IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO .... MA DA CHI?! Alcune note a margine dell’incontro dei cattolici del 16 maggio di Firenze*
di Federico La Sala *
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?!
Certamente non da Gesù: egli è “venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità”. E certamente non avete ascoltato la sua voce: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv., 18.37).
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?! A quale tavolo vi siete seduti, e con chi?!
Certamente non da Gesù e certamente non con Gesù: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo" (Mt. 26:26); “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi" (Gv. 6:53).
DALLA PRIMA LETTERA DI GIOVANNI:
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE ... DEUS CHARITAS EST (1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ... DIO E’ AMORE (1Gv., 4. 1-16).
In verità, se siete capaci di intendere e di volere, il vostro “vangelo” è il “van-gelo” del “latinorum”, dei don Abbondio e dei don Rodrigo ... dei “Papi” di oggi, e di Ratzinger!!!
E il vostro Padre è “Mammona” (“Caritas”)!!! E’ ora di svegliarsi - al di là del disagio e del dissenso!!! Avete ricevuto e predicate un “van-gelo”, gelido e mortifero che non ha nulla a che fare con la buona-novella (eu-angelo), il messaggio evangelico!!!
Il teologo Ratzinger scrive da papa - senza grazia (“charis”) e senza “h” (acca) - una enciclica sul “Padre nostro” (“Deus charitas est”: 1 Gv. 4.16) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo - nonostante l’Anno della Parola e il Sinodo dei Vescovi (2008).
Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! Benedetto XVI: Deus caritas est, 2006 d. C.!!!
Su questa base, in un tempo (con che segni!) in cui i Papi si confondono con i “Papi” e il Papa in persona parla del Padre Nostro (Deus charitas) come “Mammona” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006) e con tutta la gerarchia vaticana appoggia il cavaliere “Papi della Patria” (come già ieri il cavaliere “Uomo della Provvidenza”), il discorso “per una chiesa della fraternità” e della sororità (G. Ruggieri, Relazione: Il Vangelo che abbiamo ricevuto), se non è da conniventi, è quantomeno ... da sonnambuli!!!
Se è vero, come è vero, che “i suoni emessi con la voce sono simboli (sùmbola) delle passioni (pathémata) dell’anima, ed i segni scritti sono simboli dei suoni emessi dalla voce”( Aristotele, De Interpretatione, 16a), ciò significa che le passioni che si agitano nelle vostre anime non dicono affatto del messaggio evangelico .... E che la vostra tradizione - falsa e menzognera - semplicemente non ha più (se mai l’ha avuto) nessun rapporto con la tradizione evangelica, e “simbolica”!!!**
E la proposta di ogni “prassi sinodale” sotto il vostro controllo ... è solo un’operazione per vendere a caro-prezzo (“caritas”) la grazia del vostro Dio Mammona (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006 d. C.)!!!
Io sono la Via, la Verità, la Vita... Il vostro “vangelo” è una parola ingannevole e un cibo avvelenato, che non ha nulla a che fare con la Lettera e lo Spirito del messaggio di Gesù Cristo, il figlio del Dio Vivente.
* Per gli interventi al convegno del 16 maggio, si cfr.: www.ildialogo.org/parola
* IL DIALOGO, Martedì 26 Maggio,2009 Ore: 11:59
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NOTA:
La parola "simbolo" deriva dal latino symbolum ed a sua volta dal greco σύμβολον súmbolon dalle radici σύμ- (sym-, "insieme") e βολή (bolḗ, "un lancio"), avente il significato approssimativo di "mettere insieme" due parti distinte.
In greco antico, il termine simbolo (Σύμβολον) aveva il significato di "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale", secondo l’usanza per cui due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tessera, di solito di terracotta, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un’alleanza, da cui anche il significato di "patto" o di "accordo" che il termine greco assume per traslato. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera provava l’esistenza dell’accordo (Wikipedia).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
INDIETRO NON SI TORNA. GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA ...
Solennità del «Corpus Domini»
a cura di Paolo Farinella,prete
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
IL MOTTO DELL’ILLUMINISMO, IL SIMBOLO, IL "SAPERE AUDE" (Orazio, Epistole, I, 2: "risolviti ad as-saggiare, a ’mangiare’ - sàpere - a nutrirti e a diventare saggio - a sapére"), , E L’USO PUBBLICO DELLA RAGIONE. Alcune considerazioni di Kant
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Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (5 dicembre 1783)
di Immanuel Kant *
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza 3 senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! 4 Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo.
Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida [A 482] (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E’ così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e fra questi tutto il gentil sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.
E’ dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla [A 483]minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità. Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi, non farebbe che un salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo allenato a camminare in libertà. Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro.
Che invece un pubblico [Publikum] si rischiari da se, è cosa più possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché, perfino fra i tutori ufficiali della grande massa, ci sarà sempre qualche libero pensatore che, liberatosi dal giogo della minorità, diffonderà lo spirito di una stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano 5 a pensare da sé. E il particolare sta in ciò: che il pubblico, il quale in un primo tempo è stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a [A 484]rimanervi quando sia a ciò istigato da quei suoi tutori incapaci a loro volta di un compiuto rischiaramento; perciò, seminare pregiudizi è tanto nocivo: perché essi si ritorcono contro chi vi crede e chi vi ha creduto. Per questa ragione, un pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse attraverso una rivoluzione potrà determinarsi l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione assetata di guadagno o di potere, ma non avverrà mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno, al pari dei vecchi, da dande 6 per la grande folla di coloro che non pensano.
A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. [...]
[...] un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità in modo conforme al simbolo [Symbol] della chiesa che egli serve, essendo stato assunto per questo: ma come studioso egli ha piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i pensieri che un esame attento e proposto con buone intenzioni gli ha suggerito sui difetti di quel simbolo, incluse le sue proposte di riforma in cose di religione e di chiesa.
Qui non c’è nulla sulla cui base incolpare la coscienza. Infatti, ciò che costui insegna nel suo lavoro, in qualità di funzionario della chiesa, egli lo presenta come qualcosa intorno [A 487] a cui non ha libertà di insegnare secondo le sue proprie idee, ma secondo le disposizioni e nel nome di un altro. Egli dirà: «la nostra chiesa insegna questo e quest’altro, e queste sono le prove di cui essa si serve». Dunque, egli ricava tutta l’utilità pratica che alla sua comunità religiosa può derivare da affermazioni che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma al cui insegnamento può comunque impegnarsi perché non è affatto impossibile che in essi non si celi qualche velata verità, e in ogni caso, almeno, non si riscontra in essi nulla che contraddica alla religione interiore. Se invece credesse di trovarvi qualcosa che vi contraddica, egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza; dovrebbe dimettersi. L’uso che un insegnante fa della propria ragione nel proprio lavoro, davanti alla sua comunità di fedeli è dunque solo un uso privato; e ciò perché quella comunità, per quanto grande sia, è sempre soltanto una assemblea domestica; e a questo riguardo egli, in qualità di sacerdote, non è libero e non può neppure esserlo, poiché esegue un incarico altrui.
Invece, in qualità di studioso che parla attraverso scritti al pubblico propriamente detto, vale a dire al mondo, dunque in qualità di ecclesiastico nell’uso pubblico della propria ragione, egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di parlare in prima persona. Che i tutori del popolo [A 488](nelle cose religiose) debbano a loro volta rimanere minori a vita, è un’assurdità che tende a perpetuare nuove assurdità. [...]
* Fonte:
Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?
Immanuel Kant
Traduzione dall’originale tedesco di Francesca Di Donato.:
Questa traduzione è soggetta a una licenza Creative Commons
1784
ripresa parziale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
LA RELIGIONE CATTOLICA NELLA TRAPPOLA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS"... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
raScheda editoriale (Carocci editore)
Anselm Schubert
Pasto divino
Storia culinaria dell’eucaristia
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo [...]. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue». Con queste parole Gesù istituisce la comunione. Oggi, però, sappiamo che l’eucaristia cristiana nasce dagli antichi simposi. Si è discusso a lungo su cosa si mangiasse e si bevesse nella Chiesa delle origini: formaggio, pesce o verdure? Latte, succhi o miele? Oppure soltanto pane? Lievitato o azzimo? Vino rosso o bianco? Solo per l’officiante o anche per i fedeli? In epoca moderna i dubbi non hanno fatto che aumentare: non sarebbe più igienico usare un calice personale? Il vino può essere anche analcolico e la farina senza glutine? E cosa si deve usare nei paesi in cui non si trovano né grano né vino? Vanno bene anche Coca-Cola, noci di cocco e succhi di frutta? Anselm Schubert racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi concentrandosi perla prima volta sugli alimenti utilizzati. Ne risulta una brillante ricostruzione che fa vedere con altri occhi il Cristianesimo e il suo rito più solenne.
Saggi
Una storia dell’eucaristia
di Maurizio Gentilini (Almanacco della Scienza, 08. 05.2019)
Le dispute attorno alla forma e ai contenuti della formula liturgica di consacrazione dell’eucaristia, che si richiama ai gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena tramandati dal racconto evangelico, hanno attraversato la storia delle chiese cristiane fin dai primi secoli. Poiché “tradurre è sempre tradire”, anche in anni recenti i confronti più accesi tra liturgisti e biblisti, tra teologi e filologi, insistono sul senso da attribuire al passo - dedotto dalla Vulgata - “Pro vobis et pro multis effundetur”, confrontato con l’“uper pollon” del più antico testo greco dei Vangeli. Il sangue di Cristo, “versato per voi e per tutti” nel canone liturgico italiano, è stato versato solo “per molti” (secondo il testo latino) o “per la moltitudine” (secondo il senso dell’espressione greca)?
Al di là delle dispute teologiche, che storia hanno avuto il pane e il vino per diventare forma simbolica e ufficialmente riconosciuta dalla tradizione canonica e rappresentare il corpo e il sangue di Cristo? Lo storico della Chiesa Anselm Schubert, docente all’Università di Erlangen-Norimberga, nel suo libro ’Pasto divino’ racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi, concentrandosi per la prima volta sugli alimenti utilizzati. Una ricostruzione laica, approfondita e brillante, che presenta da un punto di vista inedito il rito più solenne del cattolicesimo e di altre confessioni cristiane.
L’autore passa in rassegna gli usi liturgici di molte comunità dei primissimi secoli (anche quelle bollate di eresia) e i riferimenti nei testi canonici e apocrifi, evidenziando come quella eucaristica fosse una cena nel senso letterale della parola, cioè un ritrovo di persone che mangiavano assieme, consumando le specie consacrate al termine del pasto, dopo altre portate. Dal II al IV secolo, dalla Grecia, alla Turchia all’Africa settentrionale, si può rilevare la consuetudine di consacrare di pane e olio, ma anche formaggio, sale, pesce e verdure. Nel 397 il Concilio di Cartagine vietò espressamente ai sacerdoti di consacrare latte e miele finché, di lì a poco, si sarebbe trovata unità nella Chiesa sull’uso del pane e del vino. Nei secoli e millenni successivi la cultura eucaristica e la disciplina liturgica si sarebbero andate consolidando, attraverso però controversie teologiche, scismi e divisioni confessionali. La modernità, la colonizzazione, la presenza missionaria in tutto il mondo e le necessità di inculturazione della fede fecero infatti incontrare gli usi liturgici con le materie prime e i cibi locali, spesso molto diversi dal frumento e dall’uva.
’Pasto divino’, attraverso la storia degli ingredienti della comunione, permette un viaggio nella storia della cultura e dell’alimentazione dell’ecumene (o globale, come diremmo oggi), che sembra sempre più orientata a convergere verso il punto di partenza.
Maurizio Gentilini
titolo: Pasto divino
categoria: Saggi
autore/i: Schubert Anselm
editore: Carocci
pagine: 228
prezzo: € 22.00
cconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi concentrandosi perla prima volta sugli alimenti utilizzati.
Nell’eucaristia riceviamo anche il Padre e lo Spirito?
di Pino Lorizio (Famiglia Cristiana, 17/09/2017)
Ogni azione di Dio verso di noi è sempre trinitaria. Nell’Eucaristia, il Padre ci dona il Figlio incarnato rendendolo presente nella nostra esistenza quotidiana e lo Spirito opera la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Cristo.
Questa reale comunione con Dio avviene con Cristo, per Cristo e in Cristo in quanto è il Figlio che ha assunto la natura umana e ci ha consegnato l’Eucaristia come memoriale della sua passione, morte e risurrezione. Il cristiano non incontra Dio indipendentemente da Cristo, sia nell’ascolto della Parola sia nella celebrazione dei sacramenti e nella carità verso il prossimo.
L’unità di Dio è costituita dall’amore delle tre persone della Trinità: è il loro legame indissolubile e indivisibile, che si esprime nell’assoluta gratuità del dono. Azione di grazia, l’Eucaristia celebra e realizza nel massimo grado possibile in questo mondo la presenza di questo Amore, cui siamo chiamati a partecipare, perché il nostro rapporto con Dio sia concreto e reale, perché vi prendiamo parte con tutta la nostra umana e fragile realtà anche corporea.
I DOLCI DI NATALE, L’UNESCO, E LA CULTURA. Una nota a margine *
MAGNIFICO: COMPLIMENTI [ALLA FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO.]. I caratteristici dolci salentini del Natale: purciddhuzzi e cartiddhate [di Massimo Vaglio] Un articolo sapiente - dal basso all’alto e dall’alto al basso. Tutto ben preparato, e da gustare: dai sapori ai saperi, e viceversa.
Questa è cultura - e coltura!!! Da qui, dal grano e dalla farina (e tutto il resto), dall’agri-coltura alla antropologia, e alla teologia - all’ "istituzione Eucaristica": "Un-esco" formidabile, altrimenti si resta sempre e solo nella caverna!
SENZA GRAZIA (gr.: "CHARIS"), non si esce dall’ "inferno": in giro, non ci sono che mercanti e mercantesse (altro che profeti e sibille: si cfr. Armando Polito, Dalla Sibilla ai "carmati.. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/), che pensano a come diventare "nobili" (come certi metalli), con il caro-prezzo e la carestia - e nessun Cristo che sappia e possa istituire Eu-charis-tia!!!
I "purciddhuzzi" e le "cartiddhate" sono proprio dei bei segnavia per un percorso di umanità e solidarietà - e non di dis-umanità e af-far(aon)ismo! - da riprendere e da ripercorre con occhi aperti, innocenti come colombe e prudenti come serpenti (su questo, si cfr. l’art. di Armando Polito, Serpente? Presente! ...http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/ e le note nella "coda", nel "forum").
Per UNA NUOVA ALLEANZA, LA RICETTA c’è - ci vuole solo la buona volontà ...
PER UN BRILLANTISSIMO NATALE - CON TANTISSIMI STRUFFOLI SU OGNI TAVOLA,
MOLTISSIMI AUGURI
Federico La Sala
Pound, non finisce mai il naufragio dell’Occidente
Dalla critica all’usura delle banche e alla “denarolatria” alle riflessioni su Confucio, al necrologio per Eliot
di Giorgio Agamben (La Stampa, TuttoLibri, 01.10.2016)
Non si comprende l’opera di Pound se non la si colloca innanzitutto nel suo contesto proprio. Questo contesto coincide con una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente, una frattura da cui l’occidente non soltanto non è ancora uscito, ma nemmeno potrà farlo se non sarà prima in grado di misurarne la portata in ogni senso decisiva. Dopo la fine della prima guerra mondiale era, infatti, chiaro per chi avesse mantenuto la lucidità, che qualcosa di irreparabile si era prodotto in Europa e che il nesso tra passato e presente si era spezzato.
Che i primi a rendersene conto siano stati i poeti e gli artisti non deve stupire, poiché è ad essi che incombe in ogni tempo la trasmissione di ciò che vi è di più prezioso: la lingua e i sensi. Non si può nemmeno porre il problema delle avanguardie poetiche del Novecento se non s’intende preliminarmente che esse sono il tentativo di rispondere - con maggiore o minore consapevolezza secondo i casi - a questa catastrofe: esse non hanno a che fare con la poesia e con le arti, ma con la loro radicale impossibilità, col venir meno delle condizioni che le rendevano possibili.
La trasposizione in termini estetico-mercantili della crisi epocale che si era espressa nelle avanguardie è, per questo, una delle pagine più vergognose della storia dell’occidente, di cui i musei di arte contemporanea rappresentano oggi l’estrema e più ignava propaggine. Ciò in cui ne andava della stessa possibilità della sopravvivenza dell’uomo in quanto essere spirituale viene ridotto a un fenomeno di moda e liquidato una volta per tutte in forma di produzione di nuove merci [...]. Soltanto in questo contesto l’opera di Pound - almeno a partire dai primi Cantos - diventa intellegibile. Egli è il poeta che si è posto con più rigore e quasi con «assoluta sfacciataggine» di fronte alla catastrofe della cultura occidentale.
Ben più decisamente di Eliot, egli dimora in questa «terra devastata» - un inferno che, come egli suggerisce nel canto XLVII non si può credere, come ha fatto il «reverendo Eliot», di «attraversare in fretta». Ma proprio per questo, per lui «tutte le età sono contemporanee» ed egli può riferirsi immediatamente all’intera storia della cultura, da Omero a Cavalcanti, da Mani a Mussolini, da Dante a Browning, da Persefone a Woodrow Wilson, da Confucio a Arnaut Daniel. «Soltanto Pound» ha detto Eliot «è capace di vederli come esseri viventi» - a condizione di precisare che, nei Cantos, essi sono in verità soltanto frantumi, che sbucano per un attimo dal Lethe e incessantemente si rituffano in esso [...].
Se la tradizione è accessibile solo come scheggia e frammento, il poeta a caccia di forme non vede davanti a sé chemacerie - anche se queste sono, almeno per lui, vive e vitali proprio in quanto frammenti. Il suo canto inaudito è intessuto di questi lacerti, che, una volta esaurita la loro funzione, non sopravvivono a esso. Di qui l’impressione di artificiosità, così spesso ingiustamente rimproverata alla sua poesia: Pound procede come un filologo che, nella crisi irrevocabile della tradizione, prova a trasmettere senza note a piè di pagina la stessa impossibilità della trasmissione.
Nella frase del Canto 76, in cui egli evoca se stesso come scriptor di fronte al naufragio dell’Europa, il termine sarà ovviamente da intendere «scriba», non scrittore. Di fronte alla distruzione della tradizione, egli trasforma la distruzione in un metodo poetico e, in una sorta di acrobatica «distruzione della distruzione» mima ancora, come copista, un atto di trasmissione. In che misura questo atto riesca, in che misura, cioè, il testo illeggibile, in cui un ideogramma cinese sta accanto a una parola greca e un vocabolo provenzale risponde a un emistichio latino, possa essere veramente letto è una questione a cui non è possibile rispondere sbrigativamente.
La verità e la grandezza di Pound coincidono - cioè si pongono e cadono - con la risposta a queste domande [...]. Di qui l’importanza di quegli scritti in prosa - come quelli di cui questo volume fornisce un’ampia testimonianza - in cui Pound espone le sue idee sulla poesia, sull’economia e la politica. Questi scritti sono a tal punto parte integrante della sua produzione poetica, che si è potuto a ragione affermare che «i Cantos sono ovviamente l’esposizione di una teoria economica che cerca nella storia una esemplificazione».
Come un poeta arcaico, Pound si sente responsabile dell’intero paideuma (come egli ama dire, usando un termine di Frobenius) dell’occidente in tutti i suoi aspetti. «Usura», «denarolatria» e, alla fine, «avarizia» sono i nomi che egli dà al sistema mentale - simmetricamente opposto allo «stato mentale eterno» che, secondo il primo assioma di Religio, definisce la divinità - che ne ha determinato il collasso e che domina ancora oggi - ben più che ai suoi tempi - i governi delle democrazie occidentali, dediti concordemente, anche se con maggiore o minore ferocia, all’«assassinio tramite capitale».
Non è qui il luogo per valutare in che misura, malgrado le sue illusioni sui «popoli latini» e sul fascismo, le teorie economiche di Pound siano ancora attuali. Il problema non è se la geniale moneta di Silvio Gesell, che tanto lo affascinava e sulla quale, per impedirne la tesaurizzazione, si deve applicare ogni mese una marca da bollo dell’un per cento del suo valore, sia o meno realizzabile: decisivo è, piuttosto, che, nelle intenzioni del poeta, essa denuncia quella «possibilità di strozzare il popolo attraverso la moneta» che egli vedeva non senza ragione alla base del sistema bancario moderno. Che il poeta che aveva percepito con più acutezza la crisi della cultura moderna abbia dedicato un numero impressionante di opuscoli ai problemi dell’economia è, in questo senso, perfettamente coerente. «Gli artisti sono le antenne della razza. Gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti. La maggior parte dei mali sociali sono alla loro radice economici».
Com’è avara l’Europa vista da Pound
Escono gli scritti scelti del poeta. Ormai sdoganato anche da un filosofo come Agamben
di Luca Gallesi (il Giornale - Ven, 16/09/2016)
Dalla gabbia di Pisa, in attesa di una non improbabile condanna a morte, Ezra Pound si definiva una «formica solitaria di un formicaio distrutto». A distanza di settant’anni, il formicaio è ancora ridotto in macerie, ma la formica non è più solitaria.
Lo dimostra il crescente interesse per la sua vita e le sue opere, interesse che sembra affiancato da una cauta riammissione nel salotto buono delle lettere. Lo prova anche la pubblicazione in lingua italiana di un volume fondamentale della bibliografia poundiana, Dal naufragio di Europa (Neri Pozza, pagg. 654, euro 28), traduzione di quella formidabile antologia intitolata Selected Prose 1909-1965, la cui edizione originale, tra l’altro, manca da più di quarant’anni sul mercato editoriale in lingua inglese. Pubblicata nel 1973 a cura del generoso William Cookson, che spese tutta la vita a promuovere la grande letteratura con la sua rivista Agenda, questa raccolta di Scritti scelti 1909-1965 - come recita correttamente il sottotitolo - può essere considerata la vera summa del pensiero poundiano. Autorizzata, tra l’altro, dall’Autore che redasse una breve ma efficace nota introduttiva, è probabilmente l’ultimo scritto di Pound, che qui chiarisce come «Riguardo all’USURA: ero fuori strada, scambiando il sintomo per la causa: la causa è l’avarizia». Da un concetto astratto, che aveva animato tutta la sua opera nel tentativo di correggere il male del mondo, l’autore dei Cantos si concentra, alla fine, su un vizio concreto, che è la causa del male nell’uomo.
Per meglio comprendere il vero significato di questo peccato originale, bisogna affrontare senza timori reverenziali, e soprattutto senza preoccuparsi di seguirne necessariamente l’ordine, le fitte pagine di questo volume, divise per argomenti e ordinate, come sottolinea Cookson, allo scopo di «restituire l’unità della visione di Ezra Pound e l’integrità dei suoi interessi, per liberarsi dell’idea che nella sua opera ci sia una frattura di fondo». Già, perché, contrariamente a quanto potrebbe sembrare dalla apparente disorganicità e dalla talvolta eccessiva eterogeneità, il corpus poundiano è di una sorprendente unità.
Purtroppo, la crisi, anzi, la frattura della modernità non permette che una ricostruzione inevitabilmente frammentaria, come sottolinea Giorgio Agamben nella nota introduttiva, perché frammentato è il mondo del Novecento, e i poeti, oltre che i primi a rendersene conto, sono gli unici che possono tentare una reazione. Non i preti, perché Dio è morto, non i filosofi, perché la Ragione è insufficiente, non gli scienziati, perché la Tecnica è incontrollabile: il gravoso compito spetta quindi ai custodi della Parola, i poeti, che sono preposti alla trasmissione di ciò che vi è di più prezioso, la lingua e i sensi. Si può quindi capire, e questo volume ci accompagna tanto alla comprensione quanto al perdono di alcune intemperanze solo verbali, la violenta reazione di Pound alla mercificazione dell’arte e al cancro immondo dell’usura, che tutto riduce a un prezzo e a una possibilità di guadagno. La vita è altro: il Tempio è sacro perché non è in vendita, e al poeta spetta l’ingrato compito di «raccogliere le membra di Osiride», come recita il titolo dello scritto scelto da Pound come introduzione al volume.
Al capitolo di apertura seguono le sezioni dedicate a «Religione», «Confucio e Mencio», «Patria mia», «America», «Civiltà», «Denaro e storia», «L’arte della poesia», per concludere con una galleria dedicata ai «Contemporanei». Se i nomi di alcuni personaggi magari, oggi, suonano dimenticati o affatto sconosciuti, quasi tutti i temi trattati sono di bruciante attualità. Profetico, ad esempio, l’interesse per la Cina, che se un secolo fa sembrava una civiltà saccheggiata dal peggior colonialismo, oggi è una superpotenza in gara per il dominio del mondo. Attualissime, poi, sono le considerazioni sulla decadenza culturale dei Presidenti degli Stati uniti, che un tempo, come risulta dalla corrispondenza tra Jefferson e Adams, erano innanzitutto membri dell’élite culturale della loro epoca, mentre già cent’anni fa risultavano piccole pedine di quello che si sarebbe poi chiamato il complesso militar-industriale. Non parliamo, inoltre, della lungimiranza di Pound sulle cause della crisi economica che nel 1929 avrebbe schiantato il Nuovo mondo e quindici anni dopo avrebbe ridotto in macerie il Vecchio continente. Per sua fortuna, a Pound è stato risparmiato il desolante panorama attuale del mondo globalizzato, ovvero totalmente vampirizzato dall’economia finanziaria, desertificato dalla speculazione e reso sterile dall’idolatria del politicamente corretto.
Come già detto, l’edizione italiana è eccellente, anche se, a voler essere pignoli, presenta due piccole mancanze: non c’è l’indice dei nomi, che nell’edizione originale è un prezioso ausilio per il lettore esigente e curioso, e manca una pur minima bibliografia italiana, dove si scoprirebbe, oltre all’esistenza di molte versioni critiche dei testi poundiani qui raccolti, anche la disponibilità di recenti traduzioni di tanti autori cari a Pound e qui citati, come ad esempio Del Mar, Douglas, Gesell e Orage.
Così Feuerbach inventò il motto "L’uomo è ciò che mangia".
La frase più celebre del padre del materialismo tedesco fu ispirata da un trattato del fisiologo Jakob Moleschott. Che ora viene ripubblicato insieme a un saggio del filosofo in cui replica alle accuse degli idealisti.
di Marino Niola (la Repubblica, 23.08.2016)
«L’uomo è ciò che mangia». È l’aforisma sul cibo più citato di sempre. Al punto da diventare un tormentone. Non solo per noi, che siamo costretti a sorbircelo in tutte le salse e spesso a sproposito. Ma soprattutto per il suo autore, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, che passò tutta la vita a struggersi perché della sua poderosa opera non veniva ricordata che questa frase. E per di più al solo scopo di accusarlo di aver leso l’onorabilità del pensiero tedesco. Sporcando le astrazioni dell’idealismo con il suo materialismo che riduceva tutto a pappa e ciccia.
La frase incriminata compare per la prima volta in una recensione che Feuerbach dedica al Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850. Un’opera rivoluzionaria, perché fa della nutrizione il principio motore della storia umana. Ponendo il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e persino delle differenze culturali e di classe.
Il Trattato, tradotto in italiano nel 1871 da Giuseppe Bellucci per l’editore Treves di Milano, viene adesso ristampato da Volumnia Editrice (pagg. 171, euro 22) con un utilissimo apparato di testi di antropologi, nutrizionisti, scienziati. E con un bel saggio di Luciano Giacchè che ricostruisce mirabilmente il contesto della vicenda e ne mostra l’attualità, alla luce della cibomania contemporanea.
Ma la vera chicca dell’edizione Volumnia è la riproposizione del saggio Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, che Feuerbach scrive nel 1862, dodici anni dopo la sua discussa recensione, per rispondere agli attacchi che gli erano piovuti addosso. Il risultato è una magistrale ricapitolazione del materialismo feuerbachiano.
La forza dirompente del Trattato per Feuerbach sta nel fatto che fa da supporto a una nuova filosofia, dimostrando scientificamente che il pensiero comincia proprio dalla pancia e poi arriva alla testa. Ma l’autore va ancora più in là. E partendo dall’affermazione, decisamente positivista, di Moleschott secondo cui «senza fosforo non c’è pensiero» ci regala un’altra affermazione passata ormai nel senso comune. «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco». Un missile contro quella filosofia che ha sempre messo le idee al principio di tutto, dimenticando che a produrle è il corpo. Come dire che è la materia a generare lo spirito e non il contrario.
Ma non si tratta di una semplice disputa filosofica. Quello che hanno a cuore sia il medico che il filosofo è la ricaduta sociale e politica delle loro affermazioni. Entrambi concordano sul fatto che alla base del progresso delle nazioni non sono certo le prediche, che disseminano la vita di principi, ma la giusta distribuzione del carburante. L’operaio inglese, spiegano, è più efficiente perché mangia meglio del popolano napoletano. Fra l’altro vale la pena di ricordare che Moleschott nel 1861 fu chiamato per chiara fama da Francesco De Sanctis, allora ministro della Pubblica istruzione del primo governo Cavour, alla cattedra di Fisiologia all’università di Torino e divenne anche senatore del Regno d’Italia.
Lungi dal tessere l’elogio della gola, i due fanno un discorso radicale che rimette in discussione il dualismo che divide l’uomo dall’altra parte di se stesso. Il corpo e la mente, l’anima e la carne. Per Feuerbach l’unità dell’essere umano sta proprio nell’alimentazione. Che è il trait d’union tra natura e cultura. E questo vale per gli uomini come per gli animali. E d’altra parte il Trattato di Moleschott inizia proprio constatando che se il nutrimento ha trasformato il gatto selvaggio in gatto domestico, da carnivoro a onnivoro, perché dovremmo stupirci se l’alimentazione influenza la natura dell’uomo e delle sue istituzioni? Compresa la religione: gli alimenti che gli uomini, di tutte le fedi, sacrificano da sempre sugli altari ne sono la prova.
Per Feuerbach, l’immortalità degli dei deriva dal fatto che, come racconta Omero, non si nutrono di pane e vino ma di cibi non umani come nettare e ambrosia, ovvero la materia stessa dell’immortalità. Insomma anche Dio è ciò che mangia.
E che mangiare e vivere siano la stessa cosa, per Feuerbach, sta scritto in parole come bios, che in greco antico significava vita, ma anche generi di sopravvivenza. E una traccia di questa familiarità rimane anche nel nostro vitto, dal latino victum, voce del verbo vivere. Ma anche in termini come viveri e vettovaglie, che hanno la stessa radice. Insomma se Feuerbach non avesse assimilato e digerito Moleschott probabilmente il suo pensiero non sarebbe stato lo stesso. Evidentemente anche il filosofo è ciò che mangia.
Vatileaks 2, verifiche sulle canonizzazioni: bloccati 409 conti Ior tra cui quello di padre Georg
Lo scandalo dei "cacciatori dei miracoli": tariffa media di 500mila euro a caso. La figura chiave è il cosiddetto postulatore, una sorta di pm che deve indagare sulla presunta santità e mostrarne le prove sotto forma di prodigi. Coinvolto anche l’ex segretario personale di Benedetto XVI
di Fabrizio d’Esposito *
Senza soldi non si diventa santi. È stato tre lustri fa, che con il suo L’ora di religione, Sergio Castellitto protagonista, Marco Bellocchio denudò crudelmente il commercio vaticano sulle canonizzazioni, raccontando la storia di una famiglia romana decaduta che cerca di risollevarsi economicamente investendo tutto sul processo di santità della mamma morta. Ed è propria la causa per la canonizzazione il segreto per moltiplicare il denaro. In merito, uno dei libri del nuovo Vatileaks, quello di Gianluigi Nuzzi, Via Crucis (Chiarelettere) contiene una notizia clamorosa.
Quattrocento conti per 40 milioni di euro
Quando papa Bergoglio, appena eletto, dispone un’inchiesta sui traffici milionari della Congregazione che si occupa di portare sugli altari uomini e donne di fede - e retta da un fedelissimo bertoniano, il cardinale Angelo Amato - la neocommissione per la riforma delle finanze (la fatidica Cosea) ordina il blocco di 409 conti dello Ior, la banca vaticana, per un totale di 40 milioni di euro. Tra questi c’è anche un nome pesantissimo, quello di monsignor di Georg Gänswein, storico segretario di Benedetto XVI e rimasto al servizio di papa Bergoglio. Il numero dell’importante cliente, presso la banca vaticana, è 29913. Scrive Nuzzi: “La disposizione dunque coinvolge anche il conto corrente di monsignor Georg Gänswein, già segretario personale di Benedetto XVI e ora prefetto della casa pontificia. C’è anche il conto corrente di padre Antonio Marrazzo, postulatore per la beatificazione di papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini; e quello di monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. Si rischia un incidente diplomatico già dopo i primi passi della commissione”. Alla fine del 2013, la Cosea fa sbloccare 114 dei 409 depositi.
Diventare santi e fatturazione
Il processo per diventare santi è particolarmente lungo, anni se non decenni. La figura chiave è il cosiddetto postulatore, una sorta di pm che deve indagare sulla presunta santità e mostrarne le prove sotto forma di miracoli. In Vaticano sono due avvocati laici ad avere il monopolio delle cause. Il più noto e prestigioso si chiama Andrea Ambrosi ed è un legale che fa solo questo. Per avere il patentino di postulatore c’è un corso parauniversitario da frequentare e superare. La famiglia Ambrosi, poi, è anche proprietaria della tipografia che stampa in esclusiva gli atti delle cause. Si tratta di montagne di carta, un altro affare a tantissimi zeri. Insieme allo studio Ambrosi, altra postulatrice è Silvia Correale. In media, la santità costa tra i 400mila e i 500mila euro. Per il filosofo Antonio Rosmini, si è arrivati a ben 750mila euro, di cui la metà solo per organizzare la cerimonia di beatificazione in piazza San Pietro. Avviare una causa presuppone già un anticipo di 20mila. Poi ci sono i costi di trasferte e di studio di documenti più la traduzione della mole di atti in latino, lingua ufficiale della Santa Sede.
Mezzo milione per la beatificazione
Nel secondo libro che esce oggi, quello di Emiliano Fittipaldi, Avarizia (Feltrinelli), c’è un ampio elenco di cause costate centinaia di migliaia di euro. A gestire i soldi sono i postulatori, con conti dello Ior, e quando la Cosea ha chiesto i bilanci o un rendiconto delle spese, il cardinale Amato ha risposto che questa certificazione non esiste. Un pozzo senza fondo. Nell’autunno di due anni fa, per esempio, una congrega spagnola di Palma di Maiorca ha messo 482.693 euro sul conto della banca vaticana per la canonizzazione della beata Francisca Ana de los Dolores. La fabbrica dei santi, nata nel 1588 su impulso di Sisto V, ha ricevuto un formidabile impulso alla produzione sotto il pontificato dell’ultimo papa magno, Giovanni Paolo II: 1.338 beati e 482 santi proclamati in 27 anni di regno. I più attivi e dispendiosi sono gli americani. Solo dal 2008 al 2013, la beatificazione dell’arcivescovo e telepredicatore Fulton John Sheen è lievitata a 332mila euro, pagati da una fondazione intestata all’“esaminando”. Il grosso della cifra rappresenta gli onorari di Ambrosi, che si è giustificato così nel gennaio del 2014: “La stesura della positio (la relazione finale, ndr) si basa sullo studio e l’elaborazione di oltre settanta volumi. Essendo poi stato monsignor Sheen uno dei più fecondi scrittori di Gesù e Maria, ho dovuto farmi mandare e leggere - per trovare spunti aggiunti sull’esercizio virtuoso - la sua opera omnia, ammontante a ben ottantatré volumi”. La vita dei “cacciatori di miracoli” è senza dubbio durissima. Iniziata nel 2002, la beatificazione di Sheen è stata sospesa a tempo indeterminato perché l’arcidiocesi di New York non ha voluto spostare le spoglie del monsignore nella sua città natale, Peoria.
Le trattative con i re del tabacco
Dai santi alle sigarette, la disinvoltura della curia vaticana non ha confini. Nuzzi pubblica una bozza di accordo segreto tra la Santa Sede e una multinazionale del tabacco, la Philip Morris in cui quest’ultima si impegna a dare compensi per la promozione della vendita delle sigarette tra le mure leonine, dove c’è un autentico duty free.
*
Dal libro di Nuzzi: Francesco per 7 volte dice che «non si paga»
di Gianluigi Nuzzi (Il secolo XIX, 04.11.2015)
Dalla viva voce del papa
Nella sala cala un silenzio assoluto. Il registratore parte senza che nessuno se ne accorga. L’audio è perfetto, la voce di Francesco inconfondibile. Il papa sceglie un tono pacato e asciutto, ma fermo e risoluto. Sul volto alterna espressioni di stupore e condanna ad altre di determinazione e intransigenza. Si esprime in italiano, ancora tentennante ma chiaro, da vescovo di Roma, lasciando lunghe pause tra una denuncia e l’altra.
I silenzi rendono ancora più drammatiche le sue parole. Il papa vuole che ogni cardinale, anche chi per anni ha tollerato qualsiasi cosa, possa comprendere che è arrivato il momento di scegliere da che parte stare.
Bisogna chiarire meglio le finanze della Santa sede e renderle più trasparenti. Quello che io dirò adesso è per aiutare, vorrei individuare alcuni elementi che sicuramente vi aiuteranno nella vostra riflessione.
Primo. È stato universalmente accertato nelle congregazioni generali (durante il conclave, nda) che (in Vaticano, nda) si è allargato troppo il numero dei dipendenti. Questo fatto crea un forte dispendio disoldi che può essere evitato. Il cardinal Calcagno mi ha detto che negli ultimi cinque anni c’è stato il 30% di aumento nelle spese per i dipendenti. Lì qualcosa non va! Dobbiamo prendere in mano questo problema.
Il pontefice è già a conoscenza del fatto che gran parte di queste assunzioni hanno un’origine clientelare. Molte persone entrano grazie a segnalazioni e raccomandazioni, e spesso vengono impiegate in nuovi progetti dall’esito dubbio. Non a caso nel piccolo Stato non c’è un unico ufficio del personale come in tutte le aziende private che hanno decine di migliaia di dipendenti. Ce ne sono ben quattordici, che corrispondono ad altrettanti snodi di potere nella mappa della Santa sede. Francesco lo denuncia in un crescendo molto lucido che mette in evidenza tutte le situazioni da allarme rosso.
Secondo. Il problema della mancanza di trasparenza è ancora vigente. Ci sono spese che non provengono da una chiarezza delle procedure. Questo si vede - dicono quelli che mi hanno parlato (cioè i revisori artefici della denuncia e alcuni cardinali, nda) - nei bilanci. Collegato a questo, credo si debba andare più avanti nel lavoro di chiarire bene l’origine delle spese e le forme di pagamento.
Pertanto si deve fare un protocollo sia per il preventivo come per l’ultima tappa, cioè per il pagamento. (Bisogna, nda) seguire questo protocollo con rigore. Uno dei responsabili mi diceva:
«Ma vengono con la fattura e allora dobbiamo pagare...». No, non si paga. Se una cosa è stata fatta senza un preventivo, senza autorizzazione, non si paga. «Ma chi lo paga?» (Papa Francesco qui simula il dialogo con un incaricato ai pagamenti, nda.) Non si paga. (Bisogna, nda) cominciare con un protocollo, essere fermi: (anche se a, nda) questo povero incaricato gli fai fare una brutta figura, non si paga! Il Signore ci perdoni, ma non si paga! C-h-i-a-r-e-z-z-a. Questo si fa nella ditta più umile e dobbiamo farlo anche noi. Il protocollo per iniziare un lavoro è il protocollo di pagamento. Prima di ogni acquisto o di lavori strutturali si devono chiedere almeno tre preventivi che siano diversi per poter scegliere il più conveniente. Farò un esempio, quello della biblioteca. Il preventivo diceva 100 e poi sono stati pagati 200. Cosa è successo? Un po’ di più? Va bene, ma era nel preventivo o no? Ma dobbiamo pagarlo... (si dice, nda). Invece non si paga! Ma che lo paghino loro... Non si paga! Questo per me è importante. Per favore disciplina!
Francesco descrive una situazione caratterizzata da un’assoluta superficialità in campo economico. Uno scenario impensabile. È arrabbiato. Ripete sette volte «Non si paga». Per troppo tempo, con facilità e leggerezza incredibili, sono stati sborsati milioni a pioggia, a saldo di lavori non preventivati, eseguiti senza le dovute verifiche e con fatture lievitate all’inverosimile.
Molti ne hanno approfittato incassando anche i soldi dei fedeli, le offerte che dovrebbero essere destinate ai più bisognosi. Il pontefice si rivolge quindi a quei cardinali che presiedono dicasteri che negli anni non hanno gestito il denaro della Chiesa con oculatezza, a tutti i responsabili che non hanno controllato come dovevano. È un palese atto di accusa, durissimo, diretto e senza sconti, persino umiliante per i porporati: sottolinea aspetti che qualunque amministratore che opera anche nelle più modeste realtà imprenditoriali conosce e capisce benissimo.
Francesco fissa negli occhi il segretario di Stato Tarcisio Bertone.
Uno scambio di sguardi intenso. Chi è seduto vicino al papa non vi scorge certo l’amicizia e l’indulgenza che legavano Ratzinger al cardinale italiano, tanto da portarlo con sé fino al vertice del potere in Vaticano. Quello sguardo esprime il monito glaciale del gesuita arrivato a Roma dalla «fine del mondo».
Dopo averlo messo in mora nei primi mesi di pontificato, Francesco ora accusa Bertone, prima di liquidarlo per sempre.7 In Vaticano, infatti, la gestione delle risorse e del governo fa capo alla segreteria di Stato, che nel precedente papato, proprio con la guida di Bertone, aveva concentrato su di sé un potere senza uguali. Persino superiore a quello che aveva negli anni in cui al vertice dell’Apsa c’era il potentissimo cardinale venezuelano Rosalio José Castillo Lara, durante il papato di Wojtyla, con il cardinale Angelo Sodano segretario di Stato. Gli stessi anni che abbiamo ricostruito, attraverso i documenti riservati di monsignor Renato Dardozzi, nel libro Vaticano Spa. Nel silenzio irreale che domina in sala, il papa sferra l’affondo finale sulle questioni di più grande imbarazzo: senza esagerare possiamo dire che buona parte dei costi sono fuori controllo. È un fatto. Dobbiamo sempre sorvegliare con la massima attenzione la natura giuridica e la chiarezza dei contratti.
I contratti hanno tante trappole, no? Il contratto è chiaro ma nelle note a piè di pagina c’è la piccola lettera - si chiama così no? - che è una trappola. Studiare bene! I nostri fornitori devono essere sempre aziende che garantiscono onestà e che propongono il giusto prezzo di mercato, sia per i prodotti sia per i servizi. E alcuni non garantiscono questo.
Il pane del cielo donato dal Padre
di Ermes Ronchi (Avvenire, 02/08/2012)
(...) Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: "Diede loro da mangiare un pane dal cielo"». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Nel Vangelo di domenica scorsa Gesù distribuiva il pane, oggi si distribuisce come pane, come un pane che si distrugge per dare vita: chi mangia di me non avrà fame, chi crede in me non avrà sete, mai! L’uomo nasce affamato, ed è la sua fortuna. Il bambino ha fame di sua madre che lo nutre di latte, di carezze e di sogni. Il giovane ha fame di amare e di essere amato. Gli sposi hanno fame l’uno dell’altra e poi di un frutto in cui si incarni il loro amore. E quando hai raggiunto tutto questo e dovresti sentirti appagato, a quel punto: ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te (sant’Agostino).
C’è una fame più grande, fame di cielo, fame di Dio. Fame di amare e di essere amati, fame di felicità e di pace per noi e per gli altri. Fame di vita più grande, più intensa. Eterna.
Ma tu, Gesù di Nazaret, che cosa porti? Grande domanda, la cui risposta è semplice e folgorante: come allora ha dato la manna, oggi ancora Dio dà. Due parole semplicissime eppure chiave di volta del Vangelo: Dio dà. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, Dio offre. Dio non esige nulla, dona tutto. Un verbo così semplice: dare, che racchiude il cuore di Dio. Dare, senza condizioni, senza un perché che non sia l’intimo bisogno di fecondare, far fiorire, fruttificare la vita. Poi la risposta si completa: ciò che il Padre dà è un pane che dà la vita al mondo.
Uno dei vertici del Vangelo: ciò che dà pienezza alla vita del mondo è un pane dal cielo. La pienezza è un pezzo di Dio in noi. L’uomo è l’unica creatura che ha Dio nel sangue (Vannucci), e nel respiro.
Uno dei nomi più belli di Dio: Dio è nella vita datore di vita. Dalle sue mani la vita fluisce illimitata e inarrestabile. E la folla capisce e insieme a noi dice: Dacci sempre di questo pane. La domanda diventa supplica, comando: Dacci! Sempre! Gesù risponde con le parole decisive: sono io il pane della vita. Annuncia la sua pretesa assoluta: io posso colmare tutta la vostra vita. Io sono il divino che fa fiorire l’umano! Io sono un pane che contiene tutto ciò che serve a mantenere la vita: amore, senso, libertà, coraggio, pace, bellezza.
Chi crede in me... Credere è come mangiare un pane, lo assaporo in bocca, lo faccio scendere nell’intimo, lo assimilo e si dirama per tutto l’essere, Gesù in me si trasforma in cuore, calore, energia, pensieri, sentimenti, canto. Il cristianesimo non è un corpo dottrinale, cui aggiungere sempre qualche nuova definizione dogmatica o etica, ma una vita divina da assimilare, una calda corrente d’amore da far entrare. Perché giunga a maturazione l’uomo celeste che è in noi, affinché sboccino amore e libertà, nel tempo e nell’eterno. (Letture: Esodo 16, 2-4. 12-15; Salmo 77; Efesini 4, 17. 20-24; Giovanni 6, 24-35)
CARO MICHAELANGELUS 1
o meglio
CARO ALDO CANNAVO’
LEGGI BENE E COMPRENDERAI ANCHE BENE:
"LA VOCE DI FIORE" NON BUTTA A MARE (!) IL BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA E PUZZOLENTE,
NE’ CONFONDE IL DIAVOLO CON L’ACQUA VIVA DEL MESSAGGIO EVANGELICO!
Per orientarsi nell’infinito, bisogna prima distinguere e poi eventualmente unire. Nessuno mette in discussione l’aiuto infinito di tanti operatori che in spirito di carità ("Deus charitas est": 1 Gv.: 4.8) portano sollievo alla sofferenza altrettanta infinita fi milioni di persone, ma qui è in discussione il totale abisso di cecità in cui naviga tutta la gerarchia con Papa Ratzinger ("Deus caritas est", 2006) in testa e l’inversione totale di marcia del cammino iniziato da Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, e Giovanni Paolo II.
Caro Michaelangelo 1, caro Aldo Cannavò,
tenuto presente che oggi è giovedì santo e tenendo presente l’indicazione evangelica "Ut unum sint" (rilanciata da Giovanni Paolo II, nella sua enciclica sull’impegno ecumenico, nel 1995),
non mi resta che ringraziarlo per la sua attenzione e per il suo intervento e augurargli una bella e
Buona-Pasqua!
Per la Redazione
Michaelangelus 2
o meglio
Federico La Sala
P. S. - A proposito di Michael-arca-angelo, che certamente era un Testimone di Giustizia (e non di menzogne!),
un dono e una sollecitazione alla lettura del seguente link, sul tema:
MICHELANGELO E IL SOGNO DEI CARMELITANI SCALZI (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce): A CONTURSI TERME, IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE - RECUPERATO CON I LAVORI DI RESTAURO, DOPO IL TERREMOTO DEL 1980 ...
MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
insieme a questo altro:
La Condivisione del pane come fondamento della carità cristiana
di Benedetto XVI (Corriere della Sera, 11.02.2012)
Nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, San Luca descrive la Chiesa nascente con quattro caratteristiche che ne connotano la vita: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Alcuni versetti dopo, Luca ritorna nuovamente su quanto aveva detto: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Lo spezzare il pane, nominato due volte, appare come elemento centrale della comunità cristiana e ci ricorda l’incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30 ss.), che a sua volta ci rimanda all’ultima cena (Lc 22,19). Questa è una parola che nella molteplicità dei suoi significati lascia trasparire il centro portante e al tempo stesso tutta l’ampiezza dell’esistenza cristiana.
Certo, essa si riferisce innanzitutto a qualcosa di molto semplice, di quotidiano. Nel mondo ebraico era compito del padrone di casa spezzare il pane dopo una preghiera e distribuirlo tra i commensali; questo sia durante pranzi familiari, o convivi, che in occasione di pasti di carattere rituale, come la sera della Pesah. Gesù padrone di casa e ospite paterno dei suoi ha raccolto questa usanza la quale, nella cena alla vigilia della sua agonia, acquista tuttavia un nuovo significato. Infatti, in quell’ora, Gesù non distribuisce solo pane, ma se stesso: Egli si dona. Già nel pasto quotidiano lo spezzare il pane ha un doppio significato: è allo stesso tempo un gesto di condivisione e di unione. In virtù del pane condiviso la comunità a tavola diventa una: tutti mangiano dello stesso pane. La condivisione è un gesto di comunanza, di donazione, che rende partecipi della famiglia anche gli ospiti.
Questo condividere e unire raggiunge nell’ultima cena di Gesù una profondità mai immaginata prima. Nello spezzare il pane egli compie quel «li amò sino alla fine» (Gv 13,1) in cui egli dona se stesso e diventa pane «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Evidentemente il particolare gesto con cui Gesù spezzò il pane è penetrato profondamente nelle anime dei discepoli, come possiamo evincere dal racconto dei discepoli di Emmaus. Ricordando quel gesto, essi vi hanno visto racchiuso tutto il mistero della consegna di sé messa in atto da Gesù.
L’espressione «spezzare il pane» nella Chiesa nascente andò così a designare l’Eucaristia, dunque ciò che la caratterizzò e la tenne unita come nuova comunità. Dal ricordo dell’ultima cena però emergeva anche chiaramente che l’Eucaristia è più di un semplice atto di culto che si esaurisce nella celebrazione liturgica. Lo spezzare il pane era di per sé un’immagine di comunione, dell’unire attraverso la condivisione. I cristiani ora possono vedere nell’atto di spezzare il pane compiuto da Gesù un’immagine dell’ospitalità di Dio, nella quale il Figlio incarnato dona se stesso come pane di vita. Di conseguenza la frazione del pane eucaristico deve proseguire nello «spezzare il pane» della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così unire. È semplicemente l’amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo: l’Eucaristia deve divenire «spezzare il pane» a tutti i livelli, altrimenti il suo significato non si compie. Deve divenire «diaconia», servizio e dono nella vita quotidiana. E specularmente la premura sociale della caritas non è mai solo agire pragmatico, bensì sorge dalle radici profonde della comunione con il Signore che si dona, dalla dinamica dell’amore partecipe di Dio per noi.
Mi rallegro che il cardinale Cordes abbia raccolto e spiegato, con grande energia, l’impulso che ho cercato di avviare con l’enciclica Deus caritas est. Saluto come parte della sua fatica questo suo libro L’aiuto non cade dal cielo. Caritas e spiritualità, in cui viene mostrato da varie prospettive quanto è racchiuso nella parola fondamentale caritas - amore. Perciò auguro a questo libro l’ascolto attento che penetra nei cuori e, andando oltre la ricezione e la lettura, conduce ad agire con amore e a una comunione più profonda con Gesù Cristo.
Il primato dell’amore alla luce della ragione
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 11 febbraio 2012)
«All you need is love», cantavano i Beatles in una delle più famose canzoni di tutti i tempi. Ben due encicliche (su tre) dell’attuale Papa, a cominciare dalla prima, Deus caritas est (Natale 2005) seguita nel 2009 dalla Caritas in veritate, hanno a proprio oggetto l’Amore, la Carità, a partire dalla definizione della prima Lettera di Giovanni apostolo: «ò Theos agape estìn», «Dio è Amore», «God is Love».
Come se la prima e fondamentale urgenza di Benedetto XVI, il Papa teologo, il Papa della ragione, sia stata quella di richiamare la Chiesa cattolica e l’umanità a questa fondamentale novità del cristianesimo, che ne è stato il motore dalle origini: l’Amore, l’Agape, un amore di intelligenza, di ragione, di comprensione, benevolenza.
Ratzinger ha fatto insomma sulla parola «Amore» un’opera costante (direbbe Wikipedia) di disambiguazione, che continua nella prefazione - che qui a fianco anticipiamo - di un libro del cardinale tedesco Paul Josef Cordes, L’aiuto non cade dal Cielo (Cantagalli), oggi in libreria.
L’obiettivo di Ratzinger è quello di sottrarre la parola a tutti i riduzionismi (il sentimentalismo, il buonismo e il sociologismo) in cui facilmente il suo uso decade se lo si separa dalla radice.
Il «mondo classico conosce il principio di identità: io sono io», scrive, nel saggio che conclude il volume, il filosofo della politica, Rocco Buttiglione. L’amore, per Diotima nel Simposio di Platone, ma anche per la poetica di Friedrich Hölderlin più di duemila anni dopo, rimane pur sempre una follia, divina, ma follia. Un’illusione: perché è un fuori-uscire da sé. Non importa se nell’erotismo o nella filantropia. La Caritas, l’Agape, è, invece, elemento intrinseco della communio, di una vita come eu-charis-to, «rendimento di grazie».
Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi (Avvenire, 19 ottobre 2011)
Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico. Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede».
Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano».
Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene. Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 113 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano».
Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti. Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.
Il bene vale più della fede?
di Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2012)
«I1 bene è più della fede», dice il vecchio prete raccontato da Ermanno Olmi in Il villaggio di cartone. Dopo che la sua chiesa è stata svuotata del sacro, a cominciare dal crocifisso, a lui resta solo l’attesa della morte. In una solitudine colma di ricordi, pensa agli occhi di una donna, perduti nel rimpianto. E pensa al suo mestiere, intrapreso per fare il bene. Ma uno scoramento profondo lo vince. Per fare il bene, confida a un medico "positivista", non serve la fede. Il bene, appunto, è più della fede.
Tutto questo si può leggere ora in un piccolo libro che riproduce la sceneggiatura del film (Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, edizioni Archinto).
In una bella introduzione, Vito Mancuso torna al cruccio del vecchio prete, e allo scandalo del suo scoramento. Lo fa per illuminare quella che chiama «conversione della religione». Tratta dal pensiero di Raimon Panikkar, l’espressione indica la necessità che il cristianesimo torni sale della terra, smettendo d’essere «accettazione intellettualistica di una dottrina (la “fede”)», e diventando, o ridiventando, convinzione radicata del primato del bene e della vita buona». Non più ortodossia, o retta opinione, esso si trasformerebbe in ortoprassi, o retto comportamento. E ancora: all’obbedienza ossequiosa del credente nei confronti della gerarchia si sostituirebbero le sue azioni concrete, non riconducibili all’utile (nemmeno a quello della salvezza promessa e gestita dalla gerarchia, si deve supporre).
È rischiosa, questa prospettiva, e scandalosa al pari del vecchio prete di Olmi. Se vien meno non tanto la dòxa, l’opinione, quanto il controllo della sua "rettitudine" da parte di un dispositivo di controllo dottrinale e gerarchico, nasce appunto il rischio che le opinioni si moltiplichino, ognuna certa di valere quanto ogni altra. Insomma, ammette Mancuso, si può finire per cedere a quella che Joseph Ratzinger ha bollato come «dittatura del relativismo [...] che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». D’altra parte, prosegue citando Dietrich Bonhoefer, il senso dell’essere cristiani sta nell’imitazione di Cristo, che è «esistere-per-gli altri». Il figlio di Dio è tale non perché sia diverso e distante da noi, ma «in virtù del compimento della legge suprema dell’essere che è la relazionalità. fino a collocare nella relazione assoluta dell’amore il senso ultimo dell’essere e della vita». Si ritrova così un fondamento saldo per l’ortoprassi e un viatico contro il rischio del relativismo. Sta, questo fondamento, nell’espressione relazione assoluta, un ossimoro evidente: quel che è relativo non può essere assoluto, e quel che è assoluto non può essere relativo. D’altra parte, negli ossimori più d’una volta può nascondersi il senso dell’umano.
Fin qui Mancuso, e la sua lettura religiosa di Olmi. Ma a noi ne sembra possibile un’altra, del tutto e solo umana. Si tratta della nostra, che non pretendiamo sia condivisa da Olmi (come certo non pretende Mancuso). Così vale sempre per un’opera d’arte: uscita dalle mani del suo autore, non è più sua, ma d’ogni suo spettatore o lettore.
Ripartiamo dalle parole del vecchio prete, e prendiamole sul serio, cioè per quello che dicono del suo scoramento. La chiesa vuota s’è riempita di migranti, di prossimo, per usare una grande parola evangelica, o di altri, per usare un’altra parola non meno grande. Se stesse cercando la "relazione assoluta", la relazionalità come compimento della legge suprema dell’essere, il vecchio prete ne sarebbe consolato. E però nel film non c’è per lui acquietamento, ma solo cruccio e rimpianto. E questo suggerisce in lui qualcosa di radicale, che non può essere rimediato con una conversione ipotetica della religione.
Quando dice che il bene è più della fede, intende proprio solo che la sua fede in Dio è in crisi, e che questa crisi gli si manifesta nella sua superfluità per fare il bene. Siamo qui sul punto di precipitare in piena dittatura del relativismo, se volessimo dirla di nuovo con Ratzinger. D’altra parte, il termine dittatura del relativismo è un altro ossimoro evidente, ma non dei più felici. Per loro (trista) natura, le dittature sono assolutistiche, non relativistiche. E l’io che ha se stesso e le proprie voglie come unica misura può forse essere nichilistico, ma mai relativistico.
Il nichilista è sicuro che niente sia vero, e che tutto sia permesso. Ma così afferma già due verità, legate in una sorta di sillogismo: che niente sia vero, e che (perciò) tutto sia permesso. Ben diversamente opina il relativista, nel senso che a noi piace dare al termine.
Mettiamoci ora nei panni del vecchio prete, e domandiamoci come potrebbe tornare a fare il bene, al di là della sua fede in crisi. Ebbene, potrebbe smettere di attendersi giustificazioni assolute per la sua prassi, accontentandosi di quelle che gli mostrano i suoi occhi. Potrebbe cioè guardare l’altro che gli sta davanti, senza mediazioni e senza aneliti verso leggi supreme dell’essere. Se poi volesse un conforto intellettuale e filosofico, potrebbe rivolgersi ad Adam Smith, e alla sua nozione di simpatia.
Quando si vede l’altro che patisce, scrive il filosofo scozzese, si è portati a immaginare di soffrire la sua stessa sofferenza, o almeno a immaginare che si soffrirebbe come lui se si fosse nella sua condizione. Ma si tratta di un’illusione vera e propria: la sofferenza dell’altro non può essere davvero la mia, né mia può essere davvero la sua condizione. E tuttavia questa very illusion è fortunata e produttiva: mi apre all’altro, e mi mette in relazione con lui.
Che tutto questo abbia grandi conseguenze non solo morali ma anche politiche è dimostrato per esempio da Richard Sennett nel suo splendido Rispetto (il Mulino).
E poi si potrebbe raccomandare al prete di Olmi anche la rivolta camusiana, ossia la scelta con cui un essere umano pone termine alla sofferenza cui un altro essere umano costringe la propria vittima. Non c’è bisogno di assoluti, per rivoltarsi. Basta guardare l’altro vedendolo, vedendo il suo dolore e soffrendolo come se fosse nostro. Può bastare questo perché l’io e l’altro insieme producano da sé i motivi e i "fondamenti" di una prassi retta. Questo è il relativismo, questo essere in relazione, questo gusto per quello che è umano, molto umano, senza il bisogno di dispositivi dottrinari e gerarchici che certifichino la rettitudine della prassi, e poi magari dell’opinione. Rispetto a quello popolato di assoluti, questo intessuto di umanissimi, concretissimi "valori relativi" è un mondo più libero. Ed è un mondo attento ai singoli esseri umani, alla loro materialità sofferente.
Insomma, per parafrasare il vecchio prete, e per andare oltre il suo scoramento, il bene è più della fede, e l’altro (la relazione con l’altro) è più del bene.
L’eucaristia, magistero del «ma voi non così»
di Enzo Bianchi (Jesus, n. 7, luglio 2011)
Abbiamo già espresso su queste colonne la nostra sofferenza per la liturgia che dovrebbe essere luogo di comunione ed è diventata luogo di conflitto nella chiesa, ma proprio perché crediamo che l’eucaristia è il dono più grande che il Signore Gesù ci ha lasciato, vogliamo ancora ascoltarla e lasciarci istruire dal suo magistero silenzioso ma eloquente.
In quasi tutte le comunità cattoliche l’eucaristia è celebrata quotidianamente. Nei giorni feriali poche persone vi partecipano: sovente sono donne e anziane - anche loro sempre di meno - pochi gli uomini, praticamente assenti i giovani. Qualcuno potrà lamentarsi che vengono celebrate in modo troppo quotidiano, che manca la ricchezza del canto o della festa, che sono prive di una bellezza capace di meravigliare, che non si impongono e non richiamano spettatori...
Eppure, se celebrate seriamente e con consapevolezza, saranno “umili” eucaristie ma sempre con la verità di “cene del Signore”. Sì, povere e umili celebrazioni, ma il criterio per giudicarle non è la loro capacità di “fascino”, bensì se fanno risuonare per quanti vi partecipano l’“evangelo”, la buona notizia della morte e risurrezione di Gesù Cristo, se sono fonte di fiducia per la vita, fonte di speranza per il futuro, fonte di amore fraterno nella vita di famiglia e negli incontri, nel tessuto sociale dove i cristiani sono collocati, vivendo e lavorando con gli altri uomini. Sì, questa è la vera domanda che ci dobbiamo porre davanti all’eucaristia: la sua celebrazione determina qualcosa nella nostra vita, cambia i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti sempre tentati dalla mondanità, converte le nostre vite?
È certamente molto importante, anzi decisivo, interessarsi sul “come” l’eucaristia è celebrata, ma non dobbiamo mai dimenticare che tutto ciò che noi predisponiamo o operiamo per la celebrazione può avere un solo fine: immergerci nella dinamica del mistero pasquale, quell’evento che Gesù ha raccontato con parole e gesti sul pane e sul vino.
Ricordiamoci allora che partecipare all’eucarestia è innanzitutto accogliere l’invito alla “tavola del Signore” (1Cor 10,21): è il Signore vivente che invita noi, poveri e peccatori bisognosi della sua misericordia, malati assetati di guarigione, affaticati e stanchi in cerca di riposo, umiliati e ultimi che anelano a essere riconosciuti e accettati senza doverlo meritare... Tutti diciamo: “Signore, non sono degno...”. Così il pane è dato a tutti, icona della condivisione, ispirazione e comando di condivisione di tutti i frutti della terra e del lavoro umano, affinché non ci siano bisognosi nella comunità in cui si vive (cf. At 4,32).
Ma partecipare all’eucarestia significa anche essere coinvolti nel sacrificio di un uomo, il servo del Signore, che ha speso e dato la sua vita per gli altri fino ad accogliere la morte violenta, la morte del giusto in un mondo ingiusto, la morte dello schiavo in un mondo di padroni e di potenti, la morte di un uomo di pace in un mondo violento...
Non a caso, secondo il Vangelo di Luca, proprio nel contesto dell’ultima cena, dopo l’istituzione dell’eucaristia, Gesù ha detto: “Ma voi non così!” (Lc 22,26), non comportatevi come accade ogni giorno nel mondo, non come fanno tutti, non come viene spontaneo fare in base all’istinto della conservazione e della difesa di noi stessi fino a far prevalere l’amore per noi stessi senza gli altri e anche contro gli altri!
L’eucaristia è il magistero del “ma voi non così!”, della differenza cristiana, perché vuole plasmarci in uomini e donne eucaristici, capaci cioè di vivere e spendere la vita a servizio degli altri, amando gli altri fino all’estremo, fino al nemico stesso: corpo spezzato, sangue versato, sacrificio di una vita offerta e consumata nell’amore autentico dei fratelli.
E affinché comprendessimo che l’eucaristia è questo - altrimenti non è, ma si riduce a scena religiosa, sontuosità e falsità - Gesù ha anche affidato ai discepoli un gesto che la spiega e la interpreta: la lavanda dei piedi. In quel curvarsi di Gesù, in quel compiere il gesto dello schiavo nei confronti dei fratelli, Gesù ha detto parole che risuonano anche per noi oggi: “Avete capito ciò che vi ho fatto?”, avete capito che lo spezzare il pane e bere al calice è servizio ai fratelli, servizio quotidiano assunto come stile, lo stile del Signore e del Maestro?
L’eucaristia è questo! E se lo è autenticamente, allora può solo essere fonte di riconciliazione, di comunione, di amore fraterno. Se invece essa è intesa e vissuta soltanto come celebrazione, rito, come un’occasione di identità e appartenenza culturale e religiosa, se in essa si cerca la solennità come spettacolo che seduce e abbaglia, allora purtroppo è vero che noi ci dividiamo e di fronte all’eucaristia entriamo in conflitto gli uni con gli altri... Ma quello che celebriamo non è più l’eucaristia di Gesù, la cena del Signore (cf. 1Cor 11,21)! Non si può rispettare il corpo di Cristo, fissandolo nel pane e nel vino, e poi non riconoscere il corpo di Cristo che è la comunità, la chiesa, insieme di malati, poveri e peccatori che cercano di trovare senso nelle loro vite per poter pregustare la salvezza che viene dal Signore!
Si riduce il lavoro delle suore Crocifisse dell’Eucarestia, tra le principali produttrici del corpo di Cristo
Ostie in crollo
Cala il mercato delle ostie. Complice la fuga dei fedeli dalle chiese, la vendita delle particole ha subito una battuta d’arresto in tutto il Paese.
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa/Oltretevere, 5/11/2009)
Crolla il mercato delle ostie. Complice la fuga dei fedeli dalle chiese, la vendita delle particole ha subito una battuta d’arresto in tutto il Paese. Dati alla mano, Raniero Mancinelli, sarto capitolino dei papi che rifornisce del pane di Dio la stragrande maggioranza delle parrocchie, non solo romane, regista un «calo delle vendite pari al 15%. Sono finiti i tempi in cui le particole andavano via come il pane - afferma -. Se, infatti, per il Giubileo e negli anni a seguire mi rifornivo ogni settimana, ora gli acquisti sono limitati nel tempo». Spesso nel negozio di Borgo Pio resta pure il deposito.Si riduce, dunque, il lavoro delle suore Crocifisse dell’Eucarestia, tra le principali produttrici del corpo di Cristo.
«Il crollo del mercato delle ostie - spiega le cause Mancinelli -non è dovuto all’aumento dei prezzi. Una fornitura di mille particole fatte con un semplice impasto di farina, infatti, ha un costo di 7 euro. Il fatto è che c’è un fuggi fuggi generale dei fedeli. Basta entrare in chiesa la domenica per rendersene conto». Un calo del mercato delle ostie che si registra più al nord e al centro Italia, stando anche alla testimonianza di padre Giuseppe Lombardo, sacerdote della parrocchia di San Pietro al Carmine a Siracusa. «Per quel che mi riguarda, i miei fedeli sono rimasti abbastanza stabili sia nella frequenza della Santa Messa che nei sacramenti ma la mia, riconosco, è una parrocchia atipica. In effetti - afferma il prete siciliano - è soprattutto nelle grandi città che si registra l’allontanamento dei fedeli dalla messa».
Per non parlare delle confessioni. «Sempre meno gente - dice il sacerdote - è disposta a raccontare i propri peccati al prete. Insomma, ci si allontana dal sacramento e anche questo contribuisce al crollo del mercato della particola». Lontani i tempi in cui, nel bel mezzo della comunione, poteva capitare che il prete si ritrovasse senza ostie consacrate. Capitò nel 1993, durante la messa che precedette i lavori della Dc. Al rito parteciparono così tanti esponenti della Balena bianca al punto che il corpo di Cristo non bastò per tutti.
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato» *
Tra Chiesa e Stato in Italia c’è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l’Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall’Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».
* l’Unità 7.11.2009
Il Papa, Ruini e la rivolta degli atei devoti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano” , 11 febbraio 2010)
Sulla Curia attonita è calata la parola di Benedetto XVI in difesa di Bertone e di Vian. Ma ora è la rivolta degli atei devoti. Ferrara sbeffeggia il comunicato e il Giornale irride: “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”.
Eccoli i rimasugli imprevisti e velenosi del lungo regno del cardinal Ruini, che dopo il crollo della Dc pensò di posizionare la Chiesa al centro del gioco politico. Scegliendosi alleati in campo cosiddetto “laico”, difensori improvvisati di un cristianesimo senza Cristo, araldi dell’identità cattolica d’Italia nel nome di un Vangelo agitato come libretto di Mao. Contro gli “uomini di Bertone” lancia frecciate sprezzanti Giuliano Ferrara, evangelista del pensiero ratzingeriano e infaticabile combattente a fianco delle gerarchie ecclesiastiche contro la 194 o i Dico o il testamento biologico.
La smentita vaticana, motteggia, è “squillante e molto tardiva”, di una “violenza verbale inconcludente”, stilata per “silenziare e mettere alla gogna l’informazione laica, libera, amica che denuncia il fattaccio”.
Doveva succedere prima o poi. Se la Chiesa, durante il ventennio ruiniano, è stata gestita come soggetto partitico, manovrata come un Comitato centrale per organizzare astensioni ai referendum, animare manifestazioni di piazza contro disegni di legge, intimidire governi... doveva finire che i mass media la considerassero alla stregua di un partito come gli altri, con le sue fazioni e i suoi intrighi, e che gli “alleati” di ieri si lanciassero a gettare benzina sulle divisioni interne come succede nel teatrino politico.
L’iperpoliticizzazione ruiniana ha condotto la Chiesa a perdere la sua “diversità”. Perché una cosa è combattersi nei ranghi ecclesiali su temi come il Concilio, il negazionismo, la sessualità, il rapporto con l’islam, altro è lasciare che venga proiettata l’immagine di corvi che portano pacchi maleodoranti di nido in nudo.
Un tale degrado d’immagine non si era mai visto in epoca contemporanea. E il verminaio è stato prodotto proprio da coloro che la strategia ruiniana aveva eletto come punta di diamante dell’inf luenza cattolica in partibus infidelium.
Gli elefantini allegramente neo-integralisti, “alla laica”, il cardinale Ruini, da presidente della Cei, se li era bene allevati. Facevano da pendant perfetto agli arditi ciellini. Gli ossequienti alla Ferrara tornavano utili per dare smalto al Comitato Scienza e Vita (sapiente mix di cattolici e agnostici), messo in piedi dietro le quinte dall’allora dirigenza Cei, per imporre la linea astensionista al referendum sulla fecondazione assistita.
Tornavano utili per predicare contro le “stragi” dell’aborto e buttare bombe intellettuali contro l’I l l u m i n ismo, nell’esaltazione delle perenni “radici cristiane” dell’Italia e dell’E u ro p a Nel 2006 al convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona il cardinal Ruini incoraggiò Benedetto XVI all’e l ogio degli atei devoti, portati in palmo di mano perché erano testimoni dell’“insuf ficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’e t ica troppo individualista”. Elogiati perché sensibili alla “gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”. Erano - s c a ndì Benedetto XVI - una “grande opportunità” che la Chiesa italiana doveva “cogliere”.
Si è visto. In queste settimane la “grande opportunità” ha armato la canizza assieme ai ciellini e ai falchi ruiniani contro l’Osservatore Romano per mettere al tappeto il cardinale Bertone. E adesso che il Papa (malvolentieri, peraltro) è dovuto intervenire di persona, Ferrara demolisce il comunicato, smontandone la “violenza verbale inconcludente ” e accusando nuovamente Vian di avere avvalorato la “cacciata di uno stimato giornalista cattolico” come Boffo. Mentre il G i o rnale, in passato estremamente rispettoso nei confronti della Chiesa, invita il Papa a informarsi “in tre minuti” della fondatezza della condanna per molestie di Boffo. In questo girotondo di bande il mondo dei fedeli cattolici appare ferito, disgustato e disorientato.
Alcuni punti fermi sono tuttavia acquisiti. La “velina”, che Feltri pubblicò l’agosto scorso, è nata in ambienti cattolici milanesi: avversari di Boffo per la concentrazione di potere avvenuta nelle sue mani come zar del sistema mediatico cattolico (Avvenire, la televisione della Cei, la rete delle radio cattoliche) e come portavoce politico di Ruini ormai in pensione. La “velina” è stata spedita in primavera, con buste e francobolli vaticani, all’indirizzo di circa duecento vescovi. Sarebbe morta nei cassetti se Feltri non l’avesse messa in pagina per punire Boffo, reo di avere criticato su Avvenire Berlusconi per l’affare escort. Il paradosso è che Boffo, solo premuto dalla base cattolica e con l’assenso del nuovo presidente della Cei Bagnasco, aveva attaccato il premier. Prima dello scandalo aveva sempre seguito la linea Ruini favorevole al centro-destra. Anche Bertone, il “nemico” di Ruini, è peraltro favorevole al centrodestra. Perciò fece intervenire ai primi di settembre Vian con un’intervista al Corriere della Sera per bacchettare l’Avvenire: proprio per salvaguardare i buoni rapporti istituzionali con Berlusconi. Un gioco degli specchi.
Emarginato Boffo, si sono mossi ora a gennaio gli atei devoti e manipoli ciellini e ruiniani per “ridare l’onore” all’ex direttore dell’Avvenire e mettere in difficoltà Bertone diventato troppo potente in Vaticano. Ma nel polverone del campo di battaglia si stagliano alcuni fatti precisi. Feltri dichiara chiuso il caso e annuncia che non “rivelerà” nomi. (E Berlusconi, con le elezioni incombenti, dichiara d’i mprovviso di essere tanto dispiaciuto per gli attacchi portati a Boffo a mezzo stampa).
Bagnasco continua in silenzio la sua “linea pastorale” né con Bertone né con Ruini. E lo scarno comunicato Cei testimonia la volontà di non mettere neanche un dito nel verminaio. I grandi porporati della Chiesa italiana - Scola, Sepe, Tettamanzi, futuri protagonisti del Conclave - tacciono, per mostrarsi superiori a queste miserie. E i cardinali di Curia stranieri sospirano: “Robe tutte italiane”.
La Croce che non s’impone
di Marco Politi (il Fatto quotidiano, 04.11.2009)
La croce non si impone. E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione. Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni. Il governo italiano, tanto attento allafede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso. Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”. Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenzadel crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza. Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa». Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti. Non è così. O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale. Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano. Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio. È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza. Persino la cattolicissima Baviera - lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione - ha affrontato il problema. In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza. Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale. Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione. Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa. Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria. (Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali). Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso. Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio. Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli. E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”. È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare. Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
L’ANALISI
L’amnesia della morale
di EDMONDO BERSELLI *
In un paese tutto televisivo, da almeno due decenni la politica è stata sostituita dalle immagini dei telegiornali, unica autorappresentazione del potere.
Si capisce facilmente allora come negli ultimi giorni, nonostante le inchieste di giornali come la Repubblica, sia stato possibile azzerare lo scandalo della prostituzione di regime, oscurare i fatti e annullare il giudizio dell’opinione pubblica. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a delineare la strategia: se tutti tacciono, lo scandalo scivola via, e del premier rimane soltanto l’immagine, colorata dalle tv compiacenti, di un uomo di Stato.
Anche questo in realtà è uno scandalo nello scandalo. La prova di una torsione così violenta da ridurre il paese al grado zero della politica. Perché ciò che colpisce, o piuttosto ciò che dovrebbe colpire oggi la coscienza generale, non è solo l’indifferenza anonima e spesso compiacente delle platee televisive, narcotizzate dalla "normalità" degli show privati organizzati dal circuito padronale berlusconiano.
È piuttosto la sensazione "tragica" del degrado che ha contagiato uno dei vertici istituzionali. Ed è per questo che sorprende, e quanto, la sottovalutazione in cui prende forma il giudizio delle classi dirigenti, secondo il calcolo cinico per cui il potere può permettersi qualsiasi scarto rispetto alla regola collettiva.
Il risultato è semplice e spettacolare insieme. Nel racconto delle protagoniste, presunte soubrette o modelle, una sede di fatto istituzionale come Palazzo Grazioli, residenza del capo del governo, è stata ridotta a un privé di escort, ragazze disponibili, teatro di incontri intimi, corteggiamenti sotto l’occhio delle guardie del corpo. Villa Certosa in Sardegna si è trasfigurata in una location di spettacoli grotteschi, talvolta a quanto pare con le aspiranti meteorine in costume da Babbo Natale, in una specie di Hollywood Party strapaesano, o di seriale addio al celibato.
Tutto questo senza che ci sia stata una presa di distanza, o semplicemente un giudizio esplicito, da parte delle élite nazionali: anzi, nell’understatement generale, cioè nella condiscendenza di chi detiene responsabilità pubbliche e private, è come se le ragazze che si fotografano a vicenda nelle toilette di Palazzo Grazioli appartenessero anche stilisticamente a un mondo plausibile: il mondo di Noemi, il mondo di Casoria e delle feste notturne a strascico, il mondo notturno e terminale di Berlusconi e del berlusconismo. Come se quelle fotografie, quegli abiti, quei maquillage designassero lo standard stilistico dell’Italia contemporanea, una misura morale fisiologica, perfetta per i tempi, irriducibile a codici e status che non siano quelli negoziabili del denaro e del corpo.
Prudenze e cautele prelatizie hanno segnato le parole delle comunità di riferimento. Al di là dei giudizi, chiari ma volutamente interlocutori sul piano politico, di Avvenire, ossia il giornale della Conferenza episcopale, non si sentono in giro voci che stigmatizzino la trasformazione di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa in una casa di bambole. Pochi sembrano essersi posti il problema della grave caduta che investe l’immagine del nostro paese sul piano internazionale, e ancora meno appaiono coloro che si pongono il dubbio di quale sarà il clima in cui si svolgerà il G8 dell’Aquila.
Pochissimi, infine, hanno affrontato il tema, colossale, dello scadimento della qualità, e della intrinseca legittimità, del nostro sistema democratico. Insomma, dovremmo essere tutti sotto choc, con una classe dirigente traumatizzata dalle lacerazioni comportamentali di un uomo come Berlusconi, che ha trasferito nel nulla dell’intrattenimento edonistico i contorni del governo, e invece stiamo assistendo a una dissonanza cognitiva perfetta, secondo cui tutto questo è normalità, naturale modernità del gusto, etica ed estetica canoniche, insomma il criterio senza eccezioni a cui ci si confà perché è il vero "pensiero unico" che accomuna nell’autocompiacenza le classi di comando.
Viene da chiedersi tuttavia se questa misura doppia, se il codice che attribuisce la dismisura del potere a chi lo detiene, sia compatibile con la semplice convivenza civile: e viene da rispondere che no, è troppa la distanza fra i saturnalia del sultano e la vita della gente comune. Gli arcana imperii sono tollerati quando risultano iscritti nel segreto, non quando diventano un’esibizione sfrontata e a suo modo feroce. Qui invece, con i ludi fotografici di Palazzo Grazioli, si evoca un vistoso vulnus democratico, dal momento che essi rappresentano la manifestazione sfacciata secondo cui al possessore del comando tutto è possibile, e tutto è dovuto, perfino l’indulgenza.
Ecco, in questo clima di sospensione morale, di fronte a una specie di sorda dichiarazione di irresponsabilità, c’è la minaccia che l’amnesia etica diventi una condizione reale di deficit democratico e civile. Alla fine la doppia misura, una che si applica a Berlusconi e una al popolo, ha un prezzo. Sono già state poste le premesse di una sudditanza. E la credibilità di un intero sistema, nella sua dimensione istituzionale, si dilegua. Resta soltanto la protervia del potere sostanziale, e dello spettacolo che ha allestito nella certezza dell’impunità. Tanto, nell’ipnosi del buio televisivo, quel prezzo lo pagheremo caro, e lo pagheremo noi.
* la Repubblica, 23 giugno 2009
Ansa» 2009-06-13 14:45
CRISI: PAPA CONFERMA ENCICLICA, FISSERA’ PRINCIPI E VALORI
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI ha confermato che presto verrà pubblicata la sua nuova enciclica dedicata al "vasto tema dell’economia e del lavoro" e che in essa traccerà "i valori da difendere instancabilmente " per realizzare una convivenza umana "veramente libera e solidale". La data indicata in Vaticano per la firma del prossimo testo pontificio è quella del 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo.
Benedetto XVI è tornato a parlare della crisi economica mondiale incontrando oggi la Fondazione ’Centesimus Annus’, organismo cattolico che si occupa di studi sociali. "In effetti, la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni", ha spiegato il pontefice. "Come sapete, verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell’economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale", ha aggiunto. L’enciclica si intitolerà "Caritas in veritate" e verrà pubblicata e presentata subito dopo la firma, ai primi di luglio.
Non ditelo al papa
di Nicole Sotelo *
Papa Benedetto ha confermato il 19 giugno come l’inizio dell’Anno Sacerdotale. Ha proclamato che "senza il ministero presbiterale non ci sarebbe Eucaristia, non ci sarebbe missione, né chiesa". Mi secca essere l’unico ad informarlo che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima che ci fosse il prete.
Secondo il Vangelo, Gesù non era un prete e neanche i suoi discepoli lo erano. Troviamo riferimenti a Gesù come prete nella Lettera agli Ebrei. L’autore usa questo termine per riferirsi a Gesà come il nuovo ed ultimo "Sommo Sacerdote", segnando la fine della lunga serie di leader giudei. L’autore inoltre conferma che i preti non sono più necessari poiché non lo sono i sacrifici. Gesù è stato l’ultimo sacrificio ed è il nostro ultimo sacerdote.
Forse il papa ha dimenticato che Gesù non era attento al presbiterato, ma al ministero. Egli chiamava le persone ad amministrare insieme a lui, a prescindere dal loro status sociale. Egli ha chiamato pescatori e pubblicani, nonché una donna con sette demoni. Tutti erano responsabili dell’edificazione del regno di Dio.
Tutti erano invitato ad amministrare ed a farlo secondo i titoli attribuiti dalla stessa comunità sulla base dei carismi.
Alcuni erano chiamati profeti, altri maestri ed altri ancora apostoli. Solo più tardi iniziamo a vedere la nascita di una struttura ministeriale formale con una relativa terminologia, quando i seguaci di Gesù vennero influenzati ed integrati nell’Impero Romano. Fino al 215 non ci furono ordinazioni rituali di vescovi, preti o diaconi.
La creazione della struttura clericale comportò la divisione dei cristiani in "clero" e "laici". Nei primi anni del cristianesimo, tuttavia, Paolo ricordava ai seguaci di Gesù "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).
Dopo la nascita dell’ordinazione e del presbiterato, si è sviluppato l’ordine gerarchico tra i fedel. Il termine "ordinazione" deriva dal latino "ordinare" che significa "fare ordine". Si è sviluppato dall’usenza romana del termine "ordines" che si riferiva alle classi del popolo di Roma distinte a seconda della eleggibilità ai ruoli governativi.
I laici sono diventati "di-ordinati" rispetto al clero. Il termine "laico" deriva dalla parola "laikoi" che si riferisce a quelli che nella società Greco-Romana non erano "ordinati" nell’ambito di una struttura politica prestabilita.
Il termine "clero"deriva da "kleros" che significa "gruppo separato". Mentre molti cristiai continuarono ad amministrare all’interno della chiesa, e perfino alcune donne acquisivano il titolo di diacono, prete o vescovo, molti a cui era attribuito questo titolo facevano parte di un gruppo ristretto di uomini appartenenti ad un particolare contesto socio-politico o ordine religioso.
Questo è perdurato fino al 1964 quando il Vaticano II ha ricordato alla chiesa che il ruolo di ministro, o prete, non era limitato agli ordinati, ma era una chiamata per tutti i battezzati. Il documento Lumen Gentium, proclamava che i laici sono stati "resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano" (31).
Il presbiterato, che deriva dalle basi dei ministeri primitivi dei seguaci di Gesù, è stato restituito a tutti i cristiani. Tutti sono nuovamente chiamati al ministero. Tutti i cristiani sono chiamati a far parte dei ruoli profetici, sovrani e, sì, anche presbiterali relativi la missione della chiesa.
Quindi mentre il papa esorta i preti ordinati alla riflessione in questo Anno Sacerdotale, la chiamata arriva a tutti noi, affinché riflettiamo su come stiamo vivendo il nostro ministero per la chiesa e per il mondo.
Non mi preoccuperei di dire al papa che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima dei preti, e neanche che l’Anno Sacerdotale dovrebbe essere un anno dedicato a tutti i laici, piuttosto mi preme che siamo noi a capirlo.
Questo Anno Sacerdotale è una opportunità per tutti i fedeli cristiani per riflettere sul ministero presbiterale, e attraverso di esso, riprenderci il nostro.
Testo reperito da Patrizia Vita
Traduzione di Stefania Salomone
Don’t tell the pope
by Nicole Sotelo
Pope Benedict has declared June 19 as the beginning of the Year of the Priest. He has proclaimed that “without priestly ministry, there would be no Eucharist, no mission and even no church.†I hate to be the one to inform him, but Eucharist, mission and church existed long before the rise of priesthood.
According to the Gospels, Jesus was not a priest, nor were his disciples. We do see reference to Jesus as a priest in the Letter to the Hebrews. The author uses the word to refer to Jesus as the new and last “High Priest,†ending a long line of Jewish leaders. The author claims that priests are no longer necessary because no more sacrifices are needed. Jesus was the ultimate sacrifice and is our final high priest.
Perhaps the pope has forgotten that Jesus was not focused on priesthood. He was focused on ministry. He called people to minister alongside him, regardless of their status in society. He called out to fishermen and tax collectors and the woman with seven demons. Everyone was responsible for engendering the kingdom of God.
All were invited to minister and they did so with various titles given to them by the community based on their gifts. Some were called prophet, others teacher and still others apostle. It was only later that we begin to see the emergence of a formal ministry structure and corresponding terminology as the followers of Jesus were influenced and integrated into the Roman Empire. It is not until 215 A.D. that we have evidence of an ordination ritual for bishop, priest and deacon.
The emergence of the clerical structure eventually led to a division of the Christian faithful into “clergy†and “laity.†In the early years of Christianity’s emergence, however, Paul reminded Jesus’ followers, “There is no longer Jew or Greek, there is no longer slave or free, there is no longer male and female; for all of you are one in Christ Jesus†(Galatians 3:28).
After the rise of ordination and priesthood, there develops a hierarchical order among the faithful. The word “ordination†derives from the Latin “ordinare†which means “to create order.†It developed from the Roman usage of the words “ordines†that referred to the classes of people in Rome according to their eligibility for government positions.
The laity became “dis-ordered†from the clergy. The word “laity†originates from the word “laikoi†that referred to those in Greco-Roman society who were not “ordered,†or “ordained†within the established political structure. The word “clergy†comes from the word “kleros,†meaning “a group apart.â€
While many Christians continued to minister within the church and even some women carried the titles of deacon, priest and bishop, most carrying this title were part of a limited group of men commissioned within the context of a particular socio-political and religious order.
This endured until 1964 when the Second Vatican Council reminded the church that the role of minister, or priest, was not limited to the ordained, but was a call to all the baptized. The document, Lumen Gentium, proclaimed that the laity were “made sharers in the priestly, prophetical and kingly functions of Christ; and they carry out for their own part the mission of the whole Christian people in the Church and in the world†(31).
Priesthood, which arose out of the foundation of the early ministries of Jesus’ followers, was now returned to all Jesus’ faithful. All people are called to ministry again. All Christians are meant to share in the prophetic, sovereign and, yes, even priestly roles within the mission of the church.
So while the pope is exhorting ordained priests to reflection in this Year of the Priest, the call goes out to all of us to reflect on how we are living out our ministry in the church and world.
I would n’t worry about telling the pope that Eucharist, mission and church existed long before the priesthood, nor that the Year of the Priest should really be a year dedicated to all the laity. Instead, we need to understand this ourselves.
The Year of the Priest is an opportunity for the entire Christian faithful to reflect on priestly ministry, and in so doing, to claim our own.