Discorso per l’inaugurazione di piazza Enzo Paci
di Emilio Renzi *
Il Comune di Milano, su proposta dell’Assessore alla Cultura Stefano Zecchi, ha deliberato di intitolare una piazza a Enzo Paci. Gli oratori, il giorno dell’inaugurazione (giovedì 6 aprile 2006), sono stati Stefano Zecchi, Emilio Renzi e Umberto Eco. Alla fine ha preso la parola Lulli Paci.
La piazza si trova nel Quartiere S. Ambrogio - Zona 6 Barona. Al suo centro vi è una fontana su cui campeggia una statua dello scultore Igor Mitoraj. Essa raffigura il centauro Chirone.
Come Stefano Zecchi, come Lulli Paci e tutti voi, devo superare una certa emozione nel prendere la parola; cercherò ugualmente di tracciare un profilo comprensivo di Enzo Paci filosofo.
La filosofia per Enzo Paci si dice “in molti modi”.
Primariamente si dice nella forma della filosofia come teoresi: riflessione sui problemi dell’uomo nella sua esistenza, pensiero, valore, nella temporalità della vita intenzionale.
Filosofia si dice nella architettura: architettura della città degli uomini. Filosofia si dice nella riflessione sulla scienza e sulle tecniche. Filosofia si dice nella lettura delle letterature - la grande letteratura europea, quella nordamericana. Filosofia si dice nella riflessione sull’estetica, sulle arti, sulla musica. Filosofia si dice nell’esercizio notturno della scrittura; nella pratica solare dell’insegnamento. Filosofia si dice nella assunzione di responsabilità nelle vicende della polis e alle sue storie di tempi alti, di orrori e di erramenti. Filosofia si dice nell’idea di una cultura che non se ne sta nella torre d’avorio e che diventa quindi editoria, pubblicistica, radiofonia. Filosofia si dice come enciclopedia della filosofia ossia un sapere dei saperi: ideali, scientifici, storici.
Questi furono i molti modi - e non sono tutti - con cui Paci “disse filosofia” e ne fu docente per la vita e nella vita. Che la sorte gli assegnò nella vita d’Italia e d’Europa in un arco tra il decennio entre-deux-guerres, la ripresa degli anni Sessanta, i rivolgimenti dei Settanta.
Enzo Paci nacque a Monterado in provincia di Ancona il 18 settembre del 1911. Seguì gli spo stamenti di lavoro del padre, agronomo, per cui gli anni di Liceo li visse a Cuneo, quelli universitari per due anni a Pavia, il cui più importante docente fu Adolfo Levi, e a Milano, dove si laureò con una tesi sul Parmenide di Platone con Antonio Banfi. Appartiene quindi a quella pepinière di filosofi di cui Fulvio Papi ha espresso i tratti comuni e le personali differenze sotto la dizione di “Scuola di Milano”: Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti, cui dobbiamo aggiungere almeno Giovanni Maria Bertin, il poeta Vittorio Sereni, Luciano Anceschi, l’editore Alberto Mondadori, Dino Formaggio.
“Crisi” è il termine che in cui gli anni Trenta si ritrovano: crisi dell’economia, delle libertà. Nel lessico dell’epoca: naufragio nel “tramonto dell’Occidente”. Paci partecipa al dibattito inserendosi nello sviluppo europeo delle filosofie dell’esistenza cui, in collaborazione con Nicola Abbagnano, conferisce un accento antinichilistico che Abbagnano e lui chiamano “positivo”. Al tempo stesso scrive sulle riviste giovanili del periodo, che negli anni trasmutano dall’appoggio al contrasto al dominante regime fascista.
Nel 1940 Paci intraprende la carriera di insegnante nei Licei; si forma una famiglia sposando Elena Fagiolo, docente di materie scientifiche. Richiamato alle armi è assegnato in Grecia; con l’armistizio è catturato come tanti; trascorre venti mesi negli stalag di Beniaminowo e di Wietzendorf; come tutti, rifiuta di optare per la repubblica neofascista. È quel che Alessandro Natta chiamerà l’”altra Resistenza”.
Al rimpatrio ha due incontri importanti, certo ben diversamente emotivi!: abbraccia la figlia Francesca Romana (Lulli, per tutti), che gli era nata oltre due anni prima; rivede Banfi, il maestro. In straordinarie pagine di diario che dobbiamo allo scavo di Amedeo Vigorelli e di Guido Neri carissimo, leggiamo che Banfi dice: “Quando si sente che Lui passa bisogna decidersi”: “Lui” è il movimento comunista internazionale, storicamente concretato nel Partito comunista italiano. Per contro, Paci: “il richia mo alla vita... una posizione che la mia anima ha duramente scontato. Due anni di ascesi di fronte all’assoluto e alla morte... devo ora conservare la libertà, l’indipendenza, vivere nell’immanenza portando in me il senso della trascendenza.”
È l’inizio della stagione matura. Paci pubblica le lezioni che aveva tenuto ai compagnia di prigi onia: gli argomenti sono letterari, Mann, Proust, Rilke... Scrive sul Vico letto in quelle cupe lande: sarà Ingens sylva. Nel Doktor Faustus romanzo della contrapposizione tra civiltà e barbarie legge che Mann fa leggere ad Adrian Leverkhün l’Aut aut di Kierkegaard: questa l’ispirazione per il titolo della rivista che fonda nel 1951 - “rivista di filosofia e di cultura”, tutt’ora vivente e viva. In que llo stesso anno quindi a quarant’anni esatti vince il concorso e diventa docente a Pavia.
Nel 1957, dopo la scomparsa di Banfi e quella di Giovanni Emanuele Barié, giunge a Milano dove insegnerà sino alla morte. La riflessione filosofica lo porta a far reagire tra loro esistenzialismo e storicismo: l’anziano Benedetto Croce riconoscerà i buoni argomenti di Paci a favore dell’”utile” come “vitale”. E a far reagire l’ esistenzialismo sul problema del tempo: si aprono i dialoghi con Whitehead, Wittgenstein, Dewey; Heidegger è sempre più svanente; Dostoevskij, i presocratici, sono esposti al Terzo programma della Rai con profondità. Ogni “filosofia dell’Io” è trascesa nella “filosofia della relazione”.
Il relazionismo è processualità: nel rapporto vissuto con l’altro, nella entropica irreversibilità del tempo. Lungo questa strada Paci riscopre Husserl, la fenomenologia. L’interlocuzione è con Merleau-Ponty; anche Paci prende la via di Lovanio, va a decifrare la idiografia dei manoscritti inediti che padre van Breda ha salvato dal nazismo. In Tempo e verità nella fenome nologia di Husserl, il libro del 1961, Tempo e verità è il deliberato ribaltamento di Essere e tempo.
Il blocco di Diario pubblicato in quello stesso 1961 si qualifica fenomenologico. L’epoché è l’apertura necessaria al riconoscimento della in tenzionalità, della intersoggettività, del precategoriale.
La fenomenologia relazionistica di Paci si scrive in prima persona e invita ciascuno e tutti a esperire in prima persona, “in carne e ossa”. Diviene matura l’opera di sintesi tra la grande rilettura della Krisis di Husserl (con le coeve ricerche) e la crisi dell e scienze contemporanee irrigidite tra obiettivazione e oblio del mondo-della-v ita. Funzione delle scienze e significato dell’uomo, l’opera del 1963, mira a far interpretare dalla filosofia il proprio tempo storicamente appreso.
A Praga l’anno prima Paci aveva parlato sul significato dell’uomo in Marx e in Husserl; e infatti il nome di Marx vien fuori con forza, sempre accomp agnato da lla critica ai marxismi sclerotizzati dall’ideologia e dal potere reale. E merge lo spunto del m arxismo italiano, Antonio Labriola e Antonio Gramsci (ma anche Rodolfo Mondolfo).
L’interlocuzione è ora con Jean-Paul Sartre; l’incontro a Parigi nel 1964 per parlare su Kierkegaard vivant non è l’unico. Sono gli anni belli. Studentesse e studenti si affollano nell’aula 111; nelle conferenze, intorno ai banconi delle novità librarie, si vedono donne e uomini che cercano una cultura che parli di relazioni e di significati.
Uno “stile” di Paci esiste ormai, sicuro di sé. È l’antiaccademismo, l’apertura ai giovani, la capacità non di mettersi al servizio del filosofo di turno (come pure è stato autorevolmente detto) ma di saper dialogare con le idee di chi pensa. Ha scritto: “C’è una generosità di lettura come c’è una generosità umana, ed anzi, forse, si tratta di una sola cosa. Una fi losofia esige, per essere compresa, e perché si possa apprendere qualcosa da essa, la nostra generosità”.
In altri termini: Paci ha fatto “scuola”; ma non ha generato una scolastica. Quando una nuova generazione di studenti chiede nuove prassi di apprendimento della cultura, differenti modalità della comunità universitaria, Paci sceglie con essi il modo dell’ascolto ravvicinato, del dialogo nonostante tutto e nonostante le evidenti e rumorose difficoltà.
È la terza stagione dell’impegno politico di Paci dopo quella vitalistica e “neoro mantica” nell’ anteguerra fascista e quella per la libertà della cultura negli anni Cinquanta; per essa è assumibile il termine sartriano di engagement. L’insegnamento già assai poco cattedratico si svolge sempre più extramoenia o in conferenze negli Stati Uniti: la critica alla obiettivazione diventa negazione dell’alienazione e filosofia della praxis a partire dalla regione originaria dei bisogni. Fenomenologia e dialettica marxista vengono fatti tendere l’uno verso e dentro l’altro; al tempo stesso si consolida il progetto della filosofia come enciclopedia dei saperi unificati dalla attualità della fenomenologia.
Gli anni finali sono quelli del dolore, suo e forse più ancora per quello tristemente lungo dell a moglie. Le tonalità del discorso filosofico, non mai spento se non dalla morte avvenuta il 21 l uglio di trent’anni fa esatti, si fanno chiaroscurate. Lampeggiano il negativo, il male, un afflato (peraltro presente in Paci sin dalle origini) verso la religione nella sua essenza sovrastorica, assieme all’attenzione verso Ernst Bloch e i teologi della liberazione. Lampeggia anche la postulazione di una “costituente mondiale intersocialista”: come dire, la pace voluta da un uomo che ha patito la guerra.
Paci resta quello che è sempre stato: un filosofo della vita positiva. Rapidi ricordi si accendono negli ultimi brevi articoli: di padre van Breda; di Ricoeur conosciuto attraverso i reticolati dei campi di concentramento; di Sartr e, che gli confessò di aver letto soltanto Ideen I - e allora, scrive Paci, camminando per il Bois de Boulogne “io faccio una vera e propria lezione sull’ultimo Husserl”.
Ora - e concludo - se Paci si è permesso di tenere una “vera e propria lezione” a Sartre, io credo sia lecito immaginare che Paci avrebbe considerato coll’intenso sguardo dei suoi occhi scuri il centauro e avrebbe cominciato a filare una lezione delle sue. Comprensivo del mito come solo un vero razionalista sa essere, avrebbe preso le mosse dalla raffigurazione del centauro: metà animale metà uomo, quindi vivo nella tensione tra natura e cultura. I centauri corrono tra selva e abitato; sono loro ad aver scoperto come trasformare il vitigno in vino e la carne predata con la caccia: dal “cotto” al “crudo”. Perciò sono detti signori degli unguenti e dei farmaci: perché hanno trasformato la natura in cultura.
Quel centauro là si chiama Chirone: è l’ eroe eponimo della civilizzazione perché è stato maestro di Asclepio, maestro a sua volta dei sapienti di Cos. Chirone da cheir o mano, da cui chirurgia. È all’origine del Corpus hippocraticum, ossia di quel sapere che noi chiamiamo medicina. E questo ci aiuta a capire la genesi delle tecniche e della scienza odierne, in una tensione non mai placata verso la verità e la vita come verità.
Ecco, lasciamo che il professor Paci continui la sua lezione, magari camminando come faceva tante volte con molte e molti di noi, col suo passo non veloce ma costante verso il caffè Panarello, giù per corso di Porta Romana, verso via Burlamacchi.
* Emilio Renzi, Discorso per l’inaugurazione di piazza Enzo Paci.
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(da: AA. VV., Omaggio a Paci - I. Testimonianze II. Incontri, a cura di Emilio Renzi e Gabriele Scaramuzza con la collaborazione di Simona Chiodo, pp. IX-XIII, Quaderni di Materiali di Estetica n. 5, CUEM, Milano. ISBN 886001073X)
NEL SITO, E IN RETE, SUL PENSIERO E SULLA FIGURA DI PACI, SI CFR.:
PAURA DELLA LIBERTA’: ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA....
L’INGENS SYLVA E LA PAURA DELLA LIBERTA’: CARLO LEVI, NELL’ORIZZONTE DI VICO, BENJAMIN, ED ENZO PACI.
SCHEDA
Restaurato il "Centauro" di Mitoraj *
Milano, 1 agosto 2015 - Dopo tre mesi di lavori la Barona, quartiere Sant’Ambrogio II, riacquista la statua del Centauro restaurata. Si tratta di un’opera dello scultore polacco Igor Mitoraj collocata all’interno della fontana di piazza Enzo Paci. L’intervento, che ha compreso anche opere di miglioramento della fontana, è stato realizzato dal settore Arredo Urbano e ha comportato una spesa di circa 25 mila euro.
“Continua l’opera di recupero e restauro del bello che esiste nei quartieri cosiddetti periferici di Milano. Faccio appello affinché la fontana e il monumento non siano oggetto di vandalismi: sono un patrimonio di tutti e la loro tutela richiede l’impegno di risorse pubbliche. Ringrazio, infine, i tecnici dell’Arredo urbano per il lavoro svolto”, lo dichiara l’assessore ai Lavori pubblici e Arredo urbano Carmela Rozza.
La statua è stata installata nella piazza nel 1990. L’intervento di restauro ha previsto il recupero dell’originaria patinatura del bronzo, in buona parte persa nel corso degli anni, riproposta con le medesime tecniche utilizzate negli anni ’90 da Mitoraj. Inoltre, per dare completezza esecutiva all’opera, sono stati introdotti alcuni accorgimenti edili ed impiantistici allo scopo di rimodernare la fontana nel suo complesso.
In particolare l’opera è stata restaurata con la realizzazione di un basamento lapideo sottostante - con granito rosa al pari del bordo vasca - che ha sostituito il precedente supporto realizzato semplicemente in calcestruzzo. Una novità che conferisce al monumento importanza e un inserimento più adeguato al contesto.
Il nuovo basamento è concepito per un’eventuale installazione futura di fari LED al posto dell’attuale impianto dismesso a causa dei continui atti vandalici. Per quanto riguarda la vasca sono stati implementati i sistemi di filtraggio della fontana in modo tale da fermare il più possibile i rifiuti che possono in qualche misura danneggiare le parti impiantistiche.
E’ stato inoltre migliorato il gioco d’acqua attorno al monumento e sono state eseguite tutte le opere necessarie al recupero del bordo vasca in granito rosa, compresa la sigillatura finale di tutti i giunti.
Mitoraj è nato nel 1944 in Polonia. Nel 1968 si è trasferito a Parigi, per continuare i suoi studi artistici. Poco dopo rimase affascinato dall’arte e dalla cultura Latino-Americane e decise di passare un anno dipingendo e viaggiando in Messico. Questa esperienza lo avvicinò alla scultura. Dopo aver lavorato con terracotta e bronzo, a seguito di un viaggio a Carrara nel 1979, decise di passare alla lavorazione del marmo. E’ morto nel 2014.
* COMUNE DI MILANO - Arredo urbano, 01 AGOSTO 2015.
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MILANO, Quartiere S. Ambrogio - Zona 6 Barona:
GALLERIA FOTOGRAFICA DI PIAZZA ENZO PACI
FLS
Sogni rossi sorgono dalla polvere sollevata
di GEORGES DIDI-HUBERMAN (Fata Morgana web, 13 Luglio 2020)
Sperare è vedere un tempo che non vede la realtà in cui siamo immersi. È vedere il tempo nella sua stessa possibilità di rimessa in gioco. È forse vedere un “tempo vero”, e in ogni caso un “tempo grande” che desideriamo fortemente e che intende offuscare la storia presente quando essa è nelle mani di maestri determinati a non rinunciare all’alienazione dei loro soggetti. Lo spirito dell’utopia di Bloch è stato scritto in “tempi bui”, come diceva Brecht, quelli del grande massacro europeo del 1914-1918 e della rivoluzione tradita del 1918-1923 in Germania.
Cosa possiamo sperare, in tali circostanze, scrivendo - per rari lettori - un libro sulla speranza? Speriamo di vedere e far vedere un tempo altro. Ma, in queste stesse circostanze, si tratta di inventare, di reinventare il tempo di punto in bianco. Innanzitutto intendiamo correttamente la parola “invenzione”. Essa implica le due o tre accezioni dell’inventio latina, vale a dire: una facoltà immaginativa, stilisticamente o retoricamente accostata al linguaggio o alle opere dello spirito; una facoltà archeologica che permette di scoprire, di rinvenire una realtà che fino a quel momento sfuggiva alla vista comune; o, ancora, una facoltà strutturale di raccolta e rimontaggio che sottintende, soprattutto tra gli archeologi, una parola come “inventario”.
Ad ogni modo sperare inventa il tempo, nel senso che esso diviene un’istanza per ricominciare. Tale è stato, in effetti, Lo spirito dell’utopia: una serie di ipotesi proposte in vista di una simile invenzione, di una tale immaginazione, di un ricominciamento siffatto. Si trattava in primo luogo, nel resoconto di Ernst Bloch, dell’invenzione di uno sguardo. Il libro si apre con la parola Absicht che significa “intenzione”, “disegno”, “progetto”: nulla di più normale ai margini di un’opera così ambiziosa. Ma Sicht significa “vista”, attraverso cui i traduttori hanno ben compreso il pensiero di Bloch scegliendo di restituire a questa semplice parola il suo pieno valore filosofico senza che si perdesse quello desiderante e sensibile. “Ciò che è in vista”. Ossia, ciò che è in vista non è pienamente visibile, poiché ciò che è in attesa non può, per definizione, essere compiuto. Ciò che è in vista, dirà Bloch, non è completamente noto e, tuttavia, è già conoscenza: una “conoscenza non ancora cosciente” (noch nicht bewubte Wissen).
Tale elaborazione, la cui posta in gioco, ricordiamolo, è di natura politica, presupponeva necessariamente una certa relazione con Freud e la teoria psicanalitica: un dibattito nel senso più vivace, generoso, fecondo. Ernst Bloch fa parte di una costellazione di pensatori - Warburg o Benjamin, Adorno o Marcuse, ma anche Bataille o Ejzenštejn - per i quali la vita sociale in generale e la vita politica in particolare non prescindevano dall’inconscio (il desiderio inconscio, la memoria inconscia, il sapere inconscio). «Quando è che si è coscientemente presenti nella regione dei propri attimi?», comincia col domandarsi l’autore de Lo spirito dell’utopia.
Laddove lo «stesso sogno notturno è generalmente radicato a tutti gli effetti nel passato, scompone ciò che era presente nel passato e lo mantiene nei suoi elementi morti, nei suoi stereotipi» occorrerà, dice Bloch, reinventare l’arte di sognare a occhi aperti.
Occorre andare oltre la nostalgia dell’inconscio freudiano e sostituirgli la speranza, che è rivolta all’altro vettore del tempo psichico (ma si potrebbe anche dire che questa speranza non è altro che il nome, etico e politico, del desiderio in quanto tale, al quale Freud non ha mai negato la facoltà protensiva). Dovremmo quindi sciogliere il presente dall’incantesimo di situazioni alienanti, così come il passato dai ricordi pietrificati: occorre rendere i nostri sogni selvaggi, infuocati, appetibili, dionisiaci, rivoluzionari. Bisogna osare di sognare rosso, sognare ad alta voce la libertà: esclamandola e mettendola in atto. Ciò che Ernst Bloch chiamerà, ne Lo spirito dell’utopia, un’arte dei “sogni a occhi aperti”.
Il “sogno a occhi aperti” (Wachtraum) dà forma e contenuto all’Absicht, a “ciò che è in vista” in tutta l’esistenza etica e desiderante. Esso sorge in un miscuglio di conoscenza (docta) ed emozione (spes). Emerge in tutta la sua evidenza sotto l’aspetto di una vita nova. Questa non ha certamente nulla di una vita realizzata, riconciliata, nella quale tutti i problemi conoscerebbero la loro soluzione, tutti i desideri raggiungerebbero la loro soddisfazione e tutte le preoccupazioni troverebbero il loro appagamento. «Pertanto, laddove cominci una vita nuova, questa domanda aperta (offene Fragen) si avvia, questa effervescenza, questa rivelazione velata (verhüllte Enthüllen) che è generalmente l’attesa di ciò che sta arrivando». Attesa del nuovo e non ritorno dell’identico, dunque. Ma l’anamnesi freudiana non è per questo lasciata ai margini. Al contrario, il suo nuovo valore d’uso mostrerà, in un certo senso, che l’origine stessa è “rossa”, così come lo sono i sogni del futuro.
Se questa reinvenzione del tempo viene presentata innanzitutto come l’invenzione di uno sguardo, è ancora questa che rivela il motivo, onnipresente, della luce, del bagliore o del colore rosso. [...] Appena abbozzata la teoria del sintomo - dove viene meno il normale corso delle cose, dove la realtà zoppica, dove affiora “l’insolito” -, Ernst Bloch ne trae una conclusione pratica o metodologica sorprendente per qualsiasi filosofo speculativo: «In breve, è bene pensare anche affabulando» (kurz, es ist gut, auch fabelnd zu denken). La favola reinventa il tempo e, con esso, le condizioni stesse della nostra attesa, del nostro desiderio - come messo in pratica in modo così efficace da Sheherazade nei racconti de Le mille e una notte -, incluso il nostro desiderio politico. Cosa apporta pertanto la storia, considerata da questo punto di vista, alla nostra esperienza del tempo? Trasforma l’attesa in quanto tale (Warten), che spesso è “vuota”, nella speranza (Hoffen) che in questo desiderio ci sia «sempre qualcosa che covi»: da cui nascerà sempre qualcosa.
Tutta l’acutezza e la tristezza di Ernst Bloch, di fronte alla storia politica degli anni venti e trenta in Germania, esplodono in mille fuochi incandescenti, in mille espressioni letteralmente rosse di rabbia. In uno straordinario paragrafo scritto nel 1933 e intitolato “Inventario dell’apparenza rivoluzionaria” Bloch parla del nazismo come di uno “tremendo terrore bianco” che osa mascherarsi in rosso, cioè “mimetizzandosi con il socialismo”. [...] Da questa prospettiva tanto antropologica quanto politica, l’autore de Lo spirito dell’utopia si rivolgerà infine ai suoi compagni comunisti - ma con intento polemico: non è sufficiente, afferma, denunciare la falsità della propaganda nazista, ma bisogna altresì riconoscere, e cercare di comprendere, l’intensità stessa del loro desiderio. Si apprenderà una lezione - dialettica, ovviamente - da questa situazione atroce [...] quella del “montaggio”, vale a dire lo smontaggio e il rimontaggio di ogni cosa.
Quando il tempo è incomprensibile o, come dice Bloch, “caleidoscopico”, vi è urgente necessità - se non altro per evitare di perdere la testa - di procedere a dei rimontaggi di tempi plurali. Una nozione fondamentale è presente all’inizio di Eredità di questo tempo: cioè quella di “non-contemporaneità” (Ungleichzeitigkeit) che la storia produce per via della sua stessa stratificazione e della sua varietà. [...] La “non-contemporaneità” nazista, con le sue mitologie eclettiche e con la sua versione brutale del millenarismo, si oppone quindi alla “non-contemporaneità” rivoluzionaria, nella quale è facile
rintracciare - pensiamo a Rosa Luxemburg o al giovane Benjamin - «un po’ della antica e romantica opposizione al capitalismo», ad esempio.
Dialettizzare l’anacronismo alla base del nostro tempo equivarrebbe a riconoscerne la complessità, il valore del montaggio di tempi eterogenei, al fine di produrne lo smontaggio (démontage) critico e ripensarli, utopicamente, attraverso un rimontaggio di elementi “rubati per impiegarli a un altro fine”. [...]
In tempi “caleidoscopici”, pertanto, è necessario un rimontaggio dei tempi perduti, di tempi eterocliti e ignorati, “non ancora consapevoli”. Di conseguenza: con dei soggetti dislocati, disorientati tra reificazione ed ebbrezza, occorrerà un rimontaggio degli affetti stessi. Bisogna rimpiazzare le ebbrezze, ritrovare le virtù dimenticate dell’entusiasmo che avrebbe potuto percorrere il proprio cammino, ad esempio, tra la Rivoluzione francese e la Nona sinfonia di Beethoven. Anche in questo caso sarà necessario dialettizzare e, soprattutto, saper discernere tra “l’ebbrezza intelligente” (der kluge Rausch) e l’irrazionalismo fumoso, nostalgico o criptofascista - sia pure neo-romantico - che si può rintracciare in alcuni poeti degli anni venti, in Ludwig Klages o in Carl Gustav Jung.
Questo caos antropologico - o questa “tragedia della cultura”, come la chiamavano Georg Simmel o Aby Warburg - cercava quindi (attraverso il montaggio, ossia lo smontaggio e il rimontaggio del visibile) nella speranza le sue forme. [...] Quando l’operazione di montaggio ha separato gli elementi di un materiale che forma un conglomerato, le cose diventano meno stabili, ma più libere dai propri movimenti. Un paradigma fondamentale che non è altro che quello dell’interruzione: crea il legame, nella pratica stessa del montaggio, tra la nozione romantica di frammento e quella, moderna, di scossa. Esso contraddistingue quanto quest’“epoca” ha prodotto di meglio, nelle arti visive, nel teatro (in Brecht, che Bloch commenta a lungo), nella letteratura (Joyce, Döblin, Kafka) o nella musica (Stravinskij, Berg, Schönberg, parimenti molto presenti in Eredità di questo tempo).
L’eredità di questo tempo? Fallimenti, tradimenti, crolli e rovine, senza dubbio. È dunque un mondo di polvere a causa del tracollo di tutto ciò che si credeva solido. Ma Bloch tenta - dialetticamente - di individuare i possibili “poteri della polvere” (Staub Potenzen). Che cosa si intende con ciò? Semplicemente che la polvere si solleva quando l’edificio crolla: acquisisce d’interesse, scrive Bloch, quando viene sollevata dal crollo. Essa è ciò che dovremmo raccogliere e, soprattutto, rendere “esplosiva” (explosibel). Dovremo capire che la polvere non è solo un materiale obsolescente, vetusto: è un potere dal quale, dalle profondità della crisi, può emergere il futuro, come scrive Bloch in un bel paragrafo del suo libro dedicato a Berlino. Presto dal grigio - della polvere, nella misura in cui riusciremo a scuoterla - potrà alla fine emergere il rosso del desiderio, della speranza emancipatrice.
Il rosso è come la brace che arde ancora sotto la cenere o la polvere. Non chiede altro che di riapparire ogni volta, di “brillare”, di riscaldarci. È quindi il colore della speranza. E se questo deve essere inteso come un “sogno a occhi aperti” di emancipazione, come Ernst Bloch aveva già detto ne Lo spirito dell’utopia, bisognerà allora dire che il fondo del sogno è rosso.
Sul tema della “non-contemporaneità” (Ungleichzeitigkeit), nel sito, si cfr.:
FLS
ENZO PACI. IL FILOSOFO E LA VITA
Il rapporto tra maestro e allievo nel ricordo di Carlo Sini
di Fulvio Papi *
Alla ricchissima produzione filosofica di Carlo Sini si aggiunge ora un libro di rara eleganza filosofica e narrativa. Il suo titolo, molto rapido, è Enzo Paci. Il filosofo e la vita, Feltrinelli, Milano, 2015. Se poi desiderassimo anticipare quella che è la gradevole scoperta del testo, dovremmo scrivere “La mia giovanile vita filosofica intrecciata all’esperienza decisiva di Enzo Paci della fenomenologia di Husserl”. Rendere i titoli referenziali ha solo il vantaggio di svelare al lettore un cammino di verità, poiché proprio in questo intreccio sta il fascino di queste pagine. La filosofia vive (fenomenologicamente) in una esperienza vivente, in una intenzionalità che si ripete e così si rinnova.
Siamo nel 1957 quando Sini, dopo la dolorosa scomparsa di Barié con cui era laureando, si trova a comporre il suo lavoro di tesi hegeliano nell’atmosfera filosofica che Paci sta inaugurando. È l’inizio di quell’epoca straordinaria, quando il filosofo era impegnato in una rinascita fenomenologica, che fu una esperienza molto importante nella nostra cultura. Poi Paci aveva una energia straordinaria e una dedizione totale propria di un filosofo che in Husserl trovava la modalità veritativa del pensiero. Il lavoro delle lezioni, dei seminari, della promozione editoriale, della rivista «Aut-Aut», convegni, dibattiti in Italia e all’estero. È una ebbrezza intellettuale ma anche una passione personale. Paci, che riconobbe subito Sini come un ingegno fuor dal comune e un giovane filosofo cresciuto nella filosofia, gli assegnò il posto di assistente, e così Sini fu coinvolto teoreticamente ed emotivamente in questa impresa filosofica il cui stile passava, come processo di formazione, dal maestro all’allievo. Il libro di Sini rimanda con chiarezza filosofica e con un ricordo pieno di partecipazione questo riflettersi di compiti e di obiettivi filosofici. Le pagine nella loro stilistica sobrietà fanno rinascere il tessuto vitale di quel tempo.
Lo “stacco” di Sini avviene su una domanda fondamentale: “che origine ha l’autocoscienza, come si è costituita?” Quindi Nietzsche, il pragmatismo, la concezione della scrittura alfabetica come condizione del pensiero oggettivante, le pratiche che costituiscono, nel loro intreccio, gli orizzonti filosofici e culturali. È Sini che, nella memoria del suo cammino, ci presenta un Paci vivente. Come oggi non è, per molte ragioni che potrei anche elencare facilmente. Ma chiuderò un po’ alla Kraus: “Il lavoro filosofico di Paci era troppo intelligente e troppo ampio per ridurlo a una banalità”.
Sandro Mancini, Recensione a:
Non si può certo dire che il trentesimo anniversario della scomparsa di Enzo Paci sia trascorso in sordina. Oltre ad alcuni studi critici approfonditi, vanno segnalati i due ampi tomi dell’Omaggio a Paci e il fine dialogo filosofico di Renzi, in quanto costituiscono un importante momento di ricordo e approfondimento dell’opera e del magistero del fondatore di “aut aut”. Questi nuovi contributi si raccordano ai saggi critici e alle altre testimonianze pubblicate l’anno precedente presso lo stesso editore (AA. VV., Enzo Paci, a cura di M. Cappuccio e A. Sardi, CUEM, Milano 2005), e si riannodano al volume curato da S. Zecchi nel 1991, che raccoglieva gli atti del convegno del 1986 (Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, Bompiani, Milano 1991). Insieme all’attesa pubblicazione degli atti del convegno In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte. 1976-2006, tenutosi all’Università Federico II di Napoli e a quella di Salerno il 18 e 19 dicembre 2006, questi materiali critici e biografici si propongono non solo agli addetti ai lavori e ai bibliotecari (a cui sarà assai utile la sezione “Strumenti bibliografici”, curata da Alessandro Sardi, contenente un’aggiornata bibliografia degli scritti di e su P. e delle tesi di laurea su P.), ma anche ai lettori curiosi dei dettagli e delle sfumature della vita filosofica italiana nel creativo e contrastato trentennio del secondo dopoguerra.
Il primo tomo si apre con alcuni brevi inediti paciani, sulla fenomenologia della religione e su Kafka, commentati da Renzi e da Scaramuzza. Esso quindi si articola in due parti: la prima è incentrata sul vissuto e sulla sua sporgenza concettuale, contenente testimonianze di allievi e colleghi; tra queste segnalo la testimonianza di Marcella Pogatschnig (“Sul cammino di P.”) e di Renato Rozzi (“P., in relazione”). Il primo dei due testi fonde sapientemente ricordo e riflessione, in una vivida e acuta scrittura al femminile, che costituisce a sua volta un autentico diario fenomenologico, forse non inferiore a quello del suo maestro. Il secondo scritto ci conduce con acume nel clima delle lezioni pavesi degli anni Cinquanta. Così Rozzi sintetizza il profilo pedagogico del suo maestro a Pavia: «P. ci lasciava liberi: cosa ne pensano i suoi allievi? Chissà se qualcuno ha mai parlato della sua implicita capacità educativa, da docente acuto e lieve nel presumere le profondità personali, da adulto che riusciva a mettere la sua debolezza in relazione a quella dello studente e nello stesso tempo a sottrarsi a esso, appena un po’ ironico a causa del finissimo setaccio della sua cultura, sempre disponibile a trasporsi tutto sul piano filosofico» (t. I, p. 75).
La seconda parte del primo tomo propone un’ampia rosa di approfondimenti sugli sviluppi estetologici dell’itinerario paciano, a partire dall’estetica musicale e dall’approccio fenomenologico all’architettura, e da alcuni significativi intrecci (Mann, Proust, Ungaretti). Gabriele Scaramuzza, nelle sue note di commento alle inedite pagine paciane su Kafka, evidenzia bene il tratto saliente delle riflessioni estetiche del pensatore marchigiano sull’arte, in cui ravvisa a un tempo un fattore di coerenza e di limitazione: «[...]dovunque Paci, nelle sue letture di fenomeni artistici, è attento al problema del “significato”» (t. I, p. 48). Il curatore precisa che ciò non conduce P. a sottovalutare la specificità delle forme artistica, ma a ribadire la peculiarità di un approccio precipuamente filosofico, e aggiunge: «[...] la sua difesa dell’imprescindibile incidenza di un punto di vista filosofico nell’esperienza dell’arte resta ben legittima, e tuttora pienamente condivisibile» (t. I, pag. 49).