PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA: SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA [1744] (aprire il pdf, per vedere "la dipintura" (e l’"impresa"):*
Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.
La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è ’l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co’ geroglifici che spone in mostra al di sotto.
Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall’altare vien sostenuto; perché i filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio, come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e naturalmente lo ci conserva), si danno dagli uomini l’adorazioni co’ sagrifici ed altri divini onori; ma nol contemplarono già per la parte ch’era più propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario - onde, per servir all’utilità, vivessero in solitudine da fiere bestie, - per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società, e sì a celebrare la loro natura socievole: la quale, nell’opera, si dimostrerà essere la vera civil natura dell’uomo, e sì esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina (...)
Il raggio della divina provvedenza, ch’alluma un gioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, dinota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev’avere, non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di corporali piaceri; col primo de’ quali Zenone diede il fato, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi perciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinota che la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’ella privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’ quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni.
Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d’Omero, primo autore della gentilità che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, da che cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente disceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e - per questo istesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupida, di poter usare l’umana mente e ragione - da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per quest’istesse cagioni, nascosti principi della sapienza poetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili. E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (...)
* Giambattista Vico, Principi di Scienza Nuova [1744], "Idea dell’Opera", in: G. Vico, Opere filosofiche, Sansoni editore, Firenze 1971, p. 379, p. 381 - grassetti miei, fls.
LEMURUM FABULA: LA BRUTTEZZA DELLA DIPINTURA TUTTA CONTRARIA [La Scienza Nuova 1730] *
Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria. Il TRIGONO luminoso, e veggente allumi il Globo Mondano, che è la Provvedenza Divina, la quale il governa.
La falsa, e quindi rea Metafisica abbia l’ALE delle tempie inchiovate al Globo dalla parte opposta coverta d’ombre; perchè non possa, e non può, perchè non voglia, nè sa, perchè non vuole alzarsi sopra il Mondo della Natura; onde dentro quelle sue tenebre insegni o ‘l cieco Caso d’Epicuro, o ‘l Fato pur cieco degli Stoici; ed empiamente oppini, che esso Mondo sia Dio o operante per necessità, quale con gli Stoici il vuole Benedetto Spinosa, ovvero operante a caso, che va di seguito alla Metafisica, che Giovanni Locke fa d’Epicuro: e con entrambi avendo tolto all’huomo ogni elezione, e consigli o, avendo tolta a Dio ogni Provvedenza, insegni, che dappertutto debba regnar’ il Capriccio, per incontrare o ‘l caso , o ‘l fato, che si desidera.
Ella con la sinistra mano tenga la BORSA; perchè tali venenose dottrine non son’ insegnate, che da huomini disperati; i quali o vili non ebbero mai parte allo stato, o superbi, tenuti bassi, o non promossi agli onori, de’ quali per la lor boria si credon degni, sono malcontenti dello stato: siccome Benedetto Spinosa, il quale, perchè Ebreo, non aveva niuna Repubblica, truovò una Metafisica da rovinare tutte le Repubbliche del Mondo.
Con la destra tenga la BILANCIA, poichè ella è la Scienza, che dà il criterio del Vero, ovvero l’Arte di ben giudicare; per la quale troppo fastidiosa, e dilicata, non acquetandosi a niuna verità, finalmente caduta nello Scetticismo estima d’uguali pesi il giusto, e l’ingiusto; ella, come gl’immanissimi Galli Senoni fecero co’ Romani, caricando una lance con LA SPADA, la faccia sbilanciare, preponderando all’altra, dove sia il CADUCEO DI MERCURIO, ch’è simbolo delle Leggi; e così insegni, dover servire le leggi alla forza ingiusta dell’armi.
L’ALTARE sia rovinato, spezzato il LITUO, rovesciato l’URCIUOLO, spenta la FIACCOLA: e così ad un Dio sordo, e cieco si nieghino tutti i divini onori, e sien bandite dappertutto le cerimonie divine; e ’n conseguenza sien tolti tralle nazioni i matrimonj solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono; e si celebrino il concubinato, e ‘l puttanesimo.
Il FASCIO ROMANO sia sciolto, dissipato, e disperso; e spenta ogni Moral comandata dalle Religioni, con l’annientamento di esse; spenta ogni Disciplina Iconomica, col dissolvimento de’ matrimonj; perisca affatto la Dottrina Politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’Imperj civili.
La STATOVA D’OMERO s’atterri; perchè i Poeti fondarono con la Religione a tutti i Gentili l’Umanità.
La TAVOLA DEGLI ALFABETI giacciasi infranta nel suolo; perchè la Scienza delle Lingue, con le quali parlano le religioni, e le leggi, essa è quella, che le conserva.
L’URNA CENERARIA dentro le selve porti iscritto LEMURUM FABULA: e ‘l dente dell’ARATRO abbia spuntata la punta: e tolta l’universal credenza dell’Immortalità dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’abbandoni la coltivazione de’ campi, nonchè si disabitino le città: e ‘l TIMONE, geroglifico degli huomini empj senza niun’ umana lingua, e costume, si rinselvi ne’ boschi; e ritorni la ferina Comunione delle cose, e delle donne; le quali si debbano gli huomini appropiare con la violenza, e col sangue.
Il molto finora detto si è, per facilitarti, o benigno Leggitore, la lezion di quest’Opera [...]
* Giambattista Vico - "OCCASIONE Di meditarsi quest’Opera" - La Scienza Nuova 1730 - (senza corsivi, fls).
"PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA D’INTORNO ALLA COMUNE ORIGINE DELLE NAZIONI": QUALE SIA LA CHIAVE DI ACCESSO AL CAPOLAVORO (1744) DI GIAMBATTISTA VICO, NON E’ ANCORA AFFATTO CHIARO NE’ AI FILOSOFI NE’ AI FILOLOGI E NEPPURE AI TEOLOGI, BENCHE’ SIA SOTTO I LORO OCCHI: "IGNOTA LATEBAT"!
PER QUESTO, FORSE, PUO’ ESSERE COSA UTILE E ILLUMINANTE RILEGGERE IL BREVE SAGGIO
SU GIAMBATTISTA VICO: LA LIBERTA’, LA PROVVIDENZA, E LA TEOLOGIA DELL’UMANITA’ "TUTTA DISPIEGATA".
SU "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli." e sulle "regole del gioco dell’Occidente e il divenire accogliente della mente " ripresi dal mio lavoro (Federico La Sala, Roma 1991) e qui di seguito resi disponibili*
INDICE E COPERTINA DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II. Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli.
III. Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente.
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
Sugli sviluppi della "traccia", qui riproposta, si cfr.:
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA.
Federico La Sala (20.02.2013)
Il mistero rivelato /8.
I sette tempi della bestia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
I nostri atti di giustizia non sono il prezzo della nostra salvezza, sono solo espressione di una legge di reciprocità. L’interpretazione del sogno del grande albero si conclude con un consiglio di Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Daniele 4,24-25). La conversione del re e le sue opere di misericordia non sono la condizione per essere ristabilito un domani nel suo regno. Il consiglio di Daniele ci dice comunque che è conveniente convertirsi e fare atti di giustizia e di misericordia verso gli afflitti. È bene tornare giusti e misericordiosi. Potremmo non farlo, e Dio ci amerebbe lo stesso, perché se non lo facesse sarebbe peggiore di noi che amiamo i nostri figli anche quando sono cattivi e ingrati. Ma possiamo anche decidere di essere misericordiosi, possiamo desiderare di somigliare a Dio. Lo possiamo fare proprio perché siamo liberi, perché siamo certi di essere amati anche se non lo facessimo. Sta in questo incontro di eccedenze, in questo dialogo di libertà d’amore, il cuore della Bibbia e, forse, il mistero del suo Dio. Ci vogliono una intera vita e una infinita mitezza per riuscire a mantenere i nostri sguardi al livello degli occhi di Dio, e dentro questo incontro alto di pupille imparare che siamo più belli dei nostri meriti e meno brutti delle nostre colpe.
Terminata la spiegazione del sogno, il libro ci dice che la profezia contenuta in quella visione si compie: «Dodici mesi dopo, passeggiando sopra la terrazza del palazzo reale di Babilonia, il re prese a dire: "Non è questa la grande Babilonia che io ho costruito come reggia con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?". Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: "A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto!"» (4,26-28). Questo pensiero di Nabucodònosor è estremamente importante, una chiave di lettura di questo complesso e bellissimo capitolo. Possiamo immaginare il re mentre passeggia tra i giardini pensili. A un certo punto un pensiero cresce, si stacca da tutti gli altri, si impone nella sua anima fino a diventare il pensiero dominante: ho realizzato davvero qualcosa di straordinario, e l’ho fatto solo "con la forza della mia potenza".
Un sentimento opposto a quello che Italo Calvino attribuiva a Kublai Khan: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato (...); un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri (...); è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma» (Le città invisibili).
Nabucodonosor si trova invece in tutt’altro stato d’animo. È al culmine del proprio successo. Lo vede ovunque, ed è convinto di essere il principale, se non unico, artefice di quell’opera straordinaria. I greci avevano una parola precisa per descrivere questo sentimento del re: hybris, una combinazione di orgoglio, tracotanza e superbia.
Il libro di Daniele ci dice poi che ogni potere assoluto è ateo, anche quando è benedetto da sacerdoti e l’incoronazione avviene nel tempio, perché il re finisce per non riconoscere che l’origine dei suoi successi e della gloria è al di fuori e sopra di lui. Ed ecco allora il senso della pedagogia della sconfitta e della catastrofe, che arriva a ricordare ai re che non sono dèi e ai loro popoli di non trattarli da divinità. Tutto questo la Bibbia lo imparò durante la grande sconfitta dell’esilio babilonese, e non lo ha dimenticato più. Ma oggi non sono sufficienti neanche le catastrofi a farci comprendere la vera natura idolatrica di questi poteri: e i capi continuano indisturbati a sentirsi dio e noi a considerarli divinità.
La storia conosce una profonda legge dell’evoluzione e del declino dei popoli e delle persone. Il suo centro è la gestione di quel tipico sentimento che si era impossessato del re di Babilonia nel suo giardino. Quando una vita, una comunità, cresce e si sviluppa molto, è inevitabile che un giorno arrivi il pensiero dominante di Nabucodònosor. In un primo tempo, le persone più oneste e religiose riescono a pensare che loro sono soltanto degli strumenti, delle "matite" nelle mani di Qualcun altro che è il vero autore del grande trionfo; ma, quasi sempre, in un altro giorno arriva puntuale il momento quando i successi diventano così sbalorditivi da convincere i "re" che senza di loro tutto quell’impero non ci sarebbe stato, e ne diventano i padroni. Quasi nessun dittatore nasce dittatore, ci diventa un giorno passeggiando nel giardino.
Le storie individuali e collettive di successi straordinari che sono state capaci di durare nel tempo, sono quelle, rarissime, che non sono cadute in questa trappola tremenda, che non sono state colpite da questa "maledizione dell’abbondanza"; perché nel momento stesso in cui quel pensiero seducente e tremendo prende possesso della mente e del cuore, inizia la morte delle persone e delle comunità: "in quel momento stesso ... il regno ti è tolto". Muoiono perché il passato si divora il futuro. Lo studioso inizia a dedicare le proprie energie per promuovere i libri di ieri e non più per studiare per scrivere quello migliore di domani, a frequentare soltanto i luoghi del consenso e degli applausi e a fuggire le critiche, a iniziare a sfogliare i libri degli altri dall’ultima pagina per cercare il proprio nome nella bibliografia.
Nelle esperienze collettive i danni sono poi ancora maggiori e più gravi. L’illusione del grande impero si diffonde come peste tra tutti, si auto-rafforza nei dialoghi, diventa infrangibile e infalsificabile. Le voci critiche vengono taciute o, più facilmente, si auto-zittiscono e, magari in buona fede, la celebrazione del Dio della comunità lascia il posto alla auto-celebrazione della comunità diventata dio. Le poche storie di grande successo che riescono a non essere eliminate dal proprio successo sono quelle dove i loro protagonisti sono capaci di una sistematica politica di auto-sovversione, che riescono a curare questa sindrome dello stra-successo quando ancora è solo incipiente. Si fermano prima della soglia critica, tornano poveri e piccoli prima di essere diventati troppo grandi e ricchi per riuscire a farlo, smontano i palazzi e tornano costruttori di tende.
Quando tutto ciò non accade, inevitabile c’è il compimento della parola pronunciata dal cielo sul re: «Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli"» (4,30). Qui è molto probabile che il testo attribuisca a Nabucodònosor un episodio della vita di suo genero Nabonide, l’ultimo re di Babilonia (vedi la preghiera in esergo). È comunque straordinaria la forza narrativa di questi versi. Nello spazio di un mattino il re si ritrova trasformato da sovrano più grande della terra in essere immondo simile ai mostri dell’Eneide o della Divina commedia.
Da semi-dio a bestia. Quante volte lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo. La cattiva gestione del grande successo produce sovente queste metamorfosi: ci si addormenta nel letto di sempre e ci si sveglia scarafaggio, senza sapere perché. C’è bisogno di "sette tempi" per sperare di capirlo, e a volte non bastano.
Importante notare che a Nabucodònosor il sogno viene spiegato dodici mesi prima del suo avveramento. Sembra che il re avesse avuto un anno, un intero tempo, per cambiare condotta ed evitare la rovina. Ma è una falsa percezione. In realtà, neanche la presenza di profeti veri riesce a salvare gli imperi dal loro declino, perché quando i sogni tremendi arrivano dentro le notti dei re, il declino è già iniziato da tempo, il punto di non-ritorno è stato già superato. -La profezia è autentico dono non perché rivela il futuro, ma perché svela ciò che è già presente sebbene i protagonisti non ne abbiano ancora coscienza. Quel pensiero della passeggiata era già padrone del cuore del re, aveva già occupato tutta la sua vita, molte volte in molti tempi. I profeti non vengono ascoltati dalle loro comunità perché svelano ciò che le comunità sono già diventate, e non vogliono saperlo. Il profeta vede "in sogno" i segni della metamorfosi prima che essa si compia: e così vede già bestie dove tutti gli altri vedono ancora uomini e donne. E nessuno li prende sul serio.
Poi arriva il giorno in cui la metamorfosi si attua davvero e tutti vedono, dentro e fuori la comunità, che si è diventati davvero bestie. Lì, qualche volta, ci accorgiamo che eravamo usciti da molto tempo dal consorzio umano, che ci comportavamo già da lupi mannari e licantropi, e senza saperlo abbiamo divorato molte prede mentre costruivamo il nostro successo infinito. Il tempo della bestia è sempre un tempo tremendo. È un tempo lungo: sette tempi. Ci sentiamo circondati da fiere e ci sentiamo animali anche noi: abbiamo paura, proviamo molta rabbia e un infinito rimorso. Vorremmo scappare, ma dobbiamo restare, perché la sola cosa saggia che possiamo fare è attendere la fine dei "sette tempi". Chiediamo agli alberi di insegnarci la loro mansuetudine, alla terra la sua humilitas, diventiamo mendicanti di umanità verso piante, sassi, stelle, e con Giobbe impariamo il linguaggio dei vermi. E finalmente capiamo i Salmi, iniziamo a pregare dopo aver detto tante preghiere. Ci parlano Geremia e Osea, il canto del servo di YHWH diventa il nostro unico canto. È il tempo del dolore immenso, dell’umiliazione. Si può anche morire, alcuni muoiono davvero. Ma si può anche decidere di continuare a vivere: qualcuno ci riesce, qualche volta anche la comunità.
La Bibbia ci dona infatti una grande buona novella: anche i sette tempi della bestia possono essere un tempo di salvezza: «Ma finito quel tempo io, Nabucodònosor, alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo» (4,32). Al termine dei sette tempi, il re-bestia alza di nuovo gli occhi. È nel libro di Daniele dove la Bibbia iniziò ad un usare la parola "cielo" come sinonimo di Dio.
La seconda metamorfosi sta tutta in quel grugno che ritorna volto mentre si torce in cerca di stelle.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GIAMBATTISTA VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI .... *
La meraviglia del giardino dei Lari a Pompei
di Paolo Isotta (Libero, 7. X. 2018)
Guardo “Rainews” e leggo che a Pompei è stata scoperta una nuova casa, o almeno una nuova stanza. Dedicata al culto dei Lari, gli dei del più geloso culto familiare. Dieci fotografie mostrano un affresco d’incanto. Da quel che scorgo, oltre uccelli, dipinti con una delicatezza commovente, quella che mi pare una testa di cavallo, ma così affusolata che nella miniatura del Medio Evo diverrà, con la sola aggiunta del segno della fecondità, quella del liocorno. Un policromo pavone ad ali chiuse. Due leoni che azzannano alla caccia un cinghiale. La Natura, contemplare la quale è gioia: per l’Antico. Un sentimento panico che rinasce a volta a volta anche nel Medio Evo, e che il cristianesimo non riesce a reprimere. Alcuni Santi appartengono alla corrente, e fanno eccezione: Francesco, certo, ma sorprende più che tale sentimento esprima un ferreo uomo di potere come Sant’Ambrogio, quando la Chiesa si preparava a sostituire nell’imperio il vacillante Impero.
Poi, due simboli centrali. Una pigna, e ai suoi lati bellissimi serpenti color dell’oro che avvolgono in senso circolare le spire. C’è tutta la filosofia dell’Antico. La pigna è il simbolo della morte, d’immemoriale antichità; accompagna la Magna Mater, Cibele; e sovrasta anche il tirso delle seguaci di Dioniso, dio della morte rituale e della rinascita, perché smembrato e poi risorto; come Osiride. A fianco, un uomo con testa di cane. È Anubis, il dio egizio che presiede agl’Inferi, un po’ Ermes, un po’ Ade: nel sincretismo religioso tipico della tarda Repubblica, del primo Impero. Ci fosse, nel sacello pompeiano, un’immagine di Mitra, il dio misterico venerato particolarmente dai legionarî ma del quale era adepto pure Tiberio, avremmo tutto.
Il secondo simbolo è l’aureo serpente che col corpo disegna un cerchio. È l’immagine dell’Eterno Ritorno. La morte, la vita, l’Eterno Ritorno dell’identico. Il Tempo è un’illusione, omnia redeunt , “tutto ciclicamente torna”, canta Ovidio. Pensiamo al giudeo-cristianesimo: il Tempo come linea, che incomincia con la Creazione dovuta al capriccio del Dio ebraico - quando gli antichi sapevano perfettamente che la materia è eterna è increata -, si ferma con l’Incarnazione e, o, colla finis temporum e il Giudizio che condanna al fuoco senza fine chi è difforme: per razza, per pensiero. Quale immenso regresso culturale! (Sant’Agostino viene definito “filosofo” anche da molti colti storici ...)
Nel giudeo-cristianesimo, il serpente incarna il Male: perché vuole infondere all’ “innocente” bestia Adamo il senso della conoscenza. E la conoscenza, per le religioni che hanno prevalso, è il Male stesso. Onde il Peccato Originale. Per il mondo antico, il serpente, che corona il caduceo, è l’emblema del messaggero degli Dei, Mercurio, e rappresenta Esculapio, la medicina che risana divinamente. Nella Natura è il principio della morte che diventa anche della vita.
E voi? Siete dalla parte delle fiamme eterne o dell’Eterno Ritorno?
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Quando venni dagli uomini, li trovai assisi su di un’alterigia antica" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra).
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
PER NON DIVENTARE UN "BOCCALONE", UNA "BOCCALONE", PENSARE BENE PRIMA DI APRIRE LA BOCCA... *
Dalle masse di gas sulfurei che dalla "fessa" della Madre Terra salivano in superficie nella zona di Delfi (o se si vuole, di Cuma), nell’antica Grecia (nell’antica Campania), la Sibilla sapeva saggiamente (e ambiguamente) portare alla luce una figura (e una risposta) piena di significato da interpretare, da decifrare.
Se è vero, come è vero, che "nessuno di noi avrebbe potuto aprir bocca a questo mondo" e (mangiare e) dire qualcosa, se non ci fosse stato (e non ci fosse) "L’origine du monde" ( si cfr. "DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?"), il problema è proprio quello di capire che cosa vogliamo significare con l’espressione "quiddhu è nnu FESSA" (quello è una "bocca aperta"), "queddha è nna FESSA" (quella è una "bocca aperta") - e saper distinguere tra (il cibo sano e) le notizie vere e (il cibo "adulterato" e ) le notizie false ("fake news"), tra ev-angelo ("buona-notizia") e vangelo (van-gelo, che "cattiva-notizia"!), tra "dio" (amore, "charitas") e "mammona" (caro-prezzo, "caritas"!).
ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE: “FAQ”, “FAKE”, “FUCK”, ORMAI DI USO COMUNE.
Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo! Dante l’ha detto da tempo. O no?!
Avendo letto l’intervento di Sergio Notario e molto apprezzato il suo riferimento all’eufemismo piemontese ("Bòja Fàuss"), colgo l’occasione per ricordare che anche in Piemonte c’è la presenza delle Sibille (di cui qui - e altrove si è parlato) e segnalo a Lui e alla redazione della Fondazione il lavoro di Marco Piccat, "La raffigurazione delle Sibille nel Saluzzese e nelle zone circostanti".
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. -- "FAKE" E "WAKE": LA BACCHETTA DELLA VITA. UNA LEZIONE DI JAMES JOYCE.
Università: Cantone, subissati da segnalazioni, collegamento fuga cervelli-corruzione
’Soprattutto sui concorsi. Riforma Gelmini ha creato problemi’ ha spiegato il responsabile dell’Autorità nazionale anticorruzione
di Redazione ANSA *
"C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione". Lo ha sottolineato il responsabile dell’Anac Raffaele Cantone oggi a Firenze, intervenendo al convegno nazionale dei responsabili amministrativi delle università. Cantone lo ha detto dopo aver riferito che l’’Anac è "subissata" di segnalazioni di presunti casi di corruzione negli atenei italiani.
"Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, spesso soprattutto segnalazioni sui concorsi" ha spiegato il responsabile dell’Anac. "Non voglio entrare nel merito, non ho la struttura né la competenza - ha aggiunto - ma la riforma Gelmini secondo me ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti. Per esempio, ha istituzionalizzato il sospetto: l’idea che non ci possano essere rapporti di parentela all’interno dello stesso dipartimento, il che ha portato a situazioni paradossali".
"In una università del Sud è stato istituzionalizzato uno ’scambio’: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Credo che questo sia uno scandalo e che lo sia il fatto che si sia stati costretti a fare questa operazione; se tutto avvenisse in trasparenza, la legge che nasce dalla logica del sospetto è una legge sbagliata".
Faremo linee guida per garantire la discrezionalità - Sull’università "proveremo a fare linee guida ad hoc, che non vogliono burocratizzare ma provare a consentire l’esercizio della discrezionalità in una logica in cui la discrezionalità però non diventi arbitrio, in cui discrezionalità significhi dare conto ai cittadini, non solo gli studenti ma tutti i cittadini perché l’università è il nostro futuro" ha spiegato Cantone.
"L’università - ha aggiunto - dovrebbe essere l’esempio, per rilanciare il nostro Paese. Le classifiche internazionali, purtroppo, in questo senso, e se non ci premiano una delle cause sta anche in una serie di vischiosità del sistema universitario. Non concordo che le università italiane sono baracconi burocratici; ma all’estero tutti credono che lo siano, e sappiamo bene quanto conti non solo il fatto di essere ma anche di apparire. E questo apparire costituisce un danno enorme per il nostro Paese".
«ELENA» DI EURIPIDE: AL VELIATEATRO 2016 L’ALTRA VERSIONE DEL MITO DELLA GUERRA DI TROIA
LA XIX EDIZIONE DEL FESTIVAL È DEDICATA ALLA MEMORIA DEL GRANDE FILOLOGO E GRECISTA MARIO UNTERSTEINER
Comunicato Stampa *
Una delle figure più intriganti della mitologia greca, Elena, vista attraverso l’occhio del più grande tragediografo antico. Sul palco di VeliaTeatro 2016, sabato 6 agosto (ore 21), nella serata inaugurale della XIX edizione del festival di teatro antico sull’acropoli dell’antica Elea-Velia, debutta «Elena» di Euripide. La tragedia è rappresentata da «Kerkís. Teatro Antico In Scena», in collaborazione con il Corso di Alta Formazione Teatro Antico in Scena dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con la direzione artistica di Antonio Calenda. La regia è di Christian Poggioni, la direzione drammaturgica è di Elisabetta Matelli, docente di Storia del teatro greco e latino all’Università Cattolica di Milano e presidente dell’associazione «Kerkís. Teatro Antico In Scena», che introduce l’allestimento con una breve presentazione.
Lo spettacolo affronta un filone alternativo del mito della guerra di Troia, che Euripide riprese nella tragedia andata in scena nelle Grandi Dionisie del 412 a.C. La vera Elena, la seduttrice fatale che nel racconto omerico fu causa del rovinoso ed epico conflitto, non è mai fuggita con il principe Paride. È invece condotta dalla dea Era in Egitto presso il re Proteo e al suo posto va a Troia una «nuvola», una sua immagine (eidolon). Il dramma si apre nel momento in cui, morto Proteo, suo figlio Teoclimeno diventa re e pretende di sposare Elena.
Contemporaneamente, Menelao naufraga proprio in Egitto, convinto di aver trascinato sua moglie via da Troia, ma trovandosi davanti un’altra a lei del tutto simile.
L’intrigo che ne deriva si risolve con il lieto fine di una rocambolesca fuga dei due sposi, dopo una rincorsa di situazioni, in cui agli elementi tragici si aggiungono effetti comici. Euripide fa emergere l’ambigua confusione tra apparenza e realtà. Anticipando temi contemporanei, come la possibilità di scambiare tragicamente il virtuale con il reale, il poeta muove anche una scaltra accusa alla guerra in generale, negli anni in cui Atene paga il suo tributo di vittime nello scontro con Sparta: se Greci e Troiani soffrirono innumerevoli pene fu solo «per una nuvola», per cause inconsistenti e inutili.
Le musiche sono a cura di Adriano Sangineto, le scenografie di Dino Serra, i costumi di Salvatore Averzano ed Elena Adamou, assistente alla regia è Ermelinda Çakalli. Gli interpreti sono: Giulia Quercioli, Federico Salvi, Stefano Rovelli, Livia Ceccarelli, Federica Scazzarriello, Federica Gurrieri, Simone Mauri, Stefano Begalli, Vito Marco Sisto, Vincenzo Politano, Marta Banfi, Federica Dagonese, Annachiara Fanelli, Eleonora Fedeli, Susanna Folegatti. Tutti attori di «Kerkís. Teatro Antico In Scena», associazione fondata da docenti, studenti ed ex studenti dell’Università Cattolica di Milano, per dare impulso alla messinscena di teatro classico greco e latino, contemperando la ricerca e la competenza artistica.
La XIX edizione di VeliaTeatro è dedicata alla memoria di Mario Untersteiner (1899-1981), insigne filologo e studioso della filosofia eleatica e del teatro antico. Il ricordo dell’illustre antichista e la riscoperta della sua opera, sono celebrati, in accordo con il Laboratorio Dionysos dell’Università di Trento, diretto dal professore Giorgio Ieranò, con il Comune e la Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto, dove Untersteiner nacque, e con l’Università Statale di Milano e il Liceo Classico “Giovanni Berchet” di Milano, in cui lo stesso insegnò.
Nel corso della serata, a 35 anni esatti dalla scomparsa dello studioso, la sua opera, in particolare in relazione ai due temi che più lo avvicinano a VeliaTeatro, ovvero gli studi sulla filosofia eleatica e quelli sulla tragedia, viene brevemente illustrata da Alice Bonandini, ricercatrice dell’Università di Trento e curatrice del Progetto “Il Fondo Untersteiner” presso la Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto.
Tra le iniziative volte a evidenziare l’importanza di un personaggio di grande rilievo per la cultura classica in Italia e in Europa, la proposta di valorizzare il cospicuo materiale del Fondo Untersteiner, donato alla Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto e comprendente la preziosa biblioteca, i manoscritti inediti e l’epistolario dello studioso.
Agli spettatori della prima serata è distribuita in omaggio una raffinata pubblicazione, contenente la presentazione dell’opera e della figura di Mario Untersteiner, i contributi di personaggi delle istituzioni e il programma di sala di VeliaTeatro 2016, con le schede degli spettacoli in cartellone e gli interventi di importanti studiosi. A corredo del volume, anche alcune pregevoli foto di scena firmate da Michele Calocero per VeliaTeatro.
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INFO: veliateatro.it
Cacciari: "Sul concetto di fedeltà, dibattito fra ubriachi"
Il filosofo: "Una piccola grande vergogna, una scelta che fa vomitare. Qualsiasi relazione, una coppia di qualsiasi genere che decide di sposarsi, accede a un rito che ha i suoi valori simbolici e che esiste da decine di migliaia di anni. Non è una questione che si possa liquidare come ha fatto il Parlamento"
di ANNALISA CUZZOCREA (la Repubblica, 25 febbraio 2016)
ROMA - «Una piccola grande vergogna». Questo pensa, Massimo Cacciari, del modo in cui il concetto di fedeltà è finito nel dibattito sulle unioni civili. Svilito del suo significato più profondo. Usato come un dispetto della politica da coloro che hanno voluto sottrarre l’obbligo di fedeltà ai gay che decidono di sposarsi. E come una ripicca insensata da chi ora propone di levarlo anche al matrimonio, ritenendolo desueto e ancorato a un passato che non c’è più. «È la vergogna di un istituto da cui traspare lo spirito del mondo in cui stiamo vivendo. Uno spirito misero, che mi fa orrore», dice il filosofo.
Professor Cacciari, ha senso consentire le unioni gay eliminando l’obbligo di fedeltà?
«È allucinante che si parli di queste cose con tale leggerezza. La fedeltà è un argomento serissimo di cui queste persone neanche capiscono il significato, il termine, l’etimo. Questa cosa che venga considerata un elemento di sacralizzazione del matrimonio per gli eterosessuali e - al contrario - un optional per gli omosessuali che decidono di costituire una famiglia, fa vomitare».
Alcuni parlamentari del Pd propongono che l’obbligo sia tolto anche dalle norme che regolano il matrimonio. Che ne pensa?
«Va bene. Di fronte a puttanate si risponde con battute. Come tra ubriachi. Questo mi sono sembrati i dibattiti di questi giorni al Senato: discussioni tra ubriachi».
Ma non crede che l’obbligo di fedeltà possa essere considerato il retaggio di una mentalità superata, di un mondo diverso da quello di oggi?
«Sono questioni che non riguardano solo le leggi. Quando quelle norme sono state scritte penso che i politici si rendessero conto del significato del termine fedeltà. Qualsiasi relazione, una coppia di qualsiasi genere che decide di sposarsi, accede a un rito che ha i suoi valori simbolici e che esiste da decine di migliaia di anni. Questo è un fatto molto importante che impegna, che responsabilizza. Un Parlamento che si mette a giudicare queste cose con siffatta faciloneria è incomprensibile. Potrei parlare a lungo del significato e del valore della fedeltà, ma avrei bisogno di 50 pagine. Non è un tema che possa essere trattato in questo modo».
Perché non ho votato una legge monca
di Luigi Manconi (il manifesto, 26.02.2016)
Non ho partecipato al voto sulla questione di fiducia, posta dal governo sul disegno di legge Cirinnà. Questo è il motivo. Un provvedimento che aveva come motivo ispiratore il principio di non discriminazione rischia di introdurre, con lo stralcio della norma sulle adozioni, un’illegittima disparità di trattamento. Non tanto e non solo tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, quanto tra figli adottandi di coppie eterosessuali e di coppie omosessuali.
Ritengo, cioè, che dallo stralcio della norma sulle adozioni derivi una legge monca, tale da neutralizzare il valore profondo dell’unione civile e ridurla a mero sistema di garanzie economiche e sociali: un contratto privato. E ciò in cambio della rinuncia al suo riconoscimento giuridico-morale. Il che risulta confermato dalla cancellazione, nel testo approvato, del «dovere di fedeltà», quasi che venisse esclusa la dimensione affettiva del rapporto.
Una disciplina che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso sesso avrebbe dovuto rispondere, appunto, al principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, come chiarito anche dalla Corte europea dei diritti umani. Questo vincolo impone, tra l’altro, di applicare la disciplina prevista per l’adozione del figlio del partner a prescindere dall’orientamento sessuale di quest’ultimo, valutandone esclusivamente l’idoneità a svolgere la funzione genitoriale e la qualità del legame stabilito con il bambino, a tutela del superiore interesse di quest’ultimo. E’ quanto ha riconosciuto la giurisprudenza, negando che il carattere omosessuale della coppia possa di per sé determinare alcun pregiudizio alla qualità delle relazioni instaurate con il minore e, quindi, rappresentare un elemento ostativo all’applicazione della disciplina generale. Chi abbia instaurato con il minore un legame importante, in virtù della convivenza con l’altro genitore, non può essere considerato, insomma, al pari di qualunque altro estraneo, solo perché omosessuale. La norma stralciata del disegno di legge si limitava a rendere diritto positivo quanto la giurisprudenza prevalente ha già riconosciuto. Espungerla dal testo ha significato demandare ancora una volta alla mutevolezza degli orientamenti giurisprudenziali il riconoscimento del diritto del minore a veder legittimato un rapporto essenziale per la sua crescita, sottraendolo al limbo giuridico che altrimenti lo caratterizzerebbe.
Si è trattato, in altre parole, di una scelta conservatrice, che ha subordinato il superiore interesse del bambino a una presunzione, indimostrata e discriminatoria, di inidoneità della persona omosessuale a crescere un figlio. E non è nemmeno ragionevole ipotizzare che, negando l’adozione coparentale, si ottenga il risultato non voluto di disincentivare la surrogazione per altri. Anche a non distinguere i casi, tutti particolari, della surrogazione per mera gestazione (in cui gli ovuli della madre sono impiantati nell’utero altrui, così da mantenere il legame genetico) e della surrogazione altruistica (che esclude ogni possibile sfruttamento della gestante), si può davvero negare al bimbo già nato da gestazione per altri il diritto al riconoscimento del rapporto con il genitore “sociale”?
Queste alcune delle questioni che la normativa approvata ignora o liquida sbrigativamente e negativamente. Ed è la ragione per la quale che non ho sostenuto il disegno di legge Cirinnà nella sua nuova versione e non ho votato la fiducia. Si aggiunga ciò che in apparenza può sembrare un dettaglio: dal testo, come ho anticipato, è stato espunto il riferimento all’«obbligo di fedeltà» perché, si è detto, assimilerebbe le unioni civili all’istituto del matrimonio.
Qui davvero lo spirito vacilla. È chiaro che emerge un rimosso particolarmente cupo e ingombrante. Un conto sarebbe stato eliminare l’obbligo di fedeltà per qualunque vincolo di coppia, un conto ben diverso è cancellarlo per le sole coppie omosessuali. Comunque la si metta, e qualunque affinità col matrimonio possa paventarsi, dietro c’è un pregiudizio grande come una casa: l’omosessuale è considerato, per natura e vocazione, persona dissoluta («tan’è vero che è omosessuale»), incapace di impegno reciproco, monogamia e, dunque, fedeltà. Un porcellone, insomma (due o più porcelloni) cui attribuire alcune garanzie economiche e sociali, ma non certamente il riconoscimento giuridico-morale di un’unione civile, dotata di pienezza di diritti e di pari dignità.
Non si avverte, in ciò, l’eco di una irriducibile omofobia?
Il parricidio della civiltà, come predisse Socrate, è vicino.:
Questione immorale, corruzione legalizzata
Ora la corruzione è a norma di legge
di Roberta De Monticelli (il Fatto, 21.01.2015)
La questione morale ha cambiato taglia. Ma non è la “mappa della corruzione” nella Pubblica amministrazione, con le sue percentuali di illeciti che sembrano aver impressionato il ministro della Giustizia Orlando (Fatto Quotidiano19/01/2015) a fare la differenza. Per la semplice ragione che si tratta di “illeciti”. Cioè di violazioni della legge. Almeno dai tempi di Tacito è ben noto che la peggiore corruzione è quella “a norma di legge”, per far eco al bel titolo di un recente libro di Rizzo e Giavazzi.
Ma ancora peggiore è la corruzione della legge stessa. Qui per illustrare il fenomeno vien buona un’altra immagine di sartoria. Secondo una famosa ricetta cinica di Giolitti, “Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo deve fare la gobba anche all’abito”. La corruzione delle leggi è appunto questo: una legge non serve a prevenire, impedire o raddrizzare una deformità, ma ad adattarcisi al meglio.
Se proprio serve un esempio, oltre alla reiterata depenalizzazione del falso in bilancio, che non ha invece impensierito il ministro, può valere l’ormai ben noto 19-bis del Decreto-legge sulla delega fiscale. La cosa più sorprendente di questo vestito tagliato a misura di gobba è che il clamore che ha finito per suscitare si sia limitato nella maggior parte dei casi a censurare il carattere ad personam di questo mostriciattolo partorito probabilmente da un accordo sordido: come se il suo effetto “riabilitante” nei confronti di un noto pregiudicato ne esaurisse la mostruosità. Come se non ci fossero due altri aspetti mostruosi.
Il primo è l’atto con cui l’articolo è improvvisamente comparso nel testo di un decreto del Consiglio dei ministri. Questo, stando alle autorevoli dichiarazioni di due costituzionalisti, è semplicemente un falso in atto pubblico. Per il Prof. Sorrentino si tratta di un “reato commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro o del presidente del Consiglio... un fatto di una gravità straordinaria, passato sotto silenzio” (FQ 18/01/15).
Per il Prof. Pace chi se ne è assunto la responsabilità “ha usato un sotterfugio per far sì che una sua ‘volizione individuale’ assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti” (FQ 17/01/15). E il contenuto di questa “volizione”? Ecco, dall’intervista di F. Forquet al ministro Padoan (Sole 24 Ore 17/01/2015). Domanda: “Quella franchigia del 3% sarà riproposta? ”. Risposta: “Bisogna ragionare su un sistema di percentuali e di margini, dall’intreccio di questi due parametri può uscire un sistema equo”.
Traduzione: dall’intreccio di una frode che non viene più trattata come frode e di una legge che calcola gli sconti per le frodi invece di sanzionarle, “può uscire un sistema equo”. Domanda: “Ma qual è la sua versione sulla famosa manina che ha introdotto la norma del 3%? ”. Risposta: “... è il metodo di lavoro abituale di questo governo: l’interazione tra ministeri e presidenza e quindi il Consiglio”. Cioè: un falso in atto pubblico come lo chiama, un ministro della Repubblica? Un metodo di lavoro!
Ecco: per capire la gravità di questi due aspetti, l’atto e il suo contenuto, occorre allargare la visuale al più vasto fenomeno cui il colpaccio che si sperava passasse inosservato appartiene. È un fenomeno di proporzioni apocalittiche, la cui profondità e vastità ci impedisce forse di prenderne veramente coscienza: perché ci nuotiamo dentro, come pesci nell’acqua.
Questo fenomeno è l’appiattimento del dover essere sull’essere, del valore sul fatto, della norma sulla pratica comune anche se abnorme, e in definitiva del diritto sulla forza. “Tutto quel che è reale è razionale”, dice il filosofo che dà ragione alla forza, purché vinca. “Tutto quello che è reale è normale”, dice il cinismo che ha permeato il linguaggio popolare.
AL FONDO, è la dissoluzione dei vincoli di senso, i vincoli all’interno dei quali soltanto le parole umane dicono qualcosa di definito, i comportamenti umani hanno un significato e un valore definito. Sciogliete una lingua dalle sue norme logiche e nessuno potrà più affermare o negare nulla. Si dirà insieme tutto e il contrario di tutto.
Sciogliete i comportamenti umani dai vincoli pur minimi dell’etica, da quelle norme implicite che sono i mores o da quelle ponderate che sono le leggi, e non potrete più valutare se la mano che vi si tende offre morte o amicizia.
Leggiamola a questa profondità, la piccola porcheria del 19-bis. Ci consente di farlo il comportamento degli individui che con atti, parole e omissioni contribuiscono, come tutti ormai facciamo senza accorgercene neppure più, ad appiattire la norma sul fatto e il diritto sul potere. Perché l’erosione dell’idealità non avviene da sola, e neppure da soli i vestiti si attagliano alle gobbe, ci vuole chi dispone, chi scrive, chi tace, chi usa le leggi corrotte.
E cosa c’è di terribile in questo? Quasi niente: l’auto-destituzione del soggetto morale in noi, vale a dire la semplice impossibilità di dissentire anche nel foro interiore da ciò che non è come dovrebbe essere, perché la distinzione non c’è più: la realtà ha vinto completamente, ovunque. Chi si ribella a uno Stato totalitario, come fecero i coniugi Solgenitsin quando decisero di non mentire più qualunque conseguenza potesse seguirne, ha una chance di uscire libero dalla sofferta “prigionia della mente”. Nel caso totalitario resta la potenziale coscienza della libertà perduta: la costrizione, il dolore di subirla, la vergogna di piegarsi... mentre lo Stato impunitario è una distruzione irreversibile di risorse di senso.
Chi ha sciolto il suo pensiero dal vincolo della legge ha destituito in se stesso per sempre l’autonomia, la libertà di resistere all’arbitrio, dentro e fuori di sé.
Il parricidio della civiltà, come predisse Socrate, è vicino. E questo è il vero ultimo senso della parola “corruzione”: dissoluzione e morte di un intero vivente. Ecco perché la questione morale ha cambiato taglia.
Berlusconi e Renzi, perché?
di Furio Colombo (il Fatto, 22.01.2014)
PENSANDOCI BENE la “missione impossibile” e dunque molto celebrata quasi da tutti di Matteo Renzi, che incontra pubblicamente Silvio Berlusconi, associandolo al ruolo di salvatore della Patria, non è così estranea a una consolidata tradizione del Pd ricevuta in eredità dagli ex e dagli “ex ex” di una parte e dell’altra (Pci e Dc ).
Il Pd, infatti, ha continuamente guardato con tolleranza e mitezza a venti anni di berlusconismo, di conflitto di interessi, di compravendita di giudici e parlamentari. Parlo di un Pd che, per dirla con Francesco Piccolo, ha sempre voluto essere come “tutti”, cioè garantista e tollerante verso uno che sarà anche un po’ fuori legge, ma piace. E comunque ha potere. Chi si è trovato nella fossa Pd, vuoi perché aveva a che fare con“l’Unità”, vuoi perché faceva parte del gruppo parlamentare alla Camera o al Senato, veniva regolarmente pregato di non sollevare certe questioni di “berlusconismo viscerale” sul quotidiano Pds, Ds, Pd, o di non fare certi interventi in aula.
Non si trattava di questioni politiche complicate. Si trattava di decidere se, per un partito che vuole avere un rapporto leale con i cittadini, è bene dire la verità, fattuale, politica e giudiziaria su Berlusconi (che stava creando stupore nel mondo di amici e alleati) oppure era doveroso fingere che il perenne imputato (dal traffico di prostituzione minorile all’abbordaggio della Mondadori, con acquisto, quando necessario, di giudici e senatori e -intanto- frode fiscale continuata e amicizia dichiarata con il pluriassassino Mangano) fosse un normale statista da cui, di tanto in tanto, mitemente si dissente. Certo, “tutti” preferivano Berlusconi o per affari o per prudenza (perché si poteva anche perdere il posto mettendosi contro, come Biagi alla Rai, come me e Padellaro a “l’Unità”). Invece, essere come “tutti” (ovvero smettere di sollevare grane dette pomposamente “denunce”) è un sentimento naturale, a giudicare dalle reti Rai e dall’eroico conformismo di tanti nostri colleghi che si sono mantenuti rigorosamente dalla parte di “tutti” per un tempo così lungo.
Ma l’evento Renzi è forse un caso a parte, come lo è quasi ogni iniziativa del Supergiovane fiorentino. È accaduto tra una sentenza passata in giudicato per reato grave, e la decisione del giudice di sorveglianza sulla pena accessoria (domiciliari o servizi sociali?) e dopo l’espulsione di B. dal Senato.
Possibile che il nuovo Pd di Renzi intenda aprire il futuro con uno “storico incontro” con il condannato che arriva scortato dalla polizia, che intanto svuota le strade, invece di arrestarlo come da sentenza? Voi potete sgridare il Pd per la mite tolleranza sempre dimostrata da tutto l’apparato dirigente verso Berlusconi e i suoi reati, prima della condanna definitiva.
Ma dovete ammettere che Renzi è stato molto più audace: ha nominato Berlusconi interlocutore unico e co-autore dell’unica soluzione giusta e vera che salverà il Paese, dopo la condanna. Depone bene sul carattere vitalistico e impulsivo, capace di decisioni rapide, del ragazzo. Ma che roba è politicamente? E giuridicamente? E moralmente?
La fiaba moderna della grande trattativa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 22.01.2014)
DIFFICILE pensare che un politico accorto, abituato a vincere, usi le parole a casaccio. Che si spinga fino a dire, come Renzi dopo l’incontro con Berlusconi al Nazareno, che nel colloquio è emersa «profonda sintonia». Sintonia si ha quando il suono che emetti s’accorda perfettamente con un altro. Se poi è addirittura profonda, ogni incongruenza diventa schiuma delle cose. Schiuma la condanna giudiziaria del Cavaliere; schiuma l’imperio della legge.
Armonia regna. La Grande Trattativa può iniziare. Se fosse una fiaba, e non un pezzo emblematico di storia italiana, le incongruenze sarebbero normali: la montagna che scali è in realtà una pianura, i sassolini bianchi che raccogli nel bosco ti fanno dimenticare che la madre ti ha scacciato e gettato nella notte. Stoffa delle fiabe è anche il ripetersi del perturbante, che risbuca uguale a se stesso finché l’incanto si spezza.
Non così in politica, dove il perturbante stride: per alcuni insopportabile, per altri incomprensibile. Quando la politica prescinde così platealmente dalla giustizia, quest’ultima evapora. Negoziare non solo la legge elettorale ma anche la Costituzione con un pregiudicato è difficilmente giustificabile perché gli italiani si diranno: ma come, Berlusconi non era interdetto? incandidabile? Che ne è, della maestà della Legge?
La fiaba, dice Cristina Campo, è una professione di fede; è «incredulità nella onnipotenza del visibile». Non fidarti di quel che vedi, credi piuttosto nell’invisibile, nel sotterraneo. Non è successo nulla nei tribunali, Berlusconi s’è candidato alle europee e nessuno inarca il sopracciglio. Quel che hai visto al Nazareno, la favola lo rende possibile: la politica più che autonoma è sconnessa dalla giustizia, Berlusconi ha milioni di elettori e solo questo conta. Lui l’ha sempre preteso.
La sintonia affiorò subito, quando il manager entrò in politica col suo enorme conflitto di interessi e gli fu condonato. A più riprese fu poi protetto; in momenti critici Napolitano gli diede tempo per rialzarsi; ogni volta lo scettro gli fu restituito. Lo stesso accade oggi, sei mesi dopo la sentenza: il condannato s’accampa sugli schermi come cofondatore, addirittura, di nuove Costituzioni. «La pacificazione che non è riuscita a Letta è andata in porto con Renzi», si compiace Forza Italia.
La pacificazione copre punti cruciali, a cominciare dalla legge elettorale. Per Berlusconi l’Italia deve essere bipolare, perfino bipartitica: sempre ha detto che l’esecutivo non va imbrigliato. Solo di recente ha accettato, per convenienza, larghe intese. Renzi gli fa eco: l’accordo «garantisce la governabilità, il bipolarismo, ed elimina il ricatto dei partiti piccoli». La rappresentatività neanche è menzionata. Forza Italia recupererà Alfano, ma il Pd chi recupererà? Non solo: Berlusconi ha sempre voluto Camere di nominati, e con le liste boccate (sia pur piccole) i nominati torneranno. Forse Renzi ci ripenserà. Al momento, anch’egli sogna deputati controllabili. Ha tirato fuori il doppio turno: che evita gli inciuci, non i parlamenti blindati.
Una minoranza del Pd s’indigna («Mi sono vergognato », ha detto Fassina, e Cuperlo si è dimesso da Presidente). Ma anche qui regna l’infingimento fiabesco. Chi s’offende ha fatto le stesse cose, per vent’anni, senza vergogna in eccesso. Agì nell’identico modo Veltroni, quando nel gennaio 2008 proclamò a Orvieto che il Pd rompeva le alleanze e «correva da solo» contro Berlusconi. Meno di quattro mesi dopo il governo Prodi cadeva, Berlusconi saliva al trono. Né furono meno corrivi D’Alema, Violante, che ignorarono la legge sul conflitto d’interessi aprendo le porte al capo d’un impero televisivo. Dicono alcuni che Renzi può patteggiare, essendo «nato-dopo» questa storia di compromessi. Ma i nati-dopo sono responsabili della Storia (compresa la non elezione di Prodi e Rodotà al Quirinale, compreso il tradimento dei 101) anche se personalmente incolpevoli. Da quando guida il Pd, l’incolpevole risponde del passato, e di un’autocritica storica che tarda a venire.
Sostiene Renzi che tutto è diverso, oggi: la sintonia è semplice accordo, obbligato e «fatto alla luce del sole». La consolazione è magra. Berlusconi esce dalla notte ed entra nel giorno, con lui si rifanno leggi elettorali e anche costituzioni. Smetterà d’essere considerato un pregiudicato e dunque infido. Già ha smesso: è il senso simbolico-fatato dellaGrande Trattativa.
Conta a questo punto sapere l’oggetto del patto. Per alcuni è la salvezza del boss dai giudici, vil razza dannata. Più nel profondo, è la consacrazione di nuovi padri costituenti. Tra loro ha da esserci chi, anche se condannato, s’ostina a definire desueta la Costituzione del ’48. L’ha ribadito l’11 gennaio: «Abbiamo fiducia, con una legge elettorale che dia il premio di governabilità del 15%, di arrivare da soli ad avere la maggioranza in Parlamento, per poter fare quello di cui l’Italia ha bisogno dal 1948 a oggi». Il ’48, in altre parole, fu un inizio nefasto. Non si sa se la sintonia profonda copra anche questo. Renzi parla solo di Senato e regioni, ma quel che succederà dopo non è chiaro. Chiaro è però l’approdo: l’Italia deve essere bipolare, bipartitica, e i governi non destabilizzabili da coalizioni insidiose.
Un’ambizione legittima, se l’Italia politica fosse davvero divisa in due. Ma è divisa in tre: la crisi ha partorito Grillo. Semplificare quel che è complesso è la molla di Berlusconi, di Renzi, di Letta, anche del Colle. Il fine è un comando oligarchico, non prigioniero delle troppo frammentate volontà cittadine. La soglia elettorale dell’8 per cento per i partiti solitari è una mannaia. Grillo non temerà concorrenti.
Nel suo ultimo libro, Luciano Gallino dà un nome alla nuova Costituzione cui tanti tendono: la chiama costituzione di Davos. Il termine lo coniò in una riunione a Davos Renato Ruggiero, ex direttore dell’Organizzazione mondiale per il commercio: «Noi non stiamo più scrivendo le regole dell’interazione tra economie nazionali separate. Noi stiamo scrivendo la costituzione di una singola economia globale».
Un obiettivo non riprovevole in sé (anche Kant l’immaginò), se lo scopo non fosse quello di «proteggere un’unica categoria di cittadini, l’investitore societario globale. Gli interessi di altre parti in causa - lavoratori, comunità, società civile e altri i cui diritti duramente conquistati vennero finalmente istituzionalizzati nelle società democratiche - sono stati esclusi» (Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi 2013).
Non stupisce che 5 Stelle (o altri movimenti alternativi) disturbino i semplificatori. Sia pure caoticamente, la società civile - quella vera - s’interessa alla politica perché vede minacciati non interessi di parte ma il pubblico bene, come definito da Machiavelli: proprio il bene ignorato dalla costituzione di Davos.
Non stupisce nemmeno che nelle mappe raffiguranti l’odierno Parlamento, lo spicchio di 5 Stelle perda spesso il nome: è occupato da «Altri». Era così nelle mappe del decimo secolo. Dove cominciavano terre sconosciute, specie asiatiche, si scriveva: Hic abundant leones, qui abbondano i leoni. Questo forse intendeva il capo dello Stato, dopo le amministrative del ‘12, quando di Grillo disse: «Non vedo boom».
I leoni sono ora in Parlamento, e ci torneranno. Possono dire qualcosa, difendere la Costituzione del ’48, la legalità. È grave che non agiscano, lasciando che la Sintonia sia ancor più vasta. Il loro sbigottimento di fronte all’incontro che ha rilegittimato un politico condannato lo si può capire. È vero, «l’Italia è in preda alle allucinazioni e ai déjà-vu». Ma lo stato di stupore non è sufficiente. Alla lunga paralizza. La Grande Trattativa non è scongiurata: davanti a tanti volti trasecolati, può proseguire nei più imprevedibili dei modi.
di Marco Politi (il Fatto, 18.01.2014)
Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014? Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di Stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale. I media italiani - televisione e carta stampata - stanno banalizzando l’evento in maniera imbarazzante. Quasi si trattasse della normale prosecuzione dell’uso del potere, che Berlusconi ha accumulato negli anni, e delle inevitabili (o evitabili) trattative politiche che si fanno con chi detiene una fetta di potere. Non è così.
Come diceva un diplomatico francese, “le forme non sono importanti, salvo quando vengono meno”. In certi quartieri di Palermo, se ti occupano abusivamente la casa, puoi andare dalla polizia e dai giudici - e l’esito sarà lungo, forse incerto - oppure ti rechi dal capomafia di quartiere. Entro ventiquattr’ore l’abusivo sparisce. Ma non è gratis. Non perché lo ‘zu ti chiede soldi, non è mica un poveraccio... quando sarà ti presenterà il conto.
Berlusconi è un personaggio condannato e interdetto. C’è un prima e un dopo, sebbene un’insistente ondata propagandistica tenti di confondere le acque. Prima della condanna definitiva era una personalità che a buon ragione risultava repellente a molti e - in nome del libero arbitrio - poteva piacere ad altri. Dopo la sentenza della Cassazione il suo status è mutato per una sentenza emessa in nome del “popolo italiano”, che ha - dovrebbe avere - una valenza nazionale. È una persona caratterizzata da una “naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del (proprio) disegno criminoso”, come hanno sancito i giudici del processo Mediaset.
CON LA FRESCA arroganza di chi è pervenuto a un posticino di potere per grazia del sovrano, l’economista Filippo Taddei membro della segreteria del Pd ha dichiarato l’altra mattina a Omnibus a chi gli chiedeva dei dubbi sull’incontro Renzi-Berlusconi: “Francamente non capisco il senso della questione”. Peccato, perché è ipotizzabile che abbia viaggiato in Europa e si sa per certo che ha vissuto negli Stati Uniti.
L’incontro tra un politico incensurato e un pregiudicato è inconcepibile in qualsiasi capitale democratica dell’Occidente. Un evento del genere è escluso a Washington come a Berlino, a Parigi come a Londra. Nixon era stato eletto nel 1972 con 47 milioni di voti. Nel momento in cui fu riconosciuto responsabile dei reati connessi allo scandalo Watergate, non fu più un interlocutore per nessuno. Punto. I democratici americani hanno continuato ovviamente a trattare e fare politica con i repubblicani, ma il colpevole di reati era pubblicamente fuori gioco. Perché c’è un confine invalicabile tra l’onorabilità pubblica prima e dopo una condanna.
Anzi nei paesi anglosassoni e a democrazia matura c’è anche un secondo confine, quello della condotta “appropriata” o “inappropriata”, che riguarda la correttezza del comportamento pubblico e prescinde dai procedimenti penali. Per cui il politico, beccato con lo scontrino delle mutande messo in conto al contribuente, sparisce subito dalla circolazione e nessuno dei suoi sodali di partito grida al complotto. Semplicemente perché “non si può”.
In Italia la classe politica rimuove costantemente questo discrimine di etica pubblica per cui i più grandi cialtroni possono gridare che non sono indagati, facendoci ridere dietro all’estero. Ma pazienza. La maggioranza paziente si accontentava di aspettare le sentenze definitive della magistratura, augurandosi che avessero un senso erga omnes.
Il fatto che da noi si voglia ora platealmente varcare il limite tra chi ha la titolarità di buona fede per stare sulla scena pubblica è chi è interdetto per gravi reati costituisce un ulteriore allontanamento dell’Italia dallo standard dei paesi europei e occidentali. Dove “ulteriore” significa ammettere con tristezza che l’ultimo ventennio ha visto il nostro paese scendere sempre più in basso, ma c’era la speranza piccola, flebile, che il novembre 2011 e l’accertata criminalità con sentenza definitiva dell’agosto 2013 potesse segnare un piccolo, graduale passo verso il ritorno all’Europa.
DICIAMO, a scanso di equivoci, che a milioni di cittadini delle beghe interne del Pd non interessa niente. E meno che mai interessa il politichese con cui il vertice imminente (o avvenuto) viene ammantato. Ci sono invece milioni di cittadini, che pagano le tasse, e tanti milioni che a destra, centro e sinistra sentono il valore della legalità e vorrebbero uscire dal degrado istituzionale. E c’è quell’umanità pulita vista due anni fa in Piazza del Popolo nel giorno di “Se non ora, quando? ” .
Questa Italia capisce perfettamente il “segno” di questo vertice voluto da Renzi, che cancella il confine tra ciò che è sostenibile nel costume democratico e ciò che non lo è. Che mette sullo stesso piano della presentabilità l’evasore e chi non lo è.
Raccontava Piercamillo Davigo che nei dibattiti, quando il discorso scivolava sul “tanto rubano tutti”, lui si fermava e domandava: “Lei ruba? Io no. Allora siamo già in due”. Tanto per rimarcare la frontiera. Da oggi, nella società di comunicazione visiva in cui siamo immersi, il messaggio è chiarissimo. Tra Davigo e Berlusconi non c’è nessuna differenza.
I cinque saggi di Letta finiti sotto accusa *
É STATO IL GOVERNO delle larghe intese, quello votato al risanamento economico e alle grandi riforme, a scegliere uno strumento straordinario per cambiare faccia all’Italia: una commissione di saggi. I 35 esperti di diritto nominati da Enrico Letta hanno prodotto un documento che il premier ha promesso di tenere in alta considerazione nell’azione dell’esecutivo. Anche perchè l’idea di affidarsi al parere di un organismo esterno aveva avuto l’a ssenso formale del presidente della Repubblica. Ora il coinvolgimento di 5 membri della commissione speciale provoca un un silenzio istituzionale rumorosissimo: a parte le difese dei singoli docenti coinvolti, nè il governo nè il Quirinale hanno avuto nulla di dichiarare.
* il Fatto, 06.10.2013
La Finanza: almeno 15 concorsi truccati. Spunta una sentenza del Tar scambiata con un posto in ateneo
di Carlo Bonini, Giuliano Foschini (la Repubblica, 06.10.2013)
BARI- Concorsi truccati? I saggi del premier invischiati in traffici accademici? Accade che si trovi qualcuno pronto a sostenere che la Guardia di finanza e la procura di Bari non abbiano capito niente. A farlo è Aldo Loiodice, il professore ordinario di Diritto costituzionale da cui questa storia è partita. Un concorso per un dottorato di ricerca a Bari sospetto, l’inchiesta che prende le mosse dopo un articolo diRepubblica, il telefono del professore che finisce sotto controllo e l’indagine che si allarga in tutta Italia.
Questo è l’argomento di Loiodice: «Hanno preso una cantonata. Altro che cattedre pilotate. Altro che associati a delinquere. Questa è semplice trasmissione della scienza».
Trasmissione di che? «I contatti dei commissari con i capiscuola sono la prova dell’umiltà di un commissario che invece di scegliere in solitudine e con superbia il vincitore si lascia illuminare dalle opinioni autorevoli dei colleghi: una scelta umile, controllata e documentata».
Con buona pace di Loiodice, però, la Guardia di Finanza si è convinta del contrario. Ritiene di avere ricostruito - annota negli atti di indagine - «un sistema di corruttele basato su scambi di favore, protezioni reciproche tra i più autorevoli docenti ordinari che tramite accordi clandestini preferivano la logica clientelare rispetto a quella del merito». Erano loro - sostengono - a indirizzare volta per volta la decisione dei membri della commissione che doveva scegliere il professore migliore.
I concorsi al centro dell’inchiesta sono una quindicina, da ordinario, associato e ricercatore in Diritto ecclesiastico, pubblico comparato e costituzionale. Dodici le universitàcoinvolte. Tra le prove sospette, quella da ricercatore in Diritto ecclesiastico a Bari, da ordinario in Pubblico comparato alla Università europea di Roma, da associato alla Lum di Casamassima, da ordinario in Costituzionale alla Università europea di Roma, da associato a Macerata e Teramo.
I denunciati dalla Guardia di finanza alla magistratura sono 38: tra di loro c’è il gotha del diritto costituzionale, compresi - come ha dato conto ieriRepubblica - cinque dei 35 saggi scelti dal presidente del Consiglio, Enrico Letta per la commissione per le riforme costituzionali.
Si tratta di Augusto Barbera, Giuseppe de Vergottini (entrambi dell’università di Bologna), Carmela Salazar (Reggio Calabria), Lorenza Violini (Milano) e Beniamino Caravita di Toritto (Sapienza di Roma). Quest’ultimo ha subìto una perquisizione ormai due anni fa, quando l’inchiesta ora alla sua ultima proroga, era appena cominciata. La circostanza non è neutra. Perché al momento della sua nomina a saggio Caravita sapeva di essere indagato. «Fatti antichi, il nostro assistito è estraneo » replicano i suoi legali, Nicola Quaranta e Renato Borzone che per altro hanno già contestato la legittimità della proroga delle indagini. «Stupefatta e indignata » Anna Maria Bernini, exministro del Pdl, tirata in ballo per il concorso da ordinario in Diritto pubblico comparato. «Di questa storia e di questa inchiesta non so nulla» dice. Eppure quella cattedra - sostiene l’accusa - doveva essere sua. Anche se il concorso (tra rinvii e dimissioni di commissari) in realtà non si è mai concluso.
Si tratta di una di quelle prove bandite tra la vecchia e la nuova legge: tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 l’allora ministro Mariastella Gelmini cambiò infatti le regole concorsuali prevedendo il sorteggio da un elenco di docenti eletti dagli stessi colleghi. Fatta la norma, dicono gli investigatori, trovato l’inganno. Prima -spiega una fonte investigativa - provarono a fare pressioni sul ministero affinché non fosse istituita la nuova norma. Poi, cominciarono a muoversi, proponendo scambi di favori.
Del resto nell’inchiesta di Bari di scambi di favori ce n’è uno particolare perché coinvolge l’università privata Lum e il Tar dellacittà. La figlia di un giudice, Amedeo Urbano, ottenne un contratto proprio mentre il padre decideva di un ricorso da milioni di euro presentato dalla famiglia del Rettore, Emanuele Degennaro, noti imprenditori della città. Risultato: sono indagati sia il magistrato sia il magnifico.
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. *
Roma soggiogò la Grecia,
la Grecia soggiogò Troia,
ma Troia soggiogò la Grecia,
soggiogò Roma,
e tutta la Terra.
Non sarà niente di previsto!
Hitler, il Vietnam saranno niente a confronto.
La violenza subita e immagazzinata da secoli
nel nostro corpo - terrestre!,
tenuta a bada da catene sempre più solide,
infine eromperà.
L’inimmaginabile!
Chi sogna l’età dell’oro? Chi dello Spirito?
Occorre prima liberare la bestia legata
nel buio sotterraneo della storia.
Quale follia tenerla in eterno legata
nel più profondo degli abissi.
Esploderà e disintegrerà l’universo dal più profondo ...
fino all’Altissimo.
Nessuna maschera servirà più. La follia esploderà
immensa.
Solo allora e solo allora l’alba di un nuovo giorno.
BRUCERANNO DIECIMILA TROIA.
E NON SARANNO STATI I GRECI A DARLE FUOCO.
Quasi-Sole sarà la Terra. Nessuno potrà nascondersi.
Le fiamme arderanno e bruceranno tutte
le miserie dei millenni.
Il calore fonderà un altro essere.
Un oltre essere umano allieterà la Terra.
Chi riuscirà a traversare il fuoco?
Chi si lascerà traversare dal fuoco?
Una freccia di fuoco illumina il mondo.
Virgilio, Gioacchino, Francesco...
Dante ha già capito ed è andato oltre.
Oltre la preistoria, oltre la tragedia.
*
Federico La Sala (1977)
E se non fossimo tutti puttane?
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2013)
Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane. Nel senso che tutti il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio.
All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica? ” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e - all’occorrenza - come testimoniare il falso.
Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda. Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici.
La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”.
Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento). Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito.
Il trucco
Ida Dominijanni ci conduce in un viaggio avvincente e grottesco, a ritroso negli ultimi anni del governo Berlusconi. Qui, il sistema inciampa nell’imprevisto della libertà femminile. E l’incantesimo si rompe svelando il trucco che da tempo era sotto gli occhi di tutti
di Maddalena Vianello (in-genere, 26/02/2015)
Ida Dominijanni guida contromano in un avvincente viaggio a ritroso negli ultimi anni di Berlusconi. Una storia vecchia? Nient’affatto, un punto di partenza per guardare al futuro con occhi edotti.
Il viaggio conduce attraverso un quadro interpretativo affascinante in cui le donne sono le vere protagoniste della fine di un’epoca.
Il sistema berlusconiano ha lavorato con determinazione alla restaurazione dei ruoli deputati alle donne. Diversi da quelli riservati agli uomini, neanche a dirlo. E incastonati nella tradizione più retrograda. Madonne, mogli, madri da un lato, e donne con un prezzo sul mercato dall’atro. Una storia vecchia come il mondo.
Ma il mondo cambia per fortuna. I costumi si evolvono. E la consapevolezza di sé, che piaccia o no, penetra fra le donne più diverse, determinando cambiamenti irreversibili.
Le donne non si lasciano agire. Si dimostrano in grado di scegliere il proprio destino, di calcare la scena del sultano, di abbandonarla, di disprezzarla. Comunque sia, assecondano i propri desideri e interessi.
In questo modo si consuma la rottura e irrompe la novità. Le belle statuine si animano sulla scena pubblica. Chi ci avrebbe mai scommesso?
Ed è proprio su questo errore di calcolo che Berlusconi frana.
Il progressivo emergere dei costumi del premier fra minorenni, escort e bunga bunga mina lentamente l’immagine di Berlusconi. Come una goccia cinese scava lentamente, ma in maniera inesorabile, un solco che lo separa dall’opinione pubblica.
L’entrata in scena di Patrizia Daddario, Ruby ruba cuori, Veronica Lario determina una rottura dal sapore definitivo. Tre protagoniste della caduta. Tre donne diverse, con ruoli distinti in questa storia. Rompono la convenzione del silenzio fino a quel momento in essere.
Come un castello di carte al soffio del vento l’impero berlusconiano ricade su se stesso rivelando tutta la sua immensa fragilità.
Il sistema, che solo superficialmente sembrava funzionare fino a quel momento e che prevedeva donne zitte e zittite, crolla quando il presupposto strutturale della connivenza femminile viene a mancare.
Le donne sono libere. Libere di essere fuori dagli schemi costituiti. Libere di pensare, scegliere, parlare. Libere di considerare la misura colma.
Non è solo Berlusconi a rimanere di sale, ma buona parte dell’opinione pubblica. Non era stato messo in conto. Era un’ipotesi nettamente marginale.
Il sistema berlusconiano inciampa nell’imprevisto della libertà femminile. L’incantesimo si rompe svelando il trucco che da tempo era sotto gli occhi di tutti. Il re è nudo.
La presa di parola pone sul piatto un tema dirimente. Le abitudini sessuali del premier non sono fatti meramente privati, ma irrompono nel dibattito pubblico con dovizia di particolari.
Queste donne parlanti non pongono delle questioni scomode solo per Berlusconi, ma per un intero ordine costituito maschile. Ammettere la compenetrazione dei piani fra pubblico e privato è un tema scivoloso per troppi.
La sola ipotesi di un cambiamento così potente fa tremare le vene ai polsi. La parte più conservatrice e al contempo minacciata si ricompatta indipendentemente dall’arco parlamentare. E così viene inaugurato un nuovo atto della commedia che corre sulla distinzione fra pubblico e privato, personale e politico. Gli uomini corrono a difendere la stabile occupazione del potere. A chi importa cosa succede sotto le lenzuola di un instancabile e virile maschio, voglioso nonostante l’età? Non è certo una questione politica. La vulgata diventa maggioritaria trovando paladini valorosi, a destra come a sinistra.
Le donne che hanno preso la parola, come da tradizione secolare, vengono tacitate, accusate alternativamente di follia, di avidità, di sfruttamento. Ricacciate nell’irrilevanza.
Un’altra occasione persa. Specialmente a sinistra, per avviare un dibattito onesto che potesse accogliere nuove istanze per ripensarsi.
Dopo una fase bulimica, di tutto questo non ragioniamo più molto. L’analisi a freddo di Ida Dominijanni non ha solo il pregio di ripercorrere l’accaduto riportandolo alla nostra attenzione. Nutre la più ambiziosa vocazione alla consapevolezza. Educa lo sguardo sollevando veli. Per non essere nuovamente impreparate.
Le femministe di regime contro Corbyn
di Carlo Formenti *
Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era più espressione degli interessi delle classi lavoratrici, radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un partito di centro che, assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali della socialdemocrazia. Ma se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei.
Al coro di media mainstream, economisti, politologi, esponenti di partiti di destra, centro e sinistra (ad eccezione delle sinistre radicali) si sono aggiunte le voci delle “femministe di regime”. Non mutuo questa definizione da maschietti nostalgici del bel tempo andato, ma da intellettuali femministe come Silvia Federici, Nancy Fraser, Cristina Morini e Anna Simone - per citarne solo alcune - critiche di quel femminismo mainstream che - concentrandosi sui diritti individuali, sull’emancipazione e sui temi del riconoscimento e dell’identità di genere - ha rimosso la lotta per i diritti sociali e per l’uguaglianza politica ed economica. Una svolta che consente al neoliberismo di integrare il discorso femminista sul terreno di una “modernizzazione” culturale giocata a suon di chiacchiere politically correct e quote rosa (non c’è leader di destra che, maschilista fino a pochi anni fa, manchi oggi di esaltare i diritti delle donne). Così i giornali hanno attaccato Corbyn: prima perché non sembrava intenzionato a inserire un congruo numero di donne nel governo ombra, poi perché ne aveva messe più della metà ma in ruoli “secondari”.
Ancorché speciosa, la polemica è interessante perché mette in luce alcuni effetti della svolta appena accennata. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Maria Laura Rodotà sul Corriere di martedì 15 settembre. Dopo avere ironizzato sui maschi di sinistra - i quali sarebbero più intolleranti nei confronti del politicamente corretto “perché a loro è stato vietato troppo a lungo di fare i cretini” - l’autrice fa le pulci, oltre che a Corbyn, a Tsipras e al candidato alla nomination democratica Bernie Sanders (tutti colpevoli di circondarsi soprattutto di uomini).
In particolare, ricorda che i sostenitori di Sanders sono soprattutto uomini bianchi di tutte le età (in realtà c’è una consistente quota di giovani di ambio i sessi) mentre le donne (anche le liberal) preferiscono la Clinton perché convinte che il solo fatto di mandare una donna alla Casa Bianca cambierebbe il mondo (anche se le illusioni alimentate dall’elezione del nero Obama insegnano che il potere ignora razza e genere). Poco importa che la Clinton sia notoriamente sponsorizzata da Wall Street, il che rende risibile la sua pretesa di ergersi a paladina della lotta contro la disuguaglianza.
Conta più il genere o il programma? La Rodotà sembra indecisa: da un lato, ammette che il programma di Corbyn “è uno dei più femministi che ci siano”, ma dall’altro sottolinea che “viene proposto da una leadership di cinque uomini”. Meglio la oligarca Clinton del socialista Sanders solo perché è donna? Se qualcuna/o (oddio come sono politicamente corretto!) mi dicesse: meglio la senatrice Warren, perché è donna e schierata su posizioni vicine a quelle di Sanders, potrebbe convincermi ma io, da irriducibile “vecchietto”, continuo a pensare che sia meglio giudicare un leader in base al suo programma e alla coerenza tra il dire e il fare e non alla sua età, razza, genere o gusti sessuali.