CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA.
Premessa. Il 26 agosto 1780, Pietro Verri, a cui Gaetano Filangieri da Napoli ha inviato la prima parte della “Scienza della Legislazione”, così risponde da Milano: “(...) alla pagina 59 del primo tomo ho ascoltata la voce di Ercole che ha rimbombato sul mio cuore, e ogni dubbio è svanito. A misura poi che mi sono avidamente inoltrato nella interessantissima lettura”. Il riconoscimento è grande: Filangieri ne è fiero e compiaciuto. Ma a cosa allude Verri, che Filangieri ben sa e bene accetta? Che cosa significa “la voce di Ercole”?
A ben pensare, non ci sono dubbi: a cinquanta anni dalla pubblicazione della seconda “Scienza Nuova” (1730) e a trentasei anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della sua terza “Scienza Nuova” (1744), è un omaggio dovuto e condiviso al lavoro di Chi in Ercole ha visto e teorizzato “il carattere degli eroi politici”, l’eroe fondatore di “ogni nazione gentile”:
“(...) questa Scienza, ne’ suoi Principii, - scrive Vico nella “Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio, che serve per l’introduzione dell’opera” (1730, e poi anche 1744) - contempla primieramente Ercole (poiché si truova ogni nazione gentil’ antica narrarne uno, che la fondò); e ’l contempla dalla sua maggior fatiga, che fu quella con la qual uccise il Lione, il qual, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual Lione qui si truova essere stata la gran Selva della Terra, a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi Politici, i quali dovettero venire innanzi a quelli delle guerre, diede il fuoco e la ridusse alla coltura); - e per dar’ a intender’ altresì il Principio de’ tempi appo i Greci, da’ quali abbiamo tutto ciò, ch’abbiamo dell’Antichità gentilesche; i quali tempi incominciarono loro dalle Olimpiadi, co’ giuochi olimpici, de’ quali Ercole pur ci si narra, essere stato il Fondatore (...)” (“Scienza Nuova”, 1730).
LA PUNTA DI UN ICEBERG. Nel 1924, Croce è a Londra: alla “Modern Humanities Research Association” di Cambridge tiene la sua prolusione, è il suo “Presidential Address”, quale “presidente per l’anno 1923-1924”. Il titolo e il tema è “Shaftesbury in Italia”, vale a dire sul soggiorno di Lord Shaftesbury a Napoli dal 1711 al 1713, anni coincidenti con gli anni in cui Giambattista Vico era già un importante protagonista della vita culturale della Città.
Il discorso è una brillante ricostruzione storiografica della figura di Shaftesbury, ma al contempo è anche una drammatica implicita confessione non solo del gran ritardo con cui egli ha messo a fuoco la presenza di Shaftesbury a Napoli ma anche - per contrasto - del limite della prospettiva con cui ha guardato al Vico filosofo, al Vico rappresentante di cultura, al Vico uomo (cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, 1911). Aveva ragione Nicola Abbagnano: “Attenzione a non valutare la biografia di un filosofo povera di eventi esterni”!
Benché Croce, già nel 1915, avesse cominciato a riflettere sul proprio percorso (cfr. Contributo alla critica di me stesso, Milano 1989), il suo orizzonte teoretico (gnoseologico-metafisico) è già chiuso e segnato: alle sue orecchie non è arrivata e non arriva alcuna “voce di Ercole”! Più tardi, come Gentile (e il Fascismo), farà il suo ‘concordato’ con la Chiesa cattolico-romana (cfr. B. Croce, Perché non possiamo non dirci "cristiani", 1942) e continuerà a pensare nel solco di Hegel anziché di Vico: “la malattia morale” (1944) è superata, ma non risolta - l’Italia comincia a star meglio, ma non è affatto guarita!
LEMURUM FABULA - il testo sulla "bruttezza" della dipintura "tutta contraria" della “Scienza Nuova” del 1730, per quanto ignorato (non ripreso nella “Scienza Nuova” del 1744), è un monito perenne - un invito a non lasciarsi sedurre dalla cattiva immaginazione e a percorrere “gli impervi sentieri delle Muse”, delle Grazie (“Charites”) e della Grazia (“Charis”).
ENZO PACI E VICO. Incredibilmente - poco dopo e negli stessi anni, nel 1944 (a duecento anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della terza “Scienza Nuova”), a un militare italiano internato nel Lager di Wietzendorf capita di imbattersi in un libretto su La giovinezza di Vico (di Fausto Nicolini, Bari 1932) e di essere risvegliato dal suo sonno dogmatico dal rimbombo della voce di Ercole. Il militare internato è Enzo Paci, che così poi ricorda e scrive da Milano: “Negli anni passati in Germania, in un campo di concentramento, la grande ombra di Vico venne a trovarmi e mi sembrò di sentire che tutta la sua opera era stata una lotta eroica contro la ingens sylva della barbarie (...)” (cfr.: Lettere di carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, a c. di A. Vigorelli, “Rivista di storia di filosofia”, I, 1986, p. 103). Egli, nel 1949, riprende il discorso su Vico (cfr. E. Paci, Ingens sylva, Bompiani. Milano 1994) e, nel 1954, dà vita alla rivista “Aut Aut”: nel nome, non solo il richiamo a Kierkegaard, ma anche il ricordo dell’‘incontro’ e della lezione dell’eroico Vico!
1.0 - SHAFTESBURY A NAPOLI. Ad ogni modo, la sorpresa di Croce, su quanto acquisito relativamente alla presenza di Lord Shaftesbury a Napoli, è grande: “La pubblicazione di lettere e frammenti inediti dello Shaftesbury, fatta dal Rand nei due volumi che s’intitolano The life, unpublished letters ad philosophical Regimen of Anthony, Earl of Shaftesbury (London, Sonnenschein, 1900), e Second Characters or the language of forms (Cambridge, University Press, 1914), mi ha messo innanzi molto materiale atto a illustrare il soggiorno dello Shaftesbury a Napoli; e questo materiale ho poi accresciuto con altre lettere e scritti di quelli che serbano ancora inediti nel Record Office, tra gli Shaftesbury Papers, da me consultati” (“La Critica”, 1925, 23, p. 2. Il riferimento successivo del n. delle pagine, senza le note, è a questo n. della Rivista). E grande è anche la consapevolezza sul valore delle sue scoperte (per tutto ciò che riguarda Vico, evidentemente): l’anno successivo ripubblica il testo del suo discorso - già stampato in opuscolo a Cambridge - su “La Critica”, “pensando che possa riuscire di qualche interesse anche agli studiosi italiani” (p. 1). Ma i tempi sono quelli che sono: due anni dopo, nel 1927, “Shaftesbury in Italia” è ‘archiviato’ nei volumi di “Uomini e cose della vecchia Italia” (cfr. Laterza, Roma-Bari, 1956, vol. I, pp. 273-309).
1.1 - ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “Scienza Nuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta.
Ecco quanto Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze. Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’inglese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milordi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli, modesto com’era, rifiutò” (pp. 5-6).
1.2 - VALLETTA, DORIA, E VICO. Premesso che Vico, negli anni della permanenza di Lord Shaftesbury a Napoli (1711-1713), è già tra i protagonisti della vita culturale della Città (nel 1708 tiene la settima orazione inaugurale “De nostri temporis studiorum ratione”, e nel 1710 pubblica il “De antiquissima Italorum sapientia”) , Croce così prosegue nel raccontare le sue acquisizioni e precisazioni progressive: “tra quegli amici del Valletta, frequentatori dello Shaftesbury, era Paolo Mattia Doria (...). Il Vico, che anche lo frequentava, lo dice “gran cavaliere e filosofo” (...). E’ possibile - continua Croce - che nel circolo del Valletta fosse già pervenuta o si sapesse qualcosa della prima edizione delle Characteristics, che è del 1711, e che si conoscesse alcuno dei giudizi che dei saggi dello Shaftesbury avevano dato i giornali letterari di Europa qui avidamente cercati e letti” (pp. 7-8).
1.3 - SHAFTESBURY, IL “GIUDIZIO DI ERCOLE”, E LA TAVOLA DI CEBETE. Nel 1712 il “famoso maestro” Paolo de Matteis, “il successore di Luca Giordano in Napoli” lavora per Lord Shaftesbury: “Il quadro che egli eseguì fu il Giudizio di Ercole o Ercole al bivio, secondo la favola di Prodico, per il quale il filosofo inglese gli fornì, in una speciale memoria stesa in francese, la più accurata analisi psicologica del soggetto, la determinazione del momento determinante da cui prescegliere, le fisionomia e gli atteggiamenti delle tre figure, di Ercole, la Virtù e la Voluttà. Preceduta, quella memoria scritta a uso del De Matteis, da una lettera sull’arte del disegno (A letter concerning the Art or Science of Design to Milord***) con la data di Napoli, 6 marzo 1712, e tradotta in inglese col titolo A notion of the Historical Draught or Tablation of the Judgement of Hercules according to Prodicus, fu divulgata sin d’allora e unita di poi alle edizioni e traduzioni delle Characteristics, portando sempre a capo, come pregio una piccola riproduzione del quadro del pittore napoletano” (pp. 12-13)”.
Shaftesbury - continua Croce - “dopo aver scritto quella lettera [sul disegno] e la traccia del quadro di Ercole, e abbozzato una traduzione con commento della Tavola di Cebete, si veniva occupando nel mettere insieme gli appunti per un più ampio saggio da intitolare Plastics, or the original, progress and power of designatory Art: e di tutto questo pensava di fare un’opera da aggiungere alle prime Characteristics col titolo di Second Characters (“secondi parti nel dramma”) or the Language of Forms in four treatises. Sarebbe stata, questa, come la sua “Estetica”, da far sèguito alla “Filosofia morale” esposta nella prima opera” (pp. 17-18).
1.4 - PAOLO DE MATTEIS E DOMENCO ANTONIO VACCARO. Nell’illuminare meglio il rapporto di Paolo de Matteis con Shaftesbury, Croce racconta che ha anche avuto la fortuna di guardare “alcuni numeri superstiti di una Gazzetta di Napoli degli anni 1712 e 1713” (p. 11) e che nel numero del 2 aprile [1712] è scritto: “Domenica si aprì la prima volta la sagrestia di san Pietro a Maiella dei padri celestini, dopo l’incendio del 1711, ed è riuscita assai vaga, sì per per la pittura del celebre Paolo de Matteis ed ornamento di Francesco Saraceno, come ancora per il finissimo lavoro ad intaglio di noce, col pavimento di marmo mischio, l’uno e l’altro fattosi con l’assistenza dell’ingegnere Domenico Vaccaro” (p.12). La lingua batte dove il dente duole: la notizia illumina sì il rapporto del De Matteis con Shaftesbury, ma evidentemente ciò che colpisce Croce è la partecipazione ai lavori dell’ingegnere Domenico Antonio Vaccaro, il collaboratore di Vico, l’autore della “Dipintura” della Scienza Nuova del 1730 - e del 1744. E questo a Croce, ovviamente, non sfugge e lo annota - per i posteri: chi ha orecchie per intendere intenda!
1.5 - LA SCELTA DI SHAFTESBURY: “PROMETEO”. Lontanamente dal pensare oggi che “l’idea (...) che è centrale per tutta la Scienza Nuova, è la stessa che sorregge la concezione che ha Shaftesbury della morale, della religione, e dei reciproci rapporti, la quale si può pensare che riguardi tanto il comportamento individuale quanto il corso storico dell’umanità (cfr. F. Crispini, L’etica dei moderni. Shaftesbury e le ragioni della virtù, Donzelli, Roma, 2001, p. 117), Croce dall’alto della sua conoscenza della storia dell’idealismo tedesco non si sbagliava del tutto nell’analisi delle tensioni dell’orizzonte teoretico di Shaftesbury:
“Nell’estetica, del pari che nella filosofia morale, lo Shaftesbury non si pone il problema dialettico dello spirito e dei suoi momenti o forme, e dell’arte e della morale come momenti dialettici; non procede come, ai tempi suoi, e senza sua saputa, già faceva il Vico e, in certo senso anche il Baumgarten tentava; e, pur nondimeno - precisa Croce - egli reca un contributo di prim’ordine al chiarimento del vero concetto dell’arte. Quella sua Calogathia, quella sua sua concezione della moralità come bellezza e della bellezza come moralità (...)
Si ricordi come egli parli, nelle Characteristics, del poeta, che non è per lui (come per i retori del suo e di tutti i tempi) il rimatore e il cadenzatore di periodi, ma “un altro creatore, un Prometeo, posto sotto Giove, e che simile a quest’artista sovrano o alla Natura plastica, forma un tutto legato e proporzionato in se stesso, con debita subordinazione delle parti costitutive, e segna i limiti delle passioni, conosce esattamente i loro toni e la loro misura, e perciò le rappresenta correttamente, mostra il sublime dei sentimenti e delle azioni, distingue il bello dal deforme, l’amabile dall’odioso, e in questo senso, e per questa necessità della rappresentazione vera, è un artista morale” (pp. 19-20).
Croce, guardando dal punto di vista hegeliano ai segni del pensiero dello Shaftesbury in tutta la letteratura e la filosofia classica tedesca è impedito a comprendere che quelli “ritrovati e molteplici in Kant” hanno un valore tutto diverso, carichi come sono proprio della lezione di Shaftesbury “sull’entusiamo” e del suo stesso lavoro critico sui sogni prometeici dei metafisici-visionari.
Kant sapeva (grazie alle sollecitazioni di Shaftesbury, ma soprattutto grazie alla sua immaginazione analoga a quella di Vico) - come scrive nel 1794 sugli equivoci di Schiller - che “solamente dopo aver domato dei mostri, Ercole diventa Musagete, ma davanti a tale fatica, queste buone sorelle, indietreggiano con terrore. Queste compagne di Venere-Urania sono sorelle cortigiane al seguito di Venere-Dionea, appena esse vogliono indicarne i moventi” (cfr. La religione entro i limiti della sola ragione, 1794- II ediz., Laterza, Bari 1980).
VICO E SHAFTESBURY. Lord Shaftesbury morì a Napoli il 15 febbraio 1713, a soli quarantuno anni. Nel 1730 Vico ha finito la sua seconda “Scienza Nuova”: se Shaftesbury fosse stato ancora vivo, egli sicuramente ne avrebbe subito spedito una copia a Londra! E questa volta la risposta certamente non sarebbe mancata: già solo a vedere la “dipintura” - la “Tavola delle cose Civili”, Shaftesbury avrebbe accolto con socievole entusiamo l’omaggio e il lavoro del Filosofo conosciuto a Napoli negli anni decisivi del suo soggiorno.(Federico La Sala)
CROCE "CRISTIANO", VICO "ATEO", E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
Premessa. Il 14 febbraio 1929, Pio XI, per ringraziare pubblicamente Mussolini dopo la firma del Concordato e dei Patti Lateranensi, così pontifica felicemente: «E forse ci voleva anche un uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare: un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi».
"La Conciliazione fu difesa da Mussolini alla Camera il 5 maggio 1929 con un discorso che durò più di due ore. Ma la seduta più interessante fu quella del Senato dove Benedetto Croce dette voto contrario insieme a Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Emanuele Paternò, Francesco Ruffini, Tito Sinibaldi. Irritato, Mussolini replicò collocando Croce fra gli «imboscati della storia», uomini incapaci di fare la storia e gelosi degli altrui successi. Ma a queste critiche Croce aveva già risposto dicendo in Senato che accanto agli uomini per cui Parigi vale bene una messa, vi sono quelli «pei quali l’ ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi perché è affare di coscienza»" (1).
TRONO E ALTARE. Nel 1911, nella prima appendice (un testo del 1909) al lavoro su “La filosofia di G. B. Vico”, Croce così scrive: “Alla trasfigurazione rettorico-leggendaria, che negli inizi e nel fervore del Risorgimento nazionale si compì dei poeti, dei filosofi, di quasi tutti gli uomini più o meno rappresentativi della storia italiana, atteggiandoli come patrioti, liberali, ribelli, o almeno frementi, contro il trono e l’altare, si tentò per un momento di sottomettere anche, con lieve tocco di bacchetta magica, Giambattista Vico. (...) questa leggenda, che corse soprattutto tra i patrioti napoletani dei primi dell’Ottocento, non poté reggere a lungo, nonché alla critica, al lume del buon senso ”( 2).
Nel 1946, nella postilla aggiunta alla quarta edizione, egli ritorna sul tema e così precisa: “dapprima anch’io (...) definii cotesta una “leggenda”, senza tener conto che quella tradizione, trasmessa oralmente agli studiosi napoletani del settecento, risaliva a uno scolaro del Vico, che non era uomo di poca autorità, Antonio Genovesi, e, inesatta che fosse, nei particolari, doveva pur contenere un nòcciolo di verità. Di quel che accadesse al Vico nelle sue lunghe pratiche con la censura e col canonico Torno, - feci osservare poi, ritornando sul primo detto, - noi non siamo informati.
Cioè, «non eravamo», perché qualche piccola cosa se n’è poi saputa per la recente scoperta fatta dal Nicolini di un esemplare della seconda Scienza nuova nell’edizione del 1730, che un lettore, discepolo o frequentatore della casa del filosofo (...) ha cosparso nei margini di postille, somministrategli dallo stesso Vico, tra le quali quattro ve ne sono in cui si vedono sottolineate alcune frasi e proposizioni, con l’avvertenza: «Aggiunta di Torno», «Sapit Julium Tormun», «Don Giulio Torno».(...) La qual cosa induce a pensare che il Vico aveva reso a sé molto arrendevole il suo censore ecclesistico, e che egli stesso accettava accomodamenti che salvassero il suo pensiero, ancorché a prezzo di qualche aggiunta contraddittoria o ridicola, che, in effetto, egli stesso si dé cura di far sparire, quando nessuno vi faceva attenzione, nell’ultima edizione da lui preparata per la stampa” (3).
Per Croce non ci sono dubbi: Vico è sì un “eroe della vita filosofica” (vale a dire: un “ateo”, uno “storicista”, un metafisico immanentistico moderno) ma è anche un cattolico tradizionalissimo “nella vita religiosa, sociale e politica”(4).
Come con Dante, l’abbaglio e la cecità di Croce è grande: incapace di essere pio, mostra di non essere affatto saggio (5) e, al contempo, di non essere affatto giusto nei confronti né del cristiano né del filosofo Giambattista Vico:
(...) propendo sempre più a pensare che il Vico fosse consapevole di quel che portavano nel loro grembo le sue teorie filosofiche, ma procurasse di lasciarle passare come affatto conformi ai concetti cattolici, e perfino tali da offrire un nuovo sistema di diritto naturale, adatto a quella Chiesa (...) Questa politica di autore che deve mettere in luce l’opera sua e cercare di farle largo nel mondo, egli attuò col coltivare, con ogni cura, in ispecie nei momenti culminanti della sua vita, l’amicizia di frati e preti e cardinali, e soprattutto del revisore ecclesiastico napoletano, che era il canonico Torno, il quale, legatosi a lui, gli fu consigliere e protettore” (...). Ciò facendo, egli difendeva non solo la sua povera vita di maestro di scuola, carico di famiglia, ma, soprattutto, le grandi verità che la Provvidenza aveva voluto che egli scoprisse e che gli spettava di far penetrare tra gli uomini e, se non tra i contemporanei, di trasmettere ai posteri, perché a lui non venne mai meno la sicurezza che nell’avvenire i suoi libri sarebbero oggetto d’innumeri commenti, quanto e più di quelli di san Tommaso (6).
La TEORIA DELLA SCIENZA NUOVA. In una stringata sintesi, al di là di ogni decenza storiografica, questo è il “nòcciolo della verità” della filosofia di Giambattista Vico, secondo Benedetto Croce (postilla, 1946):
Nella sua città, quando egli non era molto in vista e non aveva ancora composta la sua opera maggiore, non pare che fosse tenuto uomo di sicura e incontaminata fede religiosa, cosicché al comparire del primo abbozzo di quella, il Diritto universale, in cui si toccava delle origini delle religioni, le voce avverse che subito sentì levarsi contro “erano (come egli stesso dice in una lettera) tinte da una simulata pietà”, e in quell’occasione (dice altresì) “si ricordavano fin dalla sua prima giovinezza e debolezze ed errori”.
Gli studi, particolarmente del Nicolini, hanno confermato il richiamo che io, per queste allusioni, feci agli incarceramenti e al processo innanzi al Sant’Ufficio dei giovani letterati e scienziati napoletani, accusati di epicureismo o “ateismo”, nel 1693, e sebbene gli atti del processo non siano fin oggi venuti fuori interi, qualche brano che se ne conosce si riferisce proprio ad amici del Vico, il matematico De Cristofaro, il letterato Giannelli, il giurista Galizia.
E’ da notare che dalle testimonianze risulta, tra l’altro, che quegli imputati, ponevano a capo della storia dell’umanità uomini, più di altri, intelligenti e furbi, che fondarono le prime famiglie e città e davano a credere a famuli o plebei di essere filii Iovis o filii deorum o addirittura dei: che è poi la teoria della Scienza nuova.
Gli accusatori aggiungevano che quelli dalle stesse teorie ricavavano che similmente si era comportato Cristo, dichiarandosi figlio di Dio, onde gli ebrei, conosciuto l’inganno, lo fecero morire. La teoria veniva integrata dalla ipotesi dei “preadamiti”, attinta al libro del La Peyrère, che anche fu poi ricordata nella Scienza nuova, riferendosene il giudizio universale allagò solo la terra degli ebrei.
Come quei suoi amici, il Vico (che non sappiamo se fosse tra i processati o interrogati), era lucreziano e la sua prima canzone, Affetti di un disperato, è informata al pessimismo del poeta romano (7).
GLI “ATEISTI” NAPOLETANI. Fausto Nicolini, l’anno dopo - nel 1947, nel recensire il libro di Carlo Cappello, G. B. Vico e il processo contro gli «ateisti» napoletani (1688-92), porta a sostegno ulteriori elementi:
Che, sotto l’efficacia del Caravita, il Vico giovane assumesse, verso l’anticurialismo, un atteggiamento di adesione o, quanto meno, di simpatia, credei, nella mia Giovinezza di G. B. Vico (pp. 174-75) di potere, se non proprio asserire, se non altro dichiarare assai probabile. Senonché a convertire la probabilità in certezza m’inducono ora quattro passi della Principium neapolitanorum coniuratio, scritta nel 1703, cioè appunto nel tempo nel quale l’autore frequentava assiduamente casa Caravita (cfr. Vico, Opere, ediz. Nicolini, VI, pp. 313, 314, 359, 361).
Nel primo passo il Vico non esita a porre tra gli «homines quibus et stare et ruere respublicas iuxta est» i moltissimi monaci («quam plurimi coenobitae») «qui in urbe (a Napoli) frequentissimi opibus affluunt». Perché mai costoro avversavano con tanta acrimonia casa di Borbone, cioè una efficacia francese sul Regno di Napoli? Perché conoscevano bene che i monaci francesi, «in literas prorsus alias intenti», conducevano, a differenza degl’infingardi frati napoletani, «contracte et dure vitam» e veneravano i «templa castitate magis quam sumptuoso artis et auri cultu»: ragion per cui temevano d’essere costretti anch’essi a una così rigorosa osservanza delle regole monastiche. Pertanto, divenuti sediziosi, «imam plebem pertentant quod novo Philippi regno, nihilo vectigalia relaxata, annona nihilo vilior prostet»; «reos eorumque necessarios incitant, eorum dolendo vices quod novum regem iustum, non item clementem senserint»); e, come se non bastasse sommuovere il popolino con codeste prospettive del nessuno alleggerimento di gabelle, della nessuna diminuzione ne! prezzo del pane e del nessun indulto ai condannati, «emeritos stimulant ac veteranos tristibus coniecturis».
Nel secondo passo si deplora con parole quanto mai acri la campagna disfattistica intrapresa dai «seditiosa ingenia, et ut plurimum coenobitarum», non appena il principe Eugenio di Savoia scese in Italia alla testa d’un esercito cesareo. In terzo luogo, dopo avere riferito che, domata l’insurrezione, il vicerè Medinaceli sfrattò circa duecento tra i frati che la avevano fomentata, il filosofo napoletano manifesta implicitamente il desiderio anticurialistico che se ne fossero cacciati molti di più («modestus prae copia numerus»).
E, per ultimo, nell’accennare ai libelli famosi diffusi per tutta Napoli contro l’anzidetto, Medinaceli, il futuro autore della Scienza nuova soggiunge non solo che «omnium stylus coenobitarum indicabat manum», ma altresì che l’essere riuscito inviso a gente simile ridcndo, in ultima analisi a gloria di quel viceré («unde gloria viro parta in eo rerum statu eius modi hominurn generi gravem esse»).
Nella letteratura anticurialistica napoletana del tempo parole così gravi contro i frati non s’incontreranno se non, vent’anni dopo, nell’Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone di quel Giannone pel quale, secondo una testiinonianza del padre Gerardo de Angelis, il Vico giovane (a differenza, forse, del Vico vecchio) nutriva ammirazione non inferiore a quella destata in lui dal Caravita. (8).
VICO E DANTE. Che al di là di Lucrezio, Vico abbia potuto leggere e far tesoro della lezione di Virgilio e di Dante (9), per Croce, è impensabile; e che Vico, come Dante, potesse portare avanti da cristiano una feroce battaglia anticurialistica è assolutamente inimmaginabile! La denuncia da parte di Vico del “puttanesismo” dello spirito non è senza legame con la denuncia del “puttaneggiar” della Chiesa da parte di Dante (“Di voi pastor s’accorse il Vangelista, /quando colei che siede sopra l’acque /puttaneggiar coi regi a lui fu vista”: Inf. XIX, vv. 106-108)(10)! Per entrambi, senza la bussola "della carità (charitas)” non c’è né società né storia.
IL PROGRAMMA DI VICO: LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA. Come sia nata l’idea e quale sia il “principio dello scrivere” della “scienza nuova”, Vico lo scrive con molta chiarezza nel “Proloquio” del “De universi iuris principio et fine uno” (1720):
“Finalmente leggendo un giorno il libro De civitate Dei di S. Agostino, mi occorse un luogo di Varrone (uomo, che per filosofia ed erudizione meritò il nome di dottissimo, e del più dotto de’ Romani) dov’egli dice, che se avesse avuto l’autorità di proporre al popolo romano gl’iddii da adorarsi, lo avrebbe fatto seguitando “la formula della natura”, cioè proponendo un Dio unico, incorporeo, infinito, e non innumerevoli deità figurate sotto forma di idoli.
Illuminata la mia mente da quella lettura, si portò di sbalzo alle seguenti conclusioni: dunque il diritto naturale è la formola, è l’idea del vero, la quale ci dimostra il vero Iddio. Dunque il vero Iddio, principio della vera religione, è ugualmente principio del vero diritto, e della vera giurisprudenza. E non perciò incomincia, nel primo suo titolo, il Codex constitutionum imperialium, dove la giurisprudenza cristiana ebbe il suo perfetto e solenne compimento, a porsi sotto la consacrazione del De summa Trinitate et fide catholica?
Dunque la vera giurisprudenza è la vera cognizione delle cose divine e umane. La metafisica è quella dottrina che insegna la critica del vero, perché essa insegna la vera cognizione d’Iddio e dell’uomo. Conchiusi, alla per fine, che non dagli scritti o dai detti dei pagani filosofi debbansi dedurre i principii della giurisdizione, ma della vera e diretta cognizione della natura umana, la quale è originata dal vero Iddio” (11). “Nova scientia tentatur”: questo è l’orizzonte da cui nasce e da “dove si tenta la nuova scienza” (12), non altro! (Federico La Sala)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
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Una nota sui "Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano" di MASCARDI, Agostino *
"MASCARDI, Agostino [...] Nel 1627 videro la luce a Venezia, con dedica a Maurizio di Savoia, i Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano, compimento del lavoro di lettura dal M. svolto presso l’Accademia degli Addormentati durante l’esilio genovese del 1621-23.
L’opera, divisa in quattro parti per complessivi 35 discorsi, si configura come commento all’operetta greca, latinamente indicata come Cebetis Tabula e risalente al I o II secolo d.C., che ebbe ampia fortuna almeno fino a Vico. La Cebetis Tabula è un dialogo filosofico-morale con forti venature stoiche, ma che include sincreticamente anche dottrine socratico-ciniche e neoplatoniche, in cui vengono illustrate le immagini dipinte in un quadro votivo nel quale, attraverso complesse allegorie, si allude al cammino dell’uomo che progressivamente si lascia alle spalle l’ignoranza e i vizi fino a raggiungere con fatica la vera sapienza.
I Discorsi morali non si limitano tuttavia all’esegesi puntuale e fedele delle dottrine contenute nella Tabula, ma, affiancando con brillante eclettismo alle voci dei filosofi e dei poeti antichi (Platone, Aristotele, Seneca, Plutarco, Massimo Tirio, Omero, Virgilio) quelle dei moderni (G. Lipsio, Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso), riflettono sui grandi temi dell’esistenza umana: la difficoltà di distinguere il bene dal male, il suadente richiamo dei piaceri, l’instabilità della fortuna, i vizi e i pericoli che si accompagnano alla sorte favorevole, le insidie dell’adulazione, la funzione positiva del pentimento e del rimorso, l’inganno delle false scienze inutili al raggiungimento della vera virtù, l’asprezza della via che conduce alla conquista della vera sapienza.
Oltre alla difesa dell’utilità morale e della forza persuasiva delle favole antiche (I, 3), che si pone in controtendenza rispetto ad ampie zone della cultura postridentina, generalmente sospettosa verso la mitologia, notevole appare l’intera Parte terza, dove, in aperto contrasto con quanto affermato dalla Tabula, il M. sostiene l’importanza delle arti liberali e delle discipline scientifiche, da Cebete considerate non altro che vana erudizione, nel percorso di perfezionamento dell’uomo, opponendo così il proprio netto rifiuto a un modello etico svincolato dai valori umanistici.
Di singolare rilievo le pagine dedicate alla filologia (Della critica, III, 8, pp. 309-325), nelle quali il M., a dimostrazione di una viva curiosità intellettuale, trova modo di ricordare il Don Chisciotte di Cervantes (p. 315) e individua con gusto sicuro nel giovane G.L. Bernini lo scultore più creativo della sua generazione (pp. 320 s.). Un ritratto grafico del M., databile intorno al 1630 e attribuibile alla mano di Bernini, è conservato a Parigi presso l’École des beaux-arts (Bellini, 2003, pp. 404-415). [...]" (cfr. Eralbo Bellini, cit.).
* Testo: Discorsi morali, Agostino Mascardi, su la Travola di Cebete Tebano.
** Sul tema, cfr. l’Introduzione di S. Benedetti, al suo Itinerari di Cebete. Tradizione e ricezione della «Tabula» in Italia dal XV al XVIII sec., Introduzione, Roma 2001, pp. 323-384
FLS
Dai suoi santuari, punti di sosta, si è ricostruito il tracciato della via di Ercole
IL DIO DEGLI ITALIANI di Franco Capone (ha collaborato Giacinto Mezzarobba)
2.500 anni fa l’eroe, figlio di un dio e venuto in terra a sacrificarsi per gli altri, era definito il Salvatore. E sulla via Heracleia, a lui dedicata, nessuno poteva subire minacce o ingiustizie. (Fonte: "Focus")
I SOCIAL MEDIA, IL DESIDERIO DI FAMA E POPOLARITA’, E ... L’ASSOLUTA ’DIMENTICANZA’ DELLA LEZIONE DI GIOVAN BATTISTA VICO E DELLA SUA "SCIENZA NUOVA":
Filosofia del selfie
Socrate, Platone e Aristotele furono i primi a insegnare che essere importanti per gli altri ha valore solo se si coltivano giustizia e saggezza per se stessi
Dall’Antica Grecia a Internet, dal Kleos a Klout, il grado di popolarità ci ossessiona. Ecco come liberarsi
di Rebecca Newberger Goldstein e Mario Perniola (la Repubblica, 30.03.2014)
TUTTO è cominciato quando un amico mi ha chiesto quale fosse il mio punteggio Klout. Io non sapevo cosa fosse un punteggio Klout, ma ero abbastanza sicura di non averne uno. E infatti è venuto fuori che non usando né Facebook, né Twitter, né nessuno dei social media che un sito chiamato Klout usa per calcolare la tua influenza online, il mio punteggio probabilmente andava da basso a inesistente.
La gente ormai si mette in mostra in ogni modo, producendo - in parole, immagini, video - la storia condivisa della propria vita in tempo reale. Disseminano ovunque pensieri e azioni, grandi e piccoli, in uno sforzo che può apparire come un perpetuo appello per avere attenzione.
Non ero così fuori dal mondo da non essere a conoscenza dei grandi cambiamenti culturali che avevano travolto la nostra società mentre la mia attenzione era rivolta altrove, cioè all’antica Grecia. Da qualche anno cerco ossessivamente di scoprire le ragioni di fondo degli spettacolari progressi realizzati da quella civiltà.
Nel giro di appena un paio di secoli, le genti di lingua greca passarono dall’anomia e dall’analfabetismo a Eschilo e Aristotele. Cosa c’era dietro questa ambizione esplosiva, dietro questi progressi sensazionali? Forse proprio il fatto che i greci siano ancora saldamente impiantati nel nostro sistema può offrirci qualche punto di vista interessante sul mondo contemporaneo.
Per cominciare, il Klout mi sembra molto simile a quello che i greci chiamavano kleos. La parola proviene dal vecchio termine omerico che sta per «io ascolto» e che designava una sorta di rinomanza uditiva. In parole povere, la fama, la celebrità, ma anche il fatto glorioso a cui era dovuta la fama, o ancora il poema che cantava di quel fatto glorioso e che era all’origine della fama.
Il kleos era un elemento centrale nel sistema di valori dell’antica Grecia, motivato almeno in parte dal bisogno che abbiamo noi umani di sentire che la nostra vita è importante. Basta avere un po’ di prospettiva, e i greci di sicuro l’avevano, per capire quanto sia breve e insulsa la nostra vita.
Che cosa possiamo fare per dare alle nostre vite quel di più che ci aiuti a sopportare i millenni che presto ci ricopriranno completamente, facendo dimenticare che siamo mai esistiti? Perché, viene da chiedersi, ci siamo presi il disturbo di venire al mondo. Le genti di lingua greca erano ossessionate da questa domanda quanto noi.
E come tanti di noi, affrontavano il problema in modo laico. La loro cultura era intrisa di rituali religiosi, eppure non era ai loro immortali, notoriamente inaffidabili, che si rivolgevano se volevano avere la garanzia di essere importanti. Ciò che ricercavano era l’attenzione degli altri mortali.
Tutto ciò che possiamo fare, era la loro conclusione, è ingrandire la nostra vita, sforzarci di farne qualcosa che valga la pena di raccontare, materia per storie che lascino il segno nella mente degli altri mortali, in modo che la nostra vita, replicata nella testa degli altri, acquisisca quel «di più».
[Non tutti, all’epoca, affrontavano questo problema dell’importanza in termini mortali. Coeva dei greci, sull’altra sponda del Mediterraneo, c’era una tribù ancora sconosciuta, gli Ivrim, come si autodenominavano, gli ebrei. E là elaborarono il concetto di un rapporto un unico e solo Dio che forniva le fondamenta del mondo fisico e del mondo morale. ]
E poi c’era un terzo approccio, che emerse anch’esso nell’antica Grecia e anch’esso basato su presupposti laici, un approccio che affrontava la questione in termini rigorosamente mortali. Sto parlando della filosofia greca, che era abbastanza greca da sposare l’assunto kleoseggiante che nessuno di noi nasce importante, ma l’importanza se la deve conquistare, e per riuscirci servono ambizioni e sforzi smisurati, che ti obbligano a fare di te stesso qualcosa di straordinario.
Ma la filosofia greca rappresentava un discostamento anche dalla propria stessa cultura: non si diventava importanti attirando l’attenzione di altri. Diventare importanti era qualcosa che bisognava fare per se stessi, coltivando qualità del carattere virtuose come la giustizia e la saggezza.
Bisognava mettere ordine nella propria anima impegnandosi a fondo, perché già solo comprendere la natura della giustizia e della saggezza, che è la prima cosa, metteva alla prova i nostri limiti, figuriamoci agire coerentemente con le nostre conclusioni. E non è detto che tutto questo impegno potesse procurarci alcun kleos. A Socrate fruttò una tazza di cicuta: se la bevve con calma, senza turbarsi del suo basso punteggio.
Nel corso dei secoli, la filosofia, forse aiutata dalla religione, ha abbandonato l’errato presupposto dei greci secondo cui solo una vita straordinaria aveva importanza. È stato un progresso di quelli tipici della filosofia: essa produce argomenti che estendono costantemente la sfera dell’importanza.
Per i greci era naturale escludere le loro donne e i loro schiavi, per non parlare dei non greci, che etichettavano con l’appellativo di barbari. Esclusioni del genere oggi per noi sono impensabili.
A volte, però, non sembra che abbiamo fatto molta strada. Il nostro bisogno di sentire che la nostra vita è importante è forte oggi come sempre. Ma le diverse varianti dell’approccio teistico non sono più soddisfacenti come un tempo, mentre coltivare giustizia e saggezza resta difficile come è sempre stato. Le nuove tecnologie sono entrate in gioco proprio quando ne sentivamo maggiormente la necessità: il kleos (o il Klout) ora è a portata di tweet.
È strabiliante che la nostra cultura, con l’assottigliarsi del teismo, sia tornata a quella stessa risposta al problema dell’importanza che Socrate e Platone giudicavano inadeguata. La loro contrarietà di allora oggi, forse, è perfino più appropriata.
Quanta soddisfazione può dare, in fin dei conti, una cultura basata sull’ossessione per i social media? Questa multireplicazione così accessibile è effimera e inconsistente come i tanti esempi delle nostre vite che replicano.
Se a far emergere la filosofia furono inizialmente le inadeguatezze del kleos, forse è arrivato il momento che la filosofia affronti il Klout. Le risorse ce le ha: è molto più sviluppata che ai tempi in cui Socrate girava per l’ agorà cercando di smontare quelle persone così gonfie di kleos. Può cominciare dimostrando, con forza e chiarezza come la filosofia sa fare, che tutti siamo importanti.
Siamo importanti per diritto di nascita, e dobbiamo essere trattati di conseguenza, dobbiamo avere tutti le risorse per «fiorire ». Comprendere questa verità etica può contribuire a placare la frenesia che circonda la nostra importanza personale, consentendoci di indirizzare maggiori energie verso la coltivazione della giustizia e della saggezza.
Dirò di più: comprendere fino in fondo questa verità etica costituirebbe già da solo un passo avanti significativo verso la coltivazione della giustizia e della saggezza (traduzione di Fabio Galimberti)