INDICE:
INTRODUZIONE
a) A GIAMBATTISTA VICO E ALL’ITALIA, L’OMAGGIO DI JAMES JOYCE.
b) L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI.
A. VICO (E KANT), PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI.
B. PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA: "NON INVENTO IPOTESI"! VICO CON NEWTON (E KANT)
C. GIAMBATTISTA VICO, LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA, E GLI INTELLETTUALI ITALIANI: IL CASO COLLETTI.
D. VICO: IL DESIDERIO DI IMMORTALITA’, LA STORIA, E LA PROVVIDENZA.
Nota:
Tutte le citazioni riportate nel testo sono riprese da: Giambattista Vico, Opere filosofiche, introd. di Nicola Badaloni, a c. di Paolo Cristofolini, Firenze 1971, p. 35. La dedica della "Scienza Nuova" del 1725 è a p. 170.
VICO (E KANT), PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI.
Quando Giambattista Vico, "nel fine dell’anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodici fogli", con il titolo "Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri principi del diritto naturale delle genti", con un elogio, "l’indirizza alle Università dell’Europa". Per chi non lo ricordasse, siamo già nella fase decisiva della genesi del pensiero illuministico (Kant ha già 21 anni!), nel pieno della "crisi della coscienza europea"(Paul Hazard): nella "età illuminata - come scrive appunto Vico nell’elogio-dedica - in cui nonché le favole e le volgari tradizioni della storia gentilesca ma qualunque più autorità de’ più riputati filosofi alla critica di severa ragione si sottomette" (S.N., 1725).*
Contrariamente a quanto troppo a lungo si è pensato (e questo pesa ancora sulla comprensione della sua opera) Vico non vive fuori dal tempo e dal mondo, e cammina alla grande sulla via aperta da Copernico, Galilei e Cartesio - con i suoi piedi e con la sua testa! Anzi, egli ha lavorato a dare base più ampia e più salda alla rivoluzione scientifica, alla svolta antropologica cartesiana e alla più generale rivoluzione copernicana in filosofia!
Sul piano storico e storiografico, è da dire, Vico ha subito la stessa sorte di Kant: incompreso dagli esponenti e dagli interpreti della tradizione razionalistica e illuministica, è stato ucciso e fagocitato come un ’santo’ della ’preistoria’ della grande "instaurazione" (o, meglio, restaurazione) idealistico-hegeliana. E, così, dai neoidealisti italiani (innanzitutto, Benedetto Croce con "La filosofia di Giambattista Vico", 1911) - ad eccezione di Enzo Paci ("Ingens Sylva",1949) - fino a oggi (si cfr. Giambattista Vico, "La Scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744", Bompiani, Milano 2012, con "saggio introduttivo" e "introduzione" alla S.N. del 1730 e del 1744 di Vincenzo Vitiello), non si è stati ancora né capaci di intendere né di essere giusti affatto nel giudicare la nuova arte critica di Vico né conseguentemente il grande prodotto della sua "mente heroica": la "Scienza Nuova"!
Eppure Vico, proprio nel 1725, parlando di sè in terza persona ("Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo"), lo scrive chiaramente: con la sua "nuova arte critica", "con la fiaccola di tal nuova arte critica", egli scopre "tutt’altre da quelle che sono immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti (...). Scuopre altri princìpi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con le quali ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i propi dèi per un certo istinto naturale che ha l’uomo della divinità, col cui timore i primi autori delle nazioni si andarono ad unire con certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana società de’ matrimoni; e si scuopre essere stato lo stesso il gran principio della teologia dei gentili e quello della poesia de’ poeti teologi, che furono i primi nel mondo e quelli di tutta l’umanità gentilesca".
COME E’ POTUTO GIUNGERE A QUESTE SCOPERTE? Qual è il ’segreto’, da dove la ’forza’ della sua "nuova arte critica"? Vico lo premette subito, all’inizio del suo racconto autobiografico e il senso è chiaro: si tratta di uscire da secoli di labirinto segnati dalla "doppiezza" di verità dogmatiche e certezze opinabili e seguire attentamente il principio del "verum ipsum factum".
SCIENZA NUOVA, 1725. "Napoli. Sole: gioia di vivere"(Paul Hazard)! "In quest’opera - scrive lo stesso Vico, con onestà e fierezza - egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch’esso ancor confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti". E immediatamente spiega e precisa: "Imperciocché egli appruova una indispensabile necesità, anche umana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da’ princìpi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata così da’ filosofi come da’ filologi di ritrovarne i progressi ne’ primi auttori delle nazioni gentili, esso (..) discuopre questa nuova Scienza".
Che cosa sta dicendo Vico? Nient’altro se non come, alla luce del suo principio, e con un "doppio sguardo", ha lavorato criticamente ed è giunto ai suoi risultati: ha tenuto presente - sullo sfondo e parallelamente - i principi della storia sacra (la verità rivelata - della nazione ebraica) e ha lavorato al contempo sulla tradizione delle nazioni gentili (la verità storica - della tradizione greca e romana).
Il risultato qual è stato? Ha ritrovato - come è detto nel titolo dell’opera - altri (diversi da quelli tradizionalmente ritenuti tali) "principi del diritto naturale delle genti" non incompatibili con quelli della tradizione sacra! E, con questo, non solo e soprattutto ha aperto una importante e decisiva via a una ragione nuova, ma anche a un’inedita (critica e cristiana) possibilità di rifondazione del discorso del neoplatonismo cattolico-rinascimentale della conciliazione della tradizione degli Ebrei e della tradizione dei Gentili. Nel solco della linea di Dante, Boccaccio, di Bruno, di Galilei, amico di ebrei ma non dello spinozismo, egli guarda lontano. La “mente eroica” di Vico ha dato il “via!”. La rivoluzione copernicana in filosofia è già iniziata: “Sàpere aude!” (Orazio-Kant).
PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA: "NON INVENTO IPOTESI"! VICO CON NEWTON (E KANT)
“DIGNITA’ DELL’UOMO” ED “EROICI FURORI”. All’origine della svolta antropologica di Vico, e del suo più generale ‘ri-orientamento gestaltico’ del 1725, c’è la disavventura “per la quale disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria” (le critiche al “Diritto universale” e l’impossibilità di “conseguire la cattedra” di diritto romano, a cui ambiva, nel 1723) e tuttavia anche il conforto e la consolazione del “giudizio di Giovan Clerico” apparso "nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all’articolo VIII” ((op. cit., pp. 33-34).
Ovviamente Vico non si arrese e non si arrende e, consapevole e fiero di sé, così scrive di se medesimo nel 1725: “Ma non altronde si può intender apertamente che ‘l Vico è nato per la gloria della patria e in conseguenza dell’Italia, perché quivi nato e non in Marocco esso riuscì letterato, che da questo colpo di avversa fortuna, onde altri arebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. Come in effetto ne aveva già lavorata una divisa in due libri” (p. 34).
E’ la “Scienza nuova in forma negativa”: nel primo libro - ancora e di nuovo - “andava a ritrovare i principi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanità delle nazioni, per via d’inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi più immaginato che raggionato” (p. 34). Ma anche su questo lavoro cade “un colpo di avversa fortuna”! Allora Vico cambia marcia: “ristrinse tutto il suo spirito in un’aspra meditazione per ritrovarne un metodo positivo, e sì più stretto e quindi più ancora efficace”, e “nel fine dell’anno 1725, diede fuori in Napoli”, il suo capolavoro: la “Scienza nuova” (la prima!).
NON INVENTO IPOTESI: "HYPOTHESES NON FINGO" (Isaac Newton, Principi matematici della filosofia naturale, 1713 - si cfr. Nota). Vico ha smarrito la sua diritta via, ma non ha disperato di sé e non si è si perso nel “divagamento ferino per la gran selva della terra”: non è giunto “a stordire ogni senso di umanità”! Ha lavorato eroicamente, ed è venuto fuori dall’“immenso oceano di dubbiezze” e ha trovato la “sola picciola terra dove si possa fermare il piede”, dove “una sola luce barluma: che ‘l mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini (...) che i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere, innalzando la metafisica dell’umana mente (finor contemplata dell’uom particolare per condurla a Dio com’eterna verità, che è la teoria universalissima della divina filosofia) a contemplare il senso comune del genere umano come una certa mente umana delle nazioni, per condurla a Dio come eterna provvidenza, che sarebbe della divina filosofia la universalissima pratica; e, ‘n cotal guisa, senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica), andarli a ritrovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero nella posterita’ di Caino innanzi, e di Cam, Giafet dopo l’universale diluvio” (p. 185).
LA STORIA DELL’UMANITA’: UNA FATICA DI ERCOLE. Quanto dura sia stata la lotta per superare ostacoli e avversità “nel divagamento ferino della gran selva” e giungere a scoprire “questa unica verità” (la “picciola terra”, “la sola luce”), Vico non lo nasconde (né a se stesso né a chi voglia capire il suo lavoro di rifondazione critica della ragione storica e della ragione filosofica e teologica dommatica - anzi, invita a profittare) e così chiarisce: “noi, in meditando i princìpi di questa Scienza, dobbiamo vestire per alquanto, non senza una violentissima forza, una sì fatta natura e, ‘n conseguenza, ridurci in uno stato di somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi, né filologi. E chi vi vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché, nel meditarvi, non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni” (p. 185).
“PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA” (1725): UN “CANTO” DI VITTORIA. Nella “Idea dell’opera, nella quale si medita una Scienza dintorno alla natura delle nazioni, dalla quale è uscita l’umanità delle medesime, che a tutte cominciò con le religioni e si è compiuta con le scienze, con le discipline e con le arti”, nell’indicare il contenuto del “libro primo” - con orgoglio e con una punta di sana ironia napoletana - premette un verso di Virgilio (“Ignari hominumque locorumque erramus": Ignoranti sia degli esseri umani sia dei luoghi erriamo) e così scrive:. “Necessità del fine e difficoltà de’ mezzi di rinvenire questa Scienza entro l’error ferino de’ licenziosi, deboli e bisognosi, di Ugone Grozio, e de’ gittati in questo mondo senza cura o aiuto divino di Samuello Pufendorfio, da’ quali le gentili nazioni son pervenute” (p. 171).
ISAAC NEWTON. Hypotheses non fingo, ("Non formulo ipotesi") è la celebre espressione con la quale Isaac Newton esprimeva l’impossibilità di andare al di là della descrizione dei fenomeni per cercarne la causa. (...) La famosa frase, è contenuta nella seconda edizione dei Principia del 1713, precisamente nella sezione finale intitolata Scolio Generale (...): "[...] In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche.[...]" (Cfr.: Newton, Opere, Vol. 1. Principi matematici della filosofia naturale, a cura di Alberto Pala, Classici della scienza, Torino UTET, 1997, pagg. 801-802 - da: Wikipedia).
GIAMBATTISTA VICO, LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA, E GLI INTELLETTUALI ITALIANI: IL CASO COLLETTI.
Nel 1725, Vico scrive “di se medesimo” che ha scoperto "tutt’altre da quelle che sono immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti”. Che tale affermazione non sia il frutto della fantasia di un visionario, ma la determinata e fiera consapevolezza di un grande filosofo e di un grande scienziato, è più che evidente nella dichiarazione coeva della “Scienza nuova”, ove precisa in modo inequivocabile che i principi del mondo delle nazioni gentili - “senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica)” - bisogna “andarli a ritrovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero”.
Se le parole vogliono significare qualcosa, già il titolo “Principi di una scienza nuova” (con tutto quel che segue) dovrebbe far pensare a un discorso da collocare entro l’orizzonte della rivoluzione scientifica (di Galilei e Newton!) e, già, della rivoluzione copernicana kantiana (1781): a ben vedere, ciò che Vico propone è una nuova concezione dell’uomo, della società, e della storia, all’interno di un nuovo orizzonte filosofico comune a tutte le scienze - senza chiusure e fondamentalismi (e riduzionismi), a nessun livello e di ogni tipo!
La sua convinzione, infatti, è che “ci è mancata finora una scienza la quale, fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali provennero essi filosofi” (p. 178). E la sua sollecitazione è quella di ripartire - come è evidente - non dalla metafisica, dalla morale, e dalla religione, ma dall’antropologia!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? All’inizio dei “Principi”, nel capitolo primo del Libro Primo, intitolato “Motivi di meditare quest’opera”, Vico rompe ogni indugio e in una sintesi lucidissima e vertiginosa offre il filo di tutta la sua ricerca e mostra che cosa ha scoperto con “la fiaccola” della sua “nuova arte critica”. E, con una mossa geniale degna del miglior Marx (Introduzione ’57), nell’esposizione della sua indagine parte da un fatto antropologico indubitabile: un istinto naturale, un “comune desiderio della natura umana”, “un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente”.
Questo è l’attacco e il primo capoverso del suo capolavoro (Scienza Nuova, 1725): “ Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.
E, così, continua: “Tal curiosità, per natura vietata, perché di cosa propria di un Dio mente infinita ed eterna, diede la spinta alla caduta de’ due principi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di saper l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche dolori e morte. Quindi le false religioni tutte sursero sopra l’idolatria, o sia culto di deitadi fantasticata sulla falsa credulità d’esser corpi forni di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria [è] nata ad un parto con la divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti mandati agli uomini dagli dèi. Sì fatta vana scienza, dalla quale dovette cominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe. Dalla qual seconda verità viene di séguito che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno dalle leggi, ove essi non sien tòcchi da passione di alcun proprio interesse di non volerle” (p.172).
E, ancora, proseguendo: "Questa, e non altra certamente è l’umanità, la quale sempre e dappertutto resse le sue pratiche sopra questi tre sensi comuni del genere umano: primo, che vi sia provvidenza; secondo, che si faccino certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i principi d’una religion civile comune, perché da’ padri e dalle madri, con uno spirito, i figliuoli si educhino in conformità delle leggi e delle religioni tra le quali sono essi nati; terzo, che si seppelliscano i morti. Onde, non solo non fu al mondo nazion d’atei, ma nemmeno alcuna nella quale le donne non passino nella religion pubblica de’ lor mariti; e, se non vi furon nazioni che andarono tutte nude, molto meno vi fu alcuna che usò la venere canina o sfacciata in presenza di altrui e non celebrasse altri che concubiti vaghi, come fanno le bestie; né finalmente vi ha nazione, quantunque barbara, che lasci marcire insepolti sopra la terra i cadaveri de’ loro attenenti: il quale sarebbe uno stato nefario o sia uno stato peccante contro la natura comune degli uomini. Nel quale per non cadere le nazioni, custodiscon tutte con inviolate cerimonie le religioni natie e, con ricercati riti e solennità, sopra tutte le altre cose umane celebrano i matrimoni e i mortori. Che è la sapienza volgare del genere umano, la quale cominciò dalle religioni e dalle leggi, e si perfezionò e compié con le scienze e con le discipline e le arti" (pp.172-173).
Conquistato il fatto antropologico indubitabile, per Vico tutto diventa più chiaro. Egli ha finalmente trovato il filo d’oro per uscire da interi millenni di labirinto: l’ “impresa”e la “dipintura”(1730) che illustreranno e accompagneranno la “Scienza Nuova” del 1744, celebrano e precisano in immagini proprio il senso di quest’evento e questa più grande consapevolezza!
Il principio del verum-factum (con le sue articolazioni interne, relative al rapporto Uomo-Dio, vero-certo, religione ebraica e religione dei gentili) è liberato dalle sue ambiguità neoplatoniche e cattolico-rinascimentali e lo stesso programma teologico-politico di Cusano, di Ficino, di Pico della Mirandola, di Michelangelo, di Campanella, di Giordano Bruno (la riconciliazione delle fedi e delle ragioni) è ripreso e rilanciato su una base nuova - scientificamente, teologicamente, e filosoficamente critica.
PER UNA “BIBBIA CIVILE” RAGIONATA, PER LA“COSTITUZIONE”! Nel capitolo secondo, sempre del Libro Primo, intitolato “Meditazione di unascienza nuova”,Vico dà chiarimenti sulla portata e il senso del suo lavoro e invita a riflettere sulla necessità di elaborare “uno stato di perfezione” (un “quadro costituzionale”!) per meglio orientare il cammino “dell’umanità delle nazioni”. Così scrive: “Ma tutte le scienze, tutte le discipline e le arti sono state indiritte a perfezionar e regolare le facoltà dell’uomo. Però niuna ancora ve n’ha che avesse meditato sopra certi princìpi dell’umanità delle nazioni, dalla quale senza dubbio sono uscite tutte le scienze, tutte le discipline e le parti; e per sì fatti princìpi ne fosse stabilita una certa akmé, o sia uno stato di perfezione, dal quale se ne potessero misurare i gradi e gli estremi, per li quali e dentro i quali, come ogni altra cosa mortale, deve essa umanità delle nazioni correre e terminare, onde con iscienza si apprendessero le pratiche come l’umanità d’una nazione, surgendo, possa pervenire a tale stato perfetto, e come ella, quinci decadendo, possa di nuovo ridurvisi. Tale stato di perfezione unicamente sarebbe: fermarsi le nazioni in certe massime così dimostrate per ragioni costanti come praticate co’ costumi comuni, sopra le quali 1a sapienza riposta de’ filosofi dasse la mano e reggesse la sapienza volgare delle nazioni, e,‘n cotal guisa, vi convenissero gli più riputati delle accademie con tutti i sappienti delle repubbliche; e la scienza delle divine ed umane cose civili, che è quella della religione e delle leggi (che sono una teologia ed una morale comandata, la quale si acquista per abiti), fosse assistita dalla scienza delle divine ed umane cose naturali (che sono una teologia ed una morale ragionata, che si acquista co’ raziocini); talché farsi fuori da sì fatte massime fosse egli il vero errore o sia divagamento, non che di uomo, di fiera”(p. 173).
PICO DELLA MIRANDOLA, “IL MARXISMO E HEGEL”, E L’IRONIA DELLA STORIA. Anche se nel 1974, Lucio Colletti prende con determinazione, “completamente”, le distanze dal “trionfalismo dogmatico con cui, un tempo, [ha] difeso la giustezza di ogni rigo di Marx” (“Intervista politico-filosofica”, Bari 1974) e, benché abbia fatto eroici tentativi per riallacciare i fili della “critica dell’economia politica” con i fili della “critica della ragion pura”, non riesce a venir fuori dalla trappola logica e storica della metafisica dogmatica e dalle macerie degli idealismi, dei marxismi, degli scientismi, e, nel 1994, cade (abbagliato dalla figura del Cavaliere del partito “Forza Italia”!) nel pantano dei liberismi.
Nel “Il marxismo e Hegel”(Laterza, Bari 1969), a difesa di Marx, così scrive: “analisi scientifica e storia, a un parto, cioè scienza-storia e storia-scienza: ecco lo storicismo di Marx; che non è quello di Vico, né quello di Hegel e tantomeno quello di Croce” (p.141).
La catastrofe è già annunciata, e proprio nella parte più importante del lavoro (“a cui l’autore vorrebbe che fosse prestata l’attenzione maggiore”), “negli ultimi due capitoli: dedicati, rispettivamente, al concetto di “rapporti sociali di produzione” e all’idea della società “cristiano borghese” (p. VII). In questi capitoli i problemi della “Scienza nuova” di Vico sono al centro della questione. Tutti i nodi (dal rapporto essere-pensiero al verum-factum, vero-certo, uomo-dio, individuo-società e religione), vengono al pettine intorno al nodo antropologico, ma Vico non c’è - ovviamente!
Per difendere la concezione antropologica di Marx (l’uomo, un “ente naturale generico”) e chiarire il passaggio dal materialismo naturalistico al materialismo storico (contro il “materialismo dialettico” e la sua incapacità di sciogliere il nodo dei Manoscritti del ’44, cioè di intenderne il concetto dell’uomo come “ente naturale generico”), Colletti estrae il concetto di Uomo dal discorso di Pico della Mirandola (“De hominis Dignitate) e di Bovillus (“De Sapiente”) - in particolare, il tema dell’uomo artefice di se stesso, prodotto del suo farsi - e lo trapianta sul terreno del concetto dei “rapporti sociali di produzione”, e finisce per perdere ogni lucidità sia sul piano antropologico sia sul piano della critica dell’economia politica che della critica della logica hegeliana.
L’orizzonte ateo-materialistico, e la superficiale (se non inesitente) conoscenza diretta dell’opera di Vico, blocca a Colletti ogni via di uscita (quantomeno in direzione del suo stesso Kant, che era “realista”, e del suo stesso Marx, che non era “marxista”!) e lo acceca definitivamente, riconsegnandolo all’ateismo ateo-devoto non di Croce-Hegel ma di Gentile-Fichte e Rousseau (con la sua "religione civile", zoppa e cieca)! E, alla fine, per capire qualcosa della “miseria dello storicismo” si rivolgerà a Karl Popper, che della “società aperta e i suoi nemici” sapeva qualcosina!
E’ l’inizio della fine di un percorso “esemplare” - non solo suo, ma di grandissima parte della maggior parte degli intellettuali italiani. A onore e memoria di Colletti, è solo da dire che tenne sempre la schiena dritta e non rinunciò mai al suo diritto di critica di uomo, di cittadino e di intellettuale. A vergogna degli altri, è meglio che tacciamo! E riprendiamo a leggere Vico!
Principi di una scienza nuova”, Napoli 1725 - Per una nuova “Città della Scienza”, Napoli 2013: Che questo suo “meraviglioso libro - come scrisse Paul Hazard alla fine della seconda guerra mondiale - proietti finalmente il suo splendore sull’orizzonte dell’Europa”!
VICO: IL DESIDERIO DI IMMORTALITA’, LA STORIA, E LA PROVVIDENZA.
A “conchiusione dell’opera”, Vico riepiloga e riafferma con determinazione che “l’ordinatrice del mondo delle nazioni” è la provvidenza. E, con questa sua ultima frase, chiude il discorso: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse senza forse, per l gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano” (p. 328).
Se non si vuol cadere in equivoci di nessun tipo (come è successo e ancora succede) è all’inizio dell’opera che bisogna ritornare e rileggere ancora e di nuovo il primo capoverso del capitolo primo del Libro Primo:
“Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire” (p.172 - corsivi miei, fls).
Qui la chiave di accesso e la guida all’intero discorso dei “Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni”, e alla comprensione del punto di arrivo, della stessa conclusione: il “regno della coscienza, che è regno del vero Dio. Che era l’idea dell’opera, che tutta incominciammo - scrive Vico - da quel motto: A Iovis principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia Plena” (p. 329).
L’INESTINGUIBILE DESIDERIO DI IMMORTALITA’. Sembra Hegel! Ma, la fenomenologia dello spirito di Vico non disegna il cerchio di tutti i cerchi: il suo cerchio non si può mai chiudere e non si chiude mai su un “sapere assoluto”. Egli ha compreso tutta la potenza del desiderio e al contempo tutto il pericolo del desiderio dell’onnipotenza della natura umana e, finalmente, ha trovato la chiave per una comprensione critica di ogni ragione che voglia conseguire la vita perpetua in modo inverso e perverso (cfr.: “Lemurum fabula”, “Scienza nuova”, 1730) e mettere fine al libero cammino dell’umanità.
Per Vico, “Ercole”, l’umanità, è al bivio - sempre, e in ogni tempo: a lui la decisione, a lui la responsabilità della scelta. Il comune desiderio della natura umana è nascosto nel fondo dell’umana mente, ma “quanto è nascosto nella cagione, tanto produce quello effetto”: che, in situazioni di pericolo e rischio di morte, desideriamo e vogliamo che ci sia una forza superiore alla natura per superarla, che ci sia un Dio che possa venire in aiuto della finitezza e della mortalità dell’essere umano. “Essere e Tempo”: a distanza di secoli, Martin Heidegger - approdato, dopo il ‘diluvio’ nazi-fascista, nella grande foresta nera - comincia a pensare che “solo un Dio ci può salvare”, ma sprofondato nel sonno dogmatico e nella sapienza volgare pensa ancora all’abbagliante sarabanda dei fulmini e dei tuoni del suo Fuhrer-Giove!
L’INESTINGUIBILE DESIDERIO DI UMANITA’. Con Vico, al contrario, siamo già fuori dallo stato di minorità: niente dogmatismi né in fisica né in metafisica! Il desiderio di immortalità, è vero, ci porta dinanzi a “un Dio” superiore alla natura, ma questo Dio non ha niente di antropomorfico (non è né un Demiurgo alla Platone né un “sommo Padre Architetto” alla Pico e ancora alla Newton): al contrario, è il “Dio” della Legge e la Legge del “Dio” dei nostri Padri e delle nostre Madri, immanente e trascendente alla nostra stessa umana mente, illumina l’azione di ogni essere umano verso se stesso, verso gli altri, e verso il mondo.
Contro ogni tentazione e illusione, il “Dio” di Vico - detto diversamente- è il “Dio” di un desiderio antropògeno (Kojeve), non theògeno, e il nome del suo “Dio provvedente” è il nome del Dio evangelico, il Dio “Chàritas” (il dio della “Grazia”- “Chàris”, e delle “Grazie”, “Chàrites”)! E questo è, per Vico, anche il nome del “Dio provvedente” di tutte le nazioni (ebraica, gentili, e cristiane), della “natura umana tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti” (p.37).
LIBERO ARBITRIO E PROVVIDENZA. Questa è “la sola luce” che “barluma”: questa è la grande scoperta di Vico ed è questa la“sola luce”, che lo porta a comprendere - con evidenza incrollabile e straordinaria lucidità critica - “che ‘l mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini (...) che i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere”; e, al contempo, che la sapienza volgare e le false religioni di tutte le nazioni gentili (fondate “sulla falsa credulità d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori”, e sulla “divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti mandati agli uomini dagli dèi”) nascondono “però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe”.
LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA E IL DOTTO ABBAGLIO PLATONICO SEGUITO SINO AD OGGI:
“Solo il divino Platone egli meditò in una sapienza riposta che regolasse l’uomo a seconda delle massime che egli ha apprese dalla sapienza volgare della religione e delle leggi. Perché egli è tutto impegnato per la provvedenza e per l’immortalità degli animi umani; pone la virtù nella moderazione delle passioni; insegna che per propio dover di filosofo si debba vivere in conformità delle leggi, ove anche all’eccesso divengan rigide con una qualche ragione, sull’esempio che Socrate, suo maestro, con la sua propia vita lasciò, il quale, quantunque innocente, volle però, condennato qual reo, soddisfare alla pena e prendersi la cicuta.
Però esso Platone perdé di veduta la provvedenza quando, per un errore comune delle menti umane, che misurano da sé le nature non ben conosciute di altrui, innalzò le barbare e rozze origini dell’umanità gentilesca allo stato perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte (il quale, tutto a rovescio, doveva dalle sue «idee» a quelle scendere e profondere), e, sì, con un dotto abbaglio, nel qual è stato fino al dì d’oggi seguito, ci vuol appruovare essere stati sapientissimi di sapienza riposta i primi attori dell’umanità gentilesca, i quali, come di razze d’uomini empi e senza civiltà, quali dovettero un tempo essere quelle di Cam e Giafet, non poterono essere che bestioni tutti stupore e ferocia.
In séguito del qual erudito errore, invece di meditare nella repubblica eterna e nelle leggi d’un giusto eterno, con le quali la provvedenza ordinò il mondo delle nazioni e ‘1 governa con esse bisogne comuni del genere umano, meditò in una repubblica ideale ed uno pur ideal giusto, onde le nazioni non solo non si reggono e si conducono sopra il comun senso di tutta l’umana generazione, ma pur troppo se ne dovrebbono: storcere e disusare: come, per esempio, quel giusto, che e’ comanda nella sua Repubblica, che le donne sieno comuni." (pp. 174-5).
Federico La Sala (14.03.2013)
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. Il desiderio del desiderio, il desiderio antròpogeno di riconoscimento, e la fenomenologia del diritto ...
KOJEVE. LA SUA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" ANCORA RIDOTTA NELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2012): PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
È la legge del desiderio a farci amare la creatività
Non è solo una forza oscura, vuota: ha a che fare sempre con la materia, con il costruire. Elogio di una pulsione che va ben al di là di fisiologia e psicologia
di Elio Franzini (la Repubblica, 05.10.2018) *
Rettore dell’università Statale di Milano
Pensare al problema del desiderio ha significato, per molti anni, aderire a una sorta di prospettiva che genericamente potremmo chiamare " postmoderna", che scioglieva il desiderare nell’inconscio, o in macchine desideranti, " indebolendola" nelle pulsioni dell’Es. Non si può infatti dimenticare che, per un autore come Lyotard, sin dagli anni Settanta del Novecento, il desiderio si pone sul piano di una decostruzione come strada per distruggere la metafisica occidentale, annullandone le categorie e riportandole a pulsioni originarie. Questa strada è stata variamente percorsa da molti autori, con volumi di grande successo (si pensi a "L’anti- Edipo" di Deleuze e Guattari).
Strada lecita, senza dubbio, ma che forse non riesce a far comprendere non solo la ricca fenomenologia del desiderio, ma neppure l’ambiguità del suo ruolo multiforme nella formazione del soggetto e nella storia del pensiero stesso.
"Romanae Disputationes", l’ormai noto certamen filosofico che ogni anno raccoglie migliaia di studenti delle scuole superiori italiane, aiuterà certo ad ampliare questo concetto, rendendo possibili nuovi percorsi, che mostrino le possibilità formative del desiderio.
Il desiderio deve infatti essere guardato anche, se non soprattutto, al di fuori di uno schema psicologico, vedendolo connesso a un percorso di costruzione del senso. Il desiderio è creativo e, come dimostra la pratica dell’arte, ha una funzione formativa: è grazie al desiderio, a questo fondo oscuro, al suo lavoro nei processi costruttivi come in quelli ricettivi, che l’opera appare come una realtà "infinita", ovvero mai pacificata, che non possiamo ridurre a una sorta di ambigua sublimazione estetica.
In altri termini, il desiderio, in sé indefinibile per la varietà di significati che assume nei suoi vari campi di azione, può venir visto come ciò che tiene viva, nel processo e nel progetto dell’arte, la forza formativa, un senso sensibile e, per così dire, " mitico" e originario.
Il desiderio non può allora essere " spiegato", definito, ridotto a una sequenza lineare, clinica, sintomale. Ridurre questo percorso a economie libidinali non permette di comprendere che il desiderare è connesso a un piacere non riducibile alla fisiologia o alla psicologia. Il desiderio non è un impulso vuoto, meramente fantastico, ma si confronta sempre con la materia, con il costruire.
Tende a riempire di contenuti radicati nel mondo stesso la forza produttiva dell’immaginazione. L’energia che circola nello psichico è senza dubbio un’azione desiderativa: ma le sue manifestazioni non possono rimanere isolate nel vuoto di una perdita, nell’impersonalità, nell’Es.
La costruzione artistica come emblema di un percorso formativo mostra invece il desiderio in un’opera concreta, che si confronta con il mondo, la società, la cultura, la storia.
Desiderio di costruire qualcosa che rimanga, e che generi nuovi processi desiderativi, in questo modo liberandosi da un soggettivismo relativistico e affidandosi a un dialogo costruttivo che comporta il gesto di un soggetto costruttore.
Il desiderio, per concludere, è lo sfondo, che mai potrà essere rinchiuso in una sola prospettiva, di una possibilità costruttiva e progettuale capace di cogliere, nel mondo che ci circonda, una serie di trame che sono già nelle cose e che il desiderio porta in luce, mostrando sempre di nuovo la profondità e l’intensità della vita.
* https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/10/05/news/franzini_desiderio-208274414/
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA POTENZA DEL DESIDERIO E IL PROBLEMA DI DIO. UNA IMPOSTAZIONE ALL’ALTEZZA DI NEWTON E KANT, CHE SI SPINGE IN UN’ORIZZONTE CHE VA OLTRE FREUD E LACAN ...
GIAMBATTISTA VICO: LA LIBERTA’, LA PROVVIDENZA, E LA TEOLOGIA DELL’UMANITA’ "TUTTA DISPIEGATA":
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5609
FILOSOFIA. Il desiderio del desiderio, il desiderio antropògeno di riconoscimento, l’antropologia e la FENOMENOLOGIA ....
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3231
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829
Federico La Sala
Walter Benjamin. La febbre
di Valentina Maurella (Doppiozero, 21.09.2017)
«L’inizio di ogni nuova malattia mi insegnava, immancabilmente, con quale sicuro tatto e con quanta abilità il contrattempo mi venisse a trovare. Lungi da esso l’idea di farsi notare. Tutto aveva inizio con qualche chiazza sulla pelle, con un malessere. Ed era come se la malattia fosse abituata ad aspettare fino a quando il medico non le avesse procurato una collocazione. [...] cominciavo a riflettere su quanto mi stava per accadere. Calcolavo la distanza tra il letto e la porta e mi chiedevo per quanto tempo ancora la mia voce avrebbe potuto superarla. Già mi immaginavo il cucchiaio dal brodo colmo di esortazioni materne [...]. E come una persona che nell’ebbrezza prova a fare un calcolo o un ragionamento solo per vedere se ci riesce, così io contavo i riflessi che il sole faceva balenare sul soffitto della stanza e ordinavo sempre in nuovi gruppi le losanghe della tappezzeria. Mi sono ammalato spesso. Da qui forse proviene quella che altri definiscono pazienza, ma che in realtà non ha alcunché di virtuoso: la tendenza a vedere ciò che mi preme avvicinarsi a me da lontano, come le ore nel mio letto da ammalato. Per questa ragione, quando faccio un viaggio mi viene a mancare la gioia più grande se non ho potuto aspettare a lungo l’arrivo del treno in stazione e così si spiega anche perché, per me, fare regali sia diventata una passione; io, infatti, come colui che dona, scorgo in anticipo ciò che per l’altro rappresenta una sorpresa.»
Benjamin tratteggia una situazione nota pressoché a tutti, ossia l’avvicinarsi, inesorabile, della malattia. Riesce a rendere palpabile e reale quella sensazione di imminente disfatta del corpo di fronte all’avanzata del malessere, che pian piano incede, avvinghiandosi alla pelle in forma di chiazza. Non si tratta però solo di una realistica ed efficace descrizione della malattia. Benjamin, infatti, fa di questa condizione, ripetutasi numerose volte nel corso della sua infanzia, la possibile causa di un modo d’essere che rimarrà una costante di tutta la sua vita.
L’attesa della malattia, preannunciata dai sintomi più lievi, diviene per il cagionevole Benjamin bambino un’occasione per constatare l’incalzare della necessità naturale e, allo stesso tempo, questa attesa rappresenta una lenta e faticosa lotta interiore contro quella stessa, fisiologica, necessità. Benjamin non descrive la sofferenza, né la ribellione contro la malattia, ma, attraverso l’immagine dell’ubriaco che cerca di mettere alla prova la propria lucidità, restituisce quella sensazione di angoscia che si prova nel sentire la mente sull’orlo del precipizio. L’equilibrio instabile tra coscienza e incoscienza è tracciato dalle linee sottili del sole sul soffitto e dai disegni della tappezzeria.
È nella malattia che il bambino misura se stesso per la prima volta e, nello scontrarsi con una forza esterna che si abbatte su di lui, percepisce il proprio essere e la propria salute come indipendenti dalle amorevoli cure materne. Così, l’attesa del malanno imminente, si traduce in una riflessione sul modo di rapportarsi agli eventi futuri. Per il bambino essa rappresenta la conquista della familiarità con il tempo. Nelle ore in cui attende l’acuirsi dei sintomi che lo costringeranno a letto, il mondo intorno a lui diviene improvvisamente leggibile. Lo scettro per dominare il tempo è nascosto nell’anticamera di ogni evento. Sulle banchine della stazione, nelle ore di febbricitante attesa prima della consegna di un regalo. L’istante decisivo viene previsto e calcolato minuziosamente dall’immaginazione del bambino. Il momento in cui un sorriso riconoscente si disegnerà sul volto del destinatario; in cui il corpo soccomberà definitivamente alla febbre; in cui un interminabile fischio annuncerà la partenza del treno.
L’attesa è un atto di divinazione, in cui la mente del bambino si esercita a interpretare il rapporto tra la necessità degli eventi e la propria capacità di incidere sull’accadere di questi ultimi. La divinazione è un concetto di cui Benjamin si serve, nella XVIII tesi di filosofia della storia, per stigmatizzare l’ideologica contemplazione di un futuro preordinato, che mortifica e inibisce la capacità umana di agire all’interno della storia. Invece ciò che preme a Benjamin, in questo passo, è evidenziare come l’attesa di un evento preannunciato si carichi di un valore soggettivo irrinunciabile, che supera il senso stesso del compimento.
L’attesa così concepita rappresenta quella coloritura individuale che è capace di riempire un momento oggettivo della vita quotidiana. Benjamin, con lo sguardo di bambino, caratterizza una concezione qualitativa dell’esistenza, ribaltando la tradizionale immagine di attesa quale interminabile successione di istanti e considerandola, invece, come lo spazio entro cui il bambino sperimenta se stesso in maniera autentica e individuale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’ordine collettivo nasce dalla pulsioni
Antropologia filosofica. Mentre ci introduce alle istituzioni primitive, dal matrimonio all’arte, dall’ordinamento statale all’amicizia, Arnold Gehlen spiega la genesi stessa della natura umana: "L’uomo delle origini e la tarda cultura"
di Luca Corti (il manifesto, Alias, 26.06.2016)
Charles Taylor, il grande filosofo canadese, diceva che l’uomo è l’animale che interpreta se stesso. Eppure la domanda sull’uomo non ha riscosso un interesse costante nel tempo. L’antropologia, specialmente in alcune sue forme, passa non di rado per essere una «disciplina di crisi». Come quei personaggi dei romanzi che entrano in scena nelle situazioni di stallo, anch’essa sembra farsi avanti con più forza in quei momenti storici in cui alcune visioni del mondo tradizionali vacillano, alcune costellazioni istituzionali e campi di certezze crollano, portando l’uomo a sentirsi un problema del quale egli stesso deve fornire una spiegazione. E questo non vale solo per gli esordi della antropologia, quando sotto i colpi della rivoluzione scientifica e delle nuove scoperte geografiche, la fiducia in una natura umana uguale per tutti venne minata alle fondamenta, ma anche per epoche più recenti, quando - per esempio - cominciò a prendere piede la tradizione della antropologia filosofica.
Negli anni venti del Novecento, in Germania, lo sviluppo delle scienze cambiò profondamente la visione dell’uomo: una biologia e una psicologia rampanti (si pensi all’influenza di Darwin e all’impatto di Freud, ma non solo), assieme alla nascente etologia (l’esempio di Lorenz valga su tutti), tentarono di mettere a nudo il lato naturale dell’essere umano. L’epoca, d’altro canto, era percorsa dalle tensioni scaturite dall’esperienza della prima guerra mondiale, che offrivano pane ai denti di una giovane sociologia.
La questione dell’uomo tornò così a esercitare una certa urgenza, e il bisogno di dare una risposta globale, unitaria e comprensiva alla domanda sull’essere umano si fece sentire più forte. «Siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso - scrive Max Scheler - egli non sa più che cosa è, ma al contempo sa anche di non saperlo».
Insieme a Scheler e a Helmuth Plessner, il più giovane Arnold Gehlen entrò nel triumvirato che avrebbe posto le basi della antropologia filosofica. Una buona occasione per tornare su alcune delle questioni più importanti sollevate da questa disciplina ci viene ora dalla ristampa presso Mimesis, dopo ventisei anni dall’edizione del Saggiatore, di un libro del 1956 L’uomo delle origini e la tarda cultura (a cura di Vallori Rasini, traduzione di Elisa Tetamo, pp. 326, euro 25,00), in cui Gehlen riprende e sviluppa le tesi del suo saggio più celebre, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, scritto nel 1940.
Come ricorda Vallori Rasini nella sua introduzione, Gehlen aderì al partito nazionalsocialista, con conseguenze innegabilmente positive anche per la sua carriera. Sebbene non abbia costituito un «caso» analogo a quello di Heidegger, e malgrado abbia preso parzialmente le distanze dal nazismo, nella sua opera resta tuttavia evidente una componente conservatrice, che al tempo stesso non va misconosciuta né deve squalificare le sue idee, di grande importanza, delle quali va saggiata, innanzi tutto, la tenuta teoretica.
I capisaldi del progetto di Gehlen appaiono al lettore fin dalle prime pagine, a cominciare dal tentativo di mettere in piedi una filosofia basata sui risultati delle scienze dell’epoca: l’antropologia, la biologia umana e in particolate l’etologia, ma anche la archeologia e la sociologia entrano negli interessi del filosofo, che nutre su di esse competenze da esperto. Allo stesso tempo, Gehlen ne utilizza i risultati per andare alla ricerca di quelle che chiama le «categorie» fondamentali o le «qualità essenziali» dell’uomo. Il modo in cui combina l’anima empirista delle sue analisi con l’indagine sulla natura umana è tanto interessante quanto oggetto di controversie.
In primo luogo, Gehlen non condivide le idee di Darwin, o almeno non del tutto: fa leva su alcune critiche al darwinismo presenti nella biologia a lui contemporanea, critiche provenienti da scienziati cari all’antropologia filosofica come Adolf Portmann e Jacob von Uexküll - ai quali peraltro anche filosofi come Heidegger e Deleuze si rifanno di frequente.
Gehlen ne utilizza le teorie per attaccare la derivazione diretta dell’essere umano dalla scimmia. L’uomo - sostiene - non è una scimmia particolarmente evoluta, bensì discende da un ramo indipendente dell’evoluzione, che lo rende unico già dal punto di vista biologico, prima ancora che metafisico o teologico.
Ma in cosa consiste questa specificità biologica? È qui che Gehlen ci fornisce l’immagine dell’uomo che lo ha reso celebre: l’uomo - scrive facendo eco al filosofo settecentesco Johann G. Herder - è un essere per natura determinato da una serie di «carenze», l’unico privo di strumenti «naturali» che lo mettano in grado di assicurarsi la sopravvivenza. È privo di rivestimento pilifero, ad esempio, che lo protegga dalle intemperie, ma anche di organi difensivi naturali, così come di una struttura morfologica che gli permetta la fuga. Inoltre «difetta di istinti autentici», grazie ai quali tutti gli altri animali selezionano i segnali biologicamente vantaggiosi nell’ambiente e da questi si fanno guidare in maniera quasi «automatica».
L’uomo invece non ha neppure una nicchia ambientale, un habitat a lui specifico. Da qui il modo peculiare in cui il bipede implume si aggira, disorientato, nel mondo: le sue percezioni non sono selettive, ma rispondono a un caotico profluvio di stimoli; le sue azioni sono indeterminate, perché altrettanto disorganizzate e plastiche sono le sue pulsioni.
Nella Genealogia della morale, Friedrich Nietzsche aveva detto che «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato», coniando un’immagine che Gehlen fa sua in maniera originale. L’uomo, che è animale manchevole, deve determinarsi: in altre parole, deve farsi uomo, prendendo posizione rispetto al mondo, a se stesso e agli altri.
Ora, se non dalla natura, da dove proviene l’ordine che è tuttavia presente nell’agire umano? La risposta di Gehlen è chiara e costituisce il motivo centrale del suo testo: la fonte va cercata nel costituirsi di quelle che egli chiama le istituzioni, vere protagoniste della riflessione condotta nel 1956.
Dal matrimonio alla rappresentazione artistica, dall’ordinamento statale all’amicizia, la maggior parte delle forme umane di comportamento ordinato (se non tutte) sono per Gehlen fissate in istituzioni, ovvero in modi di agire e di organizzare il proprio comportamento collettivo: modi stabili e controllati. Le istituzioni regolano, incanalano, imbrigliano e ordinano le pulsioni, che di per sé sarebbero magmatiche (non è difficile rintracciare qui l’influsso di una certa psicologia del profondo).
Ma sarebbe sbagliato considerare le istituzioni solo come briglie tramite le quali l’uomo tiene a freno le sue pulsioni. Gehlen lo scrive chiaramente: le istituzioni nascono sì da plessi istintuali (fame, sete, istinto di riproduzione e conservazione), ma allo stesso tempo li plasmano e li orientano in vari modi, rivestendoli di nuovi significati, talvolta fino a renderli del tutto irriconoscibili.
Parafrasando Kant - di cui Gehlen ricoprì per qualche anno la cattedra all’Università di Königsberg - potremmo dire che le pulsioni senza le istituzioni sono cieche, le istituzioni senza le pulsioni sono vuote.
«Quali sono le vie attraverso le quali l’uomo arcaico compie esperienza di sé e intrepreta se stesso?». Gehlen formula esplicitamente questa domanda verso la metà del suo libro, mentre guida il lettore attraverso un percorso in varie tappe, dove si assiste al costituirsi delle prime forme istituzionali. Dicendoci che noi siamo animali profondamente istituzionali, e introducendoci al percorso di formazione delle istituzioni primitive, Gehlen intende spiegare la genesi stessa della natura umana. E va incontro, così, all’interrogativo che Charles Taylor riteneva costitutivo per l’essere umano.
Muovendosi su un territorio di confine, in equilibrio tra scienza e filosofia, la professione di «filosofia empirica» di Gehlen costituisce un’arma a doppio taglio. Da una parte il costante richiamo alle teorie scientifiche vuol essere un punto di forza nella sua argomentazione; dall’altra, egli stesso riconosce che qualsiasi teoria scientifica fornisce risultati provvisori e rivedibili; e infatti oggi, anche alcune delle sue tesi rischiano di apparire meno convincenti.
La biologia teoretica di von Uexküll, ad esempio, così influente su molti filosofi e importante per storia della antropologia filosofica, può essere affiancata da teorie concorrenti e più classiche sull’evoluzione, in cui la distanza tra capacità animali e capacità umane risulta assai ridotta, mentre l’idea di una origine filogenetica arcaica e peculiare dall’uomo, da cui deriverebbero le sue «manchevolezze» (idea che Gehlen deriva dal biologo olandese Luois Bolk), se non falsa, risulta oggi quantomeno controversa e minoritaria.
Stephen Gould, celebre biologo di Harvard e famoso divulgatore, la definì ad esempio «datata e un po’ pazza, ma ragionevole all’epoca e supportata in maniera cogente». Dal portamento eretto, alla «nudità», fino alle dimensioni del cervello, le caratteristiche umane sembrano oggi assai più specifiche e funzionali di quanto Gehlen pensasse, e risultano anch’esse da concepire come il frutto di un graduale processo di adattamento.
Ma l’altra grande anima dell’impresa di Gehlen, ovvero la sua ricerca di quali siano le «qualità essenziali» dell’essere umano, sembra potersi separare da questa tendenza scientifico-naturalista: è qui che risiede il potenziale maggiore del suo pensiero per le ricerche odierne.
L’immagine che Gehlen ci fornisce della costituzione dell’umano, la sua prospettiva sull’istituzione e sui motivi che animano le dinamiche della vita associata - motivi che non appartengono né possono appartenere al discorso scientifico-naturale - sono ancora oggi assai interessanti e potenti.
Aveva 92 anni
È scomparsa Maria Mattei l’ultima donna costituente
di Maria Corbi (La Stampa, 13.03.2013)
Se ne va un altro pezzo di memoria del Paese, una donna, Maria Teresa Mattei, che è stata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente e che ha contribuito a porre le basi di un Paese libero e democratico. Classe 1921, partigiana, combattente nella formazione garibaldina Fronte della Gioventù, si è sempre dedicata alla lotta per i diritti delle donne e dei bambini. È lei la madre della mimosa, il simbolo dell’8 marzo, della battaglia per la parità. Un fiore povero e diffuso che vinse sulla violetta proposta dalla Luigi Longo che voleva regalarle quel giorno.
Teresa era genovese di nascita, si iscrisse nel 1942 al Partito Comunista che lascerà nel 1955 quando rifiuterà la candidatura alle elezioni per la Camera a causa del dissenso nei confronti di Togliatti. Il nome di battaglia della Mattei era «Chicchi» e operava nella città di Firenze (a lei ed al suo gruppo si ispirò Roberto Rossellini per l’episodio di Firenze di Paisà).
Il fratello Gianfranco Mattei è un martire della resistenza. Docente e ricercatore di chimica al Politecnico di Milano, assistente prediletto del futuro premio Nobel Giulio Natta, fabbricava esplosivi per i Gap della capitale. Nel 1944 si tolse la vita nella cella di via Tasso, a Roma, per non cedere alle torture e non rischiare di rivelare il nome dei compagni.
Anni più tardi la Mattei raccontò che da quel lutto nacque in lei e in Bruno Sanguinetti (che dopo la guerra sposerà) l’idea di uccidere il filosofo Giovanni Gentile. Per fare in modo che i gappisti incaricati dell’agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnò lei stessa (che conosceva personalmente il filosofo) presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che lui dirigeva. «Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò».
Sessant’anni dopo rivendicò quella scelta: «Se un grande pensatore si schiera con un regime orribile come la Repubblica di Salò, si assume una responsabilità enorme. È un tradimento che non si può perdonare».
Nel 1946 si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, candidata nel Pci. Venne eletta e fu la più giovane deputata al Parlamento. Nel 1947 fondò, insieme alla democristiana Maria Federici, l’Ente per la Tutela morale del Fanciullo. Con la morte di Maria Teresa Mattei i componenti dell’assemblea costituente ancora in vita sono solo due: Giulio Andreotti e Emilio Colombo.
Quando Bergoglio puntava il dito contro la borghesia dello spirito
di Jorge Mario Bergoglio (l’Unità, 13 marzo 2013)
L ’ascolto della Parola mi ha fatto sentire tre cose: vicinanza, ipocrisia e mondanità. La prima lettura dice: «Per caso esiste una nazione così grande da avere i propri déi vicini quanto lo è il Signore nostro Dio a noi?». Il nostro Dio è un Dio che si avvicina. È un Dio che si fa vicino. Un Dio che ha iniziato a camminare con il suo popolo e dopo si è fatto uno di loro come Gesù Cristo, per esserci più vicino.
Ma non con una vicinanza metafisica, ma con quella vicinanza che descrive Luca quando Gesù va a curare la figlia di Jairo, con la gente che lo spintona fino a soffocarlo mentre un’anziana tenta di toccargli il mantello. Con questa vicinanza della moltitudine che voleva azzittire il cieco che con le grida voleva farsi sentire all’entrata a Gerico. Con questa vicinanza che ha dato animo a quei dieci lebbrosi per chiedergli di lavarli. Gesù è qui. Nessuno voleva perdersi questa vicinanza, persino il bambino salito sul sicomoro per vederlo.
Il nostro Dio è un Dio vicino. Ed è curioso. Curava, faceva del bene. San Pietro lo dice in maniera chiara: «Ha vissuto facendo il bene e curando». Gesù non ha fatto proselitismo: ha accompagnato. E le conversioni che otteneva erano proprio grazie a questa sua attitudine di accompagnare, insegnare, ascoltare, fino al punto che la sua condizione di non essere uno che fa proseliti gli fa dire: «Se anche voi volete andarvene, fatelo adesso e non perdete tempo. Avete parola di vita eterna, noi rimaniamo qui».
Il Dio vicino, vicino con la nostra carne. Il dio dell’incontro che esce dall’incontro del suo popolo. Il Dio che - userò una parola bella della diocesi di San Justo -: il Dio che mette il suo popolo nelle condizioni dell’incontro. E con questa vicinanza, con questo camminare, crea questa cultura dell’incontro che ci rende fratelli, figli e non soci di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza. Questa è la proposta.
La seconda parola è ipocrisia. Mi richiama l’attenzione che San Marco, sempre così conciso e breve, abbia dedicato tanto spazio a questo episodio - che, nella versione liturgica, è ancora più ampio. Sembra che se la prenda con quelli che si allontanano, quelli che del messaggio della vicinanza di questo Dio, che cammina con il suo popolo, che si è fatto uomo per essere uno di noi e camminare, hanno preso questa realtà, la hanno sviscerata in una lunga tradizione, la hanno resa idea, puro precetto e, infine, l’hanno allontana dalla gente.
Gesù sì che accuserà coloro che fanno proseliti per questo: fare proselitismo. Voi percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano quando Gesù andava a mangiare con i peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: «La gentaglia e le prostitute vi precederanno», che era la peggior cosa da dire all’epoca.
Gesù non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato - per usare una parola che si capisca - la chiesa del Signore. La riempiono di precetti e lo dico con dolore e scusatemi, se questa cosa sembra una denuncia o un’offesa, ma nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano bambini nati da ragazze madri perché concepiti fuori dalla santità del matrimonio.
Questi sono gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che allontanano il Dio della salvezza dalla gente. E questa povera ragazza, pur potendo rispedire suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di portarlo alla luce, sta peregrinando di parrocchia in parrocchia affinché qualcuno lo battezzi.
A coloro che cercano proseliti, i clericali, quelli che clericalizzano il messaggio, Gesù indica il cuore e dice: «Dal vostro cuore escono le cattive intenzioni, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli adulteri, l’avarizia, il male, gli inganni, la disonestà, l’invidia, la disinformazione, l’orgoglio, la mancanza di stima...». Bella gente, eh? E così li tratta: li denuncia. Clericalizzare la Chiesa è un’ipocrisia farisaica.
La Chiesa del «venite, gente, che vi diamo il premio e chi non entra non entra» è fariseismo. Gesù ci insegna un’altra via: uscire. Uscire a portare testimonianza, uscire a interessarsi al nostro fratello, uscire a compatire, uscire a chiedere. Farsi carne. Contro lo gnosticismo ipocrita dei farisei, Gesù torna a mostrarsi in mezzo alla gente tra gentaglia e peccatori.
La terza parola che mi ha toccato è il finale della lettera di San Giacomo: non contaminarsi con il mondo. Perché se il fariseismo, questo «clericalismo » tra virgolette, ci danneggia, anche la mondanità è uno dei mali che minano la nostra coscienza cristiana. Questo lo dice San Giacomo: non contaminatevi con il mondo.
Nel suo addio, dopo cena, Gesù chiede al Padre che lo salvi dallo spirito del mondo. È la mondanità spirituale. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa: cadere nella mondanità spirituale.
Per questo, sto citando il cardinale De Lubac. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa, persino peggiore di quello di avere avuto Papi libertini. Questa mondanità spirituale di fare quel che sembra buono, di essere come gli altri, questa borghesia dello spirito, degli orari, di spassarsela, dello status: «Sono cristiano, consacrato, clerico».
Non contaminatevi con il mondo, dice San Giacomo. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità spirituale. Perché questo dimostrerebbe che siamo più imprenditori che uomini o donne di vangelo. Sì alla vicinanza. Al camminare con il popolo di Dio. A sentire tenerezza per i peccatori, per quelli che si sono allontanati, e sapere che Dio vive in mezzo a loro.
Che Dio ci conceda questa grazia della vicinanza, che ci salvi dall’atteggiamento imprenditoriale, mondano, proselitista, clericalista e ci avvicini al Suo cammino: quello di camminare con il santo popolo fedele di Dio. Che così sia.
Testo tradotto da Leonardo Sacchetti
Il rottamatore di Dio
di Luca Kocci (il manifesto, 17 marzo 2013)
Con l’ Angelus in piazza san Pietro, questa mattina, ci sarà il primo vero bagno di folla di papa Bergoglio. In attesa di martedì quando, con la messa di inizio pontificato, è atteso a Roma un milioni di persone, con oltre 100 capi di Stato e di governo.
Intanto, nelle occasioni pubbliche di questi giorni, Bergoglio si conferma papa mediatico e innovatore, perlomeno nei gesti e nelle parole. «Un rottamatore che sta smontando pezzo dopo pezzo il cerimoniale moderno dei pontefici», dice lo storico Alberto Melloni.
Ieri, per esempio, alla fine dell’udienza ai 5mila giornalisti che hanno seguito il conclave, il papa ha eliminato la benedizione solenne, che Ratzinger faceva spesso in latino. «Dato che molti di voi non appartengono alla Chiesa e non sono credenti - ha detto in spagnolo -, imparto la benedizione, in silenzio, rispettando la coscienza di ciascuno».
Bergoglio ha anche svelato come sono andate le cose per la scelta del nome Francesco. Appena superato il quorum del 77 voti, il suo vicino di posto in conclave, il francescano brasiliano Hummes, gli ha detto «non dimenticare i poveri». Subito, spiega Bergoglio, «ho pensato a Francesco d’Assisi, l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato, e in questo momento noi non abbiamo una buona relazione con il creato».
E ha confessato anche il suo desiderio di «una Chiesa povera e per i poveri». Un’affermazione decisamente in controtendenza rispetto al trionfalismo trasmesso dagli ultimi due pontificati di Wojtyla e Ratzinger.
Che tuttavia, facendo un po’ di esegesi, rivela una visione diversa da quella conciliare: papa Roncalli parlò di «Chiesa dei poveri», quella di Bergoglio è una Chiesa «per i poveri», in cui quindi la componente paternalistica e caritatevole sembra prevalere rispetto a quella di liberazione.
Arrivano anche i primi atti di governo del nuovo papa, con la conferma, scontata, dei capi dei dicasteri curiali e vaticani « donec aliter provideatur », cioè fino a che non si provveda altrimenti.
Tuttavia, nel comunicato della sala stampa, c’è una precisazione non scontata: «Il santo padre desidera riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva».
Non andò così con Ratzinger il quale, due giorni dopo la sua elezione a papa, confermò come segretario di Stato il cardinal Sodano, citandolo espressamente, e lasciandolo al suo posto per oltre un anno, fino al raggiungimento dell’età pensionabile. E così fece con molti altri, a partire dai due sostituti della Segreteria di Stato, per gli Affari generali e per i Rapporti con gli Stati (i ministri degli Interni e degli Esteri).
Sembrerebbe invece che Bergoglio - perlomeno a questo fa pensare l’inciso del comunicato ufficiale - voglia prendersi ancora qualche settimana di tempo per poi procedere ad un ricambio robusto e generalizzato dei vertici della curia e del governatorato, cominciando proprio dalla Segreteria di Stato di Bertone.
Saranno proprio queste nomine a rivelare se veramente quello di Bergoglio sarà un pontificato di rottura e quale direzione potrà prendere, al di là dei gesti e delle parole apparentemente “rivoluzionarie” di questi giorni.
Domani ci sarà la prima udienza del papa con un capo di Stato: la presidente argentina Cristina Kirchner. E fra i due i rapporti sono tutt’altro che pacifici: Bergoglio, da presidente della Conferenza episcopale argentina (fino al 2011) e da vescovo di Buenos Aires, non è mai stato un suo sostenitore.
Povertà e obbedienza, il rinnovamento di un conservatore popolare
di Gennaro Carotenuto (il manifesto, 17 marzo 2013)
Jorge Bergoglio, papa Francesco, è quello che in Argentina si definisce un «conservatore popolare», un esponente tipico della destra peronista. Ha diretto e rinnovato con successo la chiesa argentina senza modificarne il segno politico conservatore.
È l’erede materiale e spirituale di Karol Wojtyla e, per i cardinali che lo hanno eletto in conclave, deve essere apparso una scelta perfetta su più d’uno dei fronti aperti per la chiesa cattolica. Ha le doti per metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al «fallimento» Benedetto XVI ma è sufficientemente anziano per rappresentare un nuovo papato di transizione in termini di durata.
Può rilanciare il cattolicesimo in un continente assalito dalle chiese protestanti conservatrici, vera emergenza che dall’Europa ignora. Per alcuni rappresenta un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani. Bergoglio viene da lontano.
Fuor da demonizzazioni e santificazioni non ebbe un ruolo apicale nella chiesa argentina complice della dittatura. È una storia di lacerazioni, drammi, crimini, persecuzioni. Al contrario delle chiese cilena e brasiliana, le gerarchie argentine furono le peggiori, complici e perfino mandanti di violazioni di diritti umani.
Appena un mese fa una sentenza della magistratura chiama in causa il primate dell’epoca, Cardinal Raúl Primatesta e il nunzio apostolico Pio Laghi nell’assassinio del vescovo Enrique Angelelli e dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville.
Furono almeno 125 i religiosi impegnati a fianco degli ultimi a essere eliminati, spesso indicati ai carnefici dalle stesse gerarchie cattoliche, Tortolo, Primatesta, Aramburu. È in questo ambito sinistro che azioni e omissioni vanno misurate.
I gesuiti ne restano al margine ma alcune accuse raggiungono Bergoglio. Le formulano personaggi autorevoli come Horacio Verbitsky, il gesuita Luís «Perico» Pérez Aguirre, che gli imputa soprattutto una svolta di destra della Compagnia, Olga Wornat, Emilio Mignone, una delle più cristalline figure di difensore dei diritti umani in Argentina, Bergoglio «è uno di quei pastori che hanno consegnato le loro pecorelle».
In particolare è accusato di avere abbandonato al loro destino due giovani parroci gesuiti sul crinale tra difesa dei poveri e guerriglia. Sono desaparecidos per cinque mesi. Uno dei due lo accusa: «Bergoglio se ne lavò le mani. Non pensava che uscissi vivo». Un solo episodio e qualche voce non bastano.
Bergoglio non fu né un Aramburu né un Von Wernich ma neanche un padre Mujíca, uno dei sacerdoti assassinati. Sta in una zona grigia, un quarantenne in ascesa, in una chiesa argentina dove si mandava a uccidere o si rischiava di essere uccisi. Più di ciò il papa, che ha sintetizzato in un giudizio critico quegli anni, fu sempre riluttante a testimoniare in molteplici inchieste e processi per violazioni di diritti umani.
Scelse di denunciare il peccato ma non il peccatore e quando il sacerdote Christian Von Wernich fu condannato all’ergastolo per 42 sequestri, 7 omicidi e aver personalmente torturato 32 persone Bergoglio scelse di non aggiungere altra sanzione a quella della giustizia terrena.
Negli anni nei quali padre Arrupe, il papa nero, viene ridotto all’impotenza da Giovanni Paolo II, lavora per spostare in senso conservatore la Compagnia di Gesù. Ha già una relazione privilegiata con Karol Wojtyla.
Il successore di Primatesta, Quarracino, lo nomina ausiliare. Strana coppia. Votato ai piaceri della vita e all’ostentazione della ricchezza, il primate è amico personale di Carlos Menem. L’ausiliare invece fa il vescovo, forma il clero ed è attento al popolo delle villa miseria. Hanno relazioni cordiali ma distanti e per Bergoglio è l’unica maniera di tener fede sia ai voti di castità e povertà che a quello di obbedienza.
La successione giunge nel 1998. Vi emergono le caratteristiche che oggi lo portano al soglio pontificio: il pugno di ferro che ne fa uno spauracchio ora per la curia romana, la marcata preoccupazione sociale, la critica alla politica.
Soprattutto Bergoglio - ed è un punto di forza rilevante - è vicino al suo clero, perfino alle pecorelle smarrite come il vescovo Jerónimo Podestá, ridotto allo stato laicale per la relazione con una donna, ma al quale rimase vicino umanamente fino alla fine.
Ma chi è davvero Jorge Bergoglio che comincia il suo cammino di Vescovo di Roma con un passato così pesante? Integralista di destra mette i poveri al centro del suo apostolato. Vicino alla dittatura rende omaggio ai sacerdoti assassinati da questi ultimi.
È una carriera controcorrente, conservatore in un ordine considerato progressista, primo gesuita primate argentino, primo gesuita papa, primo papa latinoamericano.
Nemico dei progressisti e lontano dagli organismi per i diritti umani, esige dallo Stato educazione cattolica ed è contrario ai contraccettivi. Nessuno può accusarlo di non onorare i propri voti, in particolare quello di povertà, è lontano dagli stereotipi.
L’attenzione di Bergoglio per i poveri è di stampo infaticabilmente caritatevole, mai politico. Se bisogna rifuggire sia l’interpretazione tenebrosa del complice della dittatura tout court che quella di un papa scelto per fermare il cambiamento in America, Bergoglio è una figura ben diversa da quella di Ratzinger e con tratti di forte continuità con Karol Wojtyla. Questo combatté e vinse la battaglia con la teologia della liberazione senza comprenderne le ragioni, per perdere poi quella con le chiese protestanti. È lì che va atteso fin dal prossimo viaggio in Brasile il nuovo papa.