INTERVISTA
«All’economia attuale serve uno scatto di generosità». Il sociologo francese Alain Caillé ripropone la questione del «dono»
Il disinteresse paga
Lo studioso, che partecipa al summit in Vaticano sul bene comune: «Ormai è chiaro che i gesti gratuiti sono un dato decisivo nello sviluppo delle società. Bisogna uscire dall’utilitarismo esasperato»
di LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire/Agorà, 03.05.2008)
Contro la logica dello sfrenato utilitarismo che oggi sembra trionfare in molti campi prende forma una forte opposizione da parte della filosofia e dell’antropologia.
Ad alzare il vessillo della rivolta è stato, nel 1992, il sociologo francese Alain Caillé con il suo Lo spirito del dono - scritto a quattro mani con il collega canadese Jacques T. Godbout - un libro tradotto in cinque lingue che gli ha assicurato fama internazionale.
Ma Caillé aveva già dato fuoco alla santabarbara con la Critica della ragione utilitaristica del 1989, che assestava un primo colpo all’assioma dell’egoismo, secondo il quale in ogni azione e relazione sociale non si può che mirare al soddisfacimento del proprio interesse. Ora, in un’epoca ancora dominata dal consumismo, il messaggio di Alain Caillé si rivolge ai sudditi dell’impero neoliberistico: «Quanta parte delle attività dell’uomo, sia personali che sociali, deve essere impiegata per soddisfare il puro e semplice utilitarismo, e quanta invece dovrebbe essere dedicata a produrre significati, pensieri, a dare un senso alla vita, cioè al simbolico, al rituale, al politico, insomma al non utilitario?».
L’individuo obbedisce automaticamente al sempre più pervasivo modello dell’homo oeconomicus, imposto da certa pubblicità: massimizzare utilità e piacere, respingere senza indugio non solo ciò che fa soffrire ma anche, e soprattutto, ciò che non è utile. Eppure - obietta Caillé - uomini e donne non sono venuti sulla terra per agire da «animali interessati», che desiderano soltanto avere sempre più cose; anche se non lo sanno, l’oggetto principale della loro brama non è comunque la ricchezza quanto «l’essere riconosciuti».
Alla 14° sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, apertasi ieri in Vaticano, la nuova filosofia e sociologia, incardinata sul paradigma del dono e dell’altruismo, è stata illustrata dai suoi massimi rappresentanti: Alain Caillé, professore all’Università di Parigi Nanterre e Jacques T. Godbout, professore emerito al National Institut of Scientific Research dell’università di Montreal.
Professor Caillé, in un mondo soggiogato dall’etica dell’utilitarismo, la rivendicazione di una nuova economia, fondata sul dono e sull’altruismo, non sembra velleitaria?
«La gente crede che il dono e la generosità siano inutili fronzoli, sentimenti polverosi gettati in soffitta. Questa idea viene fatta valere con un bombardamento quotidiano dal modello economico dominante, secondo il quale non solo il mercato e gli scambi monetari ma anche l’apprendimento, il matrimonio, la fede religiosa, l’amore e l’odio, la giustizia e il delitto, sono regolati dalla logica egoistica. E invece il dono ha un ruolo oggi come lo aveva nel passato delle società umane. La grande scoperta è merito dell’antropologo Marcel Mauss, nipote ed erede intellettuale di Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia.
Nel 1923-1924, Mauss pubblica i risultati della sua indagine sulla pratica del dono cerimoniale. Però lui non si riferiva soltanto alle società arcaiche e primitive. La pratica di dare, prendere e ricambiare, cioè il principio della reciprocità, è stata posta da Claude Lévi-Strauss alla base della ricerca antropologica».
Sarà duro il lavoro di persuasione per la nuova sociologia.
«Dal 1982 c’è un Movimento AntiUtilitaristico nelle Scienze Sociali, che prende nome da Mauss. E’ nata una scuola di pensiero la quale ha prodotto una rivista (che ho diretto); la tesi del movimento è stata illustrata in oltre mille articoli e più di trenta libri. L’idea che ne scaturisce è che bisogna dare meno importanza all’ homo oeconomicus e più spazio all’homo politicus, all’homo ethicus e all’ homo religiosus ».
Che cosa ha scoperto, in pratica, l’inchiesta di Marcel Mauss?
«Ha dimostrato che i doni, nelle società primitive, non avevano alcun valore materiale. Contavano come simboli della relazione sociale, e comunque non avevano nulla a che vedere con la carità. Talvolta esprimevano anche spirito aggressivo e agonismo. Il dono è un simbolo e rispetta la legge della reciprocità. È la circolazione di un debito che può essere invertita ma non fermata».
Che cosa resta del dono arcaico nella società di oggi?
«Prendiamo il caso dei donatori di sangue o di organi. Fanno un dono che potenzialmente è destinato a tutti, alla famiglia, ai vicini, ai concittadini come agli stranieri. L’obbligo di dare rimane una regola della socialità primaria. Esprime amore o amicizia? Secondo me esprime simpatia o meglio quella che io chiamo aimance, cioè più esattamente ’l’interesse per gli altri’. Si tenga conto che la teoria dell’estremo utilitarismo era stata già emendata dalla corrente anglosassone della filosofia morale. L’individuo persegue la duratura soddisfazione del suo interesse personale se riesce anche a massimizzare la soddisfazione degli interessi del maggior numero di persone. Un egoismo altruistico».
Come convertire l’egoista in altruista?
«C’entra la costruzione dell’identità, individuale e collettiva. L’egoista non vuole tanto possedere, quanto ’essere riconosciuto’. Intendiamoci: anche il dono può essere interessato ma le indagini sociologiche mostrano che ’è interessante essere disinteressati’. Il disinteresse paga».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La lezione del ’68 (e dell’89). Lo spirito critico e l’amore conoscitivo...
La biblioteca di Atlantide /
Lo scambio e il dono
di Vanni Codeluppi *
L’atto di donare degli oggetti ad altre persone svolgeva un ruolo fondamentale all’interno delle società primitive e continua a svolgerlo anche nelle società contemporanee. In molti settori merceologici, infatti, l’acquisto di un oggetto per regalarlo a qualcuno allo scopo di rafforzare la propria relazione con esso rappresenta una delle principali motivazioni che orientano i comportamenti delle persone.
Per comprendere il ruolo sociale svolto dal dono, le riflessioni ancora oggi più interessanti sono quelle sviluppate quasi un secolo fa dall’antropologo francese Marcel Mauss. Questi è partito dalle ricerche di uno dei maestri della sociologia e cioè Émile Durkheim, il quale, dopo aver studiato i comportamenti delle tribù aborigene dell’Australia e di altre società primitive, è giunto alla conclusione che le società producono in continuazione delle forme simboliche utilizzate dagli individui per attribuire al mondo sociale in cui vivono dei significati e un determinato ordine. Gli scambi di doni contribuiscono a questa produzione di forme simboliche, come ha messo in evidenza Mauss, nipote dello stesso Durkheim, nel 1923-24, sulla prestigiosa rivista L’Année Sociologique, all’interno del suo Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, pubblicato in forma di volume in Italia dall’editore Einaudi con una introduzione di Marco Aime.
In tale saggio, Mauss, ha messo in evidenza come nelle società primitive lo scambio di beni si configurasse come uno scambio simbolico, in quanto esprimeva con chiarezza i sentimenti e le relazioni che legano tra loro gli esseri umani. Ciò era apparso evidente a Mauss attraverso l’analisi dell’utilizzo che veniva fatto dei doni in alcune situazioni sociali fortemente ritualizzate. Come ad esempio nel potlatch, un banchetto-festa che veniva organizzato da alcune tribù del Nord-Ovest americano e nel quale ciascun capo-tribù sfidava gli invitati donando loro cibo e oggetti preziosi per dimostrare di essere più ricco e potente. Spesso arrivava anche a distruggere o bruciare tutte le ricchezze possedute. Attraverso il potlatch, dunque, gli oggetti donati o distrutti diventavano dei simboli del valore sociale, del prestigio e del potere e stabilivano o confermavano le gerarchie esistenti a livello sociale. Impiegando lo scambio di doni, le tribù potevano concludere scambi commerciali o stringere alleanze, ma potevano anche arrivare a sfidarsi reciprocamente.
Mauss ha definito gli scambi di doni come «fenomeni sociali totali», in quanto sono in grado di assumere la forma di scambi apparentemente liberi di oggetti, ma in realtà sono caratterizzati da un forte senso di obbligatorietà interindividuale. Il concetto di hau, o «spirito delle cose», gli ha consentito di spiegare tale fenomeno. Ha trovato infatti che presso le tribù Maori esisteva una particolare categoria di beni: i tonga (idoli sacri, stuoie, talismani, tesori, ecc.), che venivano tramandati di generazione in generazione ed erano profondamente legati alla tribù, alla famiglia e al proprietario, tanto da essere animati dal loro stesso hau, ovvero dalla loro forza spirituale. I Maori pensavano che gli oggetti donati possedessero una parte dell’anima del donatore (lo hau appunto) e che, di conseguenza, fosse necessario contraccambiarli per fare ritornare tale anima al suo legittimo proprietario, così come era necessario accettarli quando li si riceveva. Lo scambio di doni comprende pertanto secondo Mauss tre obblighi fondamentali: donare, ricevere e ricambiare. Ostacolare tali obblighi è considerato un rifiuto di instaurare uno scambio sociale, un gesto pericoloso equivalente a una vera e propria dichiarazione di guerra.
In sintesi, si può sostenere che l’aspetto fondamentale dell’analisi sviluppata da Mauss risiede nell’idea che attraverso lo scambio di doni si rafforzano e intensificano le relazioni che uniscono gli individui e perciò si crea la società. E dunque che il sistema sociale ha un bisogno vitale di continuare a contare sulla forza del simbolico, su quell’anima segreta che accomuna le persone e gli oggetti.
Mauss ha anche tentato di mettere a confronto il dono con lo scambio di tipo commerciale, affermando che il dono assume la forma di uno «scambio commerciale differito nel tempo». Riteneva, infatti, che tra i due tipi di scambio le differenze fossero minime, sebbene riconoscesse che lo scambio commerciale è caratterizzato da un certo grado di incertezza, in quanto il donatore non ha mai la sicurezza di essere ricambiato. Ma ciò che è importante è che per Mauss nelle società contemporanee, dove prevale una logica mercantile e utilitaristica, i principi del dono non sono scomparsi. Si sono invece trasformati e sono sopravvissuti in forme di diversa natura: la solidarietà, la carità, il sistema previdenziale dello Stato, ecc.
Gli antropologi venuti in seguito hanno solitamente confermato la validità delle idee espresse da Mauss. Fa eccezione probabilmente soltanto Georges Bataille, il quale ha rifiutato nel volume La parte maledetta di considerare come una componente del dono quella obbligatorietà sociale che ricopre invece un ruolo fondamentale nell’analisi che è stata svolta da Mauss. Per Bataille, cioè, il dono non dev’essere necessariamente ricambiato, in quanto è da considerare come uno spreco e una dépense. A suo avviso, infatti, va enfatizzata la natura eccessiva e gratuita del dono, considerandola strettamente legata a quell’intrinseca necessità di distruggere e sperperare che caratterizza generalmente la produzione all’interno del sistema capitalistico. Bataille era mosso però soprattutto dall’obiettivo di sviluppare una critica del capitalismo e ha trascurato perciò quella potente funzione simbolica che viene svolta dagli scambi di doni all’interno dei sistemi sociali.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
QUALE CRISTIANESIMO, QUELLO DELLA "CHARITAS" EVANGELICA O DELLA "CARITAS" COSTANTINIANA?! *
Senza dono società fragile. Giornata (e realtà e dati) su cui riflettere
di Leonardo Becchetti (Avvenire, venerdì 4 ottobre 2019)
Il dono non svolge affatto un ruolo marginale nel sistema sociale ed economico contemporaneo, e la ricerca sociale ci conferma che è e resta l’architrave della qualità delle relazioni all’interno di organizzazioni sociali e produttive ed è una componente fondamentale della soddisfazione di vita.
Ieri, alla vigilia della Giornata nazionale del dono, sono state presentate stime aggiornate che parlano di una crescita delle somme donate e delle donazioni di carattere informale in Italia assieme, però, a una marcata difficoltà delle donazioni orientate alla cooperazione allo sviluppo: le organizzazioni operanti in questo settore che dichiarano di aver aumentato i fondi raccolti rispetto all’anno precedente sono scese dal 43 al 23%.
Un dato, quest’ultimo, che misura gli effetti della ben nota campagna politico-mediatica, costruita soprattutto sui social, che negli ultimi tempi ha stravolto e trasformato quasi nel loro opposto i significati delle parole e degli atti di bontà, accoglienza e solidarietà. Una campagna organizzata con metodi manipolativi degli stessi social media e dalla quale il mondo del Terzo settore è stato colto di sorpresa, tardando a reagire con una risposta collettiva. Ma questo vuol semplicemente dire che la sfida è più che mai aperta.
C’è poco da cantar vittoria, infatti, anche da parte di chi ha armato quell’aspra campagna. Perché svilire e sottovalutare il valore del dono può produrre effetti devastanti in una società, finisce per snaturarne l’identità e per infragilirla.
George Akerlof ha vinto il Nobel per l’Economia spiegandoci come i meccanismi di scambio di doni (gift exchange) all’interno di organizzazioni produttive cementino la squadra e rinforzino le motivazioni intrinseche dei dipendenti.
Il Rapporto 2019 sul Dono in Italia segnala, non per nulla, la forte crescita del volontariato aziendale come strumento di rafforzamento della squadra di lavoro, delle motivazioni intrinseche dei dipendenti e del senso della loro presenza all’interno dell’azienda.
E i risultati del Rapporto mondiale sulla Felicità identificano nella "gratuità" una delle sei variabili chiave che spiegano il 75% delle differenze di soddisfazione di vita tra Paesi. Il Rapporto italiano sul dono conferma questa realtà, sottolineando come chi dona è più soddisfatto della propria vita, ha una visione più positiva del futuro e crede maggiormente nell’efficacia trasformativa di gesti anche piccoli.
Ma ci può essere innovazione nel dono in grado di renderlo più efficace? L’analisi delle buone pratiche presenti nel nostro Paese (indagate lungo il percorso delle Settimane Sociali dei cattolici) nonché il lavoro di laboratorio con gli imprenditori che si propongono di coniugare creazione di valore economico con responsabilità sociale ed ambientale suggeriscono una risposta assolutamente positiva a questa domanda.
Come ricordano gli antichi, il dono è tuttavia ambivalente e non privo di insidie. Escludendo quei meccanismi pseudo-mafiosi dove esso obbliga a una contropartita, l’insidia principale nella società odierna è quella del dono che umilia perché trasforma il ricevente in mero terminale passivo del nostro obolo. Un padre conciliare come Jean Danielou amava dire paradossalmente «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio» avendo bene a mente che, se siamo felici nel dare, chi è nel bisogno può acquisire dignità ed essere felice solo se messo anche lui in condizioni di dare.
Per questo esperienze innovative come quelle degli Empori Solidali non si limitano a raccogliere dalla grande distribuzione prodotti ancora commestibili eppure non più vendibili per ridistribuirli a famiglie bisognose, ma trasformano piuttosto queste famiglie e i loro componenti in membri di un’associazione.
Dove si coltiva l’orgoglio di poter contribuire all’opera sociale con il proprio lavoro e si costruiscono rapporti di reciprocità e solidarietà tra gli stessi associati. Le nuove piattaforme digitali consentono di raccogliere tanto da pochi, rendendo potenzialmente molto più efficaci le tradizionali collette (crowdfunding), stimolando la capacità di comunicare e raccontare la propria storia che si trova a competere con tante altre storie alternative. Nascono così i ’ broker’ dello spreco (AvanziPopolo è un bell’esempio a Bari) che mettono in contatto eventi e luoghi potenziali dello spreco (ricevimenti, banchetti, ristoratori) con tutte le organizzazioni del territorio che esprimono bisogni, consentendo agli eventi sostenibili di esibire il proprio marchio di qualità etica.
Ed è in arrivo l’app che metterà assieme consumo nella grande distribuzione e 5 per mille, dando l’opportunità a chi va nei punti vendita convenzionati di scegliere a quale organizzazione destinare una donazione che il supermercato associa alla sua spesa. Chi dona pensa in genere che il suo piccolo gesto abbia una efficacia trasformativa, ma il senso del dono per la persona ’cercatrice di senso’ è più profondo. Ed è colto molto bene da una frase di Vaclav Havel: «La speranza non è ottimismo. Non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno». Il dono, di sicuro, lo ha.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA PRASSI DELLA CARITÀ E LO SPIRITO CRITICO. G.B. VICO AL DI LÀ DELLA BORIA DI L.A. MURATORI E DEI DOTTISSIMI DI OGGI.
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 18.06.2017, p. 9)
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono - che pur sorregge e struttura le relazioni sociali - è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss (Saggio sul dono, Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» (Il dono è il dramma, Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani, Einaudi, 1995).
Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso - ed è un vecchio tema dell’antropologia economica - fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus, fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state, dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli.
Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau. A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita. Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita», per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere.
Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss - scrivono - è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale.
In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber (Il debito, Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
EDIZIONI ETS
Una discussione con Alain Caillé sul Manifesto convivialista
A cura di: Francesco Fistetti e Ugo M. Olivieri /
Collana: Boulé. Collana di Filosofia e Scienze umane (15)
Pagine: 146 Formato: cm.14x21 Anno: 2016 ISBN: 9788846743824
Descrizione
Questo libro nasce dalla discussione a più voci dei temi del Manifesto convivialista, riproposti da Alain Caillé nell’intervista a Francesco Fistetti, che insieme con Elena Pulcini ne è uno dei primi firmatari. Al di là delle diverse prospettive intellettuali, gli autori convengono sull’urgenza improcrastinabile di scongiurare, pena la sopravvivenza della vita umana sulla Terra, i disastri imminenti o ormai in atto: ambientali, economici, sociali, morali. Perciò, si tratta di offrire un respiro teorico unitario ai vari movimenti sociali sorti dalla resistenza ad un capitalismo rentier e speculativo, che «è divenuto il nemico principale dell’umanità e del pianeta», e ciò al fine di dare una forma plausibile alle speranze di costruire un mondo comune, frugale e conviviale, che si lasci alle spalle il mito della crescita economica illimitata.
Francesco Fistetti insegna Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Bari. Dirige la collana «Humanities» presso la casa editrice Pensa Multimedia (Lecce/Brescia) e la collana «L’intreccio» presso l’editore D’Anna (Firenze). È condirettore della rivista «Post-filosofie», fa parte del comitato scientifico della «Revue du M.A.U.S.S». Tra i suoi lavori più recenti: Il Novecento nello specchio dei filosofi (D’Anna, 2013), Chiasmi filosofici tra Europa e America (Pensa Multimedia, 2015), Convivialità. Una filosofia per il XXI secolo (il nuovo melangolo, 2016).
Ugo M. Olivieri insegna Letteratura Italiana all’Università Federico II di Napoli. Tra i suoi interessi il romanzo dell’Ottocento e la teoria della letteratura (Lo specchio e il manufatto, Milano 2013). Ha curato l’edizione di vari classici tra cui I. Nievo, Opere II, 2015 presso l’editore Ricciardi). Lavora da vari anni sul tema del dono ed ha curato con A. Lucarelli, Dono e beni comuni, Napoli, 2013 e con R. Luzzi, Comunità e reciprocità. Il dono nel mondo antico e nelle società tradizionali, Napoli 2014.
PURCIDDHUZZI
I DOLCI DI NATALE, L’UNESCO, E LA CULTURA. Una nota a margine *
MAGNIFICO: COMPLIMENTI [ALLA FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO.]. I caratteristici dolci salentini del Natale: purciddhuzzi e cartiddhate [di Massimo Vaglio] Un articolo sapiente - dal basso all’alto e dall’alto al basso. Tutto ben preparato, e da gustare: dai sapori ai saperi, e viceversa.
Questa è cultura - e coltura!!! Da qui, dal grano e dalla farina (e tutto il resto), dall’agri-coltura alla antropologia, e alla teologia - all’ "istituzione Eucaristica": "Un-esco" formidabile, altrimenti si resta sempre e solo nella caverna!
SENZA GRAZIA (gr.: "CHARIS"), non si esce dall’ "inferno": in giro, non ci sono che mercanti e mercantesse (altro che profeti e sibille: si cfr. Armando Polito, Dalla Sibilla ai "carmati.. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/), che pensano a come diventare "nobili" (come certi metalli), con il caro-prezzo e la carestia - e nessun Cristo che sappia e possa istituire Eu-charis-tia!!!
I "purciddhuzzi" e le "cartiddhate" sono proprio dei bei segnavia per un percorso di umanità e solidarietà - e non di dis-umanità e af-far(aon)ismo! - da riprendere e da ripercorre con occhi aperti, innocenti come colombe e prudenti come serpenti (su questo, si cfr. l’art. di Armando Polito, Serpente? Presente! ...http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/ e le note nella "coda", nel "forum").
Per UNA NUOVA ALLEANZA, LA RICETTA c’è - ci vuole solo la buona volontà ...
PER UN BRILLANTISSIMO NATALE - CON TANTISSIMI STRUFFOLI SU OGNI TAVOLA,
MOLTISSIMI AUGURI
Federico La Sala
È generosità nei casi di affetto, intimità, amicizia (la sorella, l’amica). Diverso il gesto della donna che mette il corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti
di Valentina Pazé (il manifesto, 09.01.2016)
Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che - ricordiamolo - ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita - a mia conoscenza - solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.
Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.
La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.
«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).
Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico - e anche un po’ sospetto - appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).
Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che - da Marcel Mauss in avanti - si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?
Il confronto con la donazione del rene - con tutte le differenze del caso - può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.
La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale? In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti.
È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura.
Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici.
Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 15.03.2016)
Nel felice racconto della genitorialità con la gestazione per altri si è trattato con pochi accenni a una parte importante della questione, ovvero il prima dell’impianto dell’embrione. Quel prima non è un pezzo da poco perché riguarda la selezione e l’acquisto del materiale genetico che serve per costruire la nuova vita, ovvero lo sperma e gli ovuli, fondamentali perché determinano le caratteristiche di una persona. La scelta di questi donatori e della portatrice di utero hanno dei costi e si stanno muovendo secondo criteri economici e geografici simili a quelli dei movimenti dei capitali finanziari.
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione. L’invasione del linguaggio e della mentalità del marketing nel mercato dei corpi, perché di questo si tratta, è già avvenuto e basta guardare gli slogan di certe agenzie che ricalcano quelli della promozione di viaggi low cost, come Pacchetto bimbo in braccio, Pacchetto Surrogacy, pacchetto Economy Plus che stabiliscono tariffe diverse secondo i tentativi di fecondazione e le scadenze del compenso.
In questa compravendita lo sperma è la merce che costa di meno. Si va dalle poche centinaia di dollari chiesti da un’agenzia israeliana, ai diversi prezzi che un’agenzia russa paga secondo la nazionalità del donatore/venditore. Per la stessa quantità di liquido seminale a un russo vengono dati meno di 200 euro, mentre a un danese o a uno svedese più di 800. Stessa cosa succede con le donatrici di ovuli. Negli Usa, dove la media per una donazione di ovuli è ricompensata dai 10 ai 15mila dollari, se la donatrice è alta, bionda e ha frequentato Harvard può chiedere un prezzo molto più alto di una donna non laureata.
Anche per le portatrici di utero le tariffe si adeguano a una geografia economica. Un’americana percepisce al massimo 30mila dollari, un’indiana poco più di 5mila, un’ucraina 10mila circa e basta guardare il costo complessivo dell’operazione per farsi un’idea di come si muove questo business. Negli Usa il costo totale di una maternità surrogata può andare dai 150 ai 200mila dollari, in Ucraina dai 30 ai 50mila, in Russia dai 30 ai 65mila dollari. Per offrire prezzi concorrenziali c’è chi si è organizzato con gli stessi criteri della movimentazione dei capitali. E allora ecco agenzie americane che ricorrono a portatrici di utero messicane, o agenzie israeliane che propongono l’inseminazione negli Usa e poi trasferiscono gli embrioni congelati in Nepal dove vengono impiantati nell’utero di donne indiane, per risparmiare.
In «Clinical Labor», libro uscito nel 2014, le ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby analizzano le nuove forme di lavoro bioeconomico come la maternità surrogata. Osservano come il mercato della riproduzione assistita cresce sempre di più espandendosi in servizi e settori dell’industria biomedica. Rivelano come il clinical labor diventerà sempre più rappresentativo delle economie neoliberiste del 21esimo secolo.
C’è chi per pagare un percorso così vende una proprietà, se ce l’ha, o chiede un prestito. Dall’altra parte ci sono donne che si sottopongono a cure ormonali e a una gravidanza conto terzi per comprare una casa o pagare l’università ai figli. Intanto medici, cliniche, agenzie, assicurazioni, ospedali e avvocati vedono crescere il proprio conto in banca. In mezzo c’è il desiderio di un figlio. Viene davvero da chiedersi se un bisogno così ha il diritto di essere esaudito a qualunque costo, letteralmente parlando.
Cent’anni fa l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata sulla generosità
Quando il dono diventò la base dell’economia
di Marino Niola (la Repubblica, 17.12.2015)
Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo.
A scoprire i segreti di questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa, Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato l’internamento in un campo. Ma il giovane Bronislaw riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.
Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica.
Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia. Cose futili e non beni necessari.
E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di scambi che chiamavano kula. Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un boomerang.
Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti.
Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta - e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente “governo della casa” (da oikos abitazione e nomia regola) - conclusero che si trattava di un’assurdità. Un comportamento da tribù primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza guadagnarci nulla.
Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di reciprocità.
Il dono insomma funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai. Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che «l’appartenenza al kula è per sempre».
Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.
Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che “nessuno ti regala niente per niente”. E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere. Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico. Perché quel che regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto.
Come dire che il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno. Non è un caso che le religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico, continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno, fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago.
Altruisti sì, senza esagerare
Il rischio è diventare talebani
Dai geni alle tribù: le ultime scoperte sulla selezione di gruppo
di Maurilio Orbecchi (La Stampa TuttoScienze, 15.07.2015)
«Gli egoisti prevalgono all’interno di gruppi isolati, ma i gruppi che hanno altruisti al loro interno hanno la meglio su quelli nei quali prevalgono gli egoisti. Per questo motivo gli altruisti, in una specie sociale come la nostra, sono tenuti in grande considerazione. Così gli altruisti, nel corso dell’evoluzione, hanno ottenuto molti vantaggi, tra cui l’accesso alla riproduzione, diffondendo ulteriormente l’altruismo». Chi parla, dal suo studio nella Binghamton University dello Stato di New York, è David Sloan Wilson, uno dei più importanti sostenitori della selezione multilivello.
Negli ultimi 150 anni si è molto discusso su quale fosse l’«oggetto» colpito dalla selezione naturale: se il gene, come sostenevano William Hamilton, Richard Dawkins e altri teorici del «gene egoista», oppure gli organismi, i gruppi o persino le specie intere. Ma ora sembra superata la posizione estrema del gene (egoista) come unica unità di selezione. In occasione del 30° anniversario della pubblicazione de «Il gene egoista» lo stesso Dawkins ha infatti aggiustato il tiro, facendo una parziale autocritica e parlando di «gene cooperativo», più che egoista, e di selezione che, quindi, si svolge su due oggetti contemporaneamente: oltre che sul gene, anche sull’organismo nel suo complesso.
David Sloan Wilson, insieme con molti altri evoluzionisti, tra cui il famoso e omonimo entomologo Edward O. Wilson, allargano ancora di più questa visione pluralista, sostenendo che la selezione naturale darwiniana agisce su tutti i livelli di organizzazione della vita biologica e culturale: sui geni e sugli organismi, ma anche su cellule, popolazioni e specie. In particolare è la competizione tra gruppi di individui che spiega l’altruismo, scrive Wilson nel suo «L’altruismo: la cultura, la genetica e il benessere degli altri», appena uscito per Bollati Boringhieri.
Wilson sa bene che in un animale complesso come l’Homo sapiens possono essere presenti motivazioni differenti e che ciò che appare altruistico a livello di azione può invece essere egoistico a livello di pensiero (per esempio per ottenere la salvezza dell’anima o per fissare il proprio ricordo nel mondo terreno). Proprio per non incorrere in simili contestazioni, sceglie quindi di limitare il suo discorso all’altruismo come azione, che è poi l’unica forma di altruismo che davvero interessa agli altri. In questo senso il massimo altruismo è quello che limita la propria probabilità di sopravvivenza per favorire quella di altri. Tuttavia, senza arrivare a questo estremo, «esiste comunque un altruismo cooperativo piuttosto riconoscibile e condivisibile: io mi riferisco a questo - dice Wilson -. Per una persona che ha bisogno di soldi, l’importante è che questi arrivino. Non importa se sono donati per salvarsi l’anima, per diventare famoso come benefattore o per un senso di dovere morale».
Naturalmente anche gli evoluzionisti che non ammettono la selezione multilivello sono consapevoli della presenza di azioni altruistiche nella vita sociale. Esistono infatti altre due teorie per spiegare il fenomeno dell’altruismo in natura: la selezione parentale, ossia il riconoscimento inconsapevole della presenza dei propri geni nei parenti stretti, che sarebbe alla base dell’accudimento della prole (e della sua degenerazione nel nepotismo), e l’altruismo reciproco, una teoria che interpreta le azioni altruistiche come un gioco di crediti che ci si aspetta saranno ricambiati in un secondo tempo.
Wilson ammette entrambe le teorie, ma ritiene che, da sole, queste non siano sufficienti a spiegare la diffusione di forme importanti di altruismo: «Non penso che l’azione di una persona che fa da scudo ad amici o sconosciuti a prezzo della propria vita possa essere spiegata con l’altruismo reciproco e neppure con l’altruismo di parentela. È necessario usare linguaggi diversi per cose diverse. Un unico linguaggio non è sufficiente per descrivere la complessità del mondo».
La teoria della selezione di gruppo, tuttavia, non spiega solo la nascita dell’altruismo, ma anche i conflitti sociali che esistono nella specie umana dall’inizio della storia. Nel corso dell’evoluzione si è passati da una guerra endemica tra tribù, formate da poche decine di persone, a conflitti sociali di ampia portata. Uno dei motivi dell’allargamento dei conflitti sta nel fatto che, nel tempo e grazie ai mezzi di comunicazione, l’identità di gruppo si è estesa a nazioni composte da decine o centinaia di milioni di persone. Se la teoria della selezione di gruppo è vera, non possiamo che aspettarci altre guerre, che tenderanno a scomparire solo quando l’identità di gruppo sarà estesa a tutta l’umanità. Si tratta di un processo in corso, la cui soluzione positiva non è scontata, ma neppure impossibile.
Compendio del Manifesto convivialista
Dichiarazione di interdipendenza *
Mai come oggi l’umanità ha avuto a disposizione tante risorse materiali e competenze tecnico-scientifiche. Considerata nella sua globalità, essa è ricca e potente come nessuno nei secoli passati avrebbe potuto mai immaginare. Non è detto che sia anche più felice. Tuttavia, non c’è nessuno che desideri tornare indietro, poiché ognuno si rende conto che di giorno in giorno si aprono sempre maggiori e nuove potenzialità di realizzazione individuale e collettiva.
Eppure, nonostante ciò, nessuno è disposto a credere che questa accumulazione di potenza possa essere perseguita indefinitamente senza che, in una logica immutata di progresso tecnico, si ritorca contro se stessa e metta a repentaglio la sopravvivenza fisica e morale dell’umanità.
Le prime minacce che incombono su di noi sono di ordine materiale, tecnico, ecologico ed economico. Minacce entropiche. Ma noi siamo molto più impotenti nell’immaginare delle risposte adeguate al secondo tipo di minacce. Alle minacce di ordine morale e politico. A quelle minacce che potremmo definire antropiche.
Il problema numero uno
Sotto i nostri occhi c’è un’evidenza accecante: l’umanità ha saputo realizzare dei progressi tecnici e scientifici sorprendenti, ma resta ancora incapace di risolvere il suo problema fondamentale: come gestire la rivalità e la violenza tra gli esseri umani? Come convincerli a cooperare, pur consentendo loro di contrapporsi senza massacrarsi? Come contrastare l’accumulazione della potenza, ormai illimitata e potenzialmente auto-distruttiva, contro gli uomini e contro la natura?
Se l’umanità non saprà trovare una risposta a questi interrogativi, è destinata a scomparire. E questo proprio quando si sono create tutte le condizioni materiali di un benessere generalizzato, purché si prenda coscienza della loro finitezza.
Abbiamo a disposizione molteplici elementi di risposta, che nel corso dei secoli sono stati apportati dalle religioni, dalle morali, dalle dottrine politiche, dalla filosofia e dalle scienze umane e sociali. Così pure, le iniziative che si muovono in direzione di un’alternativa all’attuale organizzazione del mondo sono innumerevoli, promosse da migliaia e migliaia di organizzazioni o associazioni, e da diecine o centinaia di milioni di persone. Queste iniziative si presentano sotto varie denominazionie ai più diversi livelli: la difesa dei diritti dell’uomo, del cittadino, del lavoratore, del disoccupato, della donna o dei bambini; l’economia sociale e solidale con tutte le sue componenti: le cooperative di produzione o di consumo, la mutualità, il commercio equo, le monete parallele e complementari, i sistemi di scambio locale, le innumerevoli associazioni di mutuo soccorso; l’economia cognitiva dei network (cfr. Linux, Wikipedia, ecc.); la decrescita e ilpost-sviluppo; i movimentislow food,slow town,slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura e l’elogio dellapachamama;l’altermondialismo, l’ecologia politica e la democrazia radicale, gliindignados,Occupy Wall Street; la ricerca di indicatori alternativi di ricchezza, i movimentidella trasformazione personale, della sobrietà volontaria, dell’abbondanza frugale, del dialogo tra le civiltà, le teorie del care, la nuova concezione dei “beni comuni”(commons), ecc.
Perché queste iniziative così ricche possano contrastare con un’adeguata potenza le dinamiche letali del nostro tempo e non siano confinate nel ruolo di mera contestazione o di semplice palliativo, diventa decisivo unire le loro forze e le loro energie. Da qui l’importanza di sottolineare ed enunciare ciò che hanno in comune.
In comune hanno la ricerca di un
convivialismo, di un’arte di vivere insieme (con-vivere) che consenta agli esseri umani di prendersi cura gli uni degli altri e della
Natura, senza negare la legittimità del conflitto, ma trasformandolo in un fattore di dinamismo e di creatività, in uno strumento per scongiurare la violenza e
le pulsioni di morte. Per trovarlo abbiamo urgente bisogno di un corredo dottrinale minimo e condivisibile, che consenta di rispondere contemporaneamente,
ponendole su scala planetaria, almeno a quattro questioni di base (più una):
La questione morale: che cosa è lecito per gli individui sperare e che cosa
devono proibirsi?
La questione politica: quali sono le comunità politiche legittime?
La questione ecologica: che cosa possiamo prendere (d)alla natura e che cosa
dobbiamo restituirle?
La questione economica: quale quantità di ricchezza materiale ci è lecitoprodurre, e in che modo, per essere coerenti con le risposte date alla questione
morale, politica ed ecologica?
Ognuno è libero di aggiungere, se vuole, a queste quattro questioni quella del rapporto con il sovrannaturale o con l’invisibile:la questione religiosa o spirituale. O
la questione del senso.
Considerazioni generali
Il solo ordine sociale legittimo universalizzabile è quello che si ispira ad un principio di comune umanità, di comune socialità, di individuazione, e di un conflitto che bisogna saper tenere sotto controllo e, quindi, creativo.
Principio di comune umanità: al di là delle differenze del colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, c’è una sola umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri.
Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali per i quali la ricchezza più grande è la ricchezza dei loro rapporti sociali.
Principio di individuazione: nel rispetto di questi due primi princìpi, la politica legittima è quella che consente ad ognuno di affermare nel modo migliore la sua peculiare individualità in divenire, sviluppando la sua potenza di essere e di agire senza nuocere a quella degli altri.
Principio del conflitto tenuto sotto controllo e creativo: poiché ognuno tende a manifestare la propria peculiare individualità, è naturale che gli esseri umani possano contrapporsi gli uni agli altri. Ma è legittimo farlo solo nella misura in cui ciò non mette in pericolo il quadro della comune socialità che rende feconda e non distruttiva una tale rivalità.
Da questi princìpi generali discendono alcune:
Considerazioni morali
Ciò che ad ogni individuo è lecito sperare è di vedersi riconoscere un’eguale dignità con tutti gli altri esseri umani, di accedere alle condizioni materiali che gli permettano di realizzare la sua concezione della vita buona, nel rispetto delle concezioni degli altri. Ciò che non gli è consentito è di travalicare nella dismisura (la hubris dei Greci), cioè di violare il principio di comune umanità e di mettere a rischio la comune socialità. Concretamente, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione.
Considerazioni politiche
Nella prospettiva convivialista, uno Stato, un governo o un’istituzione politica nuova possono ritenersi legittimi solo se: - rispettano i quattro princìpi - di comune umanità, di comune socialità, di individuazione e del conflitto tenuto sotto controllo - e se promuovono la realizzazione delle considerazioni morali, ecologiche ed economiche ad essi collegate. Più specificamente, gli Stati legittimi garantiscono a tutti i loro cittadini più poveri un minimo di risorse, un reddito di base, quale che sia la sua forma, che li ponga al riparo dall’abiezione della miseria, e impediscono progressivamente ai più ricchi, attraverso l’instaurazione di un reddito massimo, di sprofondare nell’abiezione dell’estrema ricchezza oltrepassando un livello che vanificherebbe i princìpi di comune umanità e di comune socialità.
Considerazioni ecologiche
L’Uomo non può ritenersi padrone e possessore della Natura, e ciò sulla base del presupposto che, lungi dall’opporvisi, deve trovare con essa, almeno metaforicamente, una relazione di dono/controdono. Per lasciare alle generazioni future un patrimonio naturale protetto, deve, dunque, restituire alla Natura quanto o più di quello che egli prende o riceve da lei. saggi
Considerazioni economiche
Non esiste una correlazione accertata tra ricchezza monetaria o materiale da un lato e felicità o benessere dall’altro. La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita. Perciò, è urgente, in una prospettiva di economia plurale, costruire un equilibrio tra Mercato, economia pubblica ed economia di tipo associazionistico (sociale e solidale), a seconda che i beni o i servizi da produrre siano individuali, collettivi o comuni.
Che fare ?
Non bisogna nascondersi che occorrerà affrontare potenze enormi e formidabili, sia finanziarie che materiali, tecniche, scientifiche, intellettuali, militari e
criminali. Contro queste potenze colossali e spesso invisibili o non localizzabili,
le tre armi principali saranno:
L’indignazione
di fronte alla dismisura e alla corruzione, e la
vergogna
che
è necessario far sentire a coloro che direttamente o indirettamente, in modo
attivo o passivo, violano i princìpi di comune umanità e di comune socialità.
Il sentimento di appartenere ad una comunità umana mondiale.
Al di là delle «scelte razionali» degli uni verso gli altri, la mobilitazione
degli affetti e delle passioni.
Rottura e transizione
Ogni politica convivialista concreta e applicata dovrà necessariamente tenerconto:
dell’imperativo di giustizia e di comune socialità, che implica la riduzione
progressiva delle diseguaglianze clamorose che a partire dagli anni Settanta
sono esplose in tutto il mondo tra i più ricchi e il resto della popolazione.
dell’esigenza di prendersi cura dei territori e dei luoghi, cioè di riterritorializzare e rilocalizzare ciò che la globalizzazione ha smisuratamente esternalizzato.
L’assoluta necessità di tutelare l’ambiente e le risorse naturali.
L’obbligo incondizionato di eliminare la disoccupazione e di offrire a ciascuno una funzione e un ruolo riconosciuti in attività utili alla società.
La traduzione del convivialismo in risposte concrete significa articolare, situazione per situazione, le risposte a partire dall’urgenza di migliorare le condizioni di vita degli strati popolari e di costruire un’alternativa al modo di vita attuale, così gravido di minacce di ogni tipo. Un’alternativa che smetta di far credere che la crescita economica illimitata possa essere ancora la risposta a tutti i nostri mali.
Claude Alphandéry, Geneviève Ancel, Ana Maria Araujo (Uruguay), Claudine Attias-Donfut, Geneviève Azam, Akram Belkaïd (Algérie), Yann Moulier-Boutang, Fabienne Brugère, Alain Caillé, Barbara Cassin, Philippe Chanial, Hervé Chaygneaud-Dupuy, Eve Chiapello, Denis Clerc, Ana M. Correa (Argentine), Thomas Coutrot, Jean-Pierre Dupuy, François Flahault, Francesco Fistetti (Italie), Anne-Marie Fixot, Jean-Baptiste de Foucauld, Christophe Fourel, François Fourquet, Philippe Frémeaux, Jean Gadrey, Vincent de Gaulejac, François Gauthier (Suisse), Sylvie Gendreau (Canada), Susan George (États-Unis), Christiane Girard (Brésil), François Gollain (Royaulme Uni), Roland Gori, Jean-Claude Guillebaud, Paulo Henrique Martins (Brésil), Dick Howard (États-Unis), Marc Humbert, Éva Illouz (Israël), Ahmet Insel (Turquie), Geneviève Jacques, Florence Jany-Catrice, Zhe Ji (Chine), Hervé Kempf, Elena Lasida, Serge Latouche, Jean-Louis Laville, Camille Laurens, Jacques Lecomte, Didier Livio, Gus Massiah, Dominique Méda, Margie Mendell (Canada), Pierre-Olivier Monteil, Jacqueline Morand, Edgar Morin, Chantal Mouffe (Royaume Uni), Osamu Nishitani (Japon), Alfredo Pena-Vega, Bernard Perret, Elena Pulcini (Italie), Ilana Silber (Israël), Roger Sue, Elvia Taracena (Mexique), Frédéric Vandenberghe (Brésil), Patrick Viveret.
Scenari. Un manifesto di studiosi invoca più solidarietà e più attenzione alla natura. Senza demonizzare conflitto e mercato
Convivialità. L’alternativa all’utilitarismo
Privilegiare legami sociali e condivisione. L’uomo non è una macchina calcolatrice
di Adriano Favole (Corriere della Sera - La Lettura, 29,06,2014)
Che cosa hanno in comune quelle migliaia o forse decine di migliaia di associazioni, movimenti, organizzazioni che si battono oggi in ogni continente per la cura e la salvaguardia del mondo e dell’umanità? Che cosa unisce i promotori delle economie sociali e solidali, i difensori dei diritti dell’uomo, della donna e dei lavoratori, gli inventori dei sistemi di scambio locale (dalle banche del tempo alle varie forme di volontariato), la rivendicazione del buen vivir, la ricerca di indicatori di ricchezza alternativi al Pil, Slow Food e gli Indignados, i promotori della sobrietà volontaria e i difensori dei beni comuni? Viviamo un’epoca caratterizzata da minacce incombenti: il riscaldamento globale, la crescita delle diseguaglianze e della disoccupazione, il proliferare delle mafie e della corruzione. L’insicurezza pervade una contemporaneità che spesso reagisce trasformando la sicurezza in un’ossessione. Il crollo dei sistemi politici del passato non è supportato da forme di immaginazione che ci aiutino a trovare nuove vie del vivere insieme in società di grandi dimensioni.
Viviamo però, ugualmente, un’epoca di speranze e di promesse: la democrazia si diffonde ovunque e anima movimenti contro i dittatori e contro la finanziarizzazione del mondo; le tecnologie informatiche promettono una maggior condivisione e partecipazione ai saperi e un accesso partecipato al potere; la ricerca mette a punto nuovi ed efficaci strumenti per la «transizione ecologica » verso forme di economia sostenibile.
È a partire da queste premesse e su proposta del sociologo francese Alain Caillé che un nutrito gruppo di intellettuali appartenenti a università e centri di ricerca americani, asiatici, mediorientali ed europei ha redatto e sottoscritto il Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza, uscito di recente in Italia per le edizioni Ets. Tra i firmatari ci sono Edgar Morin e Serge Latouche, tra gli italiani Francesco Fistetti (autore di una lunga postfazione al Manifesto) ed Elena Pulcini.
«Convivialismo» è un neologismo coniato ad hoc, un termine che si vuole simbolo e bandiera di un filo capace di unire le pezze di un patchwork variegato e tuttavia forte e resistente. I convivialisti promuovono «l’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizza la relazione e la cooperazione e che permette di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura ». Se il Manifesto convivialista fosse stato redatto in italiano, forse i suoi promotori avrebbero scelto come nomi-simbolo il «con-vivere», il «con-dividere», la «con-vivenza» o un neologismo come «con-dividersi»: uno insomma di quei numerosi termini del «con-» che enfatizzano nella nostra lingua il «noi» piuttosto che l’«io», la relazione piuttosto che l’individualità. L’interdipendenza, richiamata nel sottotitolo del Manifesto, esprime una concezione relazionale della persona. Una concezione diffusa nell’humus culturale in cui il testo ha preso forma, quella del «Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali», il cui acronimo (Mauss), riproduce il cognome di quel Marcel Mauss che novant’anni fa diede alle stampe il Saggio sul dono (Einaudi), svelando o ricordando all’Occidente l’esistenza di una logica economica alternativa o complementare a quella del mercato. Proprio all’inizio degli anni Ottanta, Caillé (Il terzo paradigma, Bollati Boringhieri, 1998) fu tra i fondatori del Mauss, che non ha mai cessato di perseguire una terza via da affiancare allo Stato e al mercato.
I convivialisti non sono contro il mercato e la loro ricerca di una miglior cura dell’umanità e del mondo non prescinde dal conflitto. «Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune umanità e di comune socialità, e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche». Quattro sono i principi che, nella filosofia dei convivialisti, dovrebbero animare la buona politica. Il principio di comune umanità afferma che esiste una sola umanità che deve essere rispettata nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze di colore della pelle, nazionalità, genere, ricchezza ecc. Il principio della comune socialità afferma che la più grande ricchezza dell’umanità sono i rapporti sociali. Il principio di individuazione è quello che permette a ciascuno di sviluppare la «propria singolare individualità in divenire». Infine, il principio di opposizione controllata è quello che permette agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto.
In questo quadro il problema non è costituito dal mercato in sé: la madre di tutte le minacce che oggi affliggono l’umanità è piuttosto il neoliberismo, ovvero la mostruosa e indebita estensione dell’economia, della competizione e della ricerca del profitto individuale a (praticamente) tutte le sfere dell’agire umano. A partire dagli anni Settanta, la scienza economica e la sua creatura fittizia (l’homo oeconomicus) ha «cominciato ad estendere la validità potenziale delle sue spiegazioni all’integralità delle attività umane». Le complesse motivazioni che spiegano l’agire umano sono state ipersemplificate e ridotte al solo perseguimento dell’interesse individuale. Se «niente è fatto per senso del dovere, per solidarietà o per il gusto di un lavoro ben fatto e il desiderio di creare, allora non restano da attivare che le “motivazioni estrinseche”, ovvero il gusto del guadagno e della promozione gerarchica». Se arricchirsi è il primo scopo legittimo, se l’homo oeconomicus coincide con la natura umana, come stupirsi davanti al trionfo della finanza, ai paradisi fiscali, al dilagare della corruzione politica? Il fantasma della scienza economica diffusa a ogni livello della realtà ha colonizzato il mondo.
La madre di tutte le minacce è ugualmente rappresentata dall’idea che l’umanità possa perseguire una crescita economica infinita. Anche se Serge Latouche è tra i firmatari del Manifesto, i convivialisti in realtà non sono sostenitori della decrescita. Si tratta piuttosto di immaginare delle democrazie post-crescita: per promuovere l’uguaglianza di opportunità, il ben-vivere e la libertà di un crescente numero di persone nel mondo non ci si può più affidare al sogno di una crescita infinita che rischia di trasformarsi nel peggior incubo dell’umanità. Altre sono le ricette che i convivialisti cucinano per un rinnovamento della politica e dell’umanità: prima fra tutte una migliore distribuzione delle risorse attraverso l’adozione di un salario minimo e di un profitto massimo. In secondo luogo l’uso di nuove tecnologie al servizio della «transizione ecologica»; e ancora la considerazione delle reti telematiche come beni comuni accessibili a tutti. Il web, come l’acqua e l’aria che respiriamo, dovrebbe essere destinato a divenire in breve tempo uno dei commons sottratti alle dinamiche del mercato.
È insomma un ben-vivere a crescita zero quello che i convivialisti auspicano, insistendo sulla necessità di instaurare con la Natura un rapporto improntato alla logica maussiana del dono e della reciprocità. La relazione di dono e contro-dono dovrebbe esercitarsi soprattutto nei confronti degli animali, i quali «non devono più essere considerati come materiale industriale».
Espressione della corrente progressista, ma moderata, del Mauss, i firmatari del Manifesto non sono sognatori idealisti. Il conflitto, scrivono, è parte integrante delle relazioni sociali. Esso «esiste necessariamente e naturalmente in ogni società». Il problema però, ancora una volta, è che la svolta neoliberista degli anni Settanta ha trasformato il conflitto in una hybris incontrollata. L’aspirazione di ogni essere umano a vedersi riconosciuto nella sua singolarità si è tradotta nell’idea che comunque e dovunque l’uomo persegua il proprio interesse individuale (l’homo oeconomicus) o comunque un potere inteso come relazione gerarchica diffusa (l’homo strategicus che popola le narrazioni foucaultiane e agambeniane della contemporaneità).
Che fare dunque per valorizzare le ricchezze umane come la gratuità, la creatività, le relazioni con gli altri? Occorre indignarsi per la dismisura con cui alcuni perseguono il profitto attraverso la corruzione; rafforzare la consapevolezza di non essere soli, ma che ormai una comunità mondiale si batte per un mondo umanizzato («siamo il 99%», gridavano i giovani di Occupy Wall Street); occorre valorizzare la mobilitazione degli affetti e delle passioni, contro i cupi teorici delle «scelte razionali ». Su queste basi, concludono gli estensori del Manifesto, «sarà possibile per quelli che si riconoscono nei principi del convivialismo influenzare radicalmente i giochi politici istituiti e sviluppare tutta la loro creatività per inventare altre maniere di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di sognare». Serviva un nuovo Manifesto per indebolire il virus pan-economico che vaga per il mondo e cucire insieme le motivazioni di coloro che vi si oppongono, contribuendo a rafforzare la coscienza di appartenere a una comunità globale di antiutilitaristi? Forse sì, anche perché, come scriveva profeticamente Marcel Mauss nel Saggio sul dono, «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell’uomo un “animale economico”. Ma ancora non siamo diventati tutti esseri di questo genere. (...) L’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».
A PIENE MANI dono dis-interesse beni comuni
Una discussione su “Il Manifesto del Convivialismo”:
intervento di Laura Pennacchi
un intervento di Fabio Ciaramelli
un commento di F. Fistetti
il richiamo
Nel discorso rivolto ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, il Pontefice ha ricordato che, «quando i responsabili del bene comune rispettano il naturale desiderio umano di autogoverno, lasciano spazio alla responsabilità
Benedetto XVI ha indicato in dignità della persona umana, bene comune, sussidiarietà e solidarietà, le realtà chiave della dottrina sociale per affrontare gli imperativi dell’umanità nel XXI secolo «Una società che onora il principio di sussidiarietà libera le persone dal senso di sconforto e di disperazione, garantendo loro la libertà di impegnarsi reciprocamente nelle sfere del commercio, della politica e della cultura»
Il Papa: 4 principi fondamentali per fare un mondo più giusto
Dignità della persona umana, bene comune, sussidiarietà, solidarietà. Sono i quattro «principi fondamentali della dottrina sociale cattolica», da riaffermare per affrontare «gli imperativi dell’umanità all’alba del XXI secolo». È quanto ha ribadito ieri Benedetto XVI, nel discorso rivolto ai partecipanti alla Sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, del quale pubblichiamo di seguito ampi stralci. *
Nella scelta del tema «Perseguire il bene comune: come solidarietà e sussidiarietà possono operare insieme» avete deciso di esaminare l’interrelazione fra quattro principi fondamentali della dottrina sociale cattolica (...). Queste realtà chiave, che emergono dal contatto diretto fra il Vangelo e le concrete circostanze sociali, costituiscono una base per individuare e affrontare gli imperativi dell’umanità all’alba del XXI secolo, come la riduzione delle ineguaglianze nella distribuzione dei beni, l’estensione delle opportunità di educazione, la promozione di una crescita e di uno sviluppo sostenibili e la tutela dell’ambiente.
In che modo la solidarietà e la sussidiarietà possono operare insieme nella ricerca del bene comune in un modo che non solo rispetti la dignità umana, ma le permetta anche di prosperare? Questo è il fulcro del problema che vi interessa. Come hanno già dimostrato i vostri dibattiti preliminari, una risposta soddisfacente potrà emergere solo dopo un attento esame del significato dei termini (cfr Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, capitolo 4). La dignità umana è un valore intrinseco della persona creata a immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo.
L’insieme delle condizioni sociali che permettono alle persone di realizzarsi collettivamente e individualmente è il bene comune. La solidarietà è la virtù che permette alla famiglia umana di condividere in pie- nezza il tesoro dei beni materiali e spirituali e la sussidiarietà è il coordinamento delle attività della società a sostegno della vita interna delle comunità locali.
Tuttavia, queste definizioni non sono che l’inizio e possono essere comprese adeguatamente solo se vengono collegate organicamente le une alle altre e considerate di sostegno reciproco. All’inizio possiamo tratteggiare le interconnessioni fra questi quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la «solidarietà » e la «sussidiarietà», e uno verticale, che rappresenta il «bene comune». Ciò crea un campo su cui possiamo tracciare i vari punti della dottrina sociale cattolica che formano il bene comune.
Sebbene questa analogia grafica ci offra un’immagine approssimativa di come questi principi siano imprescindibili gli uni dagli altri e necessariamente interconnessi, sappiamo che la realtà è più complessa. Infatti, le profondità insondabili della persona umana e la meravigliosa capacità dell’umanità di comunione spirituale, realtà queste pienamente dischiuse solo attraverso la rivelazione divina, superano di molto la possibilità di rappresentazione schematica. In ogni caso, la solidarietà che unisce la famiglia umana e i livelli di sussidiarietà che la rafforzano dal di dentro devono essere posti sempre entro l’orizzonte della vita misteriosa del Dio Uno e Trino (cfr Gv 5, 26; 6, 57) (...) Amici, vi invito a permettere a questa verità fondamentale di permeare le vostre riflessioni: non solo nel senso che i principi di solidarietà e di sussidiarietà sono indubbiamente arricchiti dal nostro credere nella Trinità, ma in particolare nel senso che tali principi hanno la potenzialità di porre uomini e donne lungo il cammino che conduce alla scoperta del loro destino ultimo e soprannaturale (...) Quando esaminiamo i principi di solidarietà e di sussidiarietà alla luce del Vangelo, comprendiamo che non sono semplicemente «orizzontali»: entrambi possiedono un’essenziale dimensione verticale. Gesù ci esorta a fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr Lc 6, 31), ad amare il nostro prossimo come noi stessi (cfr Mt 22, 35). Questi comandamenti sono iscritti dal Creatore nella natura stessa umana (cfr Deus caritas est, n. 31). Gesù insegna che questo amore ci esorta a dedicare la nostra vita al bene degli altri (cfr Gv 15, 12-13). In questo senso la solidarietà autentica, sebbene cominci con il riconoscimento del pari valore dell’altro, si compie solo quando metto volontariamente la mia vita al servizio dell’altro (cfr Ef 6, 21). Questa è la dimensione «verticale» della solidarietà: sono spinto a farmi meno dell’altro per soddisfare le sue necessità (cfr Gv 13, 14-15), proprio come Gesù ’si è umiliato’ per permettere agli uomini e alle donne di partecipare alla sua vita divina con il Padre e lo Spirito (cfr Fil 2, 8; Mt 23, 12).
Parimenti, la sussidiarietà, che incoraggia uomini e donne a instaurare liberamente rapporti donatori di vita con quanti sono loro più vicini e dai quali sono più direttamente dipendenti, e che esige dalle più alte autorità il rispetto di tali rapporti, manifesta una dimensione «verticale» rivolta al Creatore dell’ordine sociale (cfr Rm 12, 16, 18). Una società che onora il principio di sussidiarietà libera le persone dal senso di sconforto e di disperazione, garantendo loro la libertà di impegnarsi reciprocamente nelle sfere del commercio, della politica e della cultura (cfr Quadragesimo anno, n. 80).
Quando i responsabili del bene comune rispettano il naturale desiderio umano di autogoverno basato sulla sussidiarietà, lasciano spazio alla responsabilità e all’iniziativa individuali, ma, soprattutto, lasciano spazio all’amore (cfr Rm 13, 8; Deus caritas est, n. 28), che resta sempre la «via migliore di tutte» (1 Cor 12, 31).
Nel rivelare l’amore del Padre, Gesù ci ha insegnato non solo come vivere da fratelli e sorelle qui, sulla terra, ma anche che egli stesso è la via verso la comunione perfetta fra noi e con Dio nel mondo che verrà (...). Mentre vi adoperate per elaborare modi in cui uomini e donne possano promuovere al meglio il bene comune, vi incoraggio a sondare le dimensioni «verticale » e «orizzontale» della solidarietà e della sussidiarietà. In tal modo, potrete proporre modalità più efficaci per risolvere i molteplici problemi che affliggono l’umanità alla soglia del terzo millennio, testimoniando anche il primato dell’amore, che trascende e realizza la giustizia in quanto orienta l’umanità verso la vita autentica di Dio (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004).
* Avvenire, 04.05.2008