Parlare di Dio senza confusioni
di Bruno Forte *
Che cosa significa per il cristianesimo l’idea che esistano altre religioni universali o dalla potenziale destinazione universale in aree non piccole del pianeta? Sono le altre religioni vie equivalenti al cristianesimo per accedere al mistero della divinità e farne esperienza salvifica? Se sì, a che scopo un cristiano dovrebbe impegnarsi per l’annuncio del Vangelo nel mondo? Se no, quale senso ha il dialogo interreligioso e come intenderlo? La ricerca teologica cristiana, stimolata da incontri emblematici come quello di Assisi nel 1986 e quello del 27 ottobre prossimo, muove fra due estremi.
Da una parte, l’«esclusivismo», per il quale nessuna religione salva al di fuori del cristianesimo e le religioni sono al massimo espressione della sete che l’uomo ha di Dio (è il teologo evangelico Karl Barth a costituire il punto di riferimento più alto di questa posizione nel Novecento); dall’altra, il «pluralismo» di carattere relativistico, con teologi che hanno messo in luce la relatività del cristianesimo. Per essi il Logos universale e il Logos manifestato nella storia sarebbero equivalenti e si potrebbe arrivare a Dio anche attraverso il Logos universale, per cui il cristianesimo non è la sola religione assoluta, perché il divino ha più nomi e non si lascia incontrare solo in Gesù Cristo. In positivo, la posizione pluralistica afferma che le religioni non hanno solo valore di supplenza, ma sono risposte umane diverse all’unico mistero divino che chiama, secondo un modello d’interpretazione della salvezza non cristocentrico, ma teocentrico.
Molte di queste posizioni pluralistiche riconoscono Gesù come il Cristo, Verbo incarnato di Dio, ma si rifiutano di accettare che la totalità del Logos sia contenuta in lui: l’idea del Cristo diviene così una sorta di categoria teologico-salvifica universale, di cui la rivelazione cristiana non offre che un esempio, fosse pure il più alto (come suggerisce ad esempio il pensatore indiano-catalano Raimon Panikkar).
La facile e leggera adesione a questo tipo d’ipotesi teologiche ha portato non di rado a crisi di identità in coloro che per Cristo avevano giocato la propria vita. Queste idee però contrastano con quanto affermano i testi di Paolo e di Giovanni e Gesù stesso, che si presenta come la via necessaria per andare al Padre, oltre che con il discorso evidente che - se ognuno trova la sua via al divino senza bisogno del Dio incarnato - non avrebbero senso le missioni del Figlio e dello Spirito: a che scopo il Figlio di Dio si sarebbe incarnato? Se c’è stata una motivazione dell’incarnazione è perché l’uomo potesse arrivare più facilmente a Dio e arrivarvi autenticamente.
Ecco perché fra esclusivismo e relativismo si va configurando nel mondo cristiano la posizione maggioritaria dell’ «inclusivismo»: Cristo è l’unico mediatore e senza di lui non c’è salvezza. Tuttavia l’adesione a Cristo può avvenire sia in forma esplicita, sia in maniera più o meno implicita, ad esempio attraverso il desiderio del battesimo per coloro che non possono conoscere ancora Dio in Gesù, ma sono già in certo modo uniti a Dio. Le vie misteriose dello Spirito di Cristo, insomma, raggiungono ogni persona onesta che cerchi Dio e apra a Lui le porte del suo cuore. Ecco, allora, l’importanza di scoprire Cristo quale punto di riferimento irrinunciabile senza negare il rispetto dell’altro.
Il senso della singolarità di Cristo si può così coniugare per il cristiano al riconoscimento della dignità di ogni uomo, a quella teologia delle religioni, che vede in esse uno strumento di ricerca autentica dell’incontro con Dio. Peraltro, la sfida delle grandi religioni e del loro rapporto col cristianesimo è quanto mai attuale: l’altro è ormai in casa nostra, concretamente e nel mondo virtuale. Dialogo e proclamazione vanno dunque coniugati. Alcuni offrono alla tesi «pluralistica» come fondamento ermeneutico la considerazione che il pensiero asiatico, specialmente indiano, non si costruisce sul principio di non contraddizione, e quindi sulla contrapposizione, ma sull’allargarsi ospitale dell’identità, che può esprimersi in una pluralità di forme concrete.
Non mi sento di condividere questa tesi, perché senza l’accettazione del principio di non contraddizione nessun dialogo o comunicazione vera potrebbe darsi fra gli uomini. Si profila così la validità di un’interpretazione del rapporto fra cristianesimo e religioni all’insegna dell’inclusivismo: mantenendo ferma la necessità del Cristo e della sua mediazione, si prende sul serio la possibilità universale della salvezza secondo tendenze interpretative diverse.
Per alcuni pensatori cristiani il cristianesimo compirebbe i valori delle altre religioni, le quali, più che mediazioni salvifiche, sono segnali d’attesa; per altri va riconosciuta una certa sacramentalità delle altre religioni, un loro effettivo costituirsi come vie di trascendenza; per altri ancora è determinante la distinzione fra storia generale e storia speciale della salvezza, in base alla quale le religioni hanno sì il valore di una mediazione di trascendenza, che tuttavia è attuata in pienezza solo nel cristianesimo.
Frutto del «déplacement» subito dalla teologia cristiana a causa della pratica del dialogo con le grandi religioni mondiali, la riflessione teologica sulle religioni appare un campo di ricerca tuttora aperto e non poco problematico, anche per le conseguenze che essa comporta sul piano del rapporto fra proclamazione del messaggio e dialogo con mondi culturali e spirituali diversi dal cristianesimo. Esperienze come quella prossima di Assisi, lungi dal favorire confusioni indebite, costituiscono l’occasione per riproporre gli interrogativi accennati in maniera seria e responsabile da parte di chiunque abbia a cuore la verità e la causa di Dio in questo mondo.
* Arcivescovo di Chieti-Vasto
L’articolo è ispirato alle tesi del prossimo incontro interreligioso di Assisi e riflette le idee del capitolo 23 del libro intervista di Bruno Forte, «Una teologia per la vita» (Editrice La Scuola). Il libro, a cura di Marco Roncalli, sarà in libreria nei prossimi giorni
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
IL PARADOSSO DEL "MENTITORE" - KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
(Federico La Sala)
La ragione, la poesia e l’amore divino
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 03.04.2016)
arcivescovo di Chieti-Vasto
La fiducia illimitata nella potenza della ragione e della parola che l’esprime è un tratto della mentalità illuministica della modernità.
Al culmine dell’esercizio del pensiero, superati gli oscurantismi del passato, la luce della ragione avrebbe realizzato il suo trionfo nella perfetta corrispondenza dell’ideale e del reale. “Così, - scrive Hegel in una celebre pagina della Scienza della Logica - dissipate le tenebre, rimossa l’incolore cura di sé dello spirito rivolto a se stesso, l’esistenza parve essersi trasformata nel sereno mondo dei fiori, tra i quali, com’è noto, nessuno è nero” (Tomo I, Bari 1981, 4: traduzione modificata).
Dove tutto è portato alla chiarezza dell’idea, ogni presunto “fiore nero” dell’eccesso del reale rispetto al razionale è ricondotto alla misura dell’idea e la parola - manifestazione compiuta della razionalità - assurge a uno sconfinato potere, ad un irresistibile fascino: nasce così - nel segno di Hegel e della sua multiforme eredità - il marcato “logocentrismo” della modernità.
Perciò l’ideologia moderna - in tutte le sue forme - si ubriacherà di parole e la parola, da strumento di sovversione e di cambiamento (“parole come pietre” al servizio della trasformazione rivoluzionaria, di destra o di sinistra), si andrà trasformando in mezzo di imbonimento e di inganno per nascondere il dissidio fra ideale e reale.
Di questo declino della parola è dimostrazione la retorica di tutti i totalitarismi prodotti dalla modernità. Non sorprende allora che il fallimento storico delle pretese totalizzanti della ragione abbia fatto riemergere la rilevanza di ciò che eccede la formulazione logica e verbale, quel “fiore nero”, che non dovrebbe esserci per la ragione totalizzante e che invece c’è: l’irrazionale, il notturno, il vitale inesprimibile, la morte. L’affacciarsi del “fiore nero” nel tramonto delle “grandi narrazioni” ideologiche si coniuga perciò a un nuovo bisogno di silenzio, spazio aperto per l’invocazione e l’incontro con l’altro nell’ascolto.
La crisi del “logocentrismo” della modernità, caratteristica dell’inquieto post-moderno, viene a sfidare anche la tradizione ebraico-cristiana, marcata com’essa è dalla parola quale via privilegiata dell’auto-comunicazione divina: non è difficile cogliere come si tratti di una sfida tutt’altro che indifferente.
Come parlare del Verbo in un tempo stanco di parole, malato del loro sciupio nella comunicazione insignificante? come dire la Parola a una cultura segnata dall’abbandono delle certezze forti legate al “logos”, condannata - almeno in apparenza - alla rinuncia a ogni forza del dire, per risolvere la comunicazione in puro gioco di maschere e di convenzioni, che nascondono la solitudine dei frammenti e l’arcipelago delle disgregazioni?
Rispondere a queste domande in maniera responsabile significa farsi carico con nuova coscienza di un dato tanto originario, quanto paradossale: e cioè che proprio la religione della Parola sia, nel suo principio e fondamento, “appesa” al Silenzio... Perciò, dire Dio è per la fede biblica compito al tempo stesso impossibile e necessario: impossibile per l’eccedenza dell’Oggetto; necessario per la sua indispensabile rilevanza in ordine al senso e alla speranza della vita degli uomini.
La parola teologica, nel suo esercizio più alto, sta allora sulla frontiera, continuamente rinviando da una parte alla fragile terra dove poggiano i nostri piedi, e dall’altra all’abisso insondabile, che è la regione del Silenzio. Due movimenti l’attraversano, fra di loro totalmente asimmetrici: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e combattere la lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi nella Parola incarnata, muovendo dal Suo insondabile Silenzio...
Questo itinerario conduce verso gli spazi della “poesia”: come la teologia, la poesia educa ad ascoltare il Silenzio nelle parole e a far risuonare al di là di esse l’abissale Silenzio in chi ascolta. La poesia realizza anzi in maniera singolare la verità che sta al centro della teologia: quella contenuta nell’evento della morte e resurrezione della Parola venuta dall’eterno Silenzio di Dio.
La parola della Croce dichiara certo l’incompiutezza di ogni parola umana, se - per dirsi nella maniera più profonda - il Verbo ha scelto la morte di Croce: è in questa morte, però, che il Verbo tocca l’eloquenza più alta della Sua rivelazione. “Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici” (Gv 15,13)! Morte della morte della parola è, analogamente, la poesia: consapevole o inconsapevole, essa, quando è, è questa trasgressione, questo morire della parola, perché la dimensione della Trascendenza venga ad affacciarsi in questa morte e da essa si sprigioni. La poesia - al di là della stessa consapevolezza del poeta - è evento di una “kenosi” della parola, che ne trasmette il misterioso splendore...
Oltre il declino del senso della parola nella comunicazione verbale si offrono allora come possibile medicina dell’anima - pur nella diversità del loro statuto epistemologico - tanto la teologia, quanto la poesia, entrambe in ascolto del silenzio, entrambe testimoni di esso nella ineliminabile fragilità della parola, entrambe eco di un’altra Parola, di un altro Silenzio.
Forse perciò entrambe sono circondate da quell’aura di sospensione, quando non di sospetto, di cui rende ragione la costatazione realistica e amara di Martin Heidegger: “Può darsi che il linguaggio richieda, invece di un’espressione precipitosa, un giusto silenzio. Tuttavia chi di noi uomini d’oggi può immaginare che i suoi tentativi di pensare si trovino a proprio agio sul sentiero del silenzio?” (Lettera sull’umanismo, Torino 1975, 110).
Eppure, è sulla via dell’ascolto, è sui sentieri del Silenzio, che la Parola può nuovamente venirci incontro nel tempo della notte del mondo come evento che libera e salva: “Perché i poeti nel tempo della povertà?... Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro” (M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, Firenze 1984, 249s)...
Voce poetica e voce teologica si rivelano entrambe evocative dell’indicibile Altrove, capaci di suscitarne la nostalgia e di farne pregustare l’inquietante, mortale, vivissima bellezza. Lo mostra, ad esempio, questa lirica di Renzo Barsacchi: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, / tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Le notti di Nicodemo, Palermo 1991, 11).
La visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma
Quel legame che unisce ebrei e cristiani
di Bruno Forte, monsignore (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.01.2016)
La visita odierna di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma - analogamente a quelle di Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986 e di Benedetto XVI il 17 gennaio 2010 - mette in evidenza non solo l’importanza che il popolo ebraico e la sua fede hanno per i cristiani, ma anche la rilevanza che il cristianesimo ha per l’ebraismo, come ancora una volta ho sperimentato di persona in questi giorni tenendo la «annual lecture» al Centro di studi sul cristianesimo della Hebrew University di Gerusalemme.
Perché questa rilevanza?
La risposta può essere cercata in una scena biblica, cui sono ricorsi gli antichi pensatori cristiani per illuminare il rapporto fra Israele e la Chiesa. Si tratta dei due esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende un grappolo d’uva, che essi accompagnano col melograno e il fico: «Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi» (Numeri 13,23). Nell’asta i Padri della Chiesa hanno visto il legno della Croce, da cui pende Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (così ad esempio Evagrio intorno al 430 nella «Altercatio inter Theophilum et Simonem»: PL 20,1175).
Nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: «Portando l’asta, essi appresentavano i due popoli, l’uno avanti, quello ebraico che dà la spalle a Cristo, e l’altro indietro, che guarda al ramo, il popolo dei cristiani»(ivi: stesse idee in S. Massimo di Torino, alla metà del V secolo: Homilia 79: PL 57,423s). In quanto marciano l’uno dietro all’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa fondate sulla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che confessa in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’alleanza con Israele e della promessa fatta ai credenti. Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la profonda continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unico legno che entrambi gli esploratori portano, ma anche per l’orizzonte comune della meta cui si rivolge il loro sguardo.
Uniti nella speranza e nell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dal legno della Croce. Il legame è così forte, che il recente documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Chiesa Cattolica, pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II (10 Dicembre 2015, dal titolo: «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!», citazione della Lettera di Paolo ai Romani 11,29), non esita ad affermare:
«Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico: il cristianesimo, date le sue radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito dialogo interreligioso in senso stretto: si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di dialogo intra-religioso o intra-familiare» (n. 20).
In particolare, tre elementi di continuità e insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa possono essere evidenziati: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento, e cioè la convinzione che in essa ci è offerto il senso ultimo della vita e della storia, e pertanto ci è indicata la direzione di marcia che rende piena e significativa l’esistenza umana in questo mondo; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento, e dunque la missione che essi hanno in forma simile ed insieme diversa per tener alto nella vicenda umana il senso religioso, inteso come l’apertura accogliente al Dio che si rivela per la nostra salvezza, motivato unicamente dall’amore per le sue creature.
Ciò che unisce i due esploratori è dunque anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Perché questo avvenisse, la stessa Verità ha parlato il linguaggio degli uomini e infiammato di desiderio i loro cuori: l’Infinito è entrato nel finito per comunicarsi a noi! Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: «Il piccolo può contenere il grande»(cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9). Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: «Non essere costretti dal massimo, essere invece contenuti dal minimo, questo è divino» (elogio sepolcrale di Sant’Ignazio di Loyola).
Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano. “Zimzum” è l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo del Dio vivo che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà e nell’amore. L’invocazione “Tu sei Umiltà”, contenuta nelle Lodi del Dio Altissimo di San Francesco, mostra quanto questo messaggio corrisponda all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nel farsi carne del Verbo eterno e nel suo “annientamento” (“kénosi”) per amore nostro. Questa “estasi” del divino, questo “star fuori” dell’Infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire al cammino della creatura verso il Mistero, che è la vocazione ultima della creatura alla verità e alla bellezza che salva, e che per il cristiano è resa realizzabile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: qui la fede dell’ebreo Gesù unisce Israele e la Chiesa; qui la fede in Lui li distingue, pur senza separarli, nel comune cammino della speranza verso il compimento della promessa di Dio nel Regno che non avrà fine.
Nel messaggio di quest’anno per la giornata del dialogo ebraico cristiano, che cade sempre il 17 Gennaio, Rav. Giuseppe Momigliano, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, ed io in quanto Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, abbiamo perciò affermato:
«Attraverso le nostre fedi riconosciamo anzitutto tutto il bene che c’è nel mondo, ed insieme viviamo con angoscia gli eventi del presente, che sono carichi di sofferenza e di inquietanti prospettive per il futuro, assistiamo sgomenti a gesti orrendi che profanano il Nome dell’Eterno, perpetrati con l’ignobile pretesa di adempiere alla Sua volontà, cogliamo con preoccupazione i segni sempre più frequenti di un’umanità smarrita, delusa da tante false idolatrie... Mentre rinnoviamo la nostra fedeltà ai principi e ai precetti che, con distinte peculiarità, caratterizzano le nostre fedi, sentiamo l’urgente necessità di ribadire la fiducia che, proprio dal fecondo dialogo da noi intrapreso, dalla ricerca di valori morali e spirituali condivisi nei quali operare in sintonia, possa scaturire una positiva testimonianza di fede, suscettibile di restituire speranza e di rivolgere nuovamente i cuori di molti verso l’Eterno».
Anche per questo la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma è un evento che tocca tutti, credenti e non credenti che siano.
In ascolto dell’altro perché in ascolto di Dio
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2012)
Ho avuto il dono di conoscere da vicino il cardinale Carlo Maria Martini e di condividere con lui innumerevoli dialoghi ed esperienze di fede. Che cosa mi hanno dato i lunghi anni della nostra amicizia, nata dalla Sua generosità e fiducia?
Era il 1984 ed ero stato invitato a parlare alla Chiesa di Milano in Convegno. Le parole che il Cardinale mi disse, tornando in auto in Arcivescovado, mi diedero un grandissimo incoraggiamento ad andare avanti sulla via della riflessione teologica, al servizio della Chiesa e della comunità degli uomini.
Durante il Convegno della Chiesa Italiana a Loreto nel 1985, dove il Cardinale Ballestrero, Presidente della Conferenza Episcopale, e il Cardinale Martini, alla guida del Convegno, mi avevano chiamato a tenere la relazione di apertura, vi furono momenti di grande tensione e difficoltà, che portai in un dialogo intensissimo e prolungato col Signore, pregando fino a notte fonda. Quando al mattino consegnai per iscritto al Cardinale Martini il frutto delle mie riflessioni, il Suo commento mi diede un’immensa gioia: «Come sono contento della libertà interiore che Dio ti ha dato!». È questa la prima cosa che credo di aver appreso da Lui, a conferma di una scelta di fondo che sentivo fondamentale per il mio essere cristiano e prete: cercare di piacere a Dio solo.
Questa libertà mi appariva così luminosa in Martini, che tante volte l’ho esercitata anche nei Suoi confronti, parlandogli sempre con assoluta franchezza, anche quando le nostre idee non coincidevano. Sempre mi ha colpito l’umiltà del Suo ascolto e la serenità con cui presentava la Sua posizione, soppesando gli argomenti. Era un uomo sempre attento a cogliere le ragioni dell’altro, generoso nel dare l’interpretazione più benevola delle posizioni diverse dalla Sua. Uomo di vero dialogo (senza alcuna esclusione: dai non credenti ai fratelli nella fede, dall’amatissimo popolo d’Israele, al dialogo ecumenico e interreligioso), promotore di corresponsabilità e partecipazione di tutti, rispettoso della dignità di ciascuno, quali che fossero le idee e le scelte di vita della persona.
Il Suo ascolto dell’altro nasceva dall’ascolto profondo e innamorato della Parola di Dio: ecco l’altro grande insegnamento che ho ricevuto da Lui. Un amore appassionato, fedele, sempre in ricerca, alla Sacra Scrittura. Un nutrirsene continuamente, nello stupore dinanzi alla novità sempre nuova del Dio che parla. Amavo già la Parola: in particolare l’insegnamento del mio padre nella fede, il Cardinale Corrado Ursi, Arcivescovo di Napoli che mi ordinò sacerdote nel 1973, mi aveva educato a nutrirmi assiduamente della Parola proclamata nella liturgia. Dal Cardinale Martini ho ricevuto lo stimolo a fare della Scrittura il viatico quotidiano, da frequentare con tutti gli strumenti disponibili per meglio intenderla, e soprattutto con una "lectio" che si facesse sempre più meditazione, dialogo con Dio e azione contemplativa. In questo dono, personalmente sperimentato, leggo la causa più profonda della vita del Biblista e Pastore, che fu Martini, quello che mi sembra Egli cercò di insegnare al di sopra di tutto al popolo che Dio gli aveva affidato, e che ha parlato alla Chiesa intera.
Libertà interiore, ascolto dell’altro, ascolto di Dio: queste tre componenti le ho avvertite presenti e fuse nel Cardinale in modo esemplare. Ho cercato di far mia questa lezione, come ho potuto, con i limiti della mia persona e delle mie capacità. Il Signore è stato buono nel darmi aiuti preziosi: e fra questi preziosissima l’amicizia di Martini. La gratitudine che nutro per Lui è immensa, e sono convinto che ogni credente consapevole e onesto non potrà che condividerla, come la condivideva l’amatissimo Giovanni Paolo II, che volle esplicitamente farne menzione nei Suoi ricordi autobiografici! E ora che questo grande Padre della Chiesa del nostro tempo è entrato nella luce e nella bellezza della vita senza fine in Dio, sarà il Signore a ricompensarlo per l’eternità! Resterà nel ricordo ammirato e grato d’innumerevoli persone che non hanno il dono di credere. È e sarà sempre nella mia preghiera, come in quella di tanti credenti. Gli chiedo di fare lo stesso per me, per tutta la Chiesa che tanto ha amato, affinché in essa tutti - e specialmente chi ha responsabilità per altri - possiamo agire sempre e solo "ad majorem Dei gloriam", come recita il motto di Sant’Ignazio, maestro e padre del gesuita Martini: per quella più grande gloria di Dio, che è l’uomo vivente, nel tempo e nel giorno senza fine dell’Eterno, nella cui luce ora vive Padre Carlo, maestro di vita e di fede.
Venticinque anni dopo senza i vertici ebraici e dell’islam sunnita
Flop interreligioso: delusione ad Assisi
di Marco Politi (il Fatto, 28.10.2011)
Assisi. Sotto le volte di Santa Maria degli Angeli, affiancato da esponenti delle principali religioni del mondo, Benedetto XVI confessa: “Sì, anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza: lo riconosciamo pieni di vergogna”. La religione, continua il Papa, non può essere giustificazione del terrorismo. Poi Ratzinger rimarca che anche la negazione di Dio è fonte di mali. “Il no a Dio - scandisce - ha prodotto una crudeltà e una violenza senza misura”, perché nei lager è saltata ogni norma morale . E qui sta il paradosso di questo “ritorno” ad Assisi di Benedetto XVI venticinque anni dopo il grande incontro interreligioso, convocato da Giovanni Paolo II nella città di Francesco.
PAPA Ratzinger denuncia il male dell’“assenza di Dio” mentre tutto l’evento si svolge sotto la cappa della sua proibizione: niente preghiere comuni. Prescrive ingenuamente il manualetto ufficiale stampato dal Vaticano: “Alle ore 13,45 (dopo il pranzo e prima delle 15,15) i membri delle delegazioni raggiungono gli appartamenti indicati per una pausa di silenzio, riflessione e preghiera personale”. E se gli illustri ospiti facessero una pennichella? Finisce che in Santa Maria degli Angeli il solo a invocare la divinità è il rappresentante dell’antica religione politeista africana Ifa: “Mio grande Signore, Erigi Alo, Ifa ha sposato Colei-che-si-bagna-nell’acqua fredda...”.
La risposta dei scismatici lefebrviani, quelli a cui il Vaticano sta per regalare una prelatura speciale con propri vescovi senza che accettino i grandi documenti del Concilio su ecumenismo, ebraismo, libertà religiosa e rapporti con le altre religioni, è già pronta: “Adorazione del Santissimo Sacramento e recita del rosario in riparazione della celebrazione di un evento che ha umiliato la Sposa di Cristo mettendola sullo stesso piano delle false religioni”.
Venticinque anni fa, quando Karol Wojtyla invitò i leader delle religioni mondiali a pregare insieme per contrastare il terrore dell’equilibrio nucleare tra Usa e Urss, fu proclamata una tregua planetaria di ogni conflitto e guerriglia.
NON CESSÒ, naturalmente, ogni colpo mitragliatrice, ma il fatto stesso manifestò il prestigio morale raggiunto all’epoca dalla Santa Sede. In quel giorno del 27 ottobre 1986 tutta Assisi diventò un luogo di preghiera. La folla girava emozionata ed eccitata di vicolo in vicolo, di piazza in piazza osservando nelle chiese, nei luoghi aperti, nelle antiche sale il salmodiare degli uomini di Dio venuti da ogni angolo del mondo. Vano sarebbe cercare nel-l’evento di adesso un simile fervore. Partecipano trecento esponenti di oltre cinquanta religioni, eppure il Vaticano raccoglie gli esiti delle crisi provocate con i grandi monoteismi.
Non sono presenti le massime autorità ebraiche. Non si vede un rappresentante dell’università cairota di Al Azhar (Vaticano dell’islam sunnita). Non c’è nemmeno il Dalai Lama, che Benedetto XVI non volle ricevere per non indispettire la Cina.
L’atmosfera è quella ingessata dei convegni accademici. “Era meglio se non tornavo”, si sfoga una fedele cattolica presente nel 1986. Il discorso del pontefice, scritto di suo pugno, è lucido e preciso. Denuncia l’abuso politico della religione. “Sappiamo - dice - che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione della crudeltà spietata”. Tutte le religioni, perciò, devono purificarsi. L’altra sottolineatura del suo intervento è la denuncia dell’ “assenza di Dio” come causa di decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma, controbilancia il Papa, soltanto una fede “rettamente vissuta” si trasforma in forza di pace.
Novità, rispetto al 1986, è l’invito ad esponenti dichiaratamente non-credenti a prendere parte a questo “pellegrinaggio di verità e di pace”. Ratzinger li descrive come cercatori del vero Dio, la cui immagine è spesso “travisata” e nascosta dalle religioni stesse. A loro nome la psicanalista Julia Kristeva illustra i principi dell’umanesimo laico. “Rimettersi continuamente in questione”, battersi per l’emancipazione delle donne, prendersi cura dell’altro. “L’uomo non fa la storia, noi siamo la storia”, annuncia la Kristeva esortando a “riprendere e rinnovare i codici morali” costruiti nei secoli.
DOPO LA CERIMONIA del mattino con le dichiarazioni dei vari esponenti religiosi, la giornata si chiude con una cerimonia sul piazzale inferiore della basilica. Tutti rinnovano solennemente l’impegno per la pace e il dialogo. Poi un rapido omaggio alla tomba di Francesco. Così termina - frettolosamente - un appuntamento tutto di testa. Buono perché si è fatto. Emozionante come il menù papale: riso con verdura, insalata, frutta.
Principi non negoziabili
di Ugo Basso
in “Notam” (lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano), n. 382, 24 ottobre 2011
Credo che l’espressione sia stata coniata dal cardinale Camillo Ruini, allora per nomina di Giovanni Paolo II presidente dei vescovi italiani, per indicare, con rigore etico, principi appunto non discutibili che avrebbero dovuto essere difesi in qualunque circostanza dai cattolici e in primo luogo dai parlamentari cattolici. I due fondamentali sono la difesa della vita dal concepimento alla fine naturale e la famiglia fondata sul matrimonio, bandiere quindi del coinvolgimento del cattolicesimo nella vita civile del paese.
Tristissimo argomento. Tristissimo innanzitutto per l’espressione: credo che ogni persona che conduca, o intenda condurre, una vita etica abbia dei principi sostenuti con intransigenza, ma una dichiarazione così altisonante e pronunciata da una cattedra che si pone altissima è una dichiarazione contro il dialogo: chi, non condividendo i principi sottoposti a non negoziabilità, si sente opporre una tale affermazione può solo riconoscere di non aver nulla da dire, di non avere spazio di dialogo.
Dunque un’espressione che si pone nello spirito anticonciliare che ha preso il sopravvento nel magistero, visto che il Vaticano secondo, proprio al contrario, invita a praticare lo stile di Gesù, che a nessuno chiude la porta.
E basterebbe questo per cassare l’espressione. Ma purtroppo temo ci sia di peggio. Infatti i due principi dichiarati non negoziabili riguardano temi complessi e delicati, su cui credo nessuno abbia una parola definitiva, ma proprio nessuno e neppure la scrittura offre risposte chiare e immutabili nel tempo: il cristiano deve appellarsi sempre alla tutela dell’uomo, ma sono argomenti su cui è probabilmente impossibile stabilire in modo inequivoco e definitivo che cosa comporti perché le stesse conoscenze si evolvono presentando situazioni originali e imprevedibili che impongono di ripensare gli stessi parametri di giudizio.
La via può solo essere la ricerca insieme agli uomini di buona volontà per operare al meglio, per individuare nelle vie della scienza quello che umanizza e non disumanizza, nell’ambito della coscienza prima che della legge, per dare all’uomo sempre maggiore serenità e una più accettabile qualità di vita a tutte le condizioni, età, appartenenze.
La pretesa immutabilità di principi in questi campi allora non scende da rigore etico, che necessariamente sta a monte, ma dall’esigenza di discriminare in ambito politico: chi li sottoscrive è con la chiesa, chi no è fuori. Guardando lo scenario che abbiamo davanti agli occhi ormai da diversi anni, diciamo con amarezza che chi cerca, si impegna a trovare soluzioni a problemi dolorosi e inquietanti, con la consapevolezza di sbagliare, è additato come non in linea: chi sottoscrive, sottoscrivendo quindi l’idea di una chiesa che pretende norme nell’indifferenza delle coscienze, è da sostenere. E le coincidenze politiche sono pure evidenti, posto che non siano le motivazioni di queste affermazioni, del tutto indipendentemente dalle scelte di vita di che le sostiene in parlamento, relegate a fatti personali.
Cerchiamo di usare il discernimento, dono dello Spirito, per capire e distinguere: i principi etici affermati dall’evangelo sono la fraternità, la dignità, la sobrietà, la laicità, l’impegno a non mentire e a fare giustizia, alla tutela della vita, sì alla vita di tutti, dei malati che non possono curarsi, dei bambini che non possono nutrirsi, dei condannati. L’assiduità alla preghiera mantiene all’erta nel distinguere i falsi profeti che si annidano forse anche in noi, a non abbassare mai la guardia nel riconoscere l’autentico dal corrotto, nonostante gli allettamenti e i successi.
Ancora in questi giorni i cattolici del Pdl ribadiscono come segno di identità i principi non negoziabili: chissà se i movimenti cattolici che stanno cercando un’intesa nella speranza di un nuovo corso alla politica del paese si riconoscono in principi più evangelici?
La vita è un dono sacro del nostro Creatore. È preziosa. Il rispetto per come Dio considera la vita, il rispetto per la legge secolare e il desiderio di avere una buona coscienza, vietano al cristiano di causare intenzionalmente la morte di qualcuno. -
I medici ammettono che “gli intensi sforzi per mantenere in vita possono, in realtà, diventare un prolungamento dell’agonia, anziché un prolungamento della vita”. Che dire dunque se i medici dichiarano che nella migliore delle ipotesi possono prolungare l’agonia con mezzi meccanici? Qualora la morte sia chiaramente imminente o inevitabile, la Bibbia non richiede che l’agonia venga prolungata artificialmente. Lasciare che la morte faccia il suo corso in tali circostanze non violerebbe alcuna legge di Dio.
I due fondamentali sono la difesa della vita dal concepimento alla fine naturale e la famiglia fondata sul matrimonio, “bandiere” se davvero fossero considerate bandiere o meglio principi che non si possono alterare, cambiare, torcere o....tacere e non dire niente anche se come religione vediamo fare il contrario!
Non dimenticate i milioni di vite stroncate nell’Olocausto, una tragedia per cui le chiese della cristianità non sono scevre di colpa. Gli ecclesiastici tedeschi tacquero anche rispetto a un’altra questione, meno nota ma altrettanto tragica.
Nel 1927, due anni dopo che Hitler aveva enunciato nel Mein Kampf il suo pensiero sulla razza, l’editore e teologo cattolico Joseph Mayer pubblicò un libro con tanto di imprimatur ecclesiastico che diceva: “Malati di mente, persone moralmente squilibrate e altre persone inferiori non hanno diritto di moltiplicarsi più di quanto ce l’abbiano di appiccare incendi”. Il pastore luterano Friedrich von Bodelschwingh considerava la sterilizzazione degli handicappati compatibile con la volontà di Gesù.
Questo atteggiamento che aveva l’appoggio della religione contribuì a preparare il terreno per il “decreto sull’eutanasia” approvato da Hitler nel 1939 che portò alla morte di oltre 100.000 cittadini malati di mente e alla sterilizzazione obbligatoria di circa 400.000 persone.
Tacere...tacito consenso...che’ dire nei nostri giorni....prolungano l’agonia con mezzi artificiali, quando clinicamente la persona potrebbe morire in qualche giono...Per la ragione che la sua malattia era terminale aveva un termine NATURALE ma! La prolungano...dove sono le due bandiere e il suo adempimento della realta’ e lealta’!
Confucio disse: Cosa fa’ un Italiano; quando non sa una cosa? L’insegna!
Cosa fa un Italiano quando non sa se! la dottrina della trinita e’ "VERA" dottrina; anche se Gesu’ stesso non la raccomando’! ne l’insegno" e ne i discepoli sapevano niente della trinita’ e perche’ la parola stessa non e’ nella Bibbia....Non lo sanno ed e’ per questa ragione che insistono ad insegnarla.
Il capitolo 17 di Giovanni parla non solo di una trinita’ ma anche di una quaterna, di una cinquina di un bel gruppo, di migliaia di persone di milioni perfino. Non sono una sola carne quando un uomo e una donna si uniscono in matrimonio? "una sola carne"....che! dovrebbero avere la stessa idea, consenso dopo magari un ragionamento a come di che colore pitturare la casa o il colore della macchina o quanti figli potrebbero mettere al mondo e cosi via........ Cosi’ sono anche Dio e suo figlio....due persone con lo stesso intento DIVINO.
Il coraggio di indignarsi
di Arturo Paoli (“oreundici”, n° 10, ottobre 2011)
Sentirei di mancare di amicizia se non parlassi della mia evoluzione in questo momento, che è la ragione per cui non ho svolto come tutti gli anni la meditazione mattutina strettamente religiosa. La mia vita è sempre stata un passaggio interno, che credo e spero dovuto alla devozione che ho scelto verso lo Spirito santo perché - questo è il fondamento della mia fede - sono convinto che sia lo Spirito santo a dirigere la storia e l’evoluzione dei tempi, pur rispettando la libertà dell’uomo. Ho sentito nitidamente come un suono di campana che tutto il Vangelo è condensato in una frase di Gesù: cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. Prima ancora della vostra devozione particolare, prima della preoccupazione di salvare l’anima: cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. La seconda verità che ha battuto per molto tempo dentro di me è una frase di Paolo: fare la verità nell’amore. Non si possono disgiungere queste due qualità, l’amore e la verità. Con queste due verità sto vivendo questi ultimi anni della mia vita e credo che non mi lasceranno più, cercando sempre, come posso, di aiutare l’avveramento di queste due esigenze che sono dettate e rinnovate dallo Spirito santo. Questa è una costante della mia vita: tu lasciati tormentare, poi un giorno ti sarà chiaro, capirai.
Il giorno della chiarezza è venuto qualche mese fa quando, dopo aver ricevuto alcune persone, ho trovato sul mio tavolo un libro di dimensioni imponenti, con 650 pagine. Non voglio diventare pazzo, ho cercato di allontanarlo da me perché non mi venisse la tentazione, invece la tentazione mi è venuta il giorno dopo e ho cominciato a sfogliarlo per curiosità. L’autore Sergio Soave è il sindaco di una cittadina del Piemonte, Savigliano, e il titolo del libro è: Senza tradire, senza tradirsi. È la storia della vita politica in Europa dopo la guerra del 1915, epoca in cui le grandi forze popolari del socialismo e del comunismo suscitavano la ricerca di rinnovamento e di cambiamento. Il libro ricostruisce la storia di due personaggi, uno conosciuto per le sue opere letterarie, Ignazio Silone, e l’altro piemontese, a me sconosciuto fino ad ora, Angelo Tasca.
Progredendo nella lettura, che mi appassionava sempre di più, ho cercato di raggiungere l’autore, per dirgli che il suo libro risolve un problema che mi tormenta da tempo e che mi sarebbe piaciuto incontrarmi con lui. Dopo neanche una settimana questo sindaco è venuto da me, e abbiamo condiviso molti pensieri. Il problema che mi ha tormentato in questi ultimi anni, da quando sono rientrato definitivamente in Italia, e che continua a tormentarmi è questo: come facciamo noi cristiani a vivere in una società che è il tradimento totale dei precetti evangelici? Come facciamo? Noi cristiani dobbiamo interessarci singolarmente alla salvezza della nostra anima, e disinteressarci di vivere in una società che contraddice totalmente il vangelo? Allora perché Gesù ha detto cercate per primo il regno di Dio?
Vedo intorno a me l’insensibilità totale dei cattolici italiani che votano quasi dormendo, che siccome mangiano bene tre volte al giorno e possono soddisfare certe curiosità di consumo o della tecnica, allora dicono pazienza, perché interessarmi alla politica? lo mi arrangio da me. Al contrario ho sempre pensato e ancora penso che un cristiano non possa vivere in una società che smentisce completamente il vangelo, a cominciare dalla prima beatitudine: beati i poveri in spirito. Non ho mai pensato che il messaggio di Gesù sia una verità astratta: fare la verità dice Paolo, non credere in un dogma.
Il regno di Dio predicato e praticato da Gesù è mescolato ai poveri e per spiegarlo meglio ci ha lasciato una brevissima preghiera: venga il tuo regno sulla terra, come nel cielo. Il cielo si trasferisce sulla terra, in che cosa la terra può imitare il cielo? Nella giustizia, nell’amore, nel formare una famiglia umana che viva in una atmosfera di amore.