STORIA E STORIOGRAFIA. Nel 1723, a Napoli, Giambattista Vico già lavora alacremente alla "Scienza Nuova"; per lui, è più che chiaro: "charus" e "charitas" derivano etimologicamente dai termini greci "charìeis" e "charis", e il significato inequivocabile dell’uno è di "grazioso", "amabile", e dell’altro "grazia", "amore di Dio". Nel 1723, a Modena, Ludovico Antonio Muratori , pubblica il "Trattato della carità cristiana,in quanto essa è l’amore del prossimo": un’opera volta sostenere sul piano teorico la "Compagnia della Carità", un’istituzione di assistenza civile di cui si era fatto iniziatore.
Nell’affrontare il tema ha commesso "uno sproposito majuscolo": ha usato la parola latina "caritas", e non la parola d’origine greca "charitas", e l’ha fatta scrivere a caratteri cubitali nella Chiesa della Pomposa di Modena. Molte le critiche, ovviamente!
Colpito nell’onore, Muratori evidentemente non può non rispondere! Ma, invece di accettare le critiche e correre ai ripari, nella "Prefazione ai lettori" attacca e difende il suo (e di tutta la Chiesa cattolica) diritto all’uso del termine "caritas" (per continuare a significare contemporaneamente ed equivocamente e la "carestia", il "caro-prezzo", e l’ "Amore di Dio"). Così ancora oggi, fino a Benedetto XVI e a tutta la gerarchia e le Accademie Pontificie del mondo cattolico-romano: "Deus caritas est"!
Nel 1735, Muratori pubblicò “La Filosofia morale”: nel 1737, Vico, “scrivendo all’arcivescovo di Bari Muzio Gaeta, mentre paragonava l’opera ai trattati dello Sforza Pallavicino, del Malebranche, del Pascal e del Nicole, soggiungeva non essere il Muratori riuscito a dare quel sistema di morale cristiana dimostrata, che pure si era proposto” (Cfr. Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, vol. II, pp.804-905).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
GESU’ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").(Federico La Sala)
LA PAURA DEL CIELO: "Nell’orfanotrofio si infliggeva il bene e l’elemosina. Quell’elemosina che non fa che perpetuare la miseria. Si erano inselvatichiti, non provavano affetto per nessuno" (Fleur Jaeggy, 1998).
TRATTATO SULLA CARITA’ CRISTIANA
PREFAZIONE AI LETTORI
di LUDOVICO A. MURATORI *
[...] Prima nondimeno d’introdurre i Lettori nel Trattato ch’io loro presento intorno alla Carità bisogna anche soddisfare ad alcuni pochi i quali troveran qui uno sproposito majuscolo, e tale al loro intendimento, che invece di badare alla sostanza del libro, si perderanno forse unicamente a parlar di questo mio errore. Cioè troveranno qui scritto costantemente Caritas, e diranno: ve’ come costui non è giunto per anche ad apprendere cosa significhi nel linguaggio latino la parola Caritas? Lo sanno pur anche i novizzi delle scuole che questo vuol dire Carestìa; laddove il santo Amore di Dio si ha da scrivere Charitas. E però si meraviglieranno, e Dio sa se mi useranno molta Carità per un fallo sì grosso. Io potrei assai più maravigliarmi di loro, perchè pascano di siffatte bagatelle i propri elevati ingegni; nè avrei pensato a far parola di questa inezia, se il rumore che ho detto soprastarmi non fosse già succeduto; dappoiché alcuni lessero scritta nella chiesa della Pomposa di Modena, per ordine mio, a lettere cubitali, la parola Caritas senza l’h.
Dico pertanto non vietar io a chicchessia lo scrivere come lor par bene questa parola; ma dover eglino altresì permettere a me di scriverla, come io credo, meglio di loro; cioè secondo l’ortografia degli antichi scrittori della lingua latina, e de’ più accreditati fra i moderni.
Imperocchè egli è vero che ne’ secoli rozzi, caduta già essa lingua latina, venne in pensiero ad alcuni di scrivere Charitas, per timore che comparendo scritta nella stessa maniera la Dilezione di Dio e la Carestìa, non ne avvenissero degli equivoci; e trovato quest’uso, l’approvarono Frate Ambrosio da Calepio, il Nizolio, Roberto Stefano ed altri valentuomini, perchè essi non si posero ad esaminare cotali minuzie: ma altri più attenti, e quegli specialmente, che han preso in questi due ultimi secoli a depurare l’ortografia latina, non si son già creduti obbligati di stare a quest’uso: ecco le ragioni loro.
Primieramente non viene Caritas dal greco Charis, onde le s’abbia da conservare l’h, ma sì bene dal latino Carus, essendo la prima sillaba di Caris, breve; laddove la prima di Carus e Caritas, è lunga. E in fatto, la parola Carus, o significasse cosa amata, o si adoperasse per indicare una cosa rara, e che costì molto soleva scriversi dagli antichi senza l’h, siccome apparisce dai vecchi marmi, dalle medaglie antiche e da tanti manoscritti, e massimamente dalle Pandette Fiorentine, e dal Virgilio della Vaticana, e da altri codici di veneranda antichità, ne’ quali troviamo ancora Karus, e Karissimus; segno evidente, che in questo vocabolo non entrava il Chi dei greci, ma il C latino, corrispondente al greco Kappa.
Secondariamente non sussiste il timore d’equivoco alcuno, facendo la concatenazione dei sentimenti assai intendere, anche oggidì, quando si parli di Carestìa o pure d’Amor di Dio; siccome s’intende il Caro degl’italiani egualmente scritto, benché abbia due significati diversi.
Pertanto Pier Vettori, il Faerno, Fulvio Orsino, Paolo ed Aldo Manuzj, il Dausquio, ed altri valentuomini, amarono meglio di scrivere Carus, o Caritas senza l’h; e fra gli altri il nostro Modenese monsig. Gio: Battista Scanaroli vescovo di Sidonia, dopo aver trattata in un capitolo apposta la questione presente fa menzione anch’egli degli scrittori più accurati che scrivono Caritas, parlando dell’ amore di Dio; alla sentenza de quali, dice egli, come a più vera anch’io mi sottoscrivo, con allegare ancora le edizioni della sacra scrittura, e di vari santi padri fatte dal cardinale Caraffa e dal Bandino, colle stampe Vaticane, non si legge altro che Caritas. Per finirla, quei letterati che a nostri tempi sono stati o sono in maggior credito di sapere e di accuratezza, non altrimenti scrivono.
Basterà a me di nominare i celebratissimi monaci Benedettini della congregazione di S. Mauro cioè i PP. Mabillone, Montfaucon, Ruinart, Martene, e gli altri loro colleghi , e i famosissimi PP. della compagnia di Gesù, che in Anversa continuano la grande opera degli atti de santi cioè i PP. Bollando, Enschenio, Papebrochio, Janningo e i loro colleghi, e il celebre P. Jacopo Sirmondo, d’essa compagnia nella bella raccolta delle sue opere, fatta dal P. Jacopo De-La-Baune; e Gio: Battista Cotelerio, e il Du Cange, e Stefano Baluzio, e Giovanni Fello nell edizione di S. Cipriano, per tacere di tanti altri. E giacché si vuol pure citar qui il dizionario di frate Ambrosio da Calepio, veggasi l’edizione fattane colle correzioni che portano il nome del dottissimo Giovanni Passerazio, e si leggerà ivi Carus e Caritas, tanto per significare l’Amore, quanto la Carestìa; e notate ancora, che: satius erit utrumque sine aspiratone scribere, quum dictiones sint prorsus latinae.
Lasciamo ormai questa frivola contesa, e concludiamo che nulla importa lo scrivere più nell’una maniera, che nell’altra il santo nome della Carità nelle morte carte; ma che sì bene ha da importare assaissimo, anzi sopra tutte le cose, al cristiano, lo scrivere ed imprimere nel suo cuore viva questa mirabil virtù, e il praticarla nelle operazioni sue: del resto io non ho trattato qui, se non di quella parte della Carità, che riguarda al prossimo nostro, perchè ho voluto servire alle idee, e al bisogno della sacra compagnia di questo nome, che si è eretta dalla principale nobiltà di Modena nella chiesa parrocchiale di S. Maria della Pomposa, affinchè la medesima abbia meglio sotto gli occhi le varie vie di dar gusto a Dio nell’ esercizio del santo amore verso il prossimo nostro, e delle opere della misericordia.
Per altro, se Dio volesse concedermi ancora agio, sanità e vita, mio desiderio sarebbe di trattare un giorno dell’altra parte della Carità Cristiana, cioè dell’Amore immediato di Dio; siccome parimente delle altre due celesti virtù, Fede e Speranza; allo studio, possesso e pratica delle quali virtù, più che ad altro, si dovrebbe applicare ogni Fedele. Quando non piaccia all’Altissimo di concedermi tal grazia, il prego ora, che metta questo pensiero in cuore d altre persone più abili che non son io, acciocché sempreppiù sia onorata, glorificata e servita la sua Bontà infinita, col conoscimento e colla pratica di quelle virtù che a lui son più care, e più importanti a chi si professa suo servo e figliuolo.
Finalmente, in trattare la presente materia, ho creduto bene di volgarizzare i passi delle Divine Scritture, dei santi Padri, e d altri autori da me citati; perchè qualora dee istruirsi il popolo, per lo più non intelligente del latino, non è di dovere che si sottragga a lui ciò eh è il nerbo migliore d un libro. Che se in rapportare nel nostro idioma le sacrosante parole dei libri divini, mi sarò talvolta servito di qualche parafrasi, l’ho anche fatto per maggior comodo dei pochi intendenti; ma senza punto scostarmi dall’interpretazione dei sacri espositori.
Così han fatto i migliori in simili casi; e tutto va al fine di far ben capire la verità e la ragione, anche ai men dotti. Più vantaggio ancora che dal mio libro, sarà da sperare se il popolo da qui innanzi udirà da pergami ben trattate simili verità [...]
* Si cfr.: Ludovico A. Muratori, Trattato sulla carità cristiana, in quanto essa è l’amore del prossimo, "Prefazione ai lettori", pp. xi-xvi.
AL DI LA’ DEL MARXISMO VOLGARE E DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (ED HEGELIANO)! Imperativo assoluto, categorico (di Kant, non di Eichmann!): rovesciare tutti i rapporti nei quali l’essere umano è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole (fls):
La religione "è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera...
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale...
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi....
La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole" (Cfr.: K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre ( Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica. Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
QUALE CRISTIANESIMO, QUELLO DELLA "CHARITAS" EVANGELICA O DELLA "CARITAS" COSTANTINIANA?! *
Senza dono società fragile. Giornata (e realtà e dati) su cui riflettere
di Leonardo Becchetti (Avvenire, venerdì 4 ottobre 2019)
Il dono non svolge affatto un ruolo marginale nel sistema sociale ed economico contemporaneo, e la ricerca sociale ci conferma che è e resta l’architrave della qualità delle relazioni all’interno di organizzazioni sociali e produttive ed è una componente fondamentale della soddisfazione di vita.
Ieri, alla vigilia della Giornata nazionale del dono, sono state presentate stime aggiornate che parlano di una crescita delle somme donate e delle donazioni di carattere informale in Italia assieme, però, a una marcata difficoltà delle donazioni orientate alla cooperazione allo sviluppo: le organizzazioni operanti in questo settore che dichiarano di aver aumentato i fondi raccolti rispetto all’anno precedente sono scese dal 43 al 23%.
Un dato, quest’ultimo, che misura gli effetti della ben nota campagna politico-mediatica, costruita soprattutto sui social, che negli ultimi tempi ha stravolto e trasformato quasi nel loro opposto i significati delle parole e degli atti di bontà, accoglienza e solidarietà. Una campagna organizzata con metodi manipolativi degli stessi social media e dalla quale il mondo del Terzo settore è stato colto di sorpresa, tardando a reagire con una risposta collettiva. Ma questo vuol semplicemente dire che la sfida è più che mai aperta.
C’è poco da cantar vittoria, infatti, anche da parte di chi ha armato quell’aspra campagna. Perché svilire e sottovalutare il valore del dono può produrre effetti devastanti in una società, finisce per snaturarne l’identità e per infragilirla.
George Akerlof ha vinto il Nobel per l’Economia spiegandoci come i meccanismi di scambio di doni (gift exchange) all’interno di organizzazioni produttive cementino la squadra e rinforzino le motivazioni intrinseche dei dipendenti.
Il Rapporto 2019 sul Dono in Italia segnala, non per nulla, la forte crescita del volontariato aziendale come strumento di rafforzamento della squadra di lavoro, delle motivazioni intrinseche dei dipendenti e del senso della loro presenza all’interno dell’azienda.
E i risultati del Rapporto mondiale sulla Felicità identificano nella "gratuità" una delle sei variabili chiave che spiegano il 75% delle differenze di soddisfazione di vita tra Paesi. Il Rapporto italiano sul dono conferma questa realtà, sottolineando come chi dona è più soddisfatto della propria vita, ha una visione più positiva del futuro e crede maggiormente nell’efficacia trasformativa di gesti anche piccoli.
Ma ci può essere innovazione nel dono in grado di renderlo più efficace? L’analisi delle buone pratiche presenti nel nostro Paese (indagate lungo il percorso delle Settimane Sociali dei cattolici) nonché il lavoro di laboratorio con gli imprenditori che si propongono di coniugare creazione di valore economico con responsabilità sociale ed ambientale suggeriscono una risposta assolutamente positiva a questa domanda.
Come ricordano gli antichi, il dono è tuttavia ambivalente e non privo di insidie. Escludendo quei meccanismi pseudo-mafiosi dove esso obbliga a una contropartita, l’insidia principale nella società odierna è quella del dono che umilia perché trasforma il ricevente in mero terminale passivo del nostro obolo. Un padre conciliare come Jean Danielou amava dire paradossalmente «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio» avendo bene a mente che, se siamo felici nel dare, chi è nel bisogno può acquisire dignità ed essere felice solo se messo anche lui in condizioni di dare.
Per questo esperienze innovative come quelle degli Empori Solidali non si limitano a raccogliere dalla grande distribuzione prodotti ancora commestibili eppure non più vendibili per ridistribuirli a famiglie bisognose, ma trasformano piuttosto queste famiglie e i loro componenti in membri di un’associazione.
Dove si coltiva l’orgoglio di poter contribuire all’opera sociale con il proprio lavoro e si costruiscono rapporti di reciprocità e solidarietà tra gli stessi associati. Le nuove piattaforme digitali consentono di raccogliere tanto da pochi, rendendo potenzialmente molto più efficaci le tradizionali collette (crowdfunding), stimolando la capacità di comunicare e raccontare la propria storia che si trova a competere con tante altre storie alternative. Nascono così i ’ broker’ dello spreco (AvanziPopolo è un bell’esempio a Bari) che mettono in contatto eventi e luoghi potenziali dello spreco (ricevimenti, banchetti, ristoratori) con tutte le organizzazioni del territorio che esprimono bisogni, consentendo agli eventi sostenibili di esibire il proprio marchio di qualità etica.
Ed è in arrivo l’app che metterà assieme consumo nella grande distribuzione e 5 per mille, dando l’opportunità a chi va nei punti vendita convenzionati di scegliere a quale organizzazione destinare una donazione che il supermercato associa alla sua spesa. Chi dona pensa in genere che il suo piccolo gesto abbia una efficacia trasformativa, ma il senso del dono per la persona ’cercatrice di senso’ è più profondo. Ed è colto molto bene da una frase di Vaclav Havel: «La speranza non è ottimismo. Non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno». Il dono, di sicuro, lo ha.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA PRASSI DELLA CARITÀ E LO SPIRITO CRITICO. G.B. VICO AL DI LÀ DELLA BORIA DI L.A. MURATORI E DEI DOTTISSIMI DI OGGI.
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
Roma.
Campidoglio in retromarcia: restano alla Caritas le monete della Fontana di Trevi
Virginia Raggi all’Osservatore Romano: devolveremo anche i 200 mila euro raccolti in altre fontane, è stato un atto della Giunta male interpretato
di Luca Liverani (Avvenire, lunedì 14 gennaio 2019)
Contrordine dal Campidoglio. «La Caritas e tutte le migliaia di persone assistite dai suoi operatori possono stare tranquille. Garantisco io, in prima persona - dice la sindaca di Roma Virginia Raggi all’Osservatore Romano - che non verrà mai meno il contributo di questa amministrazione. Per quanto riguarda le monetine, confermo che resteranno a disposizione delle attività caritatevoli dell’ente diocesano. Nessuno ha mai pensato di privare la Caritas di questi fondi».
Dopo giorni di polemiche e una tempesta di reazioni sui social, il Campidoglio dunque innesta la retromarcia. Le monete lanciate dai turisti nella Fontana di Trevi continueranno a essere girate alla Caritas di Roma che le investe per i servizi ai più poveri. Il taglio preannunciato a fine anno avrebbe provocato una perdita secca di un milione e mezzo di euro nel bilancio dell’organismo ecclesiale, pari al 15%, la metà dei soldi che la Caritas spende senza nessuna convenzione con enti pubblici.
Il denaro raccolto nella Fontana di Trevi a Roma resterà dunque alla Caritas diocesana. Anzi, anche le monete raccolte nelle altre fontane della Capitale saranno destinate all’organismo caritativo diocesano, per un totale approssimativo di 200 mila euro aggiuntivi. L’Osservatore Romano sulla questione ha intervistato la sindaca di Roma Virginia Raggi: «L’ente diocesano svolge un compito importante per tanti bisognosi e per la città di Roma - dichiara - che vuole continuare a essere la Capitale dell’accoglienza dei più deboli». Tecnicamente, la questione circa la destinazione delle monetine raccolte nella storica fontana della Capitale sarà risolta in questo modo: spetterà all’Acea il compito della raccolta e della quantificazione delle monete, finora svolto gratuitamente dai volontari della Caritas. Sottratto il compenso per questa attività - si calcola circa 2mila euro - in virtù di un apposito protocollo i fondi saranno trasmessi alla Caritas diocesana.
La sindaca questa mattina - riferisce ancora l’Osservatore Romano - ha contattato la presidente di Acea, Michaela Castelli, la quale ha assicurato il suo appoggio a tale soluzione. Si supererà così l’obbligo imposto dalla Ragioneria generale di far transitare l’importo delle monete nel bilancio comunale, che aveva condotto, secondo quanto spiegano dal Campidoglio, alla sospensione della convenzione con la Caritas. «Lo scorso dicembre - afferma Raggi - abbiamo approvato una memoria di Giunta che è stata mal interpretata. Si tratta di un atto amministrativo dovuto alla necessità di raccogliere e quantificare le monetine che i turisti lanciano, non solo nella fontana di Trevi ma anche in altre fontane monumentali di Roma. Un atto amministrativo che ha il fine di portare ordine e trasparenza. Ora, invece, i turisti e cittadini finalmente sapranno quanto viene raccolto e a chi viene destinato. E lo saprà anche la Caritas che potrà programmare più facilmente le proprie attività di beneficenza. Addirittura avrà più fondi».
La sindaca, nell’intervista al giornale vaticano, tiene a ribadire che l’amministrazione intende continuare la collaborazione con tutti gli enti ecclesiali: «Credo che le parrocchie rappresentino un baluardo importante per la tenuta del territorio. Spesso le parrocchie e i centri di volontariato rappresentano le frontiere all’interno della città, il luogo in cui ci si confronta e si cresce insieme. È evidente - aggiunge - che il terzo settore vada tutelato e incoraggiato».
A formalizzare la cessione delle monete lanciate dai turisti nella Fontana di Trevi alle iniziative di solidarietà della Caritas era stato, il Campidoglio nel 2001. Da allora tutte le giunte successive, di qualsiasi colore politico, da Walter Veltroni a Gianni Alemanno a Ignazio Marino avevano conservato questa consuetudine. Con l’arrivo della giunta Raggi l’iniziativa era stata messa in discussione, con l’istituzione di un gruppo di lavoro nell’ottobre 2017. E il processo sembrava arrivato a conclusione: una Determinazione dirigenziale del 31 dicembre 2018 aveva affermato che dal 1° aprile la Caritas non sarebbe più stata la destinataria delle monete regalate dai turisti nel tradizionale lancio in fontana - dice la tradizione - per propiziare il ritorno a Roma. In concreto, per la Caritas diocesana sarebbe stato un taglio secco di un milione e mezzo di euro. Una decisione che avrebbe costretto la Caritas a ridurre o chiudere molti servizi per i più poveri. Con prevedibili ripercussioni sul clima sociale della città.
Secondo la sindaca Raggi dunque «nessuno ha mai pensato di privare la Caritas di questi fondi». Un’affermazione che sembra parzialmente contraddetta da quanto si legge nella Determinazione dirigenziale del 31 dicembre scorso. A pagina 4 del documento di otto pagine, si leggeva che «il ricavato della raccolta dovrà essere destinato, al netto di quanto necessario alla copertura delle spese dell’addendum contrattuale con la società ACEA s.p.a., in misura prevalente al finanziamento di progetti sociali e per la restante parte alla manutenzione ordinaria del patrimonio culturale».
Oggi dunque la decisa correzione di rotta. Una svolta su cui contava il direttore della Caritas diocesana, don Benoni Ambarus che nei giorni scorsi, nonostante la decisione del Campidoglio, continuava a dirsi «fiducioso» in un ripensamento: «Mi appello - aveva detto - agli amministratori di buona volontà: non mettano fine all’azione sussidiaria e di welfare generativo che moltiplica l’effetto dei fondi disponibili, crea dignità e giustizia sociale. Non parlo per me, ma a nome di tante persone fragili, italiane e non, che a Roma vivono con difficoltà». Una fiducia stavolta ben riposta.
L’Osservatore Romano non risparmia però una critica alla Giunta Raggi. «Dovrebbe dunque chiudersi così una vicenda la cui gestione non è stata certo felice», scrive il quotidiano vaticano: «Sarebbe sicuramente bastata una comunicazione più chiara con la stessa Caritas per fermare sul nascere qualsiasi malinteso».
Fontana di Trevi, il Campidoglio toglie le monetine alla Caritas. "Serviranno a manutenzione vasca"
Diventa operativa da aprile, una decisione assunta dal Comune già lo scorso anno e congelata per le proteste. In ballo un milione e mezzo di euro all’anno
di ROSALIA PALERMI (la Repubblica, 12 gennaio 2019)
I rapporti sono tesi, non è un mistero. Più volte la Curia romana ha punzecchiato l’amministrazione, da ultimo lo ha fatto il Vescovo di Roma Sud, Paolo Lojudice, chiamando alle proprie responsabilità la giunta capitolina in materia di decoro. Sullo sfondo una partita che oltreTevere ha creato parecchi malumori e non solo a livello di vertice.
Riguarda le monetine che i turisti lanciano a Fontana di Trevi. Raccolte da Acea, l’azienda che si occupa della manutenzione della Fontana, finivano nelle mani dei volontari Caritas che le destinavano a scopi sociali. Finivano perché tra qualche mese non sarà più così.
Lo prevede una decisione assunta già l’anno scorso dall’amministrazione capitolina guidata da Virginia Raggi e congelata tra le proteste per altri 12 mesi. Arrivati alla fine dell’anno, i burocrati del Campidoglio hanno notificato alla Caritas che il versamento cesserà dal primo di aprile. In sostanza scadrà la proroga della proroga e oltre non si andrà. Raggi conferma la volontà di incassare le monetine e redistribuirle per finanziare opere di manutenzione, sobbarcandosi anche il costo del conteggio finora svolto gratis dai volontari Caritas.
La partita non è di poco conto: ballano un milione e mezzo di euro, stando al bilancio 2018. Una goccia nel mare del disastrato bilancio capitolino che tuttavia saluta il gettito delle monetine come una provvidenziale boccata d’ossigeno. Una mannaia per la Caritas che stima gli venga a cadere il 15 per cento del proprio bilancio, fatto poi di soldi dell’8 per mille e di decisivi finanziamenti pubblici e solo in minima parte privati. Soldi che finiscono nel circuito dell’assistenza: dall’accoglienza dei senzatetto ai pasti e a iniziative benefiche che sopperiscono ai vuoti del welfare.
Insomma, dove non c’è la mano pubblica a garantire un tetto ai clochard e pasti caldi a chi vive per strada c’è la rete della Caritas. E lo si è visto nel pieno dell’emergenza freddo nella capitale con il circuito del volontariato a fronteggiare una situazione che la rete pubblica dell’assessorato al sociale non è stata in grado di affrontare, tra inadeguatezza, pasticci burocratici e una attività organizzativa partita decisamente in ritardo.
Per questa ragione il malumore crescente nei confronti delle scelte dell’amministrazione è esploso anche su Avvenire, il quotidiano della conferenza episcopale, che senza mezzi termini ha riportato in prima pagina quella che era una felpata polemica affidata al fioretto della diplomazia con un eloquente “Le monetine tolte ai poveri”.
Compendio del Manifesto convivialista
Dichiarazione di interdipendenza *
Mai come oggi l’umanità ha avuto a disposizione tante risorse materiali e competenze tecnico-scientifiche. Considerata nella sua globalità, essa è ricca e potente come nessuno nei secoli passati avrebbe potuto mai immaginare. Non è detto che sia anche più felice. Tuttavia, non c’è nessuno che desideri tornare indietro, poiché ognuno si rende conto che di giorno in giorno si aprono sempre maggiori e nuove potenzialità di realizzazione individuale e collettiva. Eppure, nonostante ciò, nessuno è disposto a credere che questa accumulazione di potenza possa essere perseguita indefinitamente senza che, in una logica immutata di progresso tecnico, si ritorca contro se stessa e metta a repentaglio la sopravvivenza fisica e morale dell’umanità. Le prime minacce che incombono su di noi sono di ordine materiale, tecnico, ecologico ed economico. Minacce entropiche.
Ma noi siamo molto più impotenti nell’immaginare delle risposte adeguate al secondo tipo di minacce. Alle minacce di ordine morale e politico. A quelle minacce che potremmo definire antropiche.
Il problema numero uno
Sotto i nostri occhi c’è un’evidenza accecante: l’umanità ha saputo realizzare dei progressi tecnici e scientifici sorprendenti, ma resta ancora incapace di risolvere il suo problema fondamentale: come gestire la rivalità e la violenza tra gli esseri umani? Come convincerli a cooperare, pur consentendo loro di contrapporsi senza massacrarsi? Come contrastare l’accumulazione della potenza, ormai illimitata e potenzialmente auto-distruttiva, contro gli uomini e contro la natura? Se l’umanità non saprà trovare una risposta a questi interrogativi, è destinata a scomparire. E questo proprio quando si sono create tutte le condizioni materiali di un benessere generalizzato, purché si prenda coscienza della loro finitezza. Abbiamo a disposizione molteplici elementi di risposta, che nel corso dei secoli sono stati apportati dalle religioni, dalle morali, dalle dottrine politiche, dalla filosofia e dalle scienze umane e sociali. -Così pure, le iniziative che si muovono in direzione di un’alternativa all’attuale organizzazione del mondo sono innumerevoli, promosse da migliaia e migliaia di organizzazioni o associazioni, e da diecine o centinaia di milioni di persone. Queste iniziative si presentano sotto varie denominazionie ai più diversi livelli: la difesa dei diritti dell’uomo, del cittadino, del lavoratore, del disoccupato, della donna o dei bambini; l’economia sociale e solidale con tutte le sue componenti: le cooperative di produzione o di consumo, la mutualità, il commercio equo, le monete parallele e complementari, i sistemi di scambio locale, le innumerevoli associazioni di mutuo soccorso; l’economia cognitiva dei network (cfr. Linux, Wikipedia, ecc.); la decrescita e il post-sviluppo; i movimenti slow food , slow town , slow science ; la rivendicazione del buen vivir , l’affermazione dei diritti della natura e l’elogio della pachamama ; l’altermondialismo, l’ecologia politica e la democrazia radicale, gli indignados , Occupy Wall Street ; la ricerca di indicatori alternativi di ricchezza, i movimenti della trasformazione personale, della sobrietà volontaria, dell’abbondanza frugale, del dialogo tra le civiltà, le teorie del care , la nuova concezione dei “beni comuni” ( commons ), ecc. Perché queste iniziative così ricche possano contrastare con un’adeguata potenza le dinamiche letali del nostro tempo e non siano confinate nel ruolo di mera contestazione o di semplice palliativo, diventa decisivo unire le loro forze e le loro energie. Da qui l’importanza di sottolineare ed enunciare ciò che hanno in comune.
Sul convivialismo
In comune hanno la ricerca di un convivialismo , di un’arte di vivere insieme ( con- vivere ) che consenta agli esseri umani di prendersi cura gli uni degli altri e della Natura, senza negare la legittimità del conflitto, ma trasformandolo in un fattore di dinamismo e di creatività, in uno strumento per scongiurare la violenza e le pulsioni di morte. Per trovarlo abbiamo urgente bisogno di un corredo dottrinale minimo e condivisibile, che consenta di rispondere contemporaneamente, ponendole su scala planetaria, almeno a quattro questioni di base (più una):
La questione morale: che cosa è lecito per gli individui sperare e che cosa devono proibirsi?
La questione politica: quali sono le comunità politiche legittime?
La questione ecologica: che cosa possiamo prendere (d)alla natura e che cosa dobbiamo restituirle?
La questione economica: quale quantità di ricchezza materiale ci è lecito produrre, e in che modo, per essere coerenti con le risposte date alla questione morale, politica ed ecologica?
Ognuno è libero di aggiungere, se vuole, a queste quattro questioni quella del rapporto con il sovrannaturale o con l’invisibile: la questione religiosa o spirituale. O la questione del senso.
Considerazioni generali
Il solo ordine sociale legittimo universalizzabile è quello che si ispira ad un principio di comune umanità, di comune socialità, di individuazione, e di un conflitto che bisogna saper tenere sotto controllo e, quindi, creativo.....
PER IL TESTO INTEGRALE, CLICCARE, QUI DI SEGUITO, SU: POSTFILOSOFIE. Anno 7/8. Numero 7. Convivialismo
Una discussione su “Il Manifesto del Convivialismo”:
intervento di Laura Pennacchi
un intervento di Fabio Ciaramelli
un commento di F. Fistetti
Ecumenismo
Papa: serve una «teologia fatta in ginocchio»
di Alessandro Gisotti - Radio Vaticana (Avvenire, 28 giugno 2014)
Bisogna lasciarsi guidare dallo Spirito Santo per avanzare verso l’unità dei cristiani. E’ l’esortazione levata da Papa Francesco nell’udienza alla Delegazione ecumenica del Patriarcato di Costantinopoli, ricevuta alla vigilia della Solennità dei Santi Patroni di Roma, Pietro e Paolo. Il Pontefice ha sottolineato che anche partendo da prospettive diverse, attraverso una “teologia fatta in ginocchio” si può arrivare ad un cammino di unità.
Condividere la gioia di essere fratelli. Papa Francesco si è rivolto alla delegazione della “Chiesa sorella di Costantinopoli” rivolgendo innanzitutto il pensiero al Patriarca ecumenico Bartolomeo I, “amato fratello” con il quale ha vissuto insieme l’esperienza del pellegrinaggio in Terra Santa e poi la Preghiera per la pace nei Giardini Vaticani.
Il Papa ha ricordato l’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora. Un gesto profetico, ha osservato, che ha dato “impulso ad un cammino” che “non si è più arrestato”: “Il Signore ci ha donato queste occasioni di incontro fraterno, nelle quali abbiamo avuto la possibilità di manifestare l’uno all’altro l’amore in Cristo che ci lega, e di rinnovare la volontà condivisa di continuare a camminare insieme sulla strada verso la piena unità”.
Sappiamo bene, ha aggiunto, che “questa unità è un dono di Dio” ed ha ribadito che grazie alla “forza dello Spirito Santo” possiamo “guardarci gli uni gli altri con gli occhi della fede”, “riconoscerci per quello che siamo nel piano di Dio” e “non per ciò che le conseguenze storiche dei nostri peccati ci hanno portato ad essere”:
“Se impareremo, guidati dallo Spirito, a guardarci sempre gli uni gli altri in Dio, sarà ancora più spedito il nostro cammino e più agile la collaborazione in tanti campi della vita quotidiana che già ora felicemente ci unisce”.
Questo sguardo teologale, ha proseguito, “si nutre di fede, di speranza, di amore”. Esso, è stata la sua riflessione, “è capace di generare una riflessione teologica autentica”, che è in realtà “partecipazione allo sguardo che Dio ha su se stesso e su di noi”. Una riflessione, ha affermato, “che non potrà che avvicinarci gli uni agli altri, nel cammino dell’unità, anche se partiamo da prospettive diverse”:
"Confido pertanto, e prego, affinché il lavoro della Commissione mista internazionale possa essere espressione di questa comprensione profonda, di questa teologia “fatta in ginocchio”.
La riflessione sui concetti di primato e di sinodalità, sulla comunione nella Chiesa universale, sul ministero del Vescovo di Roma, non sarà allora un esercizio accademico né una semplice disputa tra posizioni inconciliabili.
“Abbiamo tutti bisogno di aprirci con coraggio e fiducia all’azione dello Spirito Santo - ha soggiunto - di lasciarsi coinvolgere nello sguardo di Cristo sulla Chiesa” nel cammino di un “ecumenismo spirituale rafforzato dal martirio” di tanti cristiani che “hanno realizzato l’ecumenismo del sangue”.
Il dono e il rifiuto del mercato *
La buona volontà è importante. Il desiderio di aiutare e sostenersi reciprocamente sono pietre fondanti della solidarietà sociale. Ma la confusione su ciò contro cui stiamo combattendo è probabilmente uno dei nostri maggiori problemi. Non saremo in grado di creare affari per spodestare il business! -Una economia del dono degna di questo nome implica una trasformazione massiccia di dimensioni alle quali, francamente, la maggior parte di noi ha paura di pensare. Apprezzo i miei amici con cui ho soprattutto goduto una generosità e una reciprocità incommensurabili. -Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale. Forse è possibile. Ma se così è, dovremo comprendere il dibattito politico le dinamiche istituzionali ultime che faciliteranno una tale trasformazione. Non accadrà solo perché lo desideriamo, o perché proviamo molto amore per coloro che ci circondano. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo a venire.
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Cfr. Chris Carlsson, Il dono e il rifiuto del mercato (Comune-info, 12 febbraio 2014)
Da Gramsci a Wittgenstein (via Sraffa)
di Armando Massarenti (il Sole-24 ore domenica, 15.06.2014)
«Se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel mondo, non saprei più inserirmiin nessuna corrente sentimentale». Queste amare parole sono di Gramsci, che in carcere sembra avere perso ogni orientamento sia politico - si sono acuiti i contrasti ideologici con l’amico Togliatti - sia sentimentale - sempre più rade si fanno le lettere della moglie Giulia. In questo frangente drammatico, Nino scrive un illuminante commento al X canto dell’Inferno, erroneamente considerato «il canto di Farinata»: egli fa infatti notare come sia quella di Cavalcante Cavalcanti la figura più significativa dell’episodio ambientato nel cerchio eretici, per la sua amorosa preoccupazione per il figlio Guido di cui ignora la sorte, e non Farinata, che resta una figura convenzionale di politico militante, irrigidita da un ideologismo esibito nel suo “comizio” recitato dalla tomba.
Franco Lo Piparo, in un capitolo del suo appassionato saggio dedicato al Professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli), fa notare come Nino si sentisse anche lui un eretico relegato in un «cieco carcere». La sua visione della politica si è fatta vieppiù distante da quella teorica e astratta che caratterizza l’establishment stalinista.
Negli anni di prigione, torna con soddisfazione a sentirsi un Professore di linguistica e le sue riflessioni sul linguaggio inteso come evento della vita pratica non può non ripercuotersi sulla sua visione della società e della politica.
Il fatto straordinario di questa dolorosa vicenda è che Gramsci, dal carcere e dalle cliniche Cusumano e Quisisana, riesce a sua insaputa a influire sul pensiero di una delle menti filosofiche più geniali dell’Europa del tempo.
Si deve infatti proprio a Gramsci la celebre “svolta” in senso antropologico della visione del linguaggio di Wittgenstein, l’abbandono delle tesi esposte nel Tractatus e l’approdo alle Ricerche filosofiche.
L’amico di Gramsci Piero Sraffa, collega all’Università di Cambridge di Wittgenstein, è da identificarsi come il tramite del trasferimento delle idee dell’inconsapevole Nino a Ludwig.
Amartya Sen già nel 2009 sostenne che Gramsci avrebbe esercitato il suo influsso sul pensiero di Sraffa (e quindi di Wittgenstein) al tempo in cui l’economista napoletano collaborava a Torino con «L’Ordine Nuovo» di cui Gramsci era direttore.
Lo Piparo oggi dimostra in maniera puntuale una tesi diversa: furono le idee che Nino maturò in carcere quelle davvero significative per la svolta wittgensteiniana. Le Ricerche, infatti, sono state composte nell’anno accademico 193536, e il Quaderno gramsciano dedicato al tema della praxis linguistica (Q 11) è del 1935: è il periodo in cui Sraffa andava a trovare l’amico in clinica; leggeva i suoi Quaderni tramite la cognata di Nino, Tania; e, nel contempo, frequentava settimanalmente Wittgenstein per discutere le tesi linguistiche di quest’ultimo, al punto da farlo “convertire” a una visione pragmatistica della lingua. Ludwig affermerà di sentirsi, grazie a Sraffa, come un albero completamente potato dei suoi vecchi rami e pronto a rifiorire in modo nuovo.
È nella critica alla linguistica di Benedetto Croce (Q 29) il quale sostiene che una proposizione ha senso solo se è corretta dal punto di vista logico-grammaticale e semantico , che Gramsci afferma per la prima volta che «il senso di una proposizione non dipende da una qualità interna della proposizione stessa e il suo status grammaticale non può essere valutato indipendentemente dal contesto». Pertanto, una proposizione come «questa tavola rotonda è quadrata» può avere comunque senso in un determinato contesto, per esempio nel discorso di un personaggio di un romanzo fantastico. Il concetto gramsciano di praxis linguistica, presente nei Quaderni, compare variamente negli scritti di Wittgenstein a partire dal 1936, sebbene la cosa non sia stata notata per via della traduzione inglese di Anscombe che rende il tedesco originale Praxis con practise. Evidentemente, le idee linguistiche di Nino furono così potenti da riuscire a evadere le alte mura del suo cieco carcere.