocrazia dei nostri giorni non è figlia della scienza, ma del razionalismo ateo che riduce tutto all’umano: è questo il vero limite del ’900
di Edoardo Castagna (Avvenire, 02.06.2007)
Non ha fatto tempo a vederla, Augusto Del Noce. Ma l’inversione di rotta dell’Occidente, che negli ultimi anni ha dimostrato come la deriva secolarista non fosse affatto l’esito scontato della modernità, non l’avrebbe sorpreso. Anzi, gli scritti del filosofo cattolico scomparso nel 1989 prefigurano e addirittura quasi profetizzano la società di questo primo scorcio di XXI secolo, come ben mette in luce l’antologia Verità e ragione nella storia, curata da Alberto Mina per Rizzoli. Tanto che, sostiene Giuseppe Riconda nell’ampia introduzione, «la sua filosofia ci dà anche su questo punto criteri per una spiegazione e valutazione».
Del Noce ha mostrato come sia possibile ritrovare nel pensiero tradizionale i principi dei quali abbiamo bisogno per comprendere il mondo presente. Prevedendo fin dall’immediato dopoguerra la fine dell’ideologia marxista e l’avvento della tecnocrazia, individuò con sicurezza il grande problema della modernità: l’ateismo. A differenza di tanti altri pensatori di quegli anni, però, non lo considerò mai l’esito inevitabile dell’Occidente, bensì solo un fenomeno: indubbiamente motivato e storicamente comprensibile, ma che - sempre storicamente - avrebbe anche potuto tornare a regredire. Nella sua analisi, Del Noce distingue due tipi di ateismo. Quello "negativo", che muove dalla considerazione del male nel mondo e che è, più che altro, contestazione di Dio nel nome di Dio; moderna trasposizione dei lamenti di Giobbe, cristillizzata da Primo Levi nella formula: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Un ateismo non radicale, argomenta Del Noce muovendosi tra Gilson, Marcel e Brunschvicq, in fondo ancora aperto: interrogando Dio per il suo silenzio, si lascia lo spazio per una risposta, per un incontro - negato qui e ora, ma comunque possibile. Altro è invece l’ateismo "positivo", che prima ha razionalizzato l’Assoluto, e poi - una volta resolo disponibile alle umane categorie - se ne è sbarazzato. È questa, per Del Noce, la secolarizzazion e, che storicamente è passata dalle religioni secolari degli anni tra le due guerre, dominati dal trionfo delle ideologie di massa, alla perdita completa del sacro nel secondo dopoguerra.
È questo trionfo - provvisorio - dell’irreligioso che ha reso possibile la tecnocrazia: non si tratta quindi di uno sviluppo spontaneo della tecnica e della crescita delle sue potenzialità, ma di un innesto della tecnica stessa in un contesto, quello della secolarizzazione, che non conosce più limiti alla sua applicazione. Se il tecnicismo fosse l’inevitabile processo della tecnica, allora sarebbe inarrestabile: così non è, per Del Noce, che può argomentare la sua visione della secolarizzazione come qualcosa di diverso da un fatto compiuto - e questo lo faceva, ne Il problema dell’ateismo, nel 1964, quando il pensiero occidentale sembrava in gran parte concordare su un simile esito della nostra società. L’atesimo non è il destino ma il «problema dell’età moderna», scriveva con lungimiranza; nonostante i tentativi di ridurla a fatto privato, la religione non si piegherà a quella sorta di silenziosa eutanasia cui il materialismo - sia marxista sia consumista - sembrava averla condannata.
Questa prospettiva tuttavia non significa, per un pensatore religioso come Del Noce, adagiarsi sul corso della storia, già pago di sapere che, prima o poi, il processo di secolarizzazione avrebbe invertito la sua rotta. Anzi, il filosofo cattolico è chiamato a prendere di petto la sfida del nichilismo, a farne il banco di prova delle sue proposte: senza confronto con il nichilismo, sostiene Del Noce sulla scia di Šestov e Maritain, il pensiero moderno si precluderebbe l’accesso alla realtà. Passaggio fondamentale è allora la critica al primo fondamento dell’ateismo, quel razionalismo che nega tutto ciò che va al di là della ragione umana, deride il mistero, rigetta il soprannaturale. Una battaglia che, per il filosofo, non può non appoggiarsi sulla Chiesa cattolica, depositaria di un pensiero trad izionale a lei «storicamente e necessariamente connesso». Rivendicando costantemente la libertà - ovviamente, in primo luogo la libertà religiosa - la Chiesa si pone non solo all’ascolto del mondo, ma anche in una sua perenne contestazione.
Augusto Del Noce
Verità e ragione
nella storia
Antologia di scritti
Rizzoli. Pagine 370. Euro 10,20
Dal 20 aprile a fine giugno "TuttoDante" nella capitale, già venduti 50 mila biglietti.
"Racconterò anche la Storia, dalla presa del potere di Romano Prodi fino ai giorni nostri"
Arriva a Roma la Commedia di Benigni
"Difendo il mio Paese da chi lo governa"
Lo spettacolo ha già toccato 26 città, con un tripudio di oltre 350 mila spettatori.
"Il Poeta è grande perché ci invita a guardarci in faccia quanto facciamo schifo"
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Racconterà la Storia, "dalla presa del potere di Romano Prodi ai giorni nostri, dal ’vi levo l’Ici’ al ’moderate i toni’ di Berlusconi, due giorni fa", l’attualità insomma, "ma quella su cui si può ridere, che è sempre meno, perché sono sempre di più le tragedie". E se l’attualità dovesse essere avara di spunti, si sa che con Roberto Benigni si può ridere di un nonnulla, basta una parola perché tracimi la piena. Com’è successo oggi in Campidoglio per la presentazione della tappa romana di TuttoDante, lo show con il quale l’artista si è già esibito in 26 città con un tripudio di olte 350 mila spettatori.
A Roma si ferma un bel po’, dal 20 aprile alla fine di giugno, un teatro tenda da 4000 posti realizzato per l’occasione in piazzale Clodio. "Molti politici non verranno - dice - perché è troppo vicino al Palazzo di Giustizia...". Cinquantamila i biglietti venduti fino a ieri, accesso gratuito per mille romani (600 studenti e 400 dai centri anziani), spiega il sindaco Walter Veltroni, primo oggetto delle effusioni del comico: "Io Veltroni me lo sposerei, un bel matrimonio contro natura, un matrimonio ogm, lei fra l’altro è sindaco, e si può anche sposare da solo".
Una prima mezzora dedicata all’attualità con particolare attenzione alle cose di Roma, d’altronde "anche Dante si occupava d’attualità, metteva in versi quel che accadeva ogni giorno", e alla politica, "perché compito del comico è difendere il proprio Paese da chi lo governa".
Poi, il resto dello spettacolo concentrato sulla Commedia, da qualche anno oggetto privilegiato delle attenzioni di Benigni, e sul Poeta, "che fra l’altro nel Trecento venne a Roma per dire al Papa di non occuparsi degli affari di Stato, come vedete la Storia non è cambiata". "Poi a Roma - continua il comico - c’è una delle più importanti associazioni di dantisti, presieduta da Giulio Andreotti che è coetaneo di Dante, se verrà allo spettacolo gli chiederò di raccontarci qualche aspetto della vita privata del Poeta".
Una passione smisurata quella di Benigni per l’Alighieri, "la sua grandezza è nell’invitarci a guardarci in faccia quanto siamo schifosi, avere il coraggio di vedere nel profondo il nostro male, che nei secoli non è cambiato". Salta di girone in girone e azzarda qualche ipotesi, "oggi ci sarebbe il girone dei matrimoni contro natura, ci troveremmo Bindi e Bondi, Manzoni e Marzullo. Probabilmente all’Inferno sono in corso lavori di ampliamento e ristrutturazione, pensate solo a quanto devono ingrandire l’area dei lussuriosi...".
E’ felice di essere a Roma, ricorda il suo arrivo nella capitale, "avevo 18-19 anni", poi la casa, per lunghi anni, nel quartiere Testaccio e la romanità acquisita, "tutto questo discorso per annunciarvi che mi candido a sindaco di Roma, con Veltroni abbiamo già un piano, ristrutturiamo i Fori Imperiali e ci facciamo un residence con parcheggio sotterraneo".
Roma anche nei suoi aspetti più "dolorosi", come la batosta di ieri in Champions League: "Volevate vincere? E vi facciamo vincere, che sarà mai. Volete fare 7 gol? E ve li facciamo fare... E’ un segno della grandezza di questa città, la Britannia l’abbiamo conquistata, figuriamoci che c’importa. Noi gliene abbiamo fatto uno solo, per fargli vedere come si fa un gol fatto bene".
Ma Dante, in quale girone avrebbe messo Benigni? "Me lo sono chiesto più volte - risponde - e credo che sarei finito in quello degli ogm, dei matrimoni contro natura. Già mi vedo: se guardate, tovate me e Veltroni come Paolo e Francesca, che voliamo e ci diciamo ’Amor, ch’a nullo amato amar perdona’. Un’immagine bellissima".
* la Repubblica, 11 aprile 2007
“Crociata di fuoco”: “Scatenate l’inferno”.
Il VAN-GELO cattolico-romano di PAPA RATZINGER è quello del Figlio-Imperatore (Costantino - ‘Gesù’) e della Madre-Imperatrice (Elena - ‘Maria’).
Una nota a margine dell’intervento di Magdi Allam* , e dell’ offesa di Benedetto XVI ai Musumlmani
di Federico La Sala
Per cominciare, "la verità della storia" ("Il morto fa presa sul vivo"!) ... non è la storia della Verità (l’Eu-angélo, il Buon-messaggio!) in cammino!!! E “il dialogo e il rispetto” di Benedetto XVI, abissalmente lontano dal dialogo e dal rispetto manifestati da GIOVANNI XXIII, e da GIOVANNI PAOLO II - W O ITALY (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”: art. 11 della Costituzione dei nostri ’Padri’ (‘Giuseppe’) e delle nostre ’Madri’ (‘Maria’)!, sono come quelli del LUPO (o dell’Orso) nei confronti dell’ AGNELLO, nei confronti della religione ebraica come della religione islamica e della stessa intera umanità. L’istruzione "Dominus Jesus" aveva detto già tutto - contro Giovanni Paolo II e il suo spirito di Assisi, che mirava alla pace e il dialogo, con tutto il cuore e con tutta l’anima!!!
La teologa tedesca Uta Ranke-Heinemann, figlia dell’ex-presidente della Repubblica, e collega di corso del cardinale Ratzinger - in un’intervista del 18.01.1990, in Italia per presentare il suo libro "Eunuchi per il regno dei cieli” - ecco cosa disse di Ratzinger: "un uomo intelligente, ma privo di qualsiasi sensibilità umana". Vale la pena tenerne conto, quando ascoltiamo le sue parole o leggiamo i suoi testi...
Al contrario, ricordiamoci di Dante!!! All’inferno, oggi, certamente, egli non avrebbe messo Wojtyla (Bonifacio VIII, con il suo Giubileo 1330-2000) e nemmeno Maometto ... ma Papa Ratzinger - proprio per la sua volontà di distruggere lo spirito di Assisi (Dante era terziario francescano)! Ricordiamoci - da italiani e da italiane, che "Dio" - in ’volgare’ - si dice Amore e "che muove il Sole e le altre stelle", ma certamente non l’intelligenza teologico-politica e politico-teologica di tutta l’attuale Gerarchia della Chiesa romano-’cattolica’!!! Che ideologia folle, questa religione costantiniana che vuole imporsi universale: si pretende che, dopo la Legge del "Dio" che dice di onorare il padre e la madre, si sostituisca e si imponga la Legge del "Dio" che dice di amare la Madre (’Maria’) e il Figlio (’ Gesù Cristo’)!!! Ma che Spirito Santo è questo ... contro e senza Giuseppe ?! Questo è l’ordine simbolico e il credo del Mentitore ... e di “Mammasantissima” (della madre-Giocasta e del figlio-Edipo) - questa è la Legge del "Dio" del Faraone, o Israele!!! Certamente non di Melchisedech, non di Abramo, non di Mosé, non di Gesù, e non di Maometto!!!
Fin dall’inizio - e subito - Benedetto XVI si è richiamato al IV secolo d. C. per proclamare urbi et orbi cosa voleva e vuole: distruggere definitivamente la memoria della E dell’Eu-angélo (Buon-messaggio), rilanciare la vecchia guerra contro la storia della Verità in cammino ... e mettere fuori legge ogni ’battuta’ o motto di spirito: "Aus".. "Witz"!!! Che tutto vada all’inferno .... nel più profondo dell’inferno: van-gélo, van-gélo: questo è il messaggio del Lupo travestito da Agnello, oggi! Il deserto avanza ... e la pace dell’impero cattolico-romano, pure - con la sua “croce”: In hoc signo vinces !!! Con questo segno vincerai - sicuramente, il trono e l’altare ... dei morti!
Che l’Amore, lo Spirito della Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti ci illumini e ci aiuti a riprendere “la diritta via”....
W O ITALY !
VIVA L’ITALIA !!!
Federico La Sala
* Replica del Vaticano: da Benedetto XVI dialogo e rispetto
La verità della storia
I musulmani contro il Papa «Ci ha offeso, chieda scusa»
di Magdi Allam (www.corriere.it, 15.09.2006)
È desolante e preoccupante l’immagine dei musulmani che hanno dato vita a un fronte internazionale unitario per attaccare il Papa e esigere delle scuse pubbliche. Da Bin Laden ai Fratelli Musulmani, dal Pakistan alla Turchia, da Al Jazeera a Al Arabiya, si è riesumata quell’alleanza trasversale e universale già emersa in occasione della vicenda delle vignette su Maometto. E che attesta, in modo inequivoco, che la radice del male è una cieca ideologia dell’odio imperante tra i musulmani che violenta la fede e ottenebra la mente. Perché mai i musulmani, soprattutto i cosiddetti moderati, non si sollevano con tale e tanta foga contro i veri ed eterni profanatori dell’islam, i terroristi islamici che massacrano gli stessi musulmani nel nome del medesimo Dio, gli estremisti islamici che legittimano la distruzione di Israele e inculcano la fede nel cosiddetto "martirio" islamico, mentre ora si sentono in dovere di promuovere una sorta di "guerra santa" islamica contro il capo della Chiesa cattolica che legittimamente esprime le sue valutazioni sull’islam, con rispetto ma altrettanta chiarezza della diversità che naturalmente esiste tra le due religioni? Le considerazioni riferite dal Papa, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, sulla diffusione dell’islam tramite la spada, sia da parte di Maometto all’interno della Penisola Arabica sia da parte dei suoi successori nel resto del mondo (con talune eccezioni), sono un fatto storico incontrovertibile. Lo attesta lo stesso Corano e la realtà del passaggio all’islam dell’insieme dell’impero bizantino a est e a sud del Mediterraneo, più la successiva espansione a nord in Europa e a est in Asia.
Negare la realtà storica è semplicemente folle e non può che generare follia. Ricordo che uno dei più insigni islamologi contemporanei, l’egiziano Mohammad Said El Eshmawi, mi disse nella metà degli anni Novanta che lui non condivideva affatto la conquista militare attuata dalle tribù arabe dei Paesi cristiani del Mediterraneo e che avrebbe preferito che l’islam si fosse diffuso pacificamente così come avvenne nel sud-est asiatico. Ebbene il Papa viene messo alla gogna e minacciato per aver detto ciò che ogni musulmano onesto e raziocinante dovrebbe accettare: la realtà storica. La lezione da trarre è che l’Occidente e la cristianità la smettano di considerarsi la causa di tutto ciò che succede, nel bene e nel male, in seno all’islam e nel resto del mondo. L’ideologia dell’odio è una realtà ancestrale che esiste in seno all’islam sin dai suoi esordi, per il rifiuto di riconoscere e di rispettare la pluralità delle comunità religiose che sono fisiologiche data la soggettività del rapporto tra il fedele e Dio e l’assenza di un unico referente spirituale che incarna l’assolutezza dei dogmi della fede. Ed è una realtà che, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 5 giugno 1967, ha registrato un’inarrestabile impennata parallelamente alla crescita del potere degli estremisti islamici dall’Iran all’Indonesia. Fino a sfociare nella deriva del terrorismo islamico globalizzato, che ha trasformato l’Occidente stesso in una «fabbrica di kamikaze».
Questa è la tragica realtà dell’ideologia dell’odio che riesce a coagulare il consenso tra tutti i musulmani obnubilati dall’antiamericanesimo, dall’antioccidentalismo e dall’ostilità pregiudiziale al diritto di Israele all’esistenza. I pretesti che possono scatenare la loro furia mutano, dall’occupazione israeliana alla guerra americana, dalle vignette su Maometto alle dichiarazioni del Papa. Ma il problema è tutt’interno a un islam trasformato dagli estremisti da una fede in Dio in un’ideologia tesa a imporre un potere teocratico e totalitario su tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza. E mi spaventa constatare che anche i cosiddetti musulmani moderati hanno rinunciato al senno della ragione e si siano allineati alla "guerra santa" di cui loro saranno le principali vittime.
L’INIZIATIVA
Ci sono molti modi per avvicinarsi al quarto Convegno ecclesiale Una via? Rileggere il tema della speranza attraverso l’immutata eloquenza di un capolavoro di ieri e di sempre come la «Divina Commedia»
Dante, l’immortale maestro della speranza
«Tra senso religioso e fede cattolica»:nella basilica di San Francesco, a Ravenna, il vescovo di San Marino e Montefeltro, Luigi Negri, ha offerto un commento teologico e pastorale del canto del Paradiso che l’Alighieri dedicò alla seconda virtù teologale
di Francesco Partisani (Avvenire, 15.09.2006)
Alla scuola della speranza da un grande maestro. Nel cammino verso il Convegno ecclesiale di Verona si è inserita quest’anno anche la celebrazione del Dantis poetae transitus, la celebrazione del 685° anniversario della morte di Dante Alighieri, tenutasi l’altra sera a Ravenna nella basilica di San Francesco. Su iniziativa del Centro dantesco dei Frati minori conventuali, in collaborazione con l’arcidiocesi di Ravenna-Cervia, l’amministrazione comunale e l’Università cattolica del Sacro Cuore, al centro della serata è stata posta la lettura del canto XXV del paradiso, il canto dedicato appunto al tema della speranza. Una scelta, evidentemente legata al cammino della Chiesa italiana, che a Verona rifletterà sul tema «Testimoni di Gesù Cristo, speranza del mondo».
I versi del Sommo Poeta sono stati introdotti dal professor Giuseppe Ledda, dell’Università di Bologna e letti da Franco Costantini, prima di un commento teologico-pastorale affidato al vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Luigi Negri. Nel suo intervento il presule ha spiegato come non sia affatto nuovo questo intreccio tra Dante e la vita della Chiesa. «Durante il suo pontificato - ha ricordato Negri - Benedetto XV aveva scritto, in occasione del transito di Dante Alighieri, un’enciclica importantissima la Inter Preclara; Paolo VI nell’anniversario della nascita di Dante gli aveva dedicato il motu proprio "Signore dell’altissimo canto"». Ma che cos’è in Dante la speranza? «Tutta la sua poesia - ha proseguito Negri - è una grande proclamazione dell’umanità che in Cristo, se si accetta Cristo, cammina e si allontana dalla dispersione, dall’errore, dal peccato, dalla costituzione di un mondo sbagliato e apparente: l’inferno. L’umanità ha costruito questo inferno sulla terra quando ha rifiutato la presenza di Cristo. È quindi un’antropologia piena, adeguata - diceva Giovanni Paolo II - che si attua inesorabilmente nella vita del cristiano quanto più segue il mistero di Cristo presente nella Chiesa e vi appartiene incondizionatamente». Ecco dunque la speranza. «È la certezza di positività nella vita che fa affrontare le circostanze con la certezza che sono inserite in un ordine di bontà, di bene e ciascun uomo può investire di questa certezza e di questa bontà ogni momento della sua vita. Speranza è la virtù della chiesa pellegrina sulla terra, è la virtù di quel "già e non ancora" che caratterizza la cultura che nasce dalla fede, che caratterizza l’ethos determinato dalla fede, che caratterizza il crearsi stesso di rapporti culturali, sociali, politici. La certezza che la vita non è inutile ma non come affermazione teorica, astratta, ma come coscienza viva di una esperienza».
In questo senso l’Alighieri resta un punto di riferimento anche per la sua vicenda personale. «Dante è un grande esempio di speranza vissuta - ha concluso il vescovo -, e alla luce di questa speranza, un esempio di missione, continuamente vissuta nelle circostanze concrete della vita. È la dimensione che spiega quanto sia costata al Sommo Poeta questa fedeltà a Cristo, alla Chiesa e alla verità della sua vita: l’esilio, l’essere morto lontano dalla sua patria e, in fondo, l’emarginazione da una società già preoccupantemente percorsa da movimenti economici e di potere come se fossero dei fattori determinanti». E proprio nel segno di questa eredità viva va l’annuncio dato durante la serata ravennate dal rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il professor Lorenzo Ornaghi, dell’istituzione a partire dal 2007 di una Scuola estiva di Studi danteschi che l’ateneo promuoverà insieme nella città che ospita la tomba del poeta insieme al Centro dei frati minori e all’Università Peter Pazmani di Budapest (ne parliamo nel box qui sopra). Una nuova realtà che - ha spiegato Ornaghi - ricollega quel cammino di nuova presenza dei cattolici nella vita del Paese che definiamo come il Progetto culturale a quel progetto di un nuovo umanesimo di cui Dante nel suo tempo fu portatore.
il canto XXV
«Un attender certo de la gloria futura»: la teologia si fa poesia
«Spene», diss’io, «è un attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto. / Da molte stelle mi vien questa luce; / ma quei la distillò nel mio cor pria / che fu sommo cantor del sommo duce. / ’Sperino in te’, ne la sua tëodia / dice, ’color che sanno il nome tuo’: / e chi nol sa, s’elli ha la fede mia? / Tu mi stillasti, con lo stillar suo, / ne la pistola poi; sì ch’io son pieno, / e in altrui vostra pioggia repluo».
Il XXV Canto del Paradiso - commentato mercoledì a Ravenna dal vescovo di San Marino-Montefeltro Luigi Negri - è il canto dedicato alla speranza. È l’apostolo Giacomo a interrogare Dante riguardo alla seconda virtù teologale, sottoponendo tre quesiti al poeta pellegrino: che cos’è la speranza, in quale misura la possiede, quali sono le fonti dalle quali l’ha ricevuta. «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti / lo nostro Imperadore, anzi la morte, / ne l’aula più secreta co’ suoi conti, / sì che, veduto il ver di questa corte, / la spene, che là giù bene innamora, / in te e in altrui di ciò conforte, / di’ quel ch’ell’è, di’ come se ne ’nfiora / la mente tua, e dì onde a te venne», chiede san Giacomo. Alla seconda domanda risponde subito Beatrice: «La Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza, com’è scritto / nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: / però li è conceduto che d’Egitto / vegna in Ierusalemme per vedere, / anzi che ’l militar li sia prescritto»...
Alle altre domande è lo stesso Dante a rispondere, attingendo alle sue profonde conoscenze teologiche, e additando in particolare la resurrezione del corpo, dopo il Giudizio universale. Una speranza che non contraddice bensì abbraccia e dà senso ulteriore ad altre, più terrene "speranze", espresse all’inizio del Canto XXV: la fine dell’esilio, il ritorno nell’amata patria, l’alloro poetico conferitogli dalla città che l’aveva così crudelmente ostracizzato, non per la propria gloria ma quale segno di un processo di giustizia e riconciliazione.
il progetto
Una Scuola estiva di studi danteschi
Il Centro dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravenna e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con la partecipazione della Facoltà di Lettere dell’Università Peter Pazmani di Budapest, hanno in progetto di realizzare una Scuola estiva di studi danteschi. L’idea è stata lanciata ufficialmente ieri sera. durante il «Dantis poetae transitus». La prima edizione dovrebbe avere luogo già nell’estate 2007. L’idea è quella di organizzare proprio a Ravenna un corso per una quarantina di persone tra studenti universitari, dottorandi e insegnanti di scuole medie inferiori e superiori. Una decina di posti dovrebbero essere riservati a studenti stranieri. Oltre ai seminari di approfondimento e dibattito l’iniziativa prevede conferenze serali aperte al pubblico
Lettera aperta al Presidente CIAMPI LA LINGUA D’AMORE, DANTE, E ...LA FINE DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. Una nota sui risultati del referendum del 12-13.06.2005 di Federico La Sala*
Caro PRESIDENTE CIAMPI
Poche parole di conforto e un piccolo invito. Continui, continuiamo sulla Sua strada e rilanci il messaggio del Suo grande Amico, Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura». A mio modestissimo parere, in Vaticano c’è stato un vero e proprio golpe!!! Ruini con il pastore tedesco (nessuna offesa alla persona !!!) insieme al suo alleato con i capelli ...ricresciuti (che ha fatto la "fecondazione eterologa" ... in Svizzera o da qualche altra parte - potenza dei soldi, oltre che della tecnica e della scienza!!!) se la ridono di "te", di "me" (uno, nessuno, centomila - e del nostro grande Luigi Pirandello!) ... e della "maturità" di tutto il popolo italiano!!! Dopo aver distrutto la nostra scuola pubblica e le menti delle nostre nuove generazioni con le loro macchine da guerra mediatica e tv-spazzatura, ora hanno messo le loro zampe e le loro mani anche e addirittura nella "camera nuziale" di tutti gli italiani e di tutte le italiane e della nostra stessa salute! La loro mafiosità di edipici "figli di mammasantissima" non ha limiti. L’obiettivo - come sa benissimo - è uno solo: distruggere la nostra Costituzione e distruggere alle radici il senso stesso della nostra sana e robusta Costituzione e del messaggio eu-angelico. La Lingua d’Amore, le radici della nostra stessa vita, al fondo della nostra stessa storia - Dante, il padre della nostra stessa lingua italiana - deve essere distrutta: questo il loro programma!. Come fecero, alleati già allora, con Firenze! In nome della loro vita di vampiri, stanno succhiando tutte le nostre risorse di terra, di cultura, di storia, di socialità, di intelligenza, di cuore, e stanno facendo dell’Italia letteralmente ... una cloaca a cielo aperto!!! Vanno in giro, tronfi, a riproporre una fascista e talebanica alleanza di (banditi di ) chiesa e (banditi di) stato che, dopo .... la ’soffiata’ gigantesca di vento sulla bara di Giovanni Paolo II, non ha più storia!!! I figli di "Mammasantissima" e di "Dio" ... saranno scaraventati (se non si svegliano - e se non ci svegliamo anche noi con loro!) tutti all’inferno della loro stessa follia!!! Continuano (senza rispetto alcuno dell’altro, e degli altri) a mentire.... ma la misura è ormai colma!!! E le ruine sono dappertutto!!! A noi, cittadini italiani e cittadine italiane, che possiamo fare? In tutta semplicità e umanità, ci tocca solo ...respirare profondamente l’aria nuova, che il vento che muoveva già Giovanni Paolo II, ha portato e porta in giro per il mondo ..... e continuare a camminare, sempre ricominciando a pensare di nuovo, dall’Inizio, dall’Amore di ’Maria’ (nostra madre) e di ’Giuseppe’ (nostro padre), e da noi stessi. La verità edipica, dopo la buona novella, è solo una menzogna. E la menzogna... ha sempre di più la faccia rossa dalla vergogna, e sta già scappando, con la coda tra le gambe per la paura. L’Amore è più forte di Morte - per sempre, e dall’eternità. Con m. stima, i miei più cordiali saluti. Federico La Sala
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www.ildialogo.org/filosofia, Mercoledì, 15 giugno 2005
ALLA BASE DELLA NOSTRA STORIA E DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, L’INTERPRETAZIONE DEL MESSAGGIO EU-ANGELICO DI DANTE, NON DI BONIFACIO VIII (e di tutto il cattolicesimo-romano)!!!
Lupi, pecore, pastori?! Un NO per il REFERENDUM. 25 GIUGNO: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti. Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile... Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”). Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?! Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?! Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” e “Mammona” o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!! Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!! Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane... Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
L’EVENTO DELL’ESTATE Dal 25 luglio al 19 agosto l’attore reciterà e commenterà alcuni dei migliori canti Il sindaco Domenici: «Così la città ritrovala propria anima, la sua essenza più vera»
BENIGNI RECITA DANTE A FIRENZE IN 13 SERATE
In piazza Santa Croce saranno montate gradinate per ospitare 5mila persone. L’attore: «Voglio raccontare l’Alighieri soprattutto ai bambini e alle nonne»
Da Firenze Andrea Fagioli (Avvenire, 04.07.2006)
Tredici canti della Divina Commedia per altrettante serate. Un solo luogo: piazza Santa Croce. Due i protagonisti: il sommo poeta e Roberto Benigni. Ma per presentare il ciclo di letture dantesche a Firenze da parte del comico toscano c’è un cambio di programma: dalla piccola Sala di Lorenzo, anticamera del sindaco, al ben più ampio Salone de’ Dugento. È così che una conferenza stampa (quella di ieri in Palazzo Vecchio) si trasforma in spettacolo e i banchi del Consiglio comunale in una platea per giornalisti, assessori e consiglieri "infiltrati". E lui, Benigni, non si nega. Ma l’introduzione spetta al sindaco Leonardo Domenici: «Avverto - dice - una certa emozione nell’annunciare l’idea di "portare" Dante a Firenze e di farlo con Roberto Benigni. Per la città è molto più che un evento estivo: significa ritrovare la propria anima, l’essenza più vera, quel passato che diventa ponte verso il futuro; significa ritrovare l’universalità di Dante e l’universalità di Firenze; significa ritrovare noi stessi». Partenza il 25 luglio. Poi, per tredici sere (dalle 21), sotto al titolo TuttoDante, si arriverà, con qualche intervallo, al 19 agosto. Ingresso a pagamento: previsti tre ordini di posti (circa 5 mila in totale) a 15, 20 e 25 euro con abbonamenti a sei e tredici serate (100 e 200 euro).
Benigni, sotto lo sguardo severo della statua di Dante che a lato della basilica francescana domina la piazza di Santa Croce, leggerà e commenterà uno dietro l’altro i primi dieci canti dell’Inferno lasciando per le ultime tre serate (17-18 e 19 agosto) i canti di Ulisse, del Conte Ugolino (XXVI e XXXIII sempre della prima cantica) e della Madonna (l’ultimo del Paradiso). «E chi non viene - dice l’attore-regista - è un fesso e un ignobile. A chi viene invece il sindaco toglierà l’Ici». È il solito Benigni, che mischia ad arte il sacro con il profano, che si lamenta della sconfitta di Berlusconi perché così ha tolto lavoro ai comici: «Io sono stato costretto a darmi a Dante, mentre la Guzzanti si darà all’Ariosto. Ma anche Putin si lamenta perché non sa dove andare in vacanza. Prodi gli aveva offerto un albergo a Casalecchio ma lui ha detto no. E che dire di Blair che non si può mettere la bandana da solo?».
Sollecitato dai giornalisti sullo scandalo del calcio e delle intercettazioni telefoniche, Benigni "ammette" di aver telefonato poco prima alla Merkel per comprare la partita di stasera con la Germania, «ma la cancelliera ha chiesto molto più del previsto e lo ha chiesto in vecchi marchi e non in euro». Ma poi ritrova i toni solenni quando afferma che «Dante è andato a scavare nell’animo umano come nessun altro dai tempi dell’Iliade: per dirla con Eliot, se Shakespeare va in larghezza, Dante va in profondità». E ancora: «Il più bel regalo che Nostro Signore ci ha fatto è la Divina Commedia, dove ci sono tutte le passioni umane». E se anche parla dei canti come «le puntate di un serial (se senti la prima torni perché vuoi sapere come va a finire)», a nessuno sfugge l’emozione del comico nell’annunciare questo ritorno di Dante in Santa Croce: «Mi batte il cuore a tremila - dice Benigni -. Ho fatto la scommessa di raccontare l’Alighieri ai bambini e alle nonne». Ma sull’impostazione delle serate non dice molto di più. Certo è che si annuncia ogni volta uno spettacolo diverso: un’ora e mezzo in cui alla lettura (si presume tradizionale) dei canti della Divina Commedia seguirà un’interpretazione, «un’attualizzazione libera del commento». Insomma: emozioni e satira, lacrime e risate in perfetto stile Benigni.
L’IMPRESA DELL’EDITRICE SALERNO SARÀ ULTIMATA ENTRO IL 2021, SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE Dante contro Dante Guerra aperta tra gli studiosi per la nuova opera omnia commentata di Alessandro Barbero (La Stampa, 14.07.2006)
Mentre i sindaci delle metropoli italiane discutono di nebulose candidature olimpiche, per date come il 2016 o il 2020 che agli occhi del pubblico si perdono in un remoto futuro, in Italia c’è qualcuno che sta già lavorando concretamente in vista del 2021. Sono gli studiosi di Dante: giacché in quella data cadrà il settimo centenario della morte, e in un campo vastissimo come quello degli studi danteschi una quindicina d’anni, per mettere in cantiere e portare a compimento un’impresa, sono appena sufficienti (nel 2065 avremo poi l’ottavo centenario della nascita: e in qualche riunione di filologi si comincia già a parlarne, scherzando ma non troppo).
L’ultimo anniversario, quello del 1921, vide la pubblicazione della gloriosa Edizione del Centenario, capolavoro della filologia italiana d’impianto ottocentesco, sotto la direzione di Michele Barbi. Oggi quell’edizione, pur ammirata come un monumento, è in larga misura superata e di molte opere sono usciti testi più attendibili: la Commedia, per esempio, non si legge più nel testo del ’21 ma in quello stabilito dal Petrocchi nel 1966-67. Ma se il testo è, tradizionalmente, la massima preoccupazione dei filologi, i segni dell’invecchiamento pesano soprattutto sui commenti. L’idea che oggi ci facciamo della civiltà medievale è in così rapida trasformazione, e così incalzante la rivalutazione di un’epoca sempre più considerata come un crogiolo della modernità, che leggere un’opera di Dante con un commento non aggiornato è un po’ come visitare la Cappella Sistina prima del restauro.
Ecco dunque che la casa editrice Salerno, diretta da un noto dantista, Enrico Malato, annuncia il progetto di pubblicare entro il fatidico 2021 una nuova edizione di tutte le opere di Dante, garantendo un commento aggiornato, sotto la guida d’un comitato direttivo che riunisce filologi e italianisti, latinisti e paleografi, storici della lingua e della filosofia. Che nella persona di Malato coesistano lo studioso e l’editore garantisce alle sue iniziative, evidentemente, una marcia in più. Il progetto dell’edizione dantesca, ad esempio, si è tradotto in tempo reale in un volume di quasi duecento pagine, Per una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, in cui tutti gli aspetti del problema sono sviscerati e presentati alla valutazione della comunità scientifica.
Di fronte alla modernità di questa sinergia, che garantisce a Malato una libertà progettuale e una rapidità di esecuzione irraggiungibili dai colleghi, non ha tardato a coagularsi la resistenza di chi sente minacciate vecchie posizioni di potere. La Società Dantesca Italiana, ente morale riconosciuto dallo Stato e destinatario di munifici finanziamenti pubblici, è intervenuta a ricordare acidamente che spetta a lei, per statuto, promuovere l’Edizione Nazionale delle opere di Dante, sollevando dubbi sull’utilità dell’operazione. Malato, che è anche un polemista senza peli sulla lingua, ha pubblicato per i propri tipi un volumetto al vetriolo (soavemente intitolato In difesa della Società Dantesca Italiana) in cui, dopo aver ricostruito la storia gloriosa dell’ente, denuncia una serie di aspetti imbarazzanti della sua gestione recente.
Lasciamo pure stare il fatto che la suddetta Edizione Nazionale, in programma fin dalla fondazione della Società nel 1888, dopo 118 anni è ancora lontana dall’essere completata. Soffermiamoci, invece, sui meccanismi della gestione societaria, come li descrive Malato con tanto di pezze d’appoggio. Questo ente il cui bilancio, di difficile accesso anche per i soci, pare si aggiri sugli 835.000 euro l’anno, è diretto da un consiglio che negli ultimi quarant’anni è stato sempre eletto per corrispondenza, coll’invio ai soci di una scheda prevotata, in cui tutte le cariche sono già attribuite (ai soci rimane la facoltà, se vogliono, di sostituire uno o più nomi, cosa che pare accada molto di rado). E può capitare, com’è accaduto l’anno scorso, che un presidente rieletto ininterrottamente per 38 anni si dimetta senza darne comunicazione ai soci; e che nella successiva assemblea, presenti 23 soci su 301 iscritti (ma il verbale rileva, in un momento di sincerità, che «mai assemblea è stata più numerosa»), gli subentri alla presidenza, in virtù d’un cavillo statutario, il socio che nell’ultima elezione era risultato secondo, forte di ben quattro voti.
Ma l’aspetto forse più surreale dell’intera vicenda è che quell’assemblea ha approvato un nuovo statuto, in virtù del quale non può essere socio della Dantesca, e dev’esserne espulso qualora già ne faccia parte, chiunque svolga «attività in concorrenza con quelle svolte dall’associazione»: in altre parole chiunque studi o pubblichi Dante al di fuori della sorveglianza della Società. Una norma che obbliga a rifiutare l’iscrizione, per esempio, a chi osi tenere in pubblico una lettura di Dante al di fuori delle Lecturae Dantis sponsorizzate dalla Società, si chiamasse anche Roberto Benigni; e naturalmente a chi, come Enrico Malato, si accinga a pubblicare un’edizione integrale di Dante impiegandoci soltanto 15 anni invece di 150. Gli storici del futuro sono avvertiti: quando vorranno spiegare ai loro lettori increduli che cosa ha voluto dire il parastato e la sua tenace capacità di sopravvivenza, dall’Italietta umbertina a quella del terzo millennio, troveranno qui un dossier bell’e pronto.
Per la prima volta in Italia la ricerca del medievista tedesco Kantorowicz sul «Christus vincit»: oggi acclamazione vaticana, ma nata per l’imperatore
Diventare re per una litania
Le «Laudes regiae», sorte in ambito carolingio per affermare la derivazione divina del potere civile, nel XII secolo e con la lotta per le investiture diventano invece segno liturgico della teocrazia
di Roberto Beretta (Avvenire, 03.03.2007)
Oggi le sue note fanno da refrain ai buchi di palinsesto della Radio Vaticana: «Christus vincit, Christus regnat, Christus Christus imperat!». Ma una volta questo ritornello era parte fondamentale delle «litanie cesaree», riservate all’incoronazione rituale di re e imperatori: senza di esse non si fece sovrano, dal Sacro Romano Impero in poi. Erano le Laudes Regiae: e questo è appunto il titolo di uno «studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo» che il grande medievista tedesco Ernst Kantorowicz (scomparso nel 1963) ha dato alla terza opera della sua fondamentale trilogia, la meno fortunata dopo I due corpi del re e Federico II imperatore; così negletta che ha dovuto aspettare sessant’anni per essere tradotta la prima volta in italiano, oggi grazie a Medusa.
Dunque Kantorowicz - del quale Alfredo Pasquetti discute in introduzione le modalità di acquiescenza al Terzo Reich (in realtà lo studioso, di origine ebraica, chiederà il pensionamento dall’università per motivi razziali due anni soltanto dopo aver vinto la cattedra e nel 1939 lascerà la Germania per gli Usa) - esamina un elemento apparentemente minore, diciamo pure erudito: la presenza ed evoluzione del «Christus vincit» nei messali dall’VIII al XIII secolo. Ma, oltre a introdurre con ciò (e forse per primo) i libri liturgici tra le fonti della «grande storia», riesce a ricostruire sulla minuzia della sua analisi un affresco credibile della regalità medievale: il suo prediletto terreno di studio. Eccolo dunque rintracciare le origini dell’acclamazione nelle grida che il senato o il popolo e i soldati rivolgevano agli imperatori romani durante il trionfo; constatare poi il consolidamento della triade litanica nella Chiesa gallo-franca dell’VIII secolo, secondo un’andatura marziale di sicura derivazione militaresca; in seguito seguirne l’introduzione anche nella liturgia romana, con significative trasformazioni «imperiali» in uso fino al XII secolo; quindi ritrovarla come grido di battaglia per i crociati in Terrasanta; e ancora esaminarne l’apparizione (anche in lingua greca) su monete normanne dal XII secolo in poi... «Una delle preghiere più virili, infiammate e potenti della Chiesa cattolica», le Laudes (la cui più antica versione risale al 785 circa, piena epoca carolingia) sono dunque invocazioni che - partendo dal Cristo vincitore e re - servivano ad acclamare in Lui i suoi vicari terreni, imperatori e sovrani dapprima, vescovi e papi poi.
E infatti nel testo vengono spessi menzionati i nomi dei re in carica, per i quali si invoca sì assistenza dal cielo, ma di cui nello stesso tempo si colloca in excelsis la fonte dell’autorità. In pratica, con il mantra della ripetizione corale, la preghiera assumeva - oltre al ruolo liturgico - anche la funzione di confermare nell’inconscio popolare e nell’opinione pubblica la derivazione divina dell’umano potere: come lo scintillìo dorato della corona posta sul capo dell’erede al trono (non per niente le laudes sono spesso collegate all’incoronazione), tal quale all’unzione che lo consacrava re in eterno.
La cosa curiosa è come sia stato proprio lo Stato il primo a sfruttare la liturgia cattolica per proclamare la sua preminenza o comunque emanciparsi dalla Chiesa. Lo nota lo stesso Kantorowicz: nei periodi in cui la monarchia era particolarmente forte (ad esempio con Carlo Magno), i formulari del Christus vincit allineavano prima i nomi del re e dei suoi santi patroni (la Madonna, gli arcangeli e Giovanni Battista), solo poi quelli del Papa e dei protettori collegati - gli apostoli.
Ciò per dire che le varie versioni delle laudes regiae costituiscono quasi un termometro dell’evoluzione dei rapporti tra Papi e imperatori, della teocrazia o all’inverso del cesaropapismo; erano insomma una faccenda di «teologia politica», un «accompagnamento vocale» al «culto medievale del sovrano» prima, e più tardi della presa di sopravvento clericale. A parere dello storico tedesco, anzi, esse «si collocano tra le più antiche testimonianze della storia politica occidentale del tentativo di stabilire una somiglianza con la "città di Dio"».
Così almeno fino all’XI-XII secolo. Ché poi avviene l’inversione della medaglia («Il diritto divino dei sovrani - scrive Kantorowicz - e il diritto imperiale dei pontefici sono manifestazioni diverse della stessa idea di fondo, in quanto entrambi derivavano dal modello del Cristo rex et sacerdos, che sia il re sia il vescovo emulavano»): la riforma del papato e la lotta per le investiture enfatizzano infatti la dimensione «temporale» del potere pontificale, anche il Papa cinge una corona (la tiara) e si guadagna le sue laudes, esemplate su quelle dell’imperatore - che da parte sua si è nel frattempo «laicizzato».
Insomma, niente di strano se il Christus vincit lascia le laudes regiae e durante la cattività avignonese penetra nel Pontificale romano. Dove però rimane a dormicchiare fino alla riscoperta, avvenuta per opera dei cultori del gregoriano alla fine dell’Ottocento, e al rilancio legato all’introduzione della festa liturgica di Cristo re (1925). Con una coda maligna, tuttavia: nel canzoniere dei piccoli balilla italiani, anno 1929, anche Benito Mussolini era salutato da un Christus vincit... Manco fosse Carlo Magno.
Ernst Kantorowicz
Laudes Regiae
Studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo
Medusa. Pagine 318. Euro 36
Come suona l’Eneide nella voce di Sermonti
Sottoposta alla verifica della lettura a alta voce, che ogni traduttore dovrebbe adottare, l’opera di Virgilio esce ora da Rizzoli nella versione di Vittorio Sermonti, divisa in ventiquattro libri per adeguarsi agli spettacoli di un’ora dai quali nasce
di Francesco Stella *
Molte risorse si invocano, a giusto titolo, per il restauro dei beni culturali di tipo artistico e architettonico, cioè per consentire la sopravvivenza e l’accessibilità al pubblico di quadri, statue e cattedrali. Altrettante, forse, dovrebbero esserne messe in campo per il restauro del patrimonio testuale che il tempo ci ha trasmesso in lingue oggi non più usate. Per questo la ritraduzione di un classico dovrebbe essere un’impresa nazionale (nel senso in cui è nazionale una lingua), uno strumento periodico di salvataggio che consente a un testo di appartenere a ogni nuova generazione. Sono le traduzioni che decidono spesso la sorte di un’opera, e la sua influenza sulla produzione futura: il ruolo di molta letteratura nordamericana nell’Italia del dopoguerra sarebbe impensabile senza Vittorini, Pavese e Pivano, e che consistenza avrebbe avuto il mito di Italo Calvino e Umberto Eco nel mondo anglofono senza il lavoro di Weaver?
È per questo che ogni epoca cerca la propria versione di Virgilio, «classico europeo» per eccellenza nell’accezione di Eliot, e quasi sempre più di una. Alle molte che negli ultimi decenni si sono affacciate fra gli scaffali delle librerie italiane, ampiamente beneficate dall’ingente mercato ginnasiale, si aggiunge ora quella di Vittorio Sermonti (Rizzoli), che nelle sue letture pubbliche di Dante è riuscito a trovare una formula magica per comunicare complesse coordinate culturali e sottili strategie testuali a un pubblico crescente ed entusiasta, alternando con dosi attentamente calibrate spiegazione informata e lettura vivace ma non teatrale. Questa sua Eneide, dopo una tournée di recitazioni, trionfa ora nelle librerie con la splendida spiaggia d’acqua che allaga la copertina senza titolo, delegato alla sovraccoperta in plastica trasparente, e già nella grafica annuncia qualcosa di diverso, di aperto, di fresco. Il risvolto spiega, con le parole del neotraduttore, che «la grande poesia è, allo stesso tempo, misteriosa e domestica, misteriosamente domestica, come la conversazione dei grandi che i bambini ascoltano giocando sul tappeto»; ma annuncia minacciosamente che «forse non esiste nulla al mondo che renda il timbro inconfondibile, l’emozione assoluta della poesia come l’Eneide». In realtà, le introduzioni di Sermonti riescono a stemperare il rischio di una retorica «dell’assoluto» presentando i materiali narrativi del testo con una accattivante umiltà e una ironia leggera da smaliziato comunicatore di massa. Certo, chi ha conservato familiarità col latino non potrà non provare ogni volta un brivido alla lettura dell’originale, per quella capacità unicamente virgiliana di scolpire versi morbidi ma definitivi sul tremito di una luce lunare, sulle esitazioni di un uomo o una donna nel decidere il proprio destino, per la sensibilità polifonica con cui fa affiorare nelle pieghe di una epopea imperiale la voce dei «perdenti» che quella missione ha dovuto cancellare dal futuro: le lacrimae rerum di cui è testimone anche il protagonista, il profugo migrante da una città perduta. Il latino di Virgilio, con la semplicità miracolosa della sua sintassi obliqua, è un’esperienza emotiva che non trova confronti e che nessuna traduzione può salvare.
In più, rispetto a qualsiasi altro poeta antico, ogni verso di Virgilio porta in sé le multiple eco del suo inesauribile futuro, le cento volte che è servito ad altri poeti o pittori per dire altre cose: il passo del secondo libro sul pio eroe in fuga da Troia col padre Anchise sulle spalle e il figlio accanto non si può più leggere senza che in mente lampeggino l’affresco di Raffaello delle Stanze Vaticane o il gruppo di Bernini nella Galleria Borghese e le liriche di Caproni sul Passaggio d’Enea nate dal monumento genovese di piazza Bandiera. Così quando si incontra l’agnosco veteris vestigia flammae nella voce della Didone innamorata non si può non riconoscere il turbamento di Dante alla vista di Beatrice in Purgatorio: «conosco i segni dell’antica fiamma».
Per questi e altri motivi la comunicazione di Virgilio non si può trasportare integralmente in altra lingua, anche se c’è chi ha provato a dare uno spessore intertestuale alla sua traduzione, come Scarcia nell’edizione Bur 2006 impreziosita dalla magistrale introduzione di Alessandro Barchiesi. Per questo ogni traduttore riesce a riprodurre di solito un colore dell’originale, rassegnandosi ad oscurare gli altri: c’è chi ha preferito la stilizzazione manieristica, chi la solennità arcaizzante, chi l’adesione piatta a una letteralità interlineare, c’è perfino chi ha dichiarato di voler evitare una traduzione «bella» trasformando con disinvoltura una difficoltà in una civetteria veteroavanguardistica.
Il problema non è tanto la capacità di capire l’originale, che dopo alcuni millenni di esegesi è relativamente accessibile, quanto il possesso pieno e sperimentato di un proprio codice nella lingua d’arrivo. Per questo da Foscolo a Leopardi a Valéry alla Bemporad una tradizione autorevole sostiene che il buon traduttore deve essere anzitutto scrittore in proprio (e Sermonti lo è): l’alternativa è la perdita di identità del testo «nuovo» e la resa a quella lingua deprimente che esiste solo nelle versioni scolastiche e, ahimè, in quelle che si presentano come «filologiche», dove il superbo Pindaro è stato umiliato per sempre con un «ottima è l’acqua» degno di un ristorante termale e in Virgilio l’amazzone Pentesilea è stata giudicata in grado di «scontrarsi a paro con gli uomini», come in un dibattito sulle pari opportunità in un circolo Arci del Chianti. Senza indugiare oltre sull’inesauribile diatriba fra traduzioni naturalizzanti ed estranianti, diciamo subito che Sermonti evita questo rischio. E lo evita perché ricorre, per la sua storia personale e il suo obiettivo ufficiale, a una verifica poco frequentata che ogni traduttore dovrebbe invece adottare per norma: la lettura ad alta voce.
Il testo tradotto deve «suonare», deve poter passare a un pubblico che non legge ma ascolta, deve abitare le orecchie per poter restare nella mente. Il criterio performativo impone la sua scansione anche alla divisione dei libri, che da dodici diventano ventiquattro per poter adeguare la propria misura agli spettacoli di un’ora dai quali nasce questa traduzione. In questo l’operazione ricorda l’Iliade di Baricco, riscritta in lingua recitabile e divisa in capitoli corrispondenti ai personaggi-attori.
E, per «suonare», l’Eneide di Sermonti deve adottare anche un altro criterio abitualmente snobbato dai cosiddetti filologi, ossia un andamento ritmico che mantiene i sei accenti dell’esametro (interpretato come struttura tonica): e trova così audacie felici come quando Didone, ascoltando Enea, longumque bibebat amorem, che Sermonti armonizza «e beveva un lunghissimo amore» concedendosi un superlativo «abusivo» necessario a conservare il ritmo dattilico. La stessa operazione viene compiuta sul lessico, che vuole raggiungere quella dimensione «domestica» cui si accenna nell’introduzione: da qui la benvenuta e ormai famosa rinuncia agli «affinché» o ai «repente», che affliggono le traduzioni scolastiche.
Si generano allora soluzioni nuove come «dilaga» per ruit nox, «non corrotto dagli anni» per integer aevi, «patire lo scacco» per dolere, «raffiche di parole» per adsiduis vocibus. E se in questa tensione attualizzante sfugge qualche forzatura, in tanti altri passi il testo acquisce una naturalezza nuova che probabilmente ne farà la voce italiana di Virgilio dei prossimi anni.
Enea, quel viaggio continua
Pietà, patriottismo, affetti: l’attualità del poema di Virgilio
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 28.12.2012)
«Queste acque e correnti controlla Carònte, nocchiero/ orrido, di spaventoso squallore, a cui giace incolta/ molta canizie sul mento, gli occhi son fissi e di fiamma,/ sordido manto pende dall’omero, stretto in un nodo./ Lui con un palo spinge la barca e governa le vele/ e nel suo scafo colore ferrigno i corpi trasporta». «Cèrbero questi regni assorda latrando imponente/ per tre fauci, immane, riverso in un antro di fronte, vedendogli ai colli già ritte le serpi/ (...) / E l’indovina (la Sibilla) una focaccia gli getta (...) e lui, spalancando le tre gole in fame rabbiosa, quel ch’è gettato ghermisce».
Siamo ai canti III e VI dell’Inferno di Dante? No, siamo nel VI libro dell’Eneide di Virgilio (vv. 298-303; 417-422), e per molti particolari o episodi si constata l’attenzione con cui Dante ha letto il poema di Virgilio, e ne ha fatto tesoro: anche per lui Caronte è «bianco per antico pelo», Inf. III, 83, e «intorno alli occhi avea di fiamme rote» (99); anche per lui Cèrbero «con tre gole caninamente latra», Inf. VI, 14, e ingoia con le «bramose canne» non già la focaccia ma il pugno di terra che gli viene gettato nelle fauci.
Le poche centinaia di versi con cui Virgilio narra il viaggio di Enea nel paese dei morti traspaiono in ogni momento dei primi canti della Commedia, che hanno anzi nell’Eneide il modello principale.
A pensarci, è meraviglioso che un’opera letteraria avesse ancora un potere modellizzante dopo più di 1300 anni; ma non ce l’ha anche per noi? Altrettanto meraviglioso il cammino dell’invenzione: Virgilio, che scrivendo l’Eneide ha raccontato il mondo dei morti, ora fa da guida nello stesso mondo a Dante, come rivivendo la propria immaginazione.
Però all’influsso stilistico va anche aggiunto quello ideologico, e qui la continuità tematica è ancora più impressionante. Si sa che l’Eneide, secondo un programma encomiastico che però rispecchiava anche l’indole e i gusti di Virgilio, voleva celebrare la pace raggiunta da Augusto dopo decenni di guerre, anche intestine. Così, persino le vicende belliche, inevitabile argomento di un poema epico, erano narrate alla luce, finalmente vicina, di una pace promessa. Un disegno escatologico, in cui entrava anche l’origine della famiglia Giulia e del popolo romano, un destino di cui il greco Enea è il portatore e il simbolo.
Il discorso di Dante è più complesso, ma è strettamente legato a quello di Virgilio. Come si sa, secondo Dante la funzione provvidenziale dell’impero romano è stata quella di favorire l’espansione e l’affermazione del Cristianesimo. Perciò Giulio Cesare e Augusto, come fondatori dell’Impero, hanno svolto un ruolo determinante in un disegno, ancora, escatologico.
La propensione per la pace spicca persino nella struttura del poema, che nei primi sei canti è una narrazione di avventure, spesso dolorose, alla ricerca dell’Italia profetizzata come futura patria, e solo negli ultimi sei canti fa spazio alle guerre per il predominio sulla regione laziale. Come mettere in tandem prima l’Odissea, poi l’Iliade. E si è persino notato che, negli eroi dell’Eneide, vigore e combattività sono meno celebrati da Virgilio che pietà, patriottismo, affetti familiari.
Quest’ultima osservazione si trova già nell’ottima premessa a un’Eneide appena curata e tradotta in italiano: Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione e cura di Alessandro Fo, note di Filomena Giannotti, Einaudi, (pp. CVI-926, € 38).
Parlando di traduzioni dell’Eneide, chi ha fatto il liceo qualche anno fa pensa subito a quella, cinquecentesca, di Annibal Caro, in endecasillabi sciolti, che fu a lungo libro di testo. Ma poi ne vennero pubblicate molte altre, con vari tentativi di rendere gli esametri latini. Si sa che la fonazione dei versi latini è lontana dal nostro sistema, dato che all’alternanza di sillabe toniche e atone, con cui abbiamo familiarità anche noi, s’intrecciava un’alternanza quantitativa: vocali lunghe e brevi, secondo schemi prosodici precisi.
Si è tentato di far corrispondere i nostri accenti a quelli di un latino letto all’uso moderno, oppure alle lunghe e alle brevi della prosodia quantitativa. In proposito Carducci, che, da eccellente latinista, fece tentativi in questo senso, definiva i suoi prodotti «odi barbare», cioè incolte e un po’ blasfeme rispetto alle norme latine: la pubblicazione di queste odi barbare rappresenta un episodio notevole della storia della nostra poesia, col suo programmato abbandono della metrica tradizionale italiana, fatta di versi isosillabici e di rime.
Fo, nel tradurre Virgilio, si allontana dai precedenti noti, e fonda i suoi versi su un’ingegnosa alternanza di schemi dattilici e schemi spondaici, creando delle specie di costellazioni fisse di lunghe e di brevi. Il risultato, a dirla nei termini più semplici, è che i versi della traduzione risultano più adattabili e più ampi del modello latino, così da poter assorbire eventuali esplicazioni del contesto.
Basti un esempio, già citato: «Lui con un palo spinge la barca e governa le vele». I tre nuclei del verso si distribuiscono, stando alla prosodia italiana, fra due quinari e un senario (la congiunzione svanisce, assorbita nel nucleo che precede), ma la sequenza complessiva lascia intravedere una presenza di quattro dattili e due spondei. Se la nuova traduzione indurrà qualcuno, anzi molti potenziali lettori, a leggere o rileggere l’Eneide, ancora una volta essi testimonieranno la vitalità dei testi grandissimi. Ma sono proprio i traduttori a garantire, spesso, questo miracolo.