L’INVENZIONE DELL’ECONOMIA
Così l’economia è diventata una religione
Un saggio provocatorio di Latouche, teorico
della "decrescita serena", per liberare il pianeta
dalla dittatura del Pil che fagocita tutto
di Federico Rampini (la Repubblica, 06.02.2010)
Chi avrebbe il coraggio di esaltare le virtù della "decrescita" davanti agli operai di Termini Imerese o ai minatori dell’Alcoa? Non è un caso se l’ambientalismo più radicale ha successo nei ceti professionali medioalti; mentre le forze politiche legate a una visione "produttivista" - la Lega Nord in Italia o il Tea Party Movement della destra populista in America - fanno breccia in quel che resta della classe operaia. "Fermare lo sviluppo" diventa uno slogan quasi irreale quando lo sviluppo comunque non c’è più, nell’Europa di oggi stremata dalla disoccupazione. D’altra parte suona come un atteggiamento snobistico, da élite privilegiate, se viene brandito contro le aspirazioni di centinaia di milioni di cinesi e indiani: solo grazie alla continuazione del boom attuale in quell’area del mondo, potranno vedersi realizzate le loro aspettative di un tenore di vita appena decente.
Eppure anche i fautori dello sviluppo-ad-ogni-costo ammutoliscono davanti agli scenari di una prolungata stagnazione. Al World Economic Forum di Davos, una settimana fa, il direttore del Fondo monetario internazionale ha annunciato dai 5 ai 7 anni di "lacrime e sangue" per l’intera Europa, alle prese con colossali deficit pubblici. Neppure i leader più demagogici in Occidente osano promettere che alla fine del tunnel tutto tornerà come prima. Non basta che Obama faccia la voce grossa coi cinesi perché d’incanto tornino a spuntare capannoni industriali in tutto il Midwest.
L’economista francese Serge Latouche è da anni il più autorevole critico dello sviluppo. Una delle sue opere di maggiore successo, uscita proprio mentre l’Occidente sprofondava nella più grave crisi degli ultimi settant’anni, si intitolava Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, 2008). Il rischio è che la decrescita si confonda con la recessione, tutt’altro che serena. Come conciliare la necessità di dare sbocchi professionali ai giovani, con un orizzonte di stagnazione, precariato, regresso del potere d’acquisto? Per evitare questa impasse, Latouche suggerisce un cambio di terminologia nel suo nuovo saggio L’invenzione dell’economia (Bollati Boringhieri, in uscita oggi). A scanso di equivoci, parliamo di "a-crescita" come si parla di ateismo. Perché proprio di questo si tratta, dice Latouche: «Uscire dalla religione della crescita».
Una religione che esige dalle masse dei credenti una fede cieca, assoluta, irrazionale. Lo si capisce da un test logico elementare. Come conciliare l’idea di una crescita infinita, con le risorse naturali del pianeta che sono limitate? Latouche mette a nudo questo paradosso: con il tasso attuale di crescita della Cina (10% di aumento del Pil annuo, nei primi otto anni del XXI secolo), si ottiene una moltiplicazione di 736 volte in un secolo. Immaginiamo invece che la Repubblica Popolare si assesti su una velocità di sviluppo più moderata, per esempio quel 3,5% annuo che fu la media europea negli anni della ricostruzione post-bellica: si avrebbe pur sempre una moltiplicazione di 31 volte in un secolo. Chi può pensare che ci sia sul pianeta abbastanza petrolio, acqua da bere, ossigeno da respirare, per una Cina che produce e consuma trenta volte più di adesso?
La critica di Latouche va al cuore della scienza economica, che smonta e demistifica assegnandole una parabola storica ben precisa: è da Aristotele a Adam Smith che la visione economica si codifica e conquista un ruolo centrale, dominante, infine totalitario, nella civiltà occidentale (poi conquista via via tutte quelle altre zone del mondo che si sono modernizzate emulando i modelli dell’Occidente). Il marxismo in questo senso è una finta alternativa, un rovesciamento fallito, la sua prospettiva rimane la stessa: il produttivismo, l’idolatria dello sviluppo. «Viviamo ancora - scrive Latouche - in piena apoteosi dell’èra economica. Viviamo l’acme della onnimercificazione del mondo. L’economia non solo si è emancipata dalla politica e dalla morale, ma le ha letteralmente fagocitate. Occupa la totalità dello spazio. Il discorso pubblicitario, che invade tutto, diffonde la visione paneconomica e la spinge fino all’assurdo: pretendendo di dare un senso alla vita, ne rivela la mancanza di senso».
Pochi autori possono unire l’erudizione e la profondità analitica di Latouche, insieme con la sua capacità di attaccare alle radici venti secoli di pensiero occidentale: in passato proprio Karl Marx, e tra i contemporanei Giovanni Arrighi, si sono cimentati con operazioni così ambiziose. In questa sua ultima opera Latouche accetta anche qualche mediazione politica. Il suo orizzonte ultimo è una Utopia da terzo millennio, una società di abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich chiamava la "sussistenza moderna", una sorta di neofrugalità appagata. Per arrivarci, Latouche è disposto a una transizione fatta di nuove regole e ibridazioni: «In questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale e del paradigma del dono, possono ricevere un appoggio incondizionato». In fondo c’è posto in questa visione anche per il progetto di Nicolas Sarkozy: abbandonare la "dittatura del Pil", fondando su altri parametri la misura del benessere sociale di una nazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 18.06.2017, p. 9)
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono - che pur sorregge e struttura le relazioni sociali - è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss (Saggio sul dono, Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» (Il dono è il dramma, Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani, Einaudi, 1995).
Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso - ed è un vecchio tema dell’antropologia economica - fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus, fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state, dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli.
Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau. A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita. Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita», per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere.
Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss - scrivono - è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale.
In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber (Il debito, Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
Una discussione con Alain Caillé sul "Manifesto convivialista"
(F. Fistetti - Ugo M. Olivieri)
A PIENE MANI dono dis-interesse beni comuni
Una discussione su “Il Manifesto del Convivialismo”:
intervento di Laura Pennacchi
un intervento di Fabio Ciaramelli
un commento di F. Fistetti
Lo scandalo economico del dono
di Carlo Formenti (Corriere della Sera/La Lettura, 04.12. 2011)
Natale incombe e l’incubo della corsa ai regali si avvicina. Quest’anno contribuiranno a renderlo ancora più angoscioso le tasche svuotate dalla crisi, tuttavia, anche in tempi di vacche magre, il vero problema non sono i soldi, bensì quell’obbligo alla reciprocità che ci induce ogni volta a divinare da chi potremmo ricevere regali, per non trovarci nella penosa condizione del debitore (magari per avere ricevuto qualcosa di cui avremmo volentieri fatto a meno).
Sull’ambiguità del dono, sul fondo di aggressività che l’atto del donare inevitabilmente nasconde, antropologi, filosofi, psicologi e sociologi hanno versato fiumi d’inchiostro (vedi, fra l’altro, la recente uscita della raccolta di saggi Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, editore Bollati Boringhieri, curata da Francesca Brezzi e Maria Teresa Russo) convergendo su un concetto largamente condiviso e cioè che il donatore acquisisce sempre potere nei confronti del donatario: nella migliore delle ipotesi il potere di costringerlo alla reciprocità, nella peggiore, che si realizza quando il donatario non è in grado di ricambiare, quello di metterlo in uno stato permanente di soggezione.
Questa ambivalenza non impedisce al tema del dono e delle relazioni umane «gratuite» di assumere un peso crescente nel dibattito economico, politico e culturale sulle possibili alternative al modello «mercatista», largamente egemone negli ultimi decenni e oggi oggetto di dure critiche per la tragica crisi in cui è sprofondato il mondo. A favorire la riapertura di un orizzonte utopico, che il crollo del socialismo reale sembrava avere definitivamente chiuso, sono stati, fra gli altri, due fattori: da un lato, quella cultura del. gratuito che accomuna la grande maggioranza dei miliardi di utenti della Rete, dall’altro l’impegno della Chiesa cattolica sul fronte della «economia sociale di mercato», concetto che ha trovato una formulazione particolarmente efficace nell’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI.
Le pratiche fondate sulla cooperazione spontanea e gratuita fra comunità e individui interconnessi via Internet - sviluppatori di software libero, blogger, redattori di Wikipedia, movimenti politici e sociali, ecc. - hanno confermato una verità che gli antropologi avevano intuito da tempo: il dono non connota necessariamente uno spazio «altro» rispetto all’economia, una messa fra parentesi assoluta dell’interesse individuale.
La novità consiste nel fatto che, mentre i fondatori dell’antropologia come Marcel Mauss concepivano il dono come una prefigurazione arcaica dello scambio economico, i teorici del dono in Rete sostengono che sulle inedite forme di reciprocità «gratuita» mediate da Internet è possibile fondare una nuova economia in grado di produrre innovazione e valore a ritmi assai più elevati di quella tradizionale, evitando nel contempo di sacrificare sull’altare del profitto i principi e i valori della solidarietà e della reciprocità umane.
L’attenzione della Chiesa nei confronti di questo approccio è testimoniato dai molti scritti che uno studioso come padre Antonio Spadaro, da poco alla direzione della «Civiltà Cattolica», ha dedicato all’argomento. Ma il punto di vista cattolico sul tema sporge ampiamente dall’orizzonte culturale tracciato dalla cosiddetta «etica hacker»: nell’enciclica sopra citata, per esempio, viene contestata la visione smithiana del mercato come unica istituzione in grado di garantire democrazia e libertà, mentre si insiste sulla necessità di fare spazio alla logica del dono e della reciprocità in una economia di mercato che, ove abbandonata ai suoi automatismi, rischia di distruggere se stessa, come la crisi in corso sta dimostrando. Imboccare la «terza via» di una economia sociale di mercato potrebbe aiutare il mondo a superare le attuali difficoltà attraverso lo sviluppo di un nuovo welfare, proiettato oltre l’alternativa fra statalismo e mercatismo.
A obiettare contro queste visioni, tuttavia, non sono solo i teorici integralisti del libero mercato. Sul piano filosofico, vengono riproposte le argomentazioni sulla «dismisura» del dono, sulla sua natura «scandalosa», irriducibile a ogni razionalizzazione logica: dalla concezione del dono come dissipazione energetica, perdita, pura dé p e n s e , già sostenuta da Georges Bataille, alla tesi di Jacques Derrida sulla «impossibilità» del dono, sul fatto che il dono, per essere «puro» per sottrarsi cioè al sospetto di una implicita aspettativa di scambio, dovrebbe auto-cancellarsi in quanto tale, divenire invisibile. Per chi assume tale punto di vista, ogni tentativo di «addomesticare» il dono, di neutralizzarne la natura scandalosa, è votato allo scacco.
Le critiche politico sociali, viceversa, addebitano tanto ai teorici dell’economia del dono in Rete quanto a quelli dell’economia sociale di mercato l’intenzione di espungere ogni valenza sovversiva e rivoluzionaria dalla pratica del gratuito: i primi perché mirano a dimostrarne l’assoluta compatibilità con i modelli della New Economy, i secondi perché negano l’esistenza di un rapporto di antagonismo fra relazioni di reciprocità e ricerca del profitto.
Chi ha ragione? Le critiche liberiste al gratuito rispecchiano un’antica fobia nei confronti dell’economia informale: Adam Smith vedeva nelle relazioni impersonali di mercato il presupposto dell’emancipazione dai rapporti di dipendenza personale («non è dalla benevolenza del macellaio che devo attendere la soluzione dei miei bisogni»). Ma l’obiezione suona anacronistica in un’epoca in cui, grazie alle nuove tecnologie, le relazioni di gratuità si sono a loro volta spersonalizzate, estendendosi ben al di là delle sfere della reciprocità familiare o della beneficenza.
Più convincenti le critiche sulla «non addomesticabilità»: l’incompatibilità fra mercato e dono appare confermata dalla rapidità con cui il primo ha saputo sottomettere alla propria logica la cultura internettiana della condivisione e della cooperazione gratuite, l’ipotesi di «terza via» formulata dalla Chiesa sembra dunque difficilmente praticabile. In conclusione: l’orizzonte del gratuito sembra inscindibile da quello dell’utopia, e l’utopia tende inevitabilmente a evocare scenari rivoluzionari.
«Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono» è una raccolta di saggi da poco
pubblicata da Bollati Boringhieri (pagine 220, € 16,50).
Il Saggiatore ha appena mandato in libreria «Il dono. Storia dimenticata di un miracolo
americano» di Ted Gup (traduzione di Clementina Liuzzi e Daniele Parisi, pagine 316, € 17,50): un
viaggio autobiografico nella grande depressione americana.
Veleni ecclesiastici e morte del sacro
di Enzo Mazzi (il manifesto, 6 febbraio 2010)
Questi velenosi intrighi ecclesiastici che stanno emergendo in relazione al caso Boffo chiamano in causa responsabilità personali di altissimi prelati. Non è escluso che prima o poi venga tirata dentro la persona stessa del pontefice. Anzi c’è già chi parla di un suo coinvolgimento personale nella vicenda. C’è pane in abbondanza per i media che si nutrono di scandali. Ma è molto riduttivo e secondo me fuorviante questo ridurre tutto all’orizzonte scandalistico della colpa personale.
Gli intrighi vaticani che stanno emergendo dovrebbero essere visti e analizzati come segnali potenti del fatto che è marcio nella radice il sistema ecclesiastico e più ampiamente il sistema del sacro. Non elaborare una tale analisi ci fa perdere ancora una volta un’occasione storica per la crescita culturale globale. Porre l’attenzione e forse la scure alla radice del sistema ecclesiastico vuol dire detronizzare non solo il papa ma il Dio stesso dell’onnipotenza e il Gesù divinizzato dal mito e reso il perno della cultura sacrificale.
Uno dei più noti testimoni della necessità di una tale crescita culturale è Dietrich Bonhoeffer. Rampollo dell’alta borghesia tedesca fonda insieme ad altri pastori la «chiesa confessante» in alternativa e opposizione all’ufficialità della Chiesa evangelica che si era compromessa con il nazismo e finisce in vari lager fra cui Buchenwald e Flossemburg dove viene impiccato il 9 aprile 1945. Nei due anni di internamento scopre l’assenza del Dio delle religioni. E in una serie di «lettere dal lager» scritte a un amico delinea una sorta di teologia della fede non-religiosa che consiste nel vivere nel mondo «come se Dio non ci fosse». Il fare a meno dell’ipotesi Dio nelle relazioni sociali e nella politica è finalmente il raggiungimento della maturità dell’esistenza umana e la condizione per l’assunzione piena della responsabilità. Lo stesso cristianesimo dovrà diventare una nonreligione, come del resto era all’inizio. È complesso il pensiero del teologo dell’assenza di Dio ben oltre la mia semplificazione. E non è affatto nuovo. La novità sta nella sua contestualità storica legata all’assunzione della laicità come valore e nella sua diffusione planetaria.
Il messaggio di padre Ernesto Balducci mi sembra che si ispiri con forza a Bonhoeffer e anzi lo approfondisca: «Dio è la cifra assoluta dell’aggressività umana (...) Le religioni, nate come sono in questa cultura di guerra, sono sempre religioni di guerra, nonostante che esse magari esortino alla pace, invochino la pace. Esse legittimano il costume di guerra, le categorie mentali della guerra (...)Per vivere, esse devono morire». Sono affermazioni forti. E soprattutto sono centrali nell’elaborazione dello scolopio, figlio di un minatore dell’Amiata, rimasto fedele alla cultura popolare delle proprie origini.
Con altri accenti dice le stesse cose un grande maestro buddista zen, vietnamita, cresciuto nella solidarietà con la lotta anticolonialista del suo popolo,Thic Nhat Han: il buddismo deve morire come dottrina della «Pura terra senza sofferenza». Nella Pura terra il canto degli uccelli celesti è la voce del Dharma. Ma il canto di un uccello è il terrore dei vermi e degli insetti. Lo stesso suono che evoca bellezza può anche ispirare paura e dolore. La pratica buddista muta il samsara nella Pura terra ma può impedirci di vedere il dolore, l’angoscia, la sofferenza, le bombe, la fame, la corsa alla ricchezza e al potere. E la Pura terra può diventare anch’essa oppio.
Bonhoeffer, Balducci, Thic Nhat Hanh, testimoni esemplari fra tanti, danno voce e forma a un’inquietudine e a un impulso che sentiamo scaturire in noi dal profondo. I cattolici progressisti, quelli del «disagio», dell’accoglienza, dell’ambientalismo e della pace dovranno prima o poi incominciare a porre la scure alla radice della violenza nell’intimo dei sistemi religiosi. I cattolici dell’associazionismo progressista fanno propri i temi dei movimenti dal basso portando talvolta la radicalità e la forza dell’ispirazione evangelica. Questo è positivo. Ma il compito dei cattolici nei movimenti non può limitarsi ad essere una voce in più. Hanno un compito specifico specialmente nell’era dei fondamentalismi: sradicare la violenza dall’intimo degli apparati religiosi ed ecclesiali. Mentre anche loro di fronte al sacro si bloccano.
È il caso ad esempio dell’incontro di cattolici che si svolge oggi a Firenze per il secondo anno chiamato appunto «Firenze 2». Un settore significativo del cattolicesimo fiorentino aperto rivolge una critica agli organizzatori dell’evento: vi state adattando ai soliti «convegni di dottrina teologica calati un po’ dall’alto ...pensiamo infatti che anche la stessa impostazione della giornata, pur su un tema così attuale e con momenti di preghiera, risenta della volontà di prescindere dalla contingenza che quei temi portano quando invece noi crediamo che la contingenza del tempo presente necessiti in certi momenti storici della forza dello svelamento, della traduzione di quei principi, di quelle linee nella nostra vita ecclesiale, senza silenzi che non sarebbero compresi». Ma aiutare le religioni a morire, con tutta l’incertezza e il rischio che comporta, e con tutta la saggezza che richiede, non può essere ancora una volta un impegno per soli religiosi. Ha ragione il sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di religione vanno sottratti all’abbraccio mortifero della religione-di-chiesa, burocratica e gerarchicamente autoritaria, ma aggiunge che ciò va fatto con una lotta su più fronti, «dentro ma anche fuori della chiesa».
Insomma i laici non possono più continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi, ecclesiali e perfino teologici. Le frontiere della laicità non si possono più disegnare in base al muffito metro del credere/non credere. C’è bisogno di consapevolezze nuove e di percorsi inediti. Val la pena di tentare?
intervista
Parla Maurice Godelier: «La pretesa di spiegare l’origine delle società attraverso le strutture economiche o sociali si è rivelata fallace: il vero fondamento è il sacro»
«È ora di rottamare Marx e Lévi-Strauss»
Per l’antropologo francese «in ogni gruppo sociale ’sacro’ è il nesso politico-religioso, ciò che viene trasmesso di generazione in generazione e fonda il vivere comunitario dei gruppi umani»
DA MILANO EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 09.02.2010)
Archiviamo Marx e Lévi-Strauss: per capire la società non ci servono teorie economiche o strutture parentali, ma il senso del sacro. È questo l’approdo della riflessione dell’antropologo francese Maurice Godelier - anni di osservazione sul campo in mezzo mondo, con particolare predilezione per la Nuova Guinea, medaglia d’oro del Cnr francese, direttore della Scuola di alti studi in Scienze sociali di Parigi -, che stamattina alle 10.30 alla Bicocca di Milano parteciperà con Enzo Mingione e Marinella Carosso all’incontro «Dalla ’moneta di sale’ all’’enigma del dono’. Esperienze di antropologia economica».
Di Godelier Jaca Book, che sta per pubblicare anche Comunità, società, cultura (pagine 80, euro 8,00), ha appena dato alle stampe Al fondamento delle società umane (pagine 240, euro 28,00): dove l’antropologo teorizza che tale fondamento sia appunto il sacro.
Ma in che senso dobbiamo intenderlo, questo ’sacro’, professor Godelier?
«Certo non si riduce al religioso. In Europa dicendo ’sacro’ pensiamo immediatamente al Dio monoteista, alla trascendenza, ma non è solo questo: il sacro fonda la società perché è il suo supporto profondo trasmesso di generazione in generazione, è quel che va al di là della vita degli individui, è ciò che consente agli individui di vivere insieme».
Concretamente?
«Nelle società occidentali di oggi oggetti sacri sono le Costituzioni. Non sono beni, non possono acquistare ma solo trasmettere. Il politico non può essere separato dal sacro, anzi ne fa parte; concetto difficile da comprendere per noi europei, che a partire dai Lumi e dalla Rivoluzione francese ci siamo abituati a vedere Stato e politica separati dalla religione. Questa spaccatura ci ha fatto dimenticare che in realtà il sacro non sta solo nella religione: anche la politica è un qualcosa di sacro, per gli individui e per i gruppi sociali. Quello che mi interessa, naturalmente, non è il legame sociale, ma la creazione concreta di una società».
Eppure i due filoni tradizionali delle scienze sociali mettono il sacro tra parentesi, e cercano altrove l’origine della società: Marx nei rapporti economici, Lévi-Strauss in quelli di parentela...
«Infatti sono critico contro questo doppio feticismo. Forse che i rapporti di produzione capitalisti descritti dal marxismo possono spiegare in qualche modo una religione come il cristianesimo? Certo che no. L’economia è importante, va capita, ma non spiega. Allo stesso modo, la famiglia è importante per l’individuo, che si costituisce attraverso di essa, ma questo non basta a farne la base della società».
Dov’è l’errore, quindi?
«Il punto strategico dei rapporti sociali sta nel concetto di sovranità, un concetto più proficuo di quelli economici o strutturalisti. La questione è: perché e come i gruppi umani stabiliscono una sovranità su un territorio? Io rispondo: con il politico- religioso, cioè con il sacro. Politico, nel senso di sistemi istituzionali di governo; religioso, nel senso di rapporto con ciò che va al di là dell’umano».
Eppure in Europa è forte la tendenza a mettere Dio tra parentesi, e a insistere al contrario sulla laicità dello Stato...
«Un conto è la laicità dello Stato, cioè la separazione tra questo e la religione; un altro è il concetto di sacro. All’interno dell’Occidente, poi, è tangibile la differenza tra Europa e Stati Uniti: oltreoceano si giura sulla Bibbia, non sulla Costituzione... Anche là lo Stato non è religioso, nel senso che non c’è una Chiesa ufficiale, però la religione pervade l’intera società. La tradizione americana è impostata sul minor intervento statale possibile nella vita individuale, nell’economia, eccetera. Compassione per i poveri, sì; sistema sanitario per tutti, no - e si vede quanto fatichi Obama a introdurlo. In Europa al contrario lo Stato, a partire dal secondo dopoguerra, ha assunto un ruolo provvidenziale, facendosi carico della protezione sociale di tutti i cittadini. In America il rapporto tra lo Stato e la società sono diversi, così come quelli tra la società e la religione: ma ci sono casi ancora più divergenti, su come il sacro possa fondare una società: l’islam, per esempio».
La categoria di sacro come base del politico- religioso aiuta a capire l’ascesa del fondamentalismo?
«Nell’islam la sovranità non appartiene al popolo, ma a Dio; la legge civile posa sulla legge divina, la shari’a ; la supremazia va al religioso, non al politico, e le persone non si riconoscono come cittadini, ma come credenti. In passato il problema del mondo islamico era un problema europeo, perché europei erano i Paesi colonizzatori dell’area musulmana. Oggi questo ’domino’ è passato agli Stati Uniti, mentre i Paesi islamici non hanno ancora elaborato il trauma della colonizzazione - trauma alla base, tra l’altro, anche della difficoltà di questi Paesi a liberarsi dai loro regimi dittatoriali. Tutto è pieno di paradossi: l’Iran degli ayatollah è una repubblica, con elezioni e opposizione, ma con un fondamento religioso; anche l’Arabia ha un fondamento religioso, ma è una monarchia assoluta, senza elezioni e senza opposizioni... Eppure repubblica, monarchia non sono categorie proprie della tradizione islamica, sono figlie anch’esse della colonizzazione occidentale. E il risentimento cova, ovunque. In Afghanistan, dove occorre assolutamente trovare una soluzione politica. In Iraq, dove il grave errore è stato distruggere interamente lo Stato di Saddam - neppure in Germania, dopo la Seconda guerra mondiale, lo Stato è stato distrutto - anziché modficarlo. E soprattutto in Palestina, vera ulcera aperta nel mondo islamico ».