CARLO LEVI: UN ECCEZIONALE INTERPRETE DI G. B. VICO. Una nota
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete):
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra la "Ditta Renzi" di ieri (1935-1936) e la "Ditta Renzi" di oggi (1994-2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978).
A mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno anche "Paura della libertà", scritto in Francia nel 1939 - dopo il confino in Basilicata - e pubblicato nel 1946, dopo la scrittura nel 1942-1943 e la pubblicazione nel 1945 del suo capolavoro) di Carlo Levi, è ancora tutto da leggere e da rimeditare - assolutamente; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjamin*.
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, con grande consapevolezza filosofica e teologico-politica, in un passaggio sul nodo della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia", così scrive, contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli (come di Torino):
"La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino"; e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (C. Levi, Cristo..., cit., pp. 123-125).
Detto diversamente, egli ha ben compreso - come scrive all’editore Einaudi nel 1963 - non solo "la Lucania che è in ciascuno di noi", ma anche "tutte le Lucanie di ogni angolo della terra". Nato a Torino (29 novembre 1902) e morto a Roma (4 gennaio 1975), ora riposa nel cimitero di Aliano, nella sua Terra. A suo onore e memoria, possono valere (in un senso molto prossimo) le stesse parole del "Finnegans Wake" di Joyce, riferite a Giambattista Vico (che pure aveva vissuto molti anni, a Vatolla, ai margini della grande foresta lucana, dell’"ingens sylva"): "Prima che vi fosse un uomo in Irlanda, c’era un lord in Lucania".
Come Vico e con Vico, Carlo Levi aveva capito da dove ripartire, per affrontare da esseri umani la "Paura della libertà" (cfr. Carlo Levi, Scritti politici, cit., pp. 132-209). Una lettura meditata e criticamente assimilata della vichiana "Scienza Nuova" (a partire da quella del 1725, "che tutta incominciammo - come scrive lo stesso Vico - da quel motto: A Iove principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia plena") è alla base di questo suo primo lavoro (ripetiamo: scritto dopo il confino a Grassano e ad Aliano, e prima della scrittura - cinque anni dopo - di "Cristo si è fermato ad Eboli").
Il suo omaggio a Vico non si riduce e non è riducibile solo alle allusioni già evidenti nei titoli dei capitoli (Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia sacra):
Come vincere la paura della libertà, come convivere con la ingens sylva? L’incredibile è che, nel 1939, quando "un vento di morte e di oscura religione sconvolgeva gli antichi stati d’Europa" e "la bandiera tedesca fu alzata sulla torre Eiffel", Giambattista Vico è a fianco di Carlo Levi, come nel 1944, nel Lager di Wietzendorf, è a fianco di Enzo Paci - e ha aiutato entrambi a non perdere la strada e a riprendere il cammino della giustizia e della libertà.
Nel gennaio 1946, nella "Prefazione alla prima edizione" di Paura della libertà, Carlo Levi così parla (cfr. Scritti politici, cit ., pp. 218-219) della sua "confessione" (definita poi "breve poema", nel 1964, e "poema filosofico" nel 1971): "Quello che avevo scritto era all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, la prefazione: ma tutti gli svolgimenti particolari che avevo avuto in animo di fare vi erano impliciti (...) mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato, ecc. Il libro rimase qual era, senza seguito. Lo portai con me nel ’41, di nascosto in Italia; e molti amici mi consigliarono di stamparlo subito (...) non ho cambiato neppure una parola della stesura primitiva (...) mi è parso che convenisse lasciare a questo piccolo libro (Così diverso dal mio Cristo si è fermato a Eboli, scritto cinque anni dopo) il suo tempo, che è forse il suo valore di espressione".
Federico La Sala (07.09.2014)
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SUL PROBLEMA VICO, NEL SITO, SI cfr.:
SU WALTER BENJAMIN, NEL SITO, SI cfr.:
SUL TEMA, IN GENERALE, SI cfr.:
Carlo Levi, lo Stato mannaro
di Franco Baldasso (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
In Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, libro che è prima di tutto un ripensamento delle categorie del politico, Giorgio Agamben si sofferma sul significato giuridico di quella figura dell’immaginario folkloristico occidentale che è il werewolf, chiamato anche loup garou: il lupo mannaro. “Quello che doveva restare nell’inconscio collettivo”, scrive Agamben, “come un ibrido mostro tra umano e ferino, diviso tra la selva e la città - il lupo mannaro - è dunque in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunità”. Secondo Agamben il lupo mannaro incarna la zona di indifferenza tra ferino e umano, zona instabile che emerge dall’antichità per illuminare con una luce abbagliante le nostre idee di cittadinanza e di esclusione: come la prima sia sempre stata costruita poggiandosi sulla seconda. Un ulteriore argomento alle sue tesi viene dal racconto, citato da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, della trasformazione temporanea da bestia a uomo del lupo mannaro nel folklore del sud Italia: solo dopo che l’uomo trasformato in lupo ha bussato per tre volte alla porta la moglie può aprire. Solo allora infatti la metamorfosi di ritorno da belva a umano è compiuta, e con essa il ristabilimento dell’ordine civile.
“Quel che è comune all’uomo e al lupo è, per la sua indeterminatezza smisurata, uno spavento - finché una immagine totemica lo trasformerà in una sopportabile adorazione”, scrive Levi nel poco conosciuto Paura della libertà, scritto in esilio in Francia nel 1939, all’immediata vigilia della guerra. E forse proprio qui sta la chiave per comprendere la recente riproposizione che Agamben ha fatto del saggio di Levi, pubblicato per la prima volta nel 1946 a ridosso del più celebre lavoro sull’esperienza del confino in Lucania.
Edito da Neri Pozza e con un’introduzione dello stesso Agamben, Paura della libertà è un libro difficile, inattuale, vero e proprio “poema filosofico” come lo stesso autore lo descrive in un’intervista. Il saggio propone le basi ermeneutiche di un’opera come quella di Levi che non ha mai smesso di interrogarsi sul problema della partecipazione nel vivere associato, mettendo in discussione tutta la tradizione teorica che poggia sull’idea di stato come inderogabile dato di partenza. In Paura della libertà Levi accusa la rigidità assoluta di tale concetto, di cui segnala il ricorrente scivolamento verso quella che chiama l’“idolatria statale”, violentemente esposta nei regimi fascisti. Ma aggiunge che tale concezione ipostatizzata attraversa tutta la modernità e appesantisce come una tara ereditaria anche le ideologie che dell’uomo annunciano l’emancipazione. Levi vede nello stato odierno i segni di una nefasta divinizzazione del politico nonostante l’incipiente secolarizzazione, legge il ritorno del religioso come funzionale ad una repressione che lavora a scapito della sempre possibile autonomia dell’individuo. L’individuo pensato da Levi non è quello borghese o liberale, non è neppure il consumista del capitalismo avanzato. È come egli stesso scrive il “luogo di tutti i rapporti”: di infiniti rapporti.
L’idolatria dello stato, la riduzione del politico a fideismo religioso non è solo presente nelle ataviche rappresentazioni sociali delle epoche che crediamo storiche. Queste concezioni sopravvivono in forme sempre diverse nella “contemporaneità dei tempi” che secondo Levi è il dato di partenza per comprendere la vita associata. Specialmente in Italia dove le proclamate rivoluzioni nazionali, a partire proprio dal fascismo, non hanno fatto che rafforzare l’idolatria dello stato. Uno stato in cui l’individuo non può far altro che trovare rifugio nel “credo” della massa indifferenziata, proprio dallo spavento dello straniero che deve perciò essere sempre espulso. Levi propone così un’interpretazione indelebile del fascismo in cui, come ha scritto in quegli stessi anni Georges Bataille, “l’autorità è stata ridotta a fondarsi su una pretesa rivoluzione, omaggio ipocrita e forzato alla sola autorità che si impone, quella del cambiamento catastrofico”.
Denunciando la riduzione a totem dello spavento che è comune all’uomo e al lupo, Levi non intende escludere quest’ultimo dalla comunità. Nessun “lupo mannaro” verrà da Levi considerato straniero, e dunque sacrificabile e “uccidibile”, come nel gergo filosofico di Agamben. Levi intende invece sottolineare il meccanismo religioso che è inerente alle nostre accettate concezioni della comunità politica. “Qual è il carattere di ogni religione?” si chiede nelle prime pagine del saggio: “mutare il sacro in sacrificale: togliergli il carattere di inesprimibilità, trasformandolo in fatti e in parole: far dei miti, riti”. Nelle concezioni totemiche Levi non avverte nemmeno una ramificata sublimazione del complesso di Edipo, come nel Freud di Totem e tabù, ma la spinta religiosa ad istituzionalizzare, e dunque deprimere, quello che chiama “il contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato”, che è secondo lui sorgente inesausta del sacro: “al sacro indistinto la religione sostituisce un nome e una forma divina che ci impediscono di perderci in esso, ci vietano il suicidio e l’anarchia, ci consentono di vivere”.
Diviso in otto parti, dal tema del sacrificio e del padre al significato del sangue per la politica, Paura della libertà era stato concepito come introduzione a un’opera più vasta, a suo modo enciclopedica e mai portata a termine: una teoria della crisi contemporanea che oltre le consuete categorie economiche, politiche e estetiche, facesse dialogare la sociologia di Mauss e Durkheim con la filosofia della storia di Vico e l’interpretazione dei testi biblici fino a San Paolo. È il documento di una cruciale fase intellettuale, aggiungiamo noi, da accostare agli sviluppi del coevo Collège de sociologie specialmente nel versante di Roger Caillois e del suo L’uomo e il sacro, la cui prima edizione è uscita proprio nel 1939.
Tra etnologia, psicanalisi e lirico sguardo sull’abisso della storia Paura della libertà attenta alla supremazia dello stato nelle moderne considerazioni del vivere civile, senza sfociare tuttavia in un anarchismo di maniera. Lo attestano l’attivismo politico del suo autore a sostegno del Partito d’Azione, ma anche la continuità teorica del concetto di autonomia, elaborato insieme all’amico Leone Ginzburg già nel 1932 nei Quaderni di Giustizia e Libertà, e principio attivo in tutto il saggio del 1946 come alternativa allo sciogliersi dell’individuo nella massa indifferenziata dello stato totalitario.
Su questo aspetto è necessario chiedersi se sia possibile rileggere Paura della libertà, non ristampato in volume singolo dal 1964, al di là della testimonianza di un’epoca. Certamente, risponde senza indugi Agamben nella sua prefazione, e proprio per la sua attualità politica. Nelle sue considerazioni iniziali il filosofo riprende un discorso che ritiene colpevolmente interrotto dal pensiero progressista italiano: introduce il volume non solo esplicitando quello che chiama l’ignoranza o la malafede dei recensori negli anni del dopoguerra e oltre, ma premettendo come l’amico Calvino avesse già nel 1967 indicato la via per attraversare l’originalità di Levi.
È da questo “libro raro nella nostra letteratura”, ha sostenuto Calvino, che sarebbe dovuto “cominciare ogni discorso su Levi”. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento critico: l’autore che è stato ridotto, prima di tutto nelle scuole, alla testimonianza sofferta della questione meridionale, se non letto come decadente orientalista, si scopre anticipatore dei più recenti dibattiti sulla biopolitica. E proprio con questo libro si rivela uno scrittore di idee, capace di far convergere travaglio storico e speculativo davanti al collasso della civiltà europea, causato dalla violenza e dal parossismo statalista dei totalitarismi. Paura della libertà è dunque anche un manifesto politico, ed è proprio la sua rimozione nella cultura italiana a renderlo oggi più attuale.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO. Storiografia in crisi d’identità ...
In base a un regio decreto emanato il 28 agosto 1931 i docenti delle università italiane avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo allo statuto albertino e alla monarchia, ma anche al regime fascista. L’idea dell’inserimento della clausola di fedeltà al fascismo viene attribuita al filosofo Balbino Giuliano, che ricopriva in quegli anni la carica di Ministro per l’Educazione Nazionale nel governo Mussolini[1].
In tutta Italia furono solo una quindicina di personalità, su oltre milleduecento docenti, a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo perdendo così la cattedra universitaria. Il numero effettivo delle persone che non si sottoposero al giuramento oscilla di qualche unità a seconda delle fonti. L’indeterminazione è dovuta anche ad alcune situazioni particolari, di docenti che vi si sottrassero per vie diverse: Vittorio Emanuele Orlando, ad esempio, andò anticipatamente in pensione, mentre altri, come Giuseppe Antonio Borgese, si allontanarono dall’Italia fascista andando esuli all’estero[1]. Allo stesso modo non si sottopose al giuramento il docente ed economista Piero Sraffa, già da alcuni anni esule a Cambridge[1] .
I nomi dei docenti furono:
Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo)[2]
Giuseppe Antonio Borgese (estetica)[3]
Aldo Capitini (filosofia)
Mario Carrara (antropologia criminale)
Antonio De Viti De Marco (scienza delle finanze)
Gaetano De Sanctis (storia antica)
Floriano Del Secolo (lettere e filosofia)[4]
Giorgio Errera (chimica)
Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche)
Piero Martinetti (filosofia)
Fabio Luzzatto (diritto civile)
Bartolo Nigrisoli (chirurgia)
Errico Presutti (diritto amministrativo)[3]
Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico)
Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto)
Lionello Venturi (storia dell’arte)
Vito Volterra (fisica matematica)
Molti degli accademici vicini al comunismo aderirono invece al giuramento seguendo il consiglio di Togliatti[1], con la giustificazione che il prestare giuramento permettesse loro di svolgere, come dichiarò Concetto Marchesi, «un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo»[5]. Analogamente, la maggior parte dei cattolici, su suggerimento del Papa Pio XI, ispirato probabilmente da Agostino Gemelli[1], prestò giuramento «con riserva interiore»[1][5].
Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»[5] a impedire che le loro cattedre - secondo l’espressione di Einaudi - cadessero «in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti»[6].
* FONTE. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. (ripresa parziale - senza note).
Federico La Sala
LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!, DA "CAPORETTO" ...
"VIVA CAPORETTO!" (C. Erich Suchert, 1921): "per comprendere la vicenda editoriale di questo libro che celebra una sconfitta come fosse l’esplosione del pacifismo dei soldati semplici, dobbiamo guardare anche a Mussolini: se nell’ottica del futuro duce occorre che la guerra rappresenti un nuovo mito fondante della nazione, il punto di vista di un autore che celebra lo scontro con le autorità non può passare inosservato" (G. Sabatini).
Curzio Malaparte, un secolo dalla disfatta
di Gabriele Sabatini (doppiozero, 19.07.2017)
Quando, all’alba del 24 ottobre 1917, i soldati austro-tedeschi cominciarono ad avanzare in quel tratto del fiume Isonzo che lambisce Caporetto, l’esercito italiano era già provato dal violento bombardamento che a partire dalle due del mattino non aveva cessato un attimo di colpire le sue linee. Le truppe imperiali non trovarono una feroce resistenza, e alla sera del primo giorno di battaglia si contavano già 15.000 italiani catturati come prigionieri.
La disfatta di Caporetto è uno shock per l’intero esercito e per tutta la nazione; è il crollo del sistema paese: in una ventina di giorni 10.000 km² di territorio vennero ceduti al nemico; circa 300.000 soldati furono presi prigionieri e 600.000 fra uomini, donne e bambini furono costretti a lasciare le loro case, formando - assieme alla massa di soldati sbandati - un lento fiume umano che si muoveva in direzione del Piave. Strade fangose erano ingombrate da fanti malandati; alcuni scalzi, altri senza fucile, dominati da rassegnazione e sconforto come fossero di fronte a una calamità naturale contro la quale nulla è possibile fare. Essi si lasciavano alle spalle quelle trincee in cui a decine di migliaia spiravano con la faccia riversa nel pantano, estremo sacrificio per la conquista di pochi metri di roccia.
«Non tutti potranno leggere questo libro. Bisogna aver disceso tutti gli scalini dell’umanità per mordere alla radice stessa della vita, aver “mangiato la terra e averla trovata deliziosamente dolce” [...] aver sofferto, sperato, maledetto, bisogna essere stati uomini, semplicemente umani, per poter leggere questo libro senza pregiudizio e sentirvi il sapore della vita.
Non è un libro di guerra, questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito, all’ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano, di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d’amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d’odio e di disperazione».
È l’incipit di Viva Caporetto!, forse meglio noto con il titolo di La rivolta dei santi maledetti, di Curzio Malaparte, che in poco più di cento pagine rovescia il paradigma: Caporetto non è una sconfitta, non è un evento passivamente subìto, rappresenta - o dovrebbe rappresentare - l’inizio di una sollevazione della fanteria, di quegli uomini sudici e stanchi, affamati e depressi per il rancio niente affatto generoso, il soldo irrisorio, le licenze così brevi da non consentire né svaghi (che di fatto fino all’ottobre del ’17 quasi non erano organizzati nelle retrovie) né, quando si riusciva a tornare a casa, di rimettere mano alla propria vigna o di aiutare con il raccolto. La trincea come luogo di inedia fisica e morale, sfruttata dalle autorità militari per giustificare le severe punizioni impartite, le esecuzioni spesso sommarie, la scarsità di aiuti inviati ai prigionieri perché v’era persino il timore che se si forse sparsa la voce di un trattamento umano nei campi di prigionia austriaci, l’arrendevolezza sarebbe aumentata.
È dunque contro gli alti gradi militari, contro gli imboscati, i borghesi della guerra, che la rivolta comincia e prende le forme della resa. Per Malaparte tutte quelle braccia disarmate che ripiegano prima sul Tagliamento e poi sul Piave, non sono braccia di sconfitti, ma di popolo che fa sentire la sua voce, che dimostra la propria importanza cedendo sul fronte e prefigurando la definitiva sciagura nazionale. Un tentativo sincero di giustificare quei soldati su cui il sentimento nazionale, fomentato dalle accuse del generale Cadorna, sembrava voler far gravare il peso della sconfitta.
Lo scrittore non prese parte alla ritirata, e perciò Viva Caporetto! non è una cronaca o un diario. Ma se la testimonianza non è diretta, è dunque lo spirito di questo popolo di semplici a comporre la storia: si tratta di rivolta, ed essa è spontanea, non governata da nessuno, e non può assumere le sembianze di una rivoluzione sociale. Insomma, la Caporetto di Malaparte è una sollevazione, ma non fa dell’Italia la Russia.
Dopo la sconfitta, Cadorna lascerà il posto a Diaz; miglioreranno le condizioni di vita nelle trincee; ai soldati contadini sarà promessa la terra; la guerra sarà vinta. Ma la smobilitazione sarà lenta, lentissima e straziante; la terra non arriverà; quegli uomini che avevano speso in battaglia i loro anni migliori, spesso provati nel corpo e psicologicamente sofferenti, troveranno con difficoltà una loro ricollocazione sociale e l’Italia preparerà il terreno a un destino dittatoriale.
E infatti, per comprendere la vicenda editoriale di questo libro che celebra una sconfitta come fosse l’esplosione del pacifismo dei soldati semplici, dobbiamo guardare anche a Mussolini: se nell’ottica del futuro duce occorre che la guerra rappresenti un nuovo mito fondante della nazione, il punto di vista di un autore che celebra lo scontro con le autorità non può passare inosservato.
Il libro viene stampato al principio del 1921 presso la Tipografia Martini di Prato e il titolo suscita scandalo sin dal suo primo apparire. L’autore perdipiù si firma col suo vero nome: C. Erich Suchert, un nome tedesco, un nome da nemico, da «lanzichenecco nell’Italia d’oggi» come lo aveva appellato nel 1922 Alfredo Panzini su “Il Secolo”.
Il lancio pubblicitario fu ideato da Malaparte medesimo: «È uscito Viva Caporetto! di C. Erich Suchert scritto a Varsavia durante l’assedio bolscevico. Caporetto non è un fatto militare, ma un fenomeno sociale, che continua a svolgersi anche oggi nei movimenti rivoluzionari che insanguinano l’Italia. Non è un libro di guerra, questo: ma di attualità. L’autore di queste pagine, che tanto rumoroso interesse han suscitato all’estero, giustamente è stato chiamato il Barbusse italiano». Non era vero niente, Malaparte inventò questa storia internazionale solo per creare curiosità intorno al libro, e la vicinanza con Barbusse era probabilmente una aspirazione dovuta all’uscita nel 1919 di Clarté con il suo portato di ideali pacifisti.
Iniziarono le vendite ma subito prese il via l’azione fascista contro le librerie, che portò al ritiro dal commercio dell’opera: «Fui chiamato disfattista, disertore, vigliacco, e perfino imboscato» scrive lo stesso Malaparte. L’autore non si arrende e decide di ricopertinare le copie stampate, offrendo un nuovo titolo, quell’antitesi linguistica e logica che suona come La rivolta dei santi maledetti. Ma «la riapparizione del libro provocò proteste, incidenti, violenze. Anche la seconda edizione fu sequestrata». Scrive all’amico Bino Binazzi: «Mi reco al Fascio a protestare, e quei monopolizzatori diciottenni del patriottismo mi rispondono per bocca del loro segretario, l’ex colonnello effettivo Vallesi (si figuri che mentalità): “Non è niente, questo! Un giorno o l’altro toglieremo di mezzo anche lei”». Mussolini, sebbene già molto influente, deve ancora prendere il potere: le due edizioni vengono sequestrate dai governi Giolitti e Bonomi.
Dopo la marcia su Roma, Malaparte non resta con le mani in mano e, pur di vedere in libreria la sua opera, nel 1923 ne fa stampare una nuova edizione. Questa volta il testo subisce numerose modifiche, che però non ne cambiano la sostanza di scritto in cui si mettono in luce le responsabilità dei generali; né viene intaccata la colonna vertebrale del testo, ovvero l’idea che il tradimento della nazione non venne commesso dai fanti attraverso la resa. Essi non sono i veri responsabili perché le colpe ricadono non su chi, esausto, getta le armi in un momento di disperazione, ma gravano su quanti quella disperazione l’hanno creata e alimentata, stando comodamente seduti in poltrona dietro a una scrivania di mogano.
Eppure, come dichiarato dallo stesso autore, gli interventi sono funzionali a far digerire il libro nel nuovo clima politico e sociale della penisola. Non solo, il testo viene corredato dal lungo Ritratto delle cose d’Italia, che vorrebbe accompagnare il lettore per evitare equivoci di disfattismo: non si tratta, è facile dirlo, di una trasformazione da opera antifascista a opera fascista per la semplice costatazione di inesistenza del fascismo durante la stesura di Viva Caporetto! (che la critica colloca tra dicembre 1918 e gennaio 1919, contemporaneamente all’elaborazione di una relazione ufficiale, su altro argomento, richiestagli dal generale Albricci). E comunque Mussolini, ancora ministro dell’Interno nel 1923, fa disporre il sequestro anche di questa nuova edizione.
Prima di raccontare un’altra feroce pagina della storia europea in Kaputt; prima, molto prima, che Napoli divenisse teatro dell’oscena violenza di La pelle, Malaparte consegna alla propria biografia un’opera in cui sente di esserci tutto, «dalla testa ai piedi. - scriveva due anni prima di morire - Esso già contiene in germe tutti i motivi fondamentali non soltanto della mia storia personale (e se di qualcosa sono orgoglioso è di essere rimasto sempre fedele a quel mio primo libro, e alle ragioni che mi hanno spinto a scriverlo), ma della storia del popolo italiano dal 1918 in qua.
Poiché tutte le vicende della vita italiana negli ultimi quarant’anni nascono dalla dolorosa esperienza di quella guerra: e soprattutto dalla scoperta che v’erano, e vi sono, due Italia. L’Italia dei codini, dei bigotti, degli sbirri, dei ladri, degli Alti Comandi (e per Alti Comandi non intendo solo quelli militari), di tutti coloro che disprezzano il popolo italiano, lo sfruttano, l’opprimono, l’umiliano, l’ingannano, lo tradiscono, quella ignobile Italia che la mia generazione, e tutte le generazioni del Carso e del Piave, hanno rifiutato e rifiutano. E l’Italia della fanteria, l’Italia della povera gente, l’Italia generosa, leale, onesta, coraggiosa, nemica d’ogni prepotenza, d’ogni sopruso, d’ogni privilegio, nella quale abbiamo creduto e crediamo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ernesto de Martino, un’unica storia
di Fabio Moliterni (alfapiù, 29 febbraio 2016)
Esiste un elemento di continuità nel lungo, contraddittorio e turbolento percorso di de Martino (nel 2015 ricorreva il cinquantenario della morte), a partire almeno dallo studio incipitario Il mondo magico (1948) e passando dalle risultanze sulle «spedizioni» compiute nei Sud d’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta - Sud e magia del 1959, di cui Donzelli pubblica una nuova edizione che recupera anche materiali sparsi del «cantiere» lucano, e due anni dopo La terra del rimorso sul fenomeno del tarantismo nel Salento -, per approdare infine al postumo La fine del mondo (1977 e 2002), che lo occupò negli ultimi anni di vita.
Questa direttrice convoca e implica una serie di problematiche interne alla storia sociale della cultura nel secondo Novecento, con tangenze che riguardano non soltanto lo specifico degli studi etno-antropologici in Italia, ma più radicalmente lo statuto e le forme di legittimazione del sapere scientifico e filosofico, i rapporti tra teoria e prassi, tra storia delle religioni, impegno politico e psicoanalisi, cultura popolare e pensiero gramsciano, esistenzialismo, fenomenologia e filosofia della storia; ed è rappresentata, mi pare, dalle ricerche pluri-prospettiche e «molecolari» che de Martino, rinnovando di volta in volta strumenti metodologici e campi di studi, ha condotto sin dalla genesi della sua storia intellettuale intorno allo «scandalo» (σκάνδαλον, «ostacolo») del mito e dell’arcaico, l’autentico rimosso nell’epoca del lungo tramonto e della secolarizzazione dell’Occidente (secondo Leopardi l’epoca della tentata «geometrizzazione» della vita).
Si tratta più precisamente di un pensiero ibrido che vive all’incrocio tra revisione dell’idealismo crociano e marxismo critico, sospeso tra fascino dell’irrazionale e bisogno di militanza politica, ragione illuminista e tensione libertaria o progressista, che insisteva nell’indagare le latenze e la persistenza nel Moderno di un sottofondo «altro», antico e «oscuro», irriducibile alle categorie del pensiero tradizionale (normativo e «immunitario»): i «residui» della cultura popolare e subalterna, la sopravvivenza e il perpetuarsi di forme del passato arcaico così come si ripresentano in contesti sociali concreti e nel fondo della coscienza umana, nelle vesti di pratiche magico-rituali o simboliche attivate per rispondere alla condizione di «miseria psicologica» e sociale, alla perdita e alla «crisi della presenza». Dal magismo alle fascinazioni lucane, dal lamento funebre al tarantismo pugliese fino alle antiche e nuove forme di disagio e «apocalissi culturali» da intendere, scriverà nella Terra del rimorso, come «relitti folklorico-religiosi [che] diventano documenti di un’unica storia».
Se continuiamo ad adoperare quest’ottica strabica e telescopica, per ragionare oggi sull’eredità del suo pensiero, è evidente che la scoperta sul campo del meridione italiano «escluso dalla storia» nei primi anni Cinquanta, complici e mallevadori Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si configurava in Sud e magia come terreno d’incontro decisivo di questi saperi eterogenei e di una pratica politica non ortodossa, in linea con lo spirito anti-normativo (anti-accademico) e «indisciplinato», non solo interdisciplinare, che informa il lavoro di de Martino.
In quello studio a tratti geniale, ma anche ricco di contraddizioni interne e aporie metodologiche messe opportunamente in rilievo da Fabio Dei e Antonio Fanelli nell’introduzione a questa nuova edizione, confluivano un’eterodossa teoria e pratica etnologica ad usum sui, maturata in un tormentato dialogo con lo storicismo crociano e con gli studiosi delle religioni primitive come Pettazzoni e Marchioro, e un impegno meridionalista a sua volta non allineato e sostanzialmente isolato rispetto alle traiettorie politiche e ideologiche del tempo, nonostante la militanza «ufficiale» nelle fila del Partito Comunista. Ad esempio nei confronti dell’uso e della ricezione di certe scritture di Gramsci sui ceti subalterni (le «plebi rustiche del Mezzogiorno»), la storia delle religioni all’interno dei discorsi su consenso ed egemonia, i rapporti tra intellettuali, masse e cultura popolare - un Gramsci riletto al di qua delle strategie riformiste e dei posizionamenti politici del fronte socialista e comunista, ben oltre lo «scientismo ecumenico» del PCI tra anni Cinquanta e Sessanta a suo tempo stigmatizzato da Cesare Cases.
Provare a «storicizzare l’intemporale», secondo la formula decisiva di Carlo Ginzburg - la dimensione cioè socialmente situata, materiale e corporea dei riti popolari del mezzogiorno, e insieme il sottofondo mitico e metastorico che li attraversa -, voleva dire per de Martino riprendere una tensione dialettica e dinamica di marca gramsciana: tra alto e basso (struttura e sovrastruttura), sacro e quotidiano, politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi. Significava intendere le forme arcaiche della cultura popolare, à la Bourdieu, non in quanto patrimonio sepolto e intangibile, terreno inerte o neutrale di sedimentazioni e «rottami» folclorici, ma come campo instabile e conflittuale attraversato da precisi rapporti di forza e di potere, e soprattutto come risultato di fratture, sincretismi e interazioni, le più varie, tra le élites, i ceti dominanti e quelli subalterni.
Lo dimostra la seconda parte di Sud e magia, quella forse meno letta e considerata, intitolata non per caso Magia, cattolicesimo e alta cultura, nella quale de Martino conduce - nelle volute di uno storicismo paradossale - un’analisi delle insorgenze di rituali magico-protettivi come la jettatura non più nel contesto della cultura popolare e arcaica, ma nel cuore del côté avanzato e democratico dell’illuminismo napoletano di fine Settecento, a partire da Vico, il quale «era per suo conto andato oltre la stessa ragione illuminista e si era sollevato al concetto di una provvidenza immanente nella storia umana» («Tanto più merita attenzione il fatto che [...] sorse e si diffuse in circoli non indotti, e comunque guadagnati al moto illuministico, una sorta di riscaldamento per l’argomento della jettatura, col risultato di dare origine ad una nuova formazione mentale e di costume»).
Resta da dire qualcosa sulla natura conflittuale e irrisolta, e per questo vitale o vivente, del pensiero complessivo e dell’impegno politico di de Martino, soffermandoci prima di concludere sull’Epilogo di Sud e magia, un finale ripreso anche nel documento che oggi chiude il cantiere con scritti rari e dispersi allestito in appendice all’edizione Donzelli, Miseria psicologica e magia in Lucania (un saggio-resoconto sulla spedizione lucana pubblicato su rivista nel 1958).
A colpire sono i toni profetico-allusivi e in qualche modo teleologici di un «segnalatore d’incendi» che, proprio come Benjamin, aveva attraversato da giovane la crisi di civiltà, il periodo dei totalitarismi e della «religione della morte» professata dai fascismi nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, e ora cercava di riguadagnare a una «possibile storia civile» il portato di sofferenza e oppressione, «l’esistenza ingrata» dei Sud del mondo: «Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi a un destino eroico più alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica città del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile città terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio. Nella misura in cui questo avverrà sarà ricacciato nei suoi confini il regno delle tenebre e delle ombre».
Ma come per un estremo paradosso che ci consegna questa esperienza intellettuale, l’approdo finale o «tardo» delle ricerche di de Martino si situerà, come è noto, proprio sul rovescio di quella «autentica luce della ragione» con la quale terminava Sud e magia: ancora una volta insistendo a esplorare con un altro cantiere in fieri, quello della Fine del mondo, il lato oscuro e «notturno» del progresso, i rischi di ogni metafisica identitaria, il carattere mortale dell’esperienza individuale e collettiva, i sentimenti apocalittici e le forme simboliche dell’angoscia esistenziale e del disagio sociale e psichico che provengono dalla sparizione di antichi sistemi culturali e dalle difficoltà di «appaesamento» al mondo, e che più o meno segretamente intaccano e turbano, dagli anni Sessanta fino a oggi, tra storia e micro-storie, il destino europeo e occidentale.
Cristo dimenticato a Eboli.
La rimozione di Carlo Levi. Nell’oblio i 40 anni dalla morte e i 70 del celebre romanzo
di Massimo Novelli (il Fatto Quotidiano, sabato 7 novembre 2015)
Da tempo i giornali, così come le televisioni, propinano con un’abbondanza esagerata i ricordi, per questo o quell’anniversario, di personaggi della cultura, della storia (ma un po’ meno: forse la storia fa riflettere troppo sul presente), della politica, dello spettacolo e dello sport.
Si dà conto del quindicennale della morte o del secolo dalla nascita, dei 500 anni o dei mille; e si organizzano “eventi” non sempre seri e rispettosi, sovente mercificati. In questo mare magnum non tutto fa brodo, per parafrasare un vecchio spot della vecchia tv.
È il caso di Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975), uno dei protagonisti di rilievo della cultura del Novecento. Del pittore, romanziere, saggista e militante dell’antifascismo, ricorrevano nel 2015 tre anniversari significativi: i quarant’anni dalla scomparsa; i settanta dall’uscita da Einaudi nel 1945 di Cristo si è fermato a Eboli; gli ottanta dal confino di polizia che il regime fascista gli impose tra i calanchi di Aliano, in Basilicata, e che fu all’origine della sua scoperta del Mezzogiorno e della scrittura del Cristo. La sua riproposizione, tra l’altro, sarebbe stata più che giustificata dal dibattito apertosi, sia pure per poco, sui disastri del nostro Sud, che Levi comprese, amò e per cui si batté.
Invece né la sua Torino, né Roma, e tantomeno la Lucania e Matera futura capitale della cultura, se ne sono rammentati, perlomeno seriamente. Ci sono state delle eccezioni, alcune positive e meritorie, altre contestate. Tra le prime vanno menzionate quelle del comune di Aliano, dove Levi è sepolto e ricordato con varie iniziative, e una serata a Matera promossa dal Circolo Carlo Levi e dal giornalista Rocco Brancati.
Polemiche e richieste di chiarimenti dal Movimento 5 Stelle hanno accompagnato la scelta del Consiglio regionale del Piemonte di acquistare, per oltre 32 mila euro, le copie di un volume fatto stampare dalla Fondazione Giorgio Amendola di Torino (che ha pure promosso due convegni di scarsa risonanza). Intitolato Il Telero: da Torino un viaggio nella questione meridionale, è stato voluto, dicono, per celebrare il quarantennale della scomparsa di Levi. Forse sarebbe stato più utile, e non troppo costoso, regalare alle scuole i libri di Levi.
A mettere in risalto l’oblio di uno scrittore che, con il Cristo e L’Orologio, ha dato alla letteratura italiana due capolavori, e che ha fatto guardare al Meridione con occhi nuovi, è stato per primo Nicola Filazzola, un artista lucano di valore, che incontrò Levi durante il suo ultimo viaggio ad Aliano.
Sulla rivista Il Colle di Matera ha pubblicato un articolo amaro e critico, poi parzialmente ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno, in cui sottolinea che in un “clima di così sfacciata irriconoscenza, per l’uomo che scelse di intrecciare la propria esistenza con quella dei contadini di Basilicata, non mi sorprende che, in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte, istituzioni come il Polo Museale della Basilicata e la stessa Rai lucana non abbiano preparato un evento, fornito un servizio degni dell’importanza che Levi occupò nella storia della nostra regione”. Filazzola ha proposto di organizzare, per celebrare Levi, “un incontro di tutti i Presidenti delle regioni meridionali, per una riflessione sullo stato del Mezzogiorno a settant’anni dalla pubblicazione del Cristo”. Sta aspettando che qualcuno, nei “Palazzi” del Sud, si faccia vivo.
Se la Lucania delle istituzioni tace, altrettanto fa Torino, la città in cui Levi, oltre a cospirare contro il fascismo e a disegnare la copertina di America primo amore di Mario Soldati, animò il gruppo dei “Sei di Torino”, che, alla fine degli anni Venti, mise assieme pittrici e pittori come Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci. La casa editrice Einaudi, è vero, ha ristampato lodevolmente L’Orologio e Quaderno a cancelli, ma in un sostanziale silenzio dei più, lo stesso che ha contraddistinto i libri editi da Donzelli. E Marco Rossi-Doria su La Stampa del 2 agosto ha invitato “a raccontare le cose del Mezzogiorno di adesso nello spirito con il quale Carlo Levi lo fece allora con acume analitico, parole scelte e ferme e civile passione”. Nessuno, naturalmente, ha raccolto l’invito.
Carlo Levi è stato rimosso dalla memoria della nazione. Lo rammentava Federica Montevecchi già nel 2012, su L’Unità, scrivendo che “non ha meritato un Meridiano (neppure un Antimeridiano)”, “proprio ora che c’è bisogno di lui”, come titolava il giornale. Una rimozione che sembra inconcepibile, assurda, se si pensa all’importanza di Levi nella letteratura, nell’arte figurativa, nel pensiero meridionalista e nell’antifascismo giellista e azionista.
Tuttavia l’oblio si può spiegare benissimo: oltre che con quell’eterno presente che predomina le istituzioni culturali italiane, con il fatto che l’opera dell’autore di Paura della libertà è innervata da valori di giustizia e di libertà, dalla passione civile, dall’impegno per i senza storia, per gli umiliati e offesi, per il riscatto del Mezzogiorno, che sono stati cancellati dalle agende politiche e culturali.
Le parole, per Levi, “sono pietre”; oggi sono di polvere. Per citare il suo Orologio, “mi pareva di essere tornato in un villaggio della Lucania, e di ascoltare i Signori conversare dei loro odî eterni e della eterna noia, seduti sul muretto della piazza, sopra il burrone, davanti alla distesa delle argille coperte”.
L’Italia, il Paese delle cento agricolture, perde biodiversità e sapienze antiche
Nell’ultimo secolo abbiamo perso il 75% delle specie. In Italia, solo negli ultimi 25 anni, si sono dimezzate anche le aziende agricole (passate da 3 a 1,6 milioni), così che la perdita di diversità vegetale si è sommata a un’emorragia di saperi, tecniche, conoscenze, tradizioni. Ne parla Stefano Bocchi nel suo libro “Zolle. Storie di tuberi, graminacee e terre coltivate”
di Veronica Ulivieri (La Stampa, 06/10/2015)
Il Paese delle cento agricolture è stato, millenni fa, una terra senza agricoltura. Boschi e paludi invitavano alla caccia e alla raccolta, e le piante che poi sono entrate nella tradizione agricola e gastronomica italiana - dai cereali ai legumi, fino ad agrumi, patate e pomodori - non erano ancora arrivate nel nostro Paese da Medio Oriente, Asia, Africa, America. E questa è solo la prima parte della storia, perché negli ultimi decenni quella varietà di tecniche agricole e di vegetali si è andata via via appiattendo verso un’agricoltura unica e uniforme, uguale dalla Calabria alla Pianura padana. Che correndo dietro al continuo aumento di produttività ha dimenticato l’importanza di acque e suoli fertili, ha ignorato i mercati locali e strangolato gli agricoltori.
Nell’ultimo secolo, con un ruolo non secondario giocato da quella “Rivoluzione verde” che dalla metà del secolo scorso in tutto il mondo si è proposta di industrializzare l’agricoltura, abbiamo perso secondo la FAO il 75% delle specie. In Italia, solo negli ultimi 25 anni, si sono dimezzate anche le aziende agricole (passate da 3 a 1,6 milioni), così che la perdita di diversità vegetale si è sommata a un’emorragia di saperi, tecniche, conoscenze, tradizioni. Il Paese delle cento agricolture è diventato quello di una sola agricoltura. Lo stesso è avvenuto in gran parte del mondo, con un risultato paradossale di un’agricoltura che produce ma non sfama. «Sul nostro Pianeta non c’è carenza globale di alimenti, ma quasi un miliardo di persone soffre cronicamente la fame», dice Stefano Bocchi, docente di Agronomia all’università di Milano e curatore scientifico del Parco della Biodiversità a Expo 2015. Un teatro e due padiglioni per raccontare la grande varietà di piante, animali, ecosistemi e tecniche colturali che hanno reso l’Italia e il suo cibo famosi nel mondo.
«Per salvare l’agricoltura dal paradosso e riuscire veramente a nutrire il Pianeta bisogna ripartire dalla biodiversità», spiega Bocchi, che nel suo libro “Zolle. Storie di tuberi, graminacee e terre coltivate” , da poco pubblicato da Raffaello Cortina editore, racconta di un nuovo «paradigma agroecologico» in grado di sostituirsi all’approccio industriale attuale. «La Rivoluzione verde specializza e semplifica, tratta l’azienda agricola come una catena di montaggio industriale. Questo ha portato a una diffusione sempre più ampia della monocultura e monosuccessione, al posto delle pratiche millenarie di rotazione e consociazione di piante diverse che traggono beneficio dall’essere coltivate vicine». In questo processo che in pochi decenni ha cambiato il volto dell’agricoltura, «l’azienda agricola è diventata sempre meno autonoma: l’uso di sostanze organiche come il letame per fertilizzare i campi, per esempio, è stato abbandonato in favore dei concimi chimici e questo ha portato gli agricoltori a essere sempre più dipendenti da fattori esterni, in molti casi li ha obbligati a indebitarsi con le banche. Le imprese poi sono state strangolate da un sistema con molti intermediari che favorisce la commercializzazione sui mercati globali piuttosto che su quelli locali».
Che fare? Per Bocchi è necessario unire l’innovazione partecipata al recupero della nostra ricchezza vegetale e di tradizioni: una diversità di piante selezionate in millenni di addomesticazione e adattamento, e una varietà di tecniche agronomiche affinate in secoli e secoli - molte risalgono ai Sumeri, in Italia le conoscevano già i Romani. «Stanno nascendo dei progetti di ricerca realizzati insieme da enti locali, università e imprese. Le aziende agrarie hanno capito che possono affrontare il mercato mettendosi insieme ed evolvendosi: sorgono distretti e consorzi che cercano di raggiungere direttamente i consumatori finali, per aumentare il margine che va ai produttori. Le imprese agricole offrono anche servizi eco-sistemici e culturali, come nel caso delle fattorie didattiche, gli agriturismi o quelle che curano il verde pubblico». E se molte varietà coltivate sono andate perdute, altre si possono ancora recuperare: «Associazioni di volontari e istituzioni sono al lavoro insieme agli agricoltori per riportare nei campi varietà tradizionali, tipi di ortaggi dimenticati, legumi particolari, diversificati saperi agronomici».
PROCESSO ALLA DEMOCRAZIA? NO! CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA!!!:
Quando Rousseau e Montesquieu temevano pericoli autocratici non avevano previsto il rischio opposto: è possibile che i cittadini siano stanchi di essere rappresentati?
di Roberto Esposito (la Repubblica, 04.10.2015)
Che la democrazia non stesse così bene lo si sapeva da un pezzo. Lo sanno i cittadini e gli scienziati politici. Nel giro di un ventennio i certificati di morte, o quantomeno analisi inclini al pessimismo, si sono succedute a un ritmo incalzante. Se già negli anni Novanta Jean-Marie Guéhenno aveva parlato di “fine della democrazia” (Garzanti), a qualche anno di distanza Colin Crouch coniava il fortunato neologismo “postdemocrazia” (Laterza), mentre Ralf Dahrendorf ci collocava direttamente “dopo la democrazia” (Laterza). Diverse le cause di questo malessere, alcune ben note ai suoi stessi primi teorici. Si sa che Rousseau riteneva il sistema democratico tanto perfetto da convenire solo a un popolo di angeli, così come Tocqueville metteva in guardia in anticipo dalla possibilità di un dispotismo democratico. E a rischi simili pensava Montesquieu quando si preoccupava di proteggere la divisione dei poteri da un eccesso di concentrazione.
I fatti hanno in buona parte smentito tali timori. Oggi la democrazia - o almeno qualcosa che le assomiglia - è di gran lunga la forma politica più diffusa nel mondo. E tuttavia proprio questa straordinaria performance ha messo in evidenza una serie di limiti strutturali che il tempo ha reso ancora più stridenti. Il più paradossale è quello rilevato da Bernard Manin in Principi del governo rappresentativo (il Mulino): nella sua stessa formulazione la democrazia rappresentativa include un ineliminabile elemento aristocratico.
Non essendo vincolati da un mandato imperativo e dunque non revocabili in ogni momento da coloro che li hanno eletti, i rappresentanti del popolo non devono rispondere a nessuno delle proprie scelte per tutta la durata della legislatura. Del resto il carattere oligarchico delle democrazie contemporanee è attestato dalla percentuale incredibilmente bassa dei cittadini che partecipano direttamente al governo della cosa pubblica. Il presidente degli Stati Uniti è eletto, ad esempio, da non più del 15 per cento degli aventi diritto al voto. Una buona metà di essi non si iscrive neanche alle liste elettorali e un’altra metà degli iscritti si astiene. Il restante quarto di elettori effettivi si divide quasi sempre con uno scarto minimo, che riduce ancor più i voti confluiti sul presidente eletto. Del resto le dinastie dei Kennedy, dei Bush, dei Clinton non ha il profilo inquietante di una democrazia ereditaria?
Ma a questi limiti, per così dire strutturali, del dispositivo democratico se ne sono aggiunti da qualche tempo altri che hanno accresciuto il senso di disillusione certificato nell’analisi di Roberto Foa e Yascha Mounk. Diverse sono le cause che rendono sempre più friabile, perfino lì dove è nata, la fiducia verso la democrazia. La prima è il contrasto, sempre più palese, tra il contesto statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale del mercato e della finanza che condizionano le politiche pubbliche.
Il punto di cedimento sta in quel paradigma di sovranità cui la pratica della democrazia è stata finora legata, messa in crisi da una governance mondiale che fa capo a gruppi di interessi e lobby di carattere non elettivo. A questo deficit di legittimità si associa, potenziandolo, il ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica. È noto che un sondaggio di modeste proporzioni incide sulle scelte governative più di un mese di dibattiti parlamentari, allargando il distacco tra forme e contenuti della democrazia. Un’intera fascia di popolazione resta esclusa dai processi decisionali, concentrati alla fine in poche mani in grado di orientarli in direzione di interessi particolari. Quando poi chi governa è anche padrone, direttamente o indirettamente, di mezzi di informazione, il cerchio si chiude con effetti nefasti nei confronti di quel principio di uguaglianza su cui dovrebbe fondarsi il sistema democratico.
A risultarne colpito non è tanto l’estensione della rappresentanza, quanto la sua reale efficacia. Per certi versi, anzi, quanto più i canali rappresentativi si moltiplicano - ciascuno di noi è rappresentato in sedi diverse, locali, nazionali, internazionali - tanto meno incidono sulla vita effettiva delle persone, dipendente da questioni di carattere biopolitico, quali la sussistenza materiale, la salute, il rapporto con i flussi migratori, etc.
Tutto ciò determina una doppia divaricazione. Da un lato quella dei cittadini nei confronti della istituzioni - l’insieme di riserve e di atteggiamenti negativi che Pierre Rosanvallon ha rubricato col termine “controdemocrazia” (Castelvecchi). Dall’altro quella delle istituzioni nei confronti di un popolo sempre più incline a forme di vera e propria antipolitica. Lo scivolamento della legittima protesta contro determinate opzioni governative verso forme di populismo costituisce oggi il rischio maggiore per le democrazie contemporanee, strette nella tenaglia tra disinteresse ed avversione.
La deriva populista ha l’effetto controproducente di scavare un solco sempre più profondo tra potere e società rendendo il primo ancora più indipendente dalla seconda. In questo cortocircuito perverso il populismo finisce per espropriare del tutto il popolo dalle decisioni che lo riguardano, mettendo, come diceva M. Gauchet, “la democrazia contro se stessa” (Gallimard).
Come rispondere a questa deriva autodistruttiva? Di antidoti ne esistono. Essi vanno dalla riduzione delle pratiche corporative del ceto politico - liste elettorali bloccate, governi tecnici, finanziamenti illeciti - all’incremento di forme di democrazia diretta, come campagne di informazione, primarie regolate, referendum non solo abrogativi. Ma tutto ciò avrà scarsi esiti se non si va al cuore del problema, che non riguarda tanto la forma, quanto la sostanza, della democrazia. Ad essere alle corde non è tanto il sistema democratico, quanto la politica che dovrebbe renderlo vitale. È questa che sembra dissolversi in discussioni tecniche sugli strumenti che finiscono per perdere di vista i fini.
La politica, ridotta ad amministrazione, s’incarica di risolvere solo i problemi emergenti, senza dirci cosa intende fare e perché. Quali sono i suoi progetti e come raggiungerli. E in questo assordante silenzio che le alternative politiche appaiono tutte interne allo stesso modello e dunque irrilevanti. Ciò che manca è la capacità di alzare il tono del discorso pubblico, facendo della democrazia lo spazio necessario delle regole comuni, ma della politica il luogo in cui si confrontano, e affrontano, valori ed interessi diversi e contrapposti.
Numanzia non può morire!
di Nicola Fanizza *
La decisione del governo turco di chiudere la frontiera con la Siria mi ha fatto andare con la mente alla rivolta che nel 1863/64 investì il «Regno del Congresso» - così era chiamata quella parte della Polonia che nel 1815 si era deciso di assegnare ad Alessandro I. Nel corso della repressione, la polizia zarista non poteva, però, inseguire i ribelli polacchi al di là dei confini del regno. E pertanto lo zar Alessandro II stabilì col governo prussiano, da poco diretto da Bismarck, un patto che prevedeva un’azione comune contro i Polacchi nelle zone di frontiera.
L’Impero zarista, la Prussia e l’Impero asburgico erano contrarî alla ricostruzione della Polonia come Stato indipendente. Da qui la determinazione del Cancelliere di ferro di consegnare ai Russi i patrioti polacchi, che si erano rifugiati in Prussia.
I carri armati turchi schierati, recentemente, sulla frontiera siriaca rivelano una tacita alleanza fra il governo di Erdogan e i combattenti dell’Isis. Gli interessi della Siria, della Turchia, dei combattenti dell’Isis, dell’Iran e, persino, dell’Armenia sembrano essere sul campo coestensivi: ognuno, a suo modo, si attiva per impedire la creazione di uno Stato curdo indipendente.
Le due situazioni di cui sopra, pur essendo per molti versi analoghe, presentano, tuttavia, anche sensibili differenze.
Lo sdegno provocato dalla repressione della rivoluzione polacca suscitò nel 1864 in Francia e in Inghilterra un movimento di solidarietà negli ambienti democratici e operai, e proprio da esso si sviluppò l’Alleanza internazionale dei lavoratori, nota come Prima internazionale.
Viceversa oggi, a 150 anni dalla sua nascita, i sedicenti progressisti, con la loro falsa solidarietà nei confronti del popolo curdo- come si fa a dimenticare la “consegna indiretta” di Ocalan alla Turchia!- si apprestano a celebrare l’ennesimo funerale dell’Internazionale socialista. Verrebbe da dire con Ernst Kantorowitz- autore del saggio del 1957 I due corpi del re - l’Internazionale è morta. Viva l’Internazionale!
Questa figura di sapore hegeliano diventa intelligibile se si tiene presente la singolare metafora veicolata da Edmund Plowden, giurista elisabettiano, il quale fa coesistere in un solo essere- il sovrano- due realtà distinte, una concreta ( l’individuo soggetto alla morte) e una figurata ( il Re perpetuo). I re, infatti, non possono mai morire, in quanto il re è ciò che nega la morte e la loro messa a morte si configura come la più alta negazione della sovranità!
L’immagine del doppio corpo del re consente di riannodare nuovi fili ermeneutici intorno alle dinamiche che investono le aggregazioni sociali. Proprio perché la sovranità comprende due aspetti opposti eppure necessari che sono l’Ordine e la Potenza, il paradigma teologico-politico dei «due corpi» ci dice che le organizzazioni politiche, da sempre incentrate sull’ordine, periscono e le istanze creatrici, che rimandano, invece, alla potenza, sono eterne.
Non è inutile rilevare che mentre la Prima internazionale e l’Internazionale situazionista si sono configurate come associazioni di movimenti, le altre Internazionali - dalla II, III, IV fino a quella socialista -, sono state, invece, alleanze di partiti.
E non è una differenza da poco, poiché i partiti e i movimenti svolgono una funzione opposta e complementare: sono coestensivi nel senso che nei partiti prevale il rito (la ripetizione che rimanda all’ordine), e nei movimenti prevale il gioco (il nuovo che rimanda alla potenza del divenire). I movimenti hanno la straordinaria capacità di promuovere lo sviluppo dello spazio sociale, nonché nuove pratiche di liberazione. D’altra parte, i partiti, dopo la fase istituente, si trasformano comunque in strumenti di conservazione delle burocrazie e degli apparati.
L’effervescenza sociale e la creatività stentano a sopravvivere, specialmente, nel cono d’ombra dei partiti egemonizzati dagli epigoni di Marx. Questi ultimi hanno sempre manifestato la loro feroce avversione, la loro diffidenza nei confronti delle capacità mitopoietiche ed, in modo coestensivo, del mito. Tutto ciò ha impedito l’affermarsi di una ragione mitica, ossia di una ragione capace di raccontare, anche, la storia sacra degli oppressi. Una storia che, recuperando la valenza conoscitiva dell’esperienza, consente di rivendicare un senso nuovo e più largo di umanità. E qui non ci riferiamo all’esperienza quantificata che si dà nei numeri, nelle formule e negli strumenti e di cui non si può raccontare la storia, ma all’esperienza tradizionale, quella contraddittoria che si dà nei detti e nei proverbi, quella che comporta, comunque, il patema.
La sinistra marxista si é sempre attivata per bloccare gli ingranaggi della macchina mitologica, poiché ha sempre avuto paura dell’ombra: ossia è atterrita dalla paura di contaminarsi con l’irrazionale.
Non è un caso che, in riferimento alla ricorrenza rituale dell’Internazionale, non esiste un mito fondante. Quello dell’Internazionale è, per l’appunto, un rito senza mito!
Di tale mancanza se ne accorse, per primo nel 1937, Georges Bataille, un intellettuale irregolare che ha sempre pensato nel cono d’ombra della razionalità utilitaristica. Quest’ultimo, recuperando le sue capacità mitopoietiche, individuò nel sacrificio di Numanzia il mito fondante di una nuova comunità di individui sovrani. La leggenda racconta che la città iberica fu posta sotto assedio, a partire dal 134 a. C., dalle legioni romane guidate dal fascista Scipione l’Africano. Dopo sedici mesi d’assedio, i Numantini, quantunque sofferenti per la fame, indeboliti e decimati dalle malattie, rifiutarono di arrendersi e decisero di morire pur di non rinunciare alla loro sovranità. Tentarono, pertanto, un’ultima disperata sortita e i pochi superstiti - uomini e donne! -, dopo aver incendiato le loro case e distrutto le armi e i loro beni, si lanciarono fra le fiamme.
Mentre Bataille racconta un solo evento della storia sacra degli oppressi, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, parla delle innumerevoli sofferenze che i contadini hanno subito nel corso del tempo. Questo romanzo-saggio-memoriale, che egli scrisse a Firenze nel 1943/44, racconta la storia mitica, la storia sacra del mondo contadino come una storia biblica. E, per di più, sono gli stessi contadini a raccontare la loro storia recente e, insieme lontana, attraverso le rappresentazione teatrali.
Si tratta di un testo che può diventare intelligibile solo se tiene presente nel debito conto il saggio Paura della libertà, che egli aveva scritto, mentre era in esilio in Francia, nella tarda estate del 1939.
Sin dal suo arrivo in Francia, meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, Levi e si era immerso nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Trenta, quella del fronte Popolare e delle riviste eretiche. La sua enorme curiosità lo porta a frequentare le mitiche conferenze del Collegio di Sociologia, che si tenevano ogni due settimane in una libreria del Quartiere Latino. Le comunicazioni che maggiormente lo interessano sono quelle di Roger Caillois, il quale si richiamava per sommi capi alla teoria del Sacro di Rudolf Otto. Il giovane studioso francese definiva il Sacro come ciò che atterrisce e, insieme, affascina e, per di più, rilevava la presenza del numinoso nella storia.
Per Levi la numinosità, intesa come valore sacro della liberta, viene negata dal fascismo. Da qui l’esigenza di individuare, in Paura della Libertà, le dinamiche sociali e psicologiche che generano il totalitarismo.
Allo stesso modo di Simone Weil, Levi riconduce l’oppressione totalitaria all’idolatria. Quella del totalitarismo gli appare come la linea dominante della storia occidentale. E se è vero che le forme assunte nel secolo scorso dallo stato totalitario erano del tutto nuove per quel che riguarda gli strumenti e le intenzioni, è altresì certo che a cambiare, per Carlo Levi, non è la logica complessiva che ha animato i vecchi e i nuovi totalitarismi: la creazione di una realtà artificiale in cui riconoscersi e, in particolare, la deificazione dello Stato; il paternalismo che inchioda gli individui in uno stato di minorità; le distruzioni di massa; l’annullamento dell’individuo; e, infine, l’abbassamento della facoltà dell’attenzione che produce l’incapacità di discernere i confini che separano il bene dal male.
Sulla scorta di tale riflessione, cinque anni dopo, Carlo Levi guarderà con nuove lenti alla sua permanenza nel 1935/36, come confinato, in Basilicata. Ritiene, infatti, che l’immaginario della civiltà contadina sia nella sua essenza mitico. Parla di un mondo magico, di un mondo in cui non c’era spazio per la razionalità. E tuttavia, in quel mondo in cui gli uomini dovevano fare continuamente i conti con l’ostilità senza volto delle forze naturali, le relazioni fra gli individui stazionavano nell’atmosfera del dono.
La «fraternità passiva» di cui parla Carlo Levi e l’«amore della propria somiglianza» evocato da Rocco Scotellaro consentivano ai contadini di ospitare persino il forestiero o l’«esiliato» di cui non conoscevano il nome. I contadini avevano la straordinaria capacità di contrapporre alla tendenza umana alla volgarità il senso sacro della politica: ossia rivendicavano la libertà come autonomia, come rispetto degli altri e come rifiuto della violenza. Il fascismo veniva da loro inteso come statolatria, nonché come deificazione della patria.
La patria dei contadini, infatti, non è il luogo in cui si è nati, ma lo spazio sociale in cui si è tutti sovrani. La Basilicata di Levi ci appare, pertanto, come una comunità di elezione e, insieme, come la terra del ricordo, la terra che ti difende dalla minaccia di restare apolide. Da qui l’esigenza di custodire un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che i poeti i riplasmano in voce universale.
Nel concludere queste brevi note, ripenso ai Curdi e all’assedio di Kobane, dove - uomini e donne! - combattono per non rinunciare alla loro sovranità. Numanzia non può morire!
1938 TORINO Ditta Umberto RENZI Chioschi latrine lavatoi *Opuscolo ILLUSTRATO
DATA: 1938
LUOGO: TORINO
TITOLO: UMBERTO RENZI - CHIOSCHI SMONTABILI IN PIETRA ARTIFICIALE E FERRO
DESCRIZIONE: Opuscolo pubblicitario d’epoca, con numerosissime illustrazioni nel testo raffiguranti chioschi, latrine e lavatoi.
PAGINE: 8
FORMATO: cm 17 x 24
CONDIZIONI: buone.
Documento d’epoca, originale, autentico.
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Datazione : 1938
Stato di conservazione : buono
Numero di pagine : -
Dimensioni : 17 x 24 cm
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Tutta la verità sul caso Piegari profeta gramsciano umiliato dal Pci
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 26.10.2014)
Nel suo gran libro, Mistero napoletano , Ermanno Rea l’aveva lasciata volutamente nella penna, almeno in parte, la tragica storia di Guido Piegari, uomo di genio, vittima dello stalinismo del Pci degli anni Cinquanta. Ai tempi di quel romanzo-verità pubblicato nel 1995, vincitore l’anno seguente del Premio Viareggio, allora sotto la guida di Cesare Garboli, Piegari era ancora vivo: morì nel 2007 e fu l’umana pietà, il rispetto del dolore, a trattenere lo scrittore dal raccontare compiutamente la vita di quell’uomo di alta qualità intellettuale umiliato e offeso, espulso dal Pci di Togliatti pressato da Giorgio Amendola.
Piegari aveva creato a Napoli il gruppo Gramsci che di potere ne possedeva poco, ma di idee molte, dissonanti da quelle del partito e le discuteva nell’affollata aula IV della facoltà di Lettere dell’Università. Davano noia, o meglio erano considerate eversive, pericolose, frazioniste perché contestavano la linea amendoliana di stampo salveminiano che puntava soprattutto sull’alleanza con le forze locali. Piegari e il suo gruppo, nemici di ogni compromissione, nella patria di tutti i trasformismi, erano invece fedeli alla lezione di Gramsci: la Questione meridionale è questione nazionale fondata sulla saldatura tra la classe operaia del Nord e i contadini e i sottoproletari del Sud. Fuori da quei principi si favoriva soltanto la disunità d’Italia. . Com’è rispuntato nella mente e nel cuore di Ermanno Rea il fantasma di Guido Piegari? È stata la scoperta di un quaderno nero, con gli angoli e il dorso di tela rosso fiamma - cinese? - ritrovato nella libreria di casa, pieno di appunti scritti al tempo del suo famoso romanzo, a risvegliare passioni e anche tormenti. E ne è nato un nuovo libro, una lucertola che riannoda la sua coda spezzata: Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta (Feltrinelli). Il libro può anche esser letto come una lezione in quella famosa aula IV: l’attualità cui accenna il sottotitolo è acclarata in questo mezzo secolo e più trascorso da allora, dal localismo compromissorio stalinista al migliorismo, alla compiaciuta attenzione alle pratiche craxiane, alle larghe intese del berlusconismo di oggi. Non fu una sconfitta, si può dire, quella del profetico gruppo Gramsci.
Chi era Guido Piegari? Laureato in Medicina, biologo, stimato scienziato dell’oncologia, uditore dell’Istituto di studi storici del Croce che ammirava molto la sua intelligenza, marxista ventenne alla ricerca di una nuova visione della Storia, tra l’Europa delle rivoluzioni ottocentesche e del Romanticismo e il Risorgimento italiano. Il fascino del personaggio, la sua capacità di proselitismo erano riconosciuti nell’appassionata Napoli del secondo dopoguerra, avida di saperi, di voglia di capire e di discutere, in misura persino maggiore alla naturale vocazione al ragionamento dei napoletani.
Il lunedì sera, in quegli anni, era sommo il fervore nel seguire all’Università le varie relazioni: tra le tante, la Rivoluzione del 1799, l’Unità politica, l’Italia del primo Novecento. I temi si incastravano l’uno nell’altro, ma era il presente, sempre, a far da protagonista - la contemporaneità - anche se gli argomenti parevano lontani. L’autoritarismo, l’ansia di libertà, i sistemi usati dallo stalinismo affioravano di continuo nell’evocare il passato. In quegli anni cupi della Guerra fredda i nodi col Pci vennero rapidamente al pettine. Con brutalità. Non fu neppure concessa una libera discussione coi dissenzienti.
Rea racconta quel che allora accadde. Piegari non fu solo espulso dal partito - evento che tacque nel Mistero napoletano - fu insultato, ferito a morte. Commenta ora lo scrittore: «L’eretico va delegittimato, calunniato, vilipeso. Soprattutto va dichiarato pazzo. Piegari è pazzo, dissero infatti gli agit prop della potente macchina da guerra ortodossa. E tanto dissero finché il povero Piegari sentì effettivamente vacillare il proprio equilibrio, scoprendo gli incubi della mania di persecuzione».
C’è un’altra storia dolorante nel libro di Rea che provoca accoramento in chi legge. Quella di Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici che fu al fianco di Guido Piegari. Ermanno Rea descrive in belle pagine il volto scavato, l’aria affranta, la grande malinconia dell’amico. Avvocato amministrativista di grande talento e successo, finita l’avventura del Gruppo Gramsci, ha dedicato la vita a creare una biblioteca famosa in tutto il mondo di trecentomila volumi, una sorta di ponte culturale con il mai dimenticato Gruppo Gramsci. Si è svenato negli anni, l’avvocato Marotta, a comprar libri (dieci miliardi di lire, secondo i più illustri biblioteconomi). Carlo Azeglio Ciampi, colto presidente del Consiglio, destinò finanziamenti notevoli e necessari all’Istituto, il governo Berlusconi li bloccò del tutto. I libri, che nel Palazzo Serra di Cassano davano lustro e vanto a Napoli e all’intero Paese, sono ora ammucchiati in un capannone di periferia.
È «una tragedia antropologica» quella che si consuma sotto i nostri occhi, scrive Ermanno Rea. Una vergogna nazionale, un simbolo dell’irrilevanza della cultura, della memoria, della Storia spazzato via da una furia iconoclasta.
Matera è la Capitale europea della Cultura 2019
Festa in piazza, nel centro storico della Città dei Sassi, all’annuncio della designazione
di Redazione *
È Matera la città italiana designata come capitale europea della cultura per il 2019.
"La designazione di Matera è un esempio di civiltà e riscatto che da Matera e dal Sud arriva all’Europa". Così il sindaco di Matera Salvatore Adduce. "Non stiamo più a pietire, ma a dare un contributo su come la cultura possa trasformare un territorio - ha detto visibilmente emozionato -. Non era un esito scontato, ma l’abbiamo raggiunto grazie al lavoro di tutti".
L’annuncio della designazione ha fatto esplodere la festa in piazza San Giovanni, nel pieno centro storico della Città dei Sassi, dove in migliaia si sono ritrovati davanti al maxischermo per assistere in diretta al verdetto. In tanti si stanno abbracciando e stanno sventolando le bandiere con il logo "Matera 2019".
Matera è stata designata Capitale europea della cultura per il 2019, con sette voti su tredici. Il titolo, oltre all’Italia, sarà assegnato anche a Plovdiv in Bulgaria. Il verdetto è stato comunicato da Steve Green, presidente della Giuria di selezione composta da 13 membri (6 italiani e 7 stranieri) al Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, che ha dato l’annuncio.
Non vince solo Matera, capitale europea della cultura 2019: le cinque città finaliste ’perdenti’, Siena, Ravenna, Lecce, Perugia-Assisi e Cagliari saranno capitali italiane della cultura nel 2015 e nel 2016. E’ l’orientamento - a quanto si apprende - emerso dalla riunione tra il ministro Franceschini e i sindaci delle diverse città al Collegio Romano prima della proclamazione. Un’ipotesi di lavoro - dovrà confermarla il Consiglio dei ministri - che punta a non disperdere il patrimonio costruito in questi mesi.
LA DELUSIONE DELLE ALTRE CANDIDATE - Matera ha avuto la meglio su una rosa di sei candidate che comprendeva anche Cagliari, Perugia-Assisi, Siena, Lecce e Ravenna. L’annuncio è stato fatto dal ministro Franceschini nella sede del dicastero di via del Collegio Romano assediata da delegazioni, giornalisti e fotografi.
Grande delusione a Siena per le 400 persone che hanno atteso il verdetto per la Capitale Europea della cultura 2019. Al momento dell’annuncio, seguito in diretta da Roma con un maxi schermo, in molti hanno abbandonato subito la piazza. I pochi rimasti si sono lasciati andare anche alle lacrime. Presenti anche alcuni studenti materani che hanno esultato per la vittoria della loro città, invitando Siena a "non arrendersi".
Qualche lacrima nella sede della Fondazione che ha sostenuto la candidatura di Perugia a Capitale europea della cultura dopo l’annuncio della scelta di Matera. A Roma i vertici dell’organismo, diversi di coloro che hanno lavorato al progetto si sono ritrovati negli uffici nel centro del capoluogo umbro (dove è cominciata Eurochocolate, con le strade già affollate di turisti). Hanno seguito dai computer in streaming l’annuncio della città scelta. Alcuni si sono abbracciati mentre altri hanno preferito isolarsi davanti ai computer. Dopo l’annuncio i volti sono apparsi delusi. Alcuni hanno anche pianto. Nessuno ha voluto comunque commentare la scelta.
Quando il ministro della Cultura ha pronunciato la parola Matera, tra gli oltre duecento che stavano seguendo in streaming la lettura del verdetto alla Galleria comunale, in fondo ai Giardini Pubblici di Cagliari, è calato il gelo. Durato quasi una frazione di secondo. Perché l’assessore comunale alla Cultura, Enrica Puggioni, ha subito lanciato l’invito a un lungo applauso. Anche a Matera, la "rivale" che in un attimo ha mandato in frantumi i sogni cagliaritani di Capitale della cultura 2019. Ed è stata sempre Puggioni a consolare chi in lacrime si avvicinava per abbracciarla: "Basta facce depresse - ha urlato - abbiamo fatto un ottimo lavoro. E continueremo a farlo per dimostrare che in Europa nel 2019 ci siamo anche noi. Abbiamo tantissimi progetti, questa città è comunque viva". E poi i complimenti ed i ringraziamenti quasi a uno a uno per chi ha partecipato alla lettura del verdetto in diretta. "Bravi i cittadini - ha detto Puggioni - l’Università, i Comuni che ci hanno aiutato. Siamo un territorio che cresce, un patrimonio inaudito. È stata l’esperienza più bella della mia vita. I sardi ci hanno sostenuto in massa nei sondaggi". Matera? Nessuna polemica. "Sta lavorando a questo risultato- ha detto l’assessore - da sette anni. Complimenti a Matera".
Confindustria Ravenna ringrazia lo staff di Ravenna 2019, battuta da Matera come capitale della cultura, e chi ha sostenuto il lavora per la candidatura, improntati a una progettualità condivisa. Ma il Sindaco Fabrizio Matteucci dice: "Inutile girarci intorno, dirlo è compito mio: prevale la delusione per aver mancato l’obiettivo di un soffio. Ma possiamo essere sereni perché abbiamo fatto il nostro dovere. Il progetto ci ha fatto arrivare nella rosa delle finaliste: un successo".
* © Copyright ANSA 17 ottobre 2014 (ripresa parziale).
Tra i Sassi di Matera il filo della città futura
Diventati dopo gli Anni Cinquanta sinonimo di degrado sono in realtà un modello abitativo sostenibile e comunitario
di Pietro Laureano (La Stampa, 23/02/2014)
I Sassi di Matera furono completamente spopolati dagli abitanti, costretti a spostarsi in nuovi quartieri negli Anni Cinquanta e Sessanta, e le case grotta e il sistema di habitat trogloditico furono dichiarati una vergogna per la nazione italiana. L’intera comunità, con la sua identità e il suo passato, fu decretata inadeguata e posta ai margini della storia. Era estranea ai modi, ai tempi e alle necessità dello sviluppo - maschera del volto truce dell’emigrazione e della speculazione edilizia. Matera costituiva un modello scandaloso perché, basata sul risparmio delle risorse, sul continuo riciclo e sull’autoproduzione, era una minaccia per la società dei consumi.
Negli Anni Ottanta, dopo l’esodo urbano, matura la volontà di recupero, ma il dibattito oscilla tra la sacralizzazione estetica di un mondo perduto e le proposte di risanamento basate sulla concezione che si trattasse di adeguare miseri quartieri dismessi. Così i Sassi di Matera rischiavano o la museificazione, condannandoli al degrado per l’impossibilità di gestione, o un riuso realizzato tramite omologazioni distruttive con la progettazione di affacci, sventramenti e nuove volumetrie. L’unica soluzione possibile era il ritorno degli abitanti con interventi di restauro compatibili con la preservazione dei valori.
La cosa non era facile sia perché la gran parte dei cittadini di Matera non voleva riabitare i Sassi, ferita ancora aperta per il marchio subìto della vergogna e l’imposizione di nuovi modelli, sia perché, per stabilire codici di salvaguardia, è necessario prima interpretare i luoghi e stabilirne i valori e significati. Occorreva quindi compiere una nuova lettura e una nuova narrazione da far vivere nella memoria, negli interessi e nelle passioni dei cittadini; e anche sostenere le associazioni, gli appassionati e gli intellettuali già operanti in questa direzione con un’iniziativa che stimolasse la volontà e l’orgoglio della comunità; diffondere questa immagine come elemento di promozione e di riscatto culturale ed economico.
Tutto questo è stato ottenuto con l’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale Unesco realizzata nel 1993 come primo sito del Sud dell’Italia. Il riconoscimento fu dovuto all’interpretazione del sistema geniale di gestione dell’acqua e dell’energia, dell’organizzazione sociale e comunitaria degli spazi e dei percorsi urbani, delle caratteristiche uniche del modo di abitare e di proteggere l’ecosistema come modello di sostenibilità per la città del futuro. L’iscrizione di Matera diede impulso, in Italia, a nuove candidature; a livello internazionale, all’apprezzamento delle località popolari e non auliche; e, sul piano teorico, all’evoluzione effettuata dall’Unesco della concezione del patrimonio dal monumento al paesaggio, alle conoscenze e alle persone che l’hanno prodotto.
Matera, abbarbicata sui gradoni scoscesi dell’altopiano calcareo delle Murge, lungo il bordo del profondo canyon della Gravina, ha una compenetrazione totale con il paesaggio: non è costruita sulle rocce, vi è scolpita; non è edificata, è scavata; non è realizzata con la pietra, è la pietra stessa. È il rovescio delle categorie consuete. Qui le antiche cronache recitano: «i morti sono sopra i vivi», perché, abitando il sottosuolo, si seppellisce sui giardini pensili posti al di sopra; le strade sono i tetti delle abitazioni sottostanti, e gli opposti coesistono: vuoto e pieno, antro e giardino pensile, luce e tenebra. Reliquia preistorica e ipotesi per futuri alternativi, Matera, come una divinità primordiale, pone interrogativi e sfide con l’enigma dei suoi labirinti di luce e i mille volti di pietra.
La scarsità delle risorse, la necessità di farne un uso appropriato e collettivo, l’economia della terra e dell’energia e la produzione e la gestione dell’acqua sono alla base della realizzazione dei Sassi di Matera. Sull’altopiano, scavati nella fragile roccia calcarea, sono ancora visibili i primi villaggi del Neolitico risalenti al VI millennio a.C. circondati da fossati organizzati con canalette e cisterne dalla perfetta forma a parabola, filtri e tumuli di pietra che, captando il vento, condensano l’umidità.
La linea tra il piano e il burrone è soglia simbolica e luogo fondamentale per la captazione delle acque. Seguendo gli strati del calcare tenero, si scavano cavità semiorizzontali su più piani sfruttando la parete verticale e i gradoni naturali della sponda del canyon. Durante le piogge, terrazzamenti proteggono i pendii dall’erosione e convogliano per gravità le acque nelle grotte. Nella stagione secca, le cavità aspirano l’umidità atmosferica che si condensa nella cisterna terminale degli ipogei. Lo scavo è effettuato con un’inclinazione precisa per permettere al sole in inverno, quando è più basso a mezzogiorno, di penetrare fino in fondo. In estate, il sole più vicino allo zenit colpisce solo gli ingressi delle grotte lasciandole fresche e umide. Il processo ha una funzione pratica, garantendo la climatizzazione costante, e un significato simbolico. L’unione del Sole con la Terra, attraverso la condensazione del vapore sulla roccia più fredda, crea il miracolo dell’acqua e della vita.
Nel tempo, sviluppando le originarie tecniche preistoriche, si realizza un sistema di habitat adattato e complesso. Con gli stessi blocchi di pietra ricavati scavando le grotte, sono fatti gli ambienti costruiti che chiudono a ferro di cavallo la radura terrazzata determinando uno spazio centrale protetto. Il modulo dell’abitazione è la volta a botte, il lamione, estroflessione delle stesse grotte che rimangono dietro le facciate costruite. Quelli che erano l’orto irrigato e l’aia pastorale davanti alle grotte si trasformano nella corte, luogo delle attività della famiglia allargata; l’insieme di affacci su spazi più grandi forma l’agglomerato principale delle relazioni sociali: il vicinato. Qui una grande cisterna comune raccoglie le acque che provengono ora dai tetti, mentre il gradone sovrastante si trasforma in giardino pensile. Le linee di scorrimento idrico divengono le scale e i percorsi del complesso urbano. La forma e la trama viaria assecondano la struttura e le asperità del terreno seguendo le linee di gravità per le necessità di raccolta e di gestione dell’acqua.
L’intera città sembra essere stata concepita non per un attraversamento rapido ma proprio per fermarsi, imbattersi in qualcuno, lasciarsi coinvolgere nei rapporti sociali e di vicinato. Ne risulta una struttura spaziale allo stesso tempo corporea e geometricamente rigorosa; una geometria non ortogonale e regolare, ma caotica e frammentata, non pianificata ma autoprodotta, non euclidea ma frattale. Semplici regole, iscritte nella natura e nella coscienza di ognuno, ripetendosi costantemente, determinano risultati sublimi.
Così, con l’applicazione pigra, lenta, costante e tenace dello stesso processo si attua l’intensificazione senza perdita di varietà e complessità. Si conciliano la cuspide e la curva, la regolarità e la sinuosità, il minerale e il biologico. È una geometria organica, la stessa preposta alla crescita di una foglia, allo sviluppo di una conchiglia e alla formazione dei fiocchi di neve, i cristalli, fino alle galassie. È la geometria organica espressa nelle incisioni di Cornelius Escher che in uno spazio limitato sa disegnare l’infinito e in un’architettura impossibile il ripetersi dell’eterno.
* Estratto dell’articolo dell’architetto e urbanista
Pietro Laureano, tratto dal n. 118
di Lettera Internazionale,
in libreria con il titolo
Corpo umano, corpo urbano
CARLO LEVI E LA DEMOCRAZIA DELLA PAURA... Una nota di Nicola Tranfaglia (a un art. di Nicola Fanizza):
CARLO LEVI E LA QUESTIONE MERIDIONALE
di Nicola Tranfaglia *
1. Formazione e giovinezza
Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell’autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.
Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso l’ordine nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell’ex capitale subalpina negli anni venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell’industria meccanica e automobilistica.
Puntarono, insomma, su Piero Gobetti come un riferimento Levi e i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia, sia agraria che urbana, che secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere.
“Dovremo diventare una generazione di storici” scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto una controrivoluzione preventiva rispetto a una rivoluzione proletaria che non ci fu.
In un articolo apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti , nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione liberale e dedicato ai “Torinesi di Carlo Felice”, possiamo verificare .il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà.
O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti che riguarda la figura dell’ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua mentalità conservatrice, l’assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini.
Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino “Voci di officina “ che esce nel 1930 e nei “Quaderni di G. e L.” pubblicati a Parigi da Carlo Rosselli che il giovane medico- pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell’Italia e dell’Europa.
In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall’altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento.
C’è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di Giustizia e Libertà che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l’oppressione fascista.
In “ PAURA DELLA LIBERTA’”, Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Battaille, dei grandi autori della psicoanalisi Freud e Jung, interpreta l’oppressione totalitaria degli anni trenta e quaranta come l’espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal passato dell’uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società.
Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive pagine di grande lucidità sulle difficoltà mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell’espressione. **
Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere.
2. CRISTO e il suo significato
Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura.
Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo,il “CRISTO” segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale .
Soprattutto perché guarda alla società contadina del mezzogiorno , e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista.
Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza.
Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che non immaginava potesse esistere nell’Italia del Novecento.
Occhi che assomigliano a quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato.
Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la lotta democratica.
Il “CRISTO” è un classico nella misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori, anche quelli non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale.
Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l’opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo .
Egli ha un’altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come “Le parole sono Pietre” ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo.
Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell’opera di Carlo Levi, ed è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti.
Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche negli ultimi anni della sua vita la vedrà sempre di più come il simbolo di una questione destinata a rimanere tale nell’era della globalizzazione economica e culturale.
Nicola Tranfaglia
* Fonte: http://www.proteofaresapere.it/contributi/questione.htm
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LA PARTE EVIDENZIATA è utilizzata come nota di commento dallo stesso Tanfaglia, all’art. (vedere in fondo) di Nicola Fanizza, "La democrazia della paura (1)", apparso su "Nazione Indiana", il 19 settembre 2006 (fls)
Da ogni dove, in cammino per Matera 2019
16 Settembre 2014
L’idea è nata sulla community, nella tarda primavera, e ha sonnecchiato lì per un po’. Poi qualcuno l’ha ripresa. O l’ha semplicemente pensata, perchè quando si ama camminare fra i boschi e sui tratturi e su e giù da colline e calanchi, l’idea viene.
Andare a piedi fino a Matera.
L’Associazione Al Parco ha progettato un percorso: da Satriano di Lucania a Matera in 7 tappe. -L’Associazione Scouting For ne ha progettato un altro: da Potenza a Matera in 4 tappe. -L’Associazione Al Varco ne ha progettato un terzo: dalla Val d’Agri a Matera in 7 tappe passando per Aliano, il paese di Carlo Levi, e Craco, il paese fantasma nel quale sono nascoste tutte le nostre paure. E poi si sono uniti Fiab Matera, CEA Montescaglioso, l’Associazione Il Falco Naumanni, l’AsD Basilicat Extreme, Il Ranch El(e)Dorado, la Coop. Nuova Atlantide, la Compagnia della Varroccia, il CAI.
Trekkers e scout, persone a cavallo, disabili con hand bike. Lucani che fanno tutto il percorso, o ne fanno una tappa, mezza, un pezzetto. Il Forum Regionale del volontariato si anima e offre supporto nei comuni sede di tappa dove arriveranno a sera i Camminanti, più o meno stremati. Cibo, ospitalità. Uno spazio comune nel quale dormire, una doccia. Si mette in moto tutto il gigantesco macchinario della solidarietà ed ospitalità lucana, semplice e senza fronzoli, che ti chiede solo chi sei e da dove vieni, ma prima ti da da mangiare. Una ospitalità silenziosa e profonda, così cara a chi vive - suo malgrado - fuori di qui.
E dove vanno tutti costoro?
Tutti a Matera. Vogliono arrivare lì il 7 Ottobre, quando a Matera ci sarà la commissione esaminatrice, venuta per capire che aria tira in città, e se Matera merita davvero il titolo di Capitale Europea della Cultura per il 2019. Ed in città, in quelle stesse ore, arriverà un fiume di lucani, da ogni punto della Basilicata, portando in dono la propria fatica millenaria di contadini, che calcano da sempre quegli stessi sentieri, quegli stessi boschi, quegli stessi calanchi.
"Il sogno è che parta una carovana da ogni paese della Basilicata. Che ogni paese porti in spalla e a piedi una delle proprie peculiarità culturali. Una fatica collettiva, di tutta la Regione, per esprimere con il passo lento che è proprio di questa Terra tutto quello che la Basilicata può dare a Matera 2019."
Tutte le info per partecipare ed iscriversi sono sul sito dell’Associazione Al Parco.
Anche i lucani fuori sede potranno partecipare: ovunque essi si trovino, possono fare un pezzo di camminata simbolica, per partecipare col cuore (ma anche coi muscoli) alla epica camminata di Ottobre 2014. E poi testimoniarlo, fotografandosi con questo cartello, nel quale scrivere il proprio nome, e il percorso fatto, e postando la foto su Twitter o Instagram, con l’hashtag #incamminoperMatera2019.
Già una volta abbiamo dimostrato di poter essere un unico popolo, 100.000 che hanno marciato "contro" Stavolta proviamo ad essere un unico popolo, 100.000 che marciano "pro".
(la bellissima mappa interattiva è opera di Piero Paolicelli -> Visualizza schermo intero)
L’ITALIA, LA "DITTA RENZI - TORINO", E "CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI"
In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 14.09.2014)
L’INCONTRO informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l’Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l’opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d’un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.
È insomma accaduto l’opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.
La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l’Italia dovrà avviare alcune riforme che l’Europa ritiene indispensabili. Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d’ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell’autunno del 2015.
SE l’Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale. Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l’obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d’inflazione verso l’1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro verso l’1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni. Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l’approvazione delle riforme concordate con la Commissione.
Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.
Come si vede, tutto ciò è esattamente l’opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l’Europa e non come Renzi sperava.
Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: «La strada dell’integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L’introduzione dell’euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento.
L’euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l’Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro. Per l’Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto».
Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.
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Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un’altissima percentuale di consensi e molta forza all’interno e all’estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.
Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d’Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento. Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d’ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce.
L’obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l’equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c’è perfino l’ipotesi di abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch’esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.
Non sarà un’impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all’epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall’Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all’evasione senza sconti.
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Ma che cos’è oggi il Pd? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell’Europa mediterranea è rientrata di fronte all’accordo della Germania con la Spagna, all’enigma scozzese che, se vincessero i «sì» alla separazione, metterebbe a rischio l’adesione alla Gran Bretagna all’Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall’Italia.
Che cos’è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico. Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell’ideologia. Dai tempi dell’Urss e del comunismo staliniano per i liberali l’ideologia era una peste da cui liberarsi. Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l’ideologia.
Personalmente credo che l’ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l’ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un’ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l’ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un’esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.
Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l’ideologia cattolico- liberale; Fanfani aveva un’ideologia cattolico-sociale; Moro un’ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.
Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul “Foglio” di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell’articolo intitolato (non a caso) “L’erede”, Ferrara scrive: «Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boyscout della provvidenza e non trovi mesta l’aura che circonda il nuovo caro leader?».
Mi pare molto significativo quest’entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul “Foglio” dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.
Non c’è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.
Fischi e striscioni
Ilva di Taranto, Matteo accolto a bottigliate
di Francesco Casula (il Fatto, 14.09.2014)
Taranto Dagli applausi del Gargano agli insulti di Taranto e le proteste a Bari. La giornata di Matteo Renzi in Puglia è il racconto di popolazioni della stessa regione che guardano alle istituzioni con animo opposto. A Peschici, dopo l’alluvione che ha causato due morti e oltre 70 milioni di euro di danni, c’è chi crede davvero nell’aiuto del Governo. Nella città dell’Ilva, invece, vince la rabbia di un centinaio tra operai dell’Ilva e ambientalisti. Nel Gargano, l’ex rottamatore si è fermato a parlare con i cittadini: “Non vi lascerò soli” e “il governo farà la sua parte com’è doveroso”.
I cittadini di Taranto, invece, sono rimasti fuori dalla prefettura, dove il primo ministro ha incontrato il sindaco, il presidente di Confindustria e i sindacati metalmeccanici. Renzi non ha trovato tempo per parlare con i manifestanti che al suo arrivo gli hanno dedicato il coro “Buffone! Buffone! ” e alla sua partenza hanno rincarato la dose con insulti e il lancio di qualche bottiglietta. “Se questo Matteo Renzi è il nuovo che avanza - ha commentato il comitato dei Liberi e pensanti - permetteteci di dire che assomiglia terribilmente al vecchio; a quella vecchia politica che ha immolato la città di Taranto a vittima sacrificale, sull’altare degli interessi dei grandi gruppi industriali e dello Stato”.
PER RENZI non c’è stato nemmeno il tempo per incontrare i pediatri tarantini che avevano chiesto un incontro per approfondire la drammatica situazione ambientale e sanitaria: “Mi sono fatto dare il numero di telefono della pediatra - ha detto ai giornalisti - la chiamerò. L’Ilva è una questione nazionale, la scommessa di come si può fare impresa rispettando la salute”. Una scommessa, tuttavia, che nonostante una valanga di decreti varati da tre diversi governi, lo Stato non sembra aver vinto.
Inoltre, sul progetto “Tempa Rossa” che prevede l’espansione della raffineria Eni di Taranto e l’aumento del 12 per cento delle emissioni, Renzi è stato evasivo: “È uno dei grandi temi che suscitano grandi dibattiti nella popolazione, sono questioni su cui talvolta c’è un elemento di tensione slegata dalla reale portata dei problemi”. Un progetto contro cui anche il comune di Taranto ha detto ufficialmente “no”, mentre il governo, incurante, sta procedendo speditamente.
Poco prima di partire per la Fiera del Levante, infine, il presidente del Consiglio ha annunciato che tornerà “nel periodo di Natale, alla fine dell’anno a fare il punto della situazione”. Ma le proteste lo hanno accompagnato anche nella successiva parte della giornata pugliese. A Bari, in risposta alla “buffonata” del gelato a Palazzo Chigi, studenti e giovani precari con un carretto di gelati davanti alla stazione centrale di Bari hanno contestato Renzi spiegando che “non abbiamo bisogno delle buffonate del governo, ma di un nuovo welfare, un reddito minimo garantito che consenta continuità di reddito per chi non ha continuità di lavoro, serve dire basta alla precarietà che contribuisce all’aggravarsi della crisi e all’aumento delle diseguaglianze”.
MA AL SUO arrivo alla fiera del Levante, Renzi ha dovuto fare i conti anche con i sindaci e i cittadini del Salento contrari al gasdotto Tap. “Noi siamo pronti a rispettare chi dice ‘No’ - ha risposto il premier - ma chi dice ‘no’ non può dire ‘stop’. Parliamo di tutto senza problemi ma non si può dire ‘no’ a un’opera così”. La Tap nel Salento come Tempa Rossa a Taranto quindi: non importa cosa dicano istituzioni locali e cittadini, il premier va avanti perché “ha la testa dura” e, secondo lui, “c’è la gente che fa il tifo”.
«Ma nella mente ora avverrà dei popoli
Che mai più torni fertile La parola ispirata»
(Ungaretti, Il Dolore , 1946)
di Guido Ceronetti (la Repubblica, 10.09.2014)
LASCIO il mio lapsus (Ungaretti dice non più e io, memoria errante, mai più ) perché forse, oggi, il nostro poeta quel mai sarebbe incline a mettercelo. Quel che posso dire è che mi duole, il cristianesimo che muore. Si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga. Non ho idea però di quel che sarà quando ce ne accorgeremo, qui, nelle nazioni cristiane dell’emisfero. Quando ne scriveva o me ne parlava Sergio Quinzio, la cosa mi era del tutto indifferente. Non mi pare di essere cambiato, né mi sono riconvertito in vecchiaia ai miei lontani anni di devozioni: tuttavia adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita.
«ORA accadrà che cenere prevalga?», concludeva Ungaretti quella sua poesia. Cenere, cenere... Cenere è uguale a Nulla... È questo nulla a farmi paura? Se il cristianesimo è irresistibilmente attirato da un Buco Nero il vuoto che lascerà non sarà colmabile.
Un aforisma di Cioran, il filosofo romeno, è spesso infallibile. Uno di questi dice: «Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso». Il quando è una data da andarne in cerca: ma non è molto lontana, le mostruosità hanno lunga vita e lunghissime agonie mortali; a volte sono immortali, come l’antisemitismo. Succederà anche all’Islam, da qui lo sforzo per sopravvivere all’onda che spazza la tolda aggrappandosi al controllo, all’oppressione e al terrore puro: la fase attuale si può vederla come struggle for life darwiniana. Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero. Non ne scompare una senza che l’altra la segua.
Forse, la mostruosità cristiana specifica è in declino da quando sono cessati gli autodafé e i processi delle streghe? Nei tempi nostri, da quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo a fare viaggi trionfali? Il Vaticano II andrà visto come una cessazione del carattere mostruoso della Chiesa che avrà impresso un’accelerazione al processo mortale del cristianesimo in ambito cattolico? Nell’ortodossia scismatica - la russa in specie - cessati il terrore e le persecuzioni comuniste, ha prevalso, mi pare, una continuità pacifica da zombi; non ci vedo più niente di vivo, ma fino a ieri non furono pochi i martiri. Memorabile resta la parabola del Grande Inquisitore dei Karamazov: Cristo ritorna, si rimette a predicare, fa seguaci, guarisce l’Aids, la Sla, Ebola, moltiplica pane e pesci per miliardi, squilibra la realtà a un tale punto che il Grande Inquisitore per il bene di tutti lo fa arrestare. Per non essere arrestato Cristo dovrebbe circondarsi di milizie fanatiche, risuscitare per risuscitarsi un cristianesimo mostruoso.
Léon Bloy - cristiano cattolico dei più grandi e dei più mostruosi - spettatore da un sobborgo di Parigi delle frenesie di distruzione della Grande Guerra, (al loro culmine nel 1916), profetizzava l’avvento dei Paracleto, lo Spirito Santo, previsto per la fine dei tempi storici. Come estrema speranza di credente invocava e aspettava che un misterioso Qualcuno venisse: ma dopo la sua morte nel 1917 e la ridicola pace del 1919, quale mai Consolatore-Redentore assoluto è venuto? Agnellini divini che abbiano portato i mali del mondo, tanti, per lo più anonimi, come adesso come domani, ma di Paracleti nessun segno.
L’Europa credente, inevitabilmente allora tutta cristiana (con minoranze teosofiche o di passati per Monte Verità, come Max Weber, Rilke), secondo Paul Fussell era in ripresa nelle trincee, ma non credo che in quelle condizioni la fede tradizionale andasse oltre le invocazioni mentali prima degli assalti, e ai gemiti dei rantolanti abbandonati nelle buche. Forse, nel corpo britannico, la Bibbia di Re Giacomo, nei versetti memorizzati nell’infanzia, confortava maggiormente, ma come voce vetero-testamentaria esclusivamente non cristiana. Preghiere per la pace e Natali di speranza non mancavano, nelle nazioni combattenti, sempre meno invogliate a farsi fare a pezzi; però di che vive una religione mistico-trascendente, se non di speranze che oltrepassano infinitamente qualsiasi tregua d’armi e ritorno a casa? E dopo la guerra, gli sterminati campi di croci segnano, nonostante il simbolo cristiano, l’apparizione di un culto nuovissimo, estraneo alla confessione cristiana: quello dei caduti. I caduti ignorano la vita futura.
Con più struggimento che nei libri, il tragico della Morte di Dio (del Dio cristiano) lo trovi nel cinema firmato da Carl Dreyer, Luis Buñuel, Ingmar Bergman, dove senti il fragore delle ondate tra cui il Titanic - Cristianesimo, protestante o cattolico, sta colando a picco. La stupefacente rinuncia del Papa Ratzinger è un dramma bergmaniano. Il Papa teologo vede lucidamente non poter più reggere o essere predicata la sua teologia da patrologia latina o greca, rigetta un cristianesimo che non ha la forza di rianimare, e si ritira in un monastero che gli sarà come un piccolo surrogato dello scoglio di Sant’Elena.
Ma rivediamo un capolavoro di Bergman come Luci d’inverno , dove alla pieve di un piccolo paese il pastore Ericsson dice messa nella chiesa perfettamente vuota di fedeli. Lo scenario, il rito luterano, l’officiante ci sono: le anime, no. Immaginiamo la magnificenza di San Pietro come l’orrida bruttezza di una piazza di Seul, gremite di folla, e un giorno il Papa che si affaccia per benedire piazze deserte. Avrà visto questo, il Papa invece delle piazze dei trionfi puntuali? Il deserto della chiesa di Frostnäs? La stessa visione non afferra anche il Papa Francesco? Da certi affioramenti in lui di dubbiosità e inquietudine in pause di stanchezza, direi di sì. Un mondo decristianizzato è un mondo vuoto, che non ha ubi consistam , orfano anche di nordiche Luci d’Inverno. Beati i perplessi.
Carlo Levi filosofo. Evoluzione del pensiero leviano dagli anni venti agli anni quaranta:
"Come elemento aneddotico ma rilevante, possiamo inoltre ricordare che, durante i mesi della stesura [di Paura della libertà], Levi è in possesso di due soli testi: La scienza nuova di Vico e la Bibbia. L’impianto vichiano è chiaramente rinvenibile in Paura, saggio che ricostruisce la vicenda umana attraverso un mai concluso processo di desacralizzazione del reale. Levi riprende dal grande filosofo napoletano almeno tre elementi: l’idea dell’origine sacra delle istituzioni; l’idea del ripetersi ciclico delle dinamiche storiche; l’idea che le forme conoscitive immaginative (i miti, le favole, i linguaggi metaforici) sono indizi cruciali nella comprensione dell’evoluzione umana" (cfr. Chiara Bauzulli, Carlo Levi filosofo. Evoluzione del pensiero leviano dagli anni venti agli anni quaranta, ProQuest, 2007, pp. 83-84)
Ripensare la Germania con Mann e Meinecke
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 08.09.2014)
In un libro pubblicato in Italia da Mondadori nel 1946, La conquista morale della Germania , il pubblicista tedesco, di origine ebraica, Emil Ludwig, suggeriva, tra le misure urgenti: «Non basta che spariscano dalla scena i lavori teatrali dell’èra hitleriana: bisogna anche proibire la Tetralogia di Wagner. Essa ha fatto, con la sua forza suggestiva, più male di tutti i libri nazisti perché in essa si trovano lampi di genio e l’impressione che produce è così potente che anche l’ascoltatore poco versato nella musica si trova incitato a conquistare il mondo, a venir meno ai giuramenti, a commettere tutti i delitti dei quali si sono poi macchiati i nazisti». Il libro si apre con una precisazione: «Il carattere nazionale è una realtà che riassume i tratti distintivi di un popolo considerato nel suo complesso, anche se alcuni degli individui che lo compongono non li possiedono».
Poco dopo apparve presso La Nuova Italia, La catastrofe tedesca di Friedrich Meinecke, edito in Germania anch’esso nel 1946. Meno drastico di Ludwig, ugualmente severo con la storia tedesca culminata nella catastrofe del 1945, stabiliva un filo negativo a partire dall’affermarsi del militarismo prussiano. E in uno degli ultimi capitoli si poneva anche il quesito se ci fosse «un avvenire per l’hitlerismo», paventando addirittura che «in virtù della sua superiorità demagogica che gli è conferita dal suo metodo di conquista delle masse, esso non sia destinato a diventare la forma di vita dominante nell’Occidente».
Nei 70 anni che ci separano dalla «catastrofe» analizzata da Meinecke sono intervenuti mutamenti epocali, anche se un osservatore attento non può non essere sensibile alla questione posta dal grande storico, scomparso nel 1954, e soprattutto alla sua intuizione veridica: essere stato cioè il nocciolo dell’hitlerismo la capacità di conquista demagogica delle masse.
Chi se la sente di negare che il problema è sempre sul tappeto? In certo senso il liberale Meinecke non si discosta molto (ovviamente senza conoscerla) dalla nota di diario del comunista Bertolt Brecht, scritta durante l’esilio americano: «Un fascismo americano sarebbe democratico» (intendeva dire: eviterebbe di ferire alcune esteriorità dei sistemi rappresentativi). Del resto anche Thomas Mann, nel discorso di Hollywood del 1948, lanciò l’allarme di fronte ai prodromi del maccartismo e non eluse certo il concetto di «fascismo».
Oggi la Germania è il perno dell’Unione Europea e il guardiano delle sue rigide regole economiche. Di queste soltanto, giacché gli altri campi dell’agire umano (dai problemi della guerra e della pace ad altri molto più specifici) non hanno in verità visto svilupparsi alcuna «unione». Perciò la Germania torna ad essere impopolare presso l’opinione pubblica dei Paesi che più patiscono dell’asserita, e vigorosamente presidiata, immodificabilità di «parametri» e «vincoli». Una impopolarità forse non così aspra come quella documentata dal libro di Emil Ludwig, ma certo difficilmente sanabile con le prediche .
Nascono perciò da ultimo libri di due generi: quelli che cercano, affettuosamente argomentando, di attutire quella diffusa avversione e quelli che, invece, mettono in relazione la riacquisita egemonia tedesca sull’Europa con i modi (e i costi) con cui, a partire dal novembre 1990, si attuò la riunificazione tedesca. L’infittirsi stesso della pubblicistica sull’argomento dimostra che un «problema tedesco» esiste oggi più che mai, ben diverso - s’intende - da quello cui vanamente cercavano di dare una soluzione, negli anni della guerra fredda, le periodiche conferenze tra i vincitori sul «problema tedesco».
Nel primo gruppo porrei due saggi: Cuore tedesco di Angelo Bolaffi (uscito da Donzelli nel 2013) e il nuovo Europa tedesca, Germania europea di Luigi Reitani (Salerno, pp. 104, e 7,90), in uscita il 17 settembre. Nell’altro gruppo porrei il saggio, molto documentato e illuminante, di Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur editore).
L’idea dominante di Reitani, il quale, come germanista, ha dedicato molte energie alla teoria e alla pratica della traduzione, è condensata in questa osservazione: «Prima ancora che economica, politica e sociale, la questione europea è oggi in primo luogo una questione culturale. Il vero problema dell’Unione non è il mantenimento del patto di Stabilità o l’alternativa tra una politica di contenimento della spesa pubblica e quella di un incentivo alla crescita, ma il superamento delle barriere che impediscono la reciproca comprensione». Il pensiero verso cui converge il libro di Bolaffi è: «Tocca ai tedeschi assumersi la responsabilità storica di salvare l’Europa, dopo averla affondata due volte in passato. Ed è necessario che esercitino con saggezza e lungimiranza l’egemonia che loro compete».
Merito rilevante del libro di Giacché è di aver ricostruito, con gli strumenti dell’analisi economica, le modalità dell’unificazione o meglio annessione dei Länder dell’ex Germania Est: deindustrializzazione dell’ex Ddr, perdita di posti di lavoro in quei Länder, emigrazione di massa verso Ovest. L’interrogativo, non allegro, che il libro ci propone è se non si stia assestando in modi analoghi l’attuale riunificazione «tedesca» dell’Europa .
Germania
L’essenza politica della colpa
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole Domenica, 07.09.2014)
Karl Jaspers, uno dei più eminenti pensatori tedeschi del Novecento, fu duramente colpito quando il regime hitleriano procedette alla nazificazione delle università. Egli, "ariano", aveva sposato una donna ebrea, e, avendo rifiutato di divorziare, nel 1937 gli venne tolta la cattedra all’università di Heidelberg; nel 1938 gli fu imposto il divieto di pubblicare. Il filosofo si ritirò così fra le quattro mura della sua casa, dedicandosi interamente agli studi. La sua fu per parecchi anni una vita catacombale, interrotta da rare visite di amici. I coniugi Jaspers si salvarono in extremis: la loro deportazione era stata fissata per il 14 aprile 1945, ma il 30 marzo le truppe americane entrarono a Heidelberg.
Ricavo queste notizie dal bellissimo libro di Elena Alessiato, Karl Jaspers e la politica. Dalle origini alla questione della colpa (edito da Orthotes). Il terzo capitolo di questo libro è dedicato, appunto, alla Schuldfrage: un tema che suscitò, nel secondo dopoguerra, discussioni appassionate.
Jaspers tenne il suo primo corso di lezioni a Heidelberg, dopo la caduta del regime nazista, nel semestre invernale 1945-46, e lo dedicò alla «situazione spirituale della Germania». L’uditorio era numerosissimo (c’erano anche molti ex-soldati) e attentissimo, ma non manifestava consenso. Anzi, si percepiva, durante le lezioni, una tensione elevata (come Jaspers scrisse ad Hannah Arendt). Questa tensione era dovuta alle tesi che il filosofo veniva esponendo, e che sarebbero poi confluite nel saggio che egli pubblicò nel 1946, Die Schuldfrage.
La colpa che macchiava il popolo tedesco, secondo Jaspers, era soprattutto una colpa politica (che non doveva essere confusa con la colpa giuridica, o con quella morale, o con quella metafisica). «Quando i nostri amici ebrei - egli diceva - furono deportati, noi non siamo scesi nelle strade, non abbiamo gridato fino a farci annientare. Abbiamo preferito rimanere in vita, con la debole, anche se vera giustificazione, che la nostra morte non sarebbe servita a niente. Che noi viviamo, è la nostra colpa».
Le affermazioni del filosofo suscitarono grande scalpore, e vennero interpretate come una criminalizzazione del popolo tedesco: una criminalizzazione indiscriminata, che non teneva conto del fatto che non tutti i tedeschi erano stati nazisti, e che migliaia e migliaia di essi erano stati assassinati o reclusi nei campi di concentramento. Senza contare che alle generazioni più giovani - che nel 1945 avevano vent’anni o poco più - non poteva essere imputato alcunché; e a queste generazioni soprattutto era affidato il futuro della Germania.
Le perplessità che le posizioni di Jaspers suscitarono nel suo paese, furono manifestate anche altrove. In Italia, per esempio, il più illustre esponente della cultura antifascista, Benedetto Croce, liquidò la Schuldfrage in modo sprezzante. «Mi pare un po’ stupido credere - scrisse nel 1947, in occasione della edizione italiana del saggio di Jaspers - che un popolo vinto possa avere mai altro desiderio o coltivare altro dovere che di rimettersi in piedi e fronteggiare di nuovo gli altri popoli». Del resto, aggiungeva il vecchio filosofo, anche gli altri popoli avevano commesso le loro «colpe», se così si voleva chiamarle, perché essi erano «società di poveri uomini», come quello tedesco. «Conclusione: non stare a seccare, con inutili e arroganti rimbrotti e consigli moralistici, la Germania che soffre, perché seccare il prossimo, seccarlo a questo modo, è anch’essa una colpa, e delle meno perdonabili, verso l’umanità».
Questo giudizio di Croce appariva però troppo tranchant. Del resto egli stesso, in un bellissimo saggio scritto nel 1943, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, aveva ravvisato nel nazismo «una crisi terribile che covava nella secolare storia tedesca», il «portato della storia di tutto un popolo». Il che significava che la nazione tedesca doveva compiere un profondo riesame di tutto il proprio passato. E questo fu fatto da illustri storici: dall’anziano, sommo maestro, F. Meinecke (che scrisse nel 1946 La catastrofe della Germania, in cui metteva sotto accusa la cultura politica nazionalista e militarista tedesca, che aveva reso possibile l’ascesa al potere di Hitler), a F. Fischer, a K. Bracher («è l’eredità della coscienza nazionale tedesca nel suo complesso che deve essere messa in questione, se si vuole comprendere come si è arrivati alla catastrofe»); e da illustri scrittori, come H. Boell e G. Grass, per fare solo alcuni nomi.