Nelle "Lettere da Torino" il suo ultimo tragico autunno
L’abisso di Nietzsche
La stagione della follia
Proclamava di essere il pagliaccio della nuova eternità, si sedeva al pianoforte e cantava a gola spiegata in preda ad una irrefrenabile euforia
Il suo amico Franz Overbeck era corso da Basilea per rintracciarlo e riportarlo a casa
Sembrava un istrione impazzito e inviava proclami firmati Dioniso oppure Crocifisso
di Pietro Citati (la Repubblica, 12.7.08)
Il 21 settembre 1888 Friedrich Nietzsche arrivò a Torino, fuggendo l’Engadina in preda all’alluvione. Era la seconda volta che giungeva nell’antica capitale sabauda: ma questa volta essa lo affascinò completamente. L’aria fresca, tersa, limpida, le foglie dorate e brune degli alberi, il fondale già bianco delle montagne: gli pareva di vivere in mezzo ai colori di un Claude Lorrain infinitamente prolungato. C’era nell’aria un benessere quieto ed etereo. Il pomeriggio passeggiava lungo i viali alberati sul Po, che l’autunno aveva appena sfiorato. Amava le strade dritte e larghe, la bellezza delle grandi piazze, gli edifici regolari, la profondità quieta del silenzio. Gli pareva che Torino fosse costruita apposta per lui. Era la città dell’autunno: Dioniso, il suo dio, era il dio dell’autunno; e qui le venditrici gli offrivano meravigliosa uva di tutti i colori. Non sapeva ancora che sarebbe stato il suo ultimo, tragico autunno (Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, pagg. 272, euro l5).
Tutto, a Torino, gli sembrava frutto di uno straordinario momento di grazia. Un edicolante, David Fino, che abitava a via Carlo Alberto l3, gli aveva affittato a basso prezzo una vasta stanza con un "grandioso letto piemontese", dove dormiva con una profondità e una quiete che non aveva mai conosciuto. La trattoria era buonissima: teneri maccaroni, saporite minestre, ossibuchi accompagnati da "broccoli cotti in maniera incredibile", carne finissima, squisiti grissini. Un sarto gli aveva preparato un elegante soprabito azzurro autunnale, che gli toglieva dieci anni di vita e lo faceva procedere pieno di contegno e di orgoglio.
Tutti sembravano, od erano, persone raffinatissime; e lo trattavano come un gentiluomo estremamente distinto o un principe. Quando entrava in un grande magazzino, i volti si addolcivano e si rasserenavano: le porte si aprivano dolcemente davanti a lui; e le vecchie fruttivendole non avevano pace finché non riuscivano a scegliere i grappoli più dolci della loro uva. Così la sua salute (nella realtà o nell’immaginazione) migliorò rapidamente: non aveva più bisogno di caffè, cloralio e nicotina: dopo anni di angosce conosceva il benessere; e scrisse in pochi mesi, con velocità ed impeto vertiginosi, i suoi ultimi libri.
In realtà, quello di Nietzsche non era benessere, ma un eccesso di euforia, che cresceva su sé stessa e divorava spaventosamente sé stessa. Le lettere degli ultimi mesi si riempiono presto di affermazioni di una inquietante e sinistra mitomania. «Io ho dato agli uomini il libro più profondo che posseggano, il mio Zarathustra».
«Zarathustra, il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia del futuro, la più grande esplosione del genio umano in cui è racchiuso il genio dell’umanità». «Mi sono posto talmente al di là, non sopra ciò che conta ed è in auge oggigiorno, bensì al di sopra dell’umanità». Ma anche il successo del Zarathustra era ormai dietro le sue spalle. Nessuno poteva fermarlo. Le potenze europee, riunite a convegno attorno a lui, avrebbero ubbidito ai suoi ordini di Messia: fucilare Bismarck e l’imperatore Guglielmo, distruggere il Terzo Reich, chiudere il Papa nel carcere del Vaticano.
Chi poteva chiamare semplici libri L’anticristo o Ecce homo, che scriveva febbrilmente a Torino? Erano dinamite, terremoto, convulsione, apocalisse. Ecco, davanti ai suoi occhi, la storia della terra spezzata e spaccata in due. Il vecchio mondo, che era cominciato con l’anno uno, ai tempi della nascita di Cristo, era già morto: mentre il nuovo stava cominciando proprio in quel momento, tra i limpidi veli autunnali di Torino.
Tutto era l’albore di un nuovo inizio e di un nuovo cominciamento. Il Crocefisso aveva finito di vivere, e con lui il Padre, al quale l’umanità aveva tanto tempo sacrificato. L’altro Redentore, l’altro Padre era già qui, davanti agli occhi presaghi di tutti. Non era una persona sconosciuta: ma lui, Friedrich Nietzsche, il professore di Basilea, il fuggiasco che in pochi anni aveva percorso tutta l’Italia. «Tra un paio d’anni - proclamò - governerò il mondo, perché ho deposto il vecchio Dio».
Poi, in alcune lettere dei primi di gennaio del 1889, tutto esplose alla luce. «Il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vede come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno». Scrivendo ai nuovi e vecchi amici, tra i quali l’amatissima Cosima Wagner, firmò i suoi brevi proclami di rivelazione e di trionfo ora col nome del Crocifisso ora con quello di Dioniso. Egli era Dioniso vittorioso, il dio supremo antichissimo e recentissimo, che avrebbe reso la terra un giorno di festa. Sebbene fosse Dio, egli conosceva tutte le esperienze che gli uomini possono conoscere, dalle più basse alle più alte. Così, nella gioia universale, egli annunciava il suo "eterno ritorno": come Buddha, Gesù Cristo, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone; e persino il suo immaginario figlio Umberto I, giovane re d’Italia con "la graziosa Margherita", avrebbero partecipato alla grande festa.
Davanti a questo scoppio orgiastico di euforia, gli amici che ricevettero i biglietti di Dioniso-Crocifisso pensarono di leggere le parole di un istrione impazzito. Non avevano torto. Ma anche Nietzsche sapeva di esserlo: anche lui era cosciente che la sua "catastrofe tragica" poteva esprimersi soltanto con ghigni, caricature, spiritosaggini, buffonate, disumana e sovrumana allegria. Credo che per qualche giorno rimanesse lucido: convinto di essere contemporaneamente il "redentore del mondo " e "il pagliaccio della nuova eternità ".
Si era identificato con Dioniso: il Dioniso della fine dei tempi. E il suo Dio doveva esprimersi quale era stato nel corso della sua lunga storia: con i balzi del satiro, le smorfie dell’istrione aristofanesco, le danze del ballerino d’operetta. Non c’erano più alternative o rivali nel tempo. Non c’era più storia. C’era soltanto quella tremenda risata orgiastica, che distruggeva il mondo e lo ricreava secondo un nuovo principio.
La voce si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck - uno degli amici più antichi e affezionati di Nietzsche - lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio. E il giorno seguente, dopo l8 ore di viaggio, era a Torino, cercando l’abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo tra i suoi. Il padrone di casa, David Fino, era andato a cercare aiuto al consolato tedesco e alla polizia italiana. La moglie non era a casa. Ma, finalmente, Overbeck riuscì ad entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva pensato, scritto, riso e delirato per più di tre mesi. Stava rannicchiato nell’angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato.
Leggeva le bozze di Nietzsche contra Wagner. «Nessuno è pari a Wagner nei colori del tardo autunno, nella felicità indescrivibilmente commovente di un godimento estremo, estremo più di ogni altro, breve più di ogni altro... Più felicemente di qualsiasi altro egli attinge all’ultimo fondo di ogni gioia umana, per così dire al suo calice interamente vuotato...». Forse Nietzsche stava parlando di sé senza saperlo.
I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò cadere nuovamente sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell’attimo - scrisse Overbeck - gli si spalancò davanti l’abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più, lasciando «intendere nel contempo con brevi frasi pronunciate in tono smorzato cose sublimi, di abile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su sé stesso come successore del dio morto». Proclamava di essere "il pagliaccio della nuova eternità", rendendo l’estasi della sua gaiezza con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili.
Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l’idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragico-comico Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole, poteva venire contemplato soltanto attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l’antichissimo dio dell’estasi e della lacerazione, era soltanto un pazzo, sottoposto come Nietzsche a un processo di paralisi progressiva.
MUHAMMAD IQBAL HA LETTO DANTE E, NEL SUO "POEMA CELESTE", PONE NIETZSCHE "AL DI LA’ DEI CIELI": "Egli fu un Hallaj straniero nella sua patria" (Muhammad Iqbal, Il poema celeste, a cura di Alessandro Bausani, Bari 1965, pp. 142-143).
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Friedrich Nietzsche (Wikipedia).
Roberto Calasso, inimitabile coerenza di editore e autore Aveva 80 anni ed era malato da tempo. Proprio oggi escono i suoi ultimi due libri, Bobi e Meme’ Scianca
di Stefano Salis (Il Sole-24 Ore, 29.07.2021)
Parole, immagini, analogie. Storie, miti, ritorni: su tutto, e per tutto, libri. In questo si è tradotta la vita, molto attiva, di Roberto Calasso, lo scrittore ed editore (in questo ordine di importanza, e so che, su questo, molti storceranno il naso), scomparso ieri a Milano, all’età di 80 anni. Era malato e forse perciò ha avuto, recentemente, una anomala “fretta” di pubblicare: in pochi mesi ecco gli ultimi libri composti. E per uno di quei sinistri giochi del destino, che ama farsi beffe delle nostre esistenze, Calasso è scomparso nel giorno di uscita di due (addirittura) testi di carattere autobiografico.
Due libri che sostanziano una serie di iridescenze che si rifrangono in tutta la sua vita e opera; e la compiono, in qualche modo: Bobi, saggio memorialistico dedicato a Bobi Bazlen, suo maestro di editoria; Memè Scianca, struggente diario dell’infanzia, filtrato con i doni (e i buchi) che, sola, la memoria sa fare: ed è, questo librino, la felice scoperta di un Calasso intimo, e fragile, che rilegge episodi lontani epperò qualificanti, senza paura di scoprire e offrire lati suoi evidentemente più vulnerabili rispetto alla figura di maestosa caratura intellettuale alla quale ci ha abituati.
Era stato, Calasso, protagonista dell’editoria italiana fin dalla creazione dell’Adelphi (su iniziativa di Bazlen e Foà), nel 1962, e dal 1971 la aveva condotta nel mare dei libri, disegnando una traiettoria di coerenza (personale e pubblica) inimitabile e inimitata. Adelphi, grazie al suo intuito, formidabile, di lettore ed editore finissimo (l’ultimo dell’editoria degli editori), aveva, e ha, costituito un “canone alternativo” letterario e grafico nel panorama italiano e internazionale. I libri Adelphi, in libreria, non confluiscono isolatamente, nella saggistica o nella letteratura, sperdendosi nell’ordine alfabetico: formano, al contrario, un blocco uniforme, percepito come un “tutto”, di cui ogni titolo è parte costituente.
Era lo stesso effetto che, coscientemente, Calasso aveva previsto per la sua attività di scrittore. Complesso, magmatico, coraggioso tessitore di analogie senza temere le difficoltà del lettore nell’addentrarsi nei suoi testi, Calasso, dopo un esordio narrativo “erratico” ma seminale come L’impuro folle (1974), ha poi ordito un’Opera che a partire da La rovina di Kasch (1983) si è svolta come un “serpente” di oltre 5.000 pagine che include Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore (2010), Il cacciatore celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Un’opera impossibile (e inutile) da riassumere, un grande affresco che, con i saggi de I quarantanove gradini (1991), La letteratura e gli dèi (2001), Cento lettere a uno sconosciuto (2003), La follia che viene dalle Ninfe (2005), L’impronta dell’editore (2013) e I geroglifici di Sir Thomas Browne (2018, l’argomento della sua tesi di laurea), forma un unicum nella letteratura italiana e mondiale.
La scomparsa di Calasso è uno di quei vuoti che si allargano improvvisamente, e costringe chiunque ad affrontare la perdita in maniera originale e, se possibile, costruttiva. E se per l’Adelphi, chiunque ne prenderà il posto, la sua assenza peserà come un macigno (dato che, comunque, sarà insostituibile), per l’intera cultura italiana invece sarà, nel tempo, un gigante con il quale fare i conti. Come Umberto Eco, Calasso fornirà d’ora in poi un metro di paragone, talmente ampio e solido, nell’editoria e nella letteratura, da risultare paradigmatico. Colmo di un valore esemplare, già classico in alcune sue movenze, il suo lavoro, parole e idee più solide del bronzo, acquisirà, nel tempo, lo statuto di un monito, di un monumento o, meglio, di una profezia, almeno per noi suoi ammiratori. Per gli invidiosi, e meno preparati, il suo catalogo resterà, semplicemente, un miraggio.
***
Il ricordo.
Roberto Calasso, la passione della letteratura
Lo scrittore ed editore nelle parole continuava a vedere gli dèi e riportava alla luce concetti che, con lui, acquistavano una dimensione nuova
di Rosita Copioli (Avvenire, venerdì 30 luglio 2021)
La passione della letteratura, dove Roberto Calasso continuava a vedere gli dèi, è qualcosa che tende a spegnersi nelle case editrici, nelle pagine culturali dei giornali, nel cinema, e in ogni campo che dovrebbe esprimerla, farla conoscere, proteggerla, e alimentarla. La letteratura può fiorire dovunque, ma è qualcosa di raro e difficile. L’insieme di “lettere” scritte che comprende tutte le forme, compresa la poesia, brilla solo nella riuscita dell’arte, nella sostanza, non nel magma indifferenziato; né, tanto meno, nelle buone intenzioni, e nelle ideologie. In essa non può non affiorare la forza del “simulacro”, l’ágalma, termine tanto caro a Calasso: ossia la catena simbolica delle immaginazioni che si traducano in visioni, in storie interminabili, nel cui labirinto ognuno di noi è insieme Teseo e Arianna, il Minotauro, la croce, e la rosa.
Per Calasso, nato nel 1941 a Firenze e morto mercoledì sera a Milano, la letteratura è stata la sostanza di se stesso, e dobbiamo tributargli una gratitudine totale. Perché essa ha coinciso con gli anelli di libri che saldavano la sua catena, segmenti di un serpente, frammenti di un libro singolo formato da tutti quelli pubblicati: e qui non indico solo quelli di romanzieri e poeti, ma di storici, di filosofi, di scienziati, di analisti e di ricercatori, tutti in grado di portare una scintilla rivelatrice. Ma quell’inanellamento non ci sarebbe stato, se nella sua opera non ci fosse l’impronta di una catena aurea, proprio quella di Omero pensata da Porfirio - balenante di folgorazioni e connessioni, che è all’origine della civiltà europea. Il vaso spezzato del mondo si ricompone, parzialmente, per ferite e sacrifici, solo nella letteratura, che sostituisce nell’ultima fase, tragica e parodica, come in Kafka, quanto è stato perduto nel mondo moderno, nella metropoli di Baudelaire, dove per sogni, e per corrispondenze, si insegue un Principio, o il Sacro. Una caccia per lampi analogici, seguendo vie diritte o tortuose, che si interrompono nel silenzio e nella tenebra, o nei baratri delle omissioni, è la ricerca di una mitologia finale che la letteratura contiene, perché vi si riversano tutte le storie e le culture, non solo greco-latina, ebraica, ma vedica e cinese, che instancabilmente Calasso collega e investiga.
Sebbene questo proposito sia una necessità evidente, nessuno come Calasso, ha voluto dissimularla, lasciando che fossero gli scrittori a esporre le proprie ragioni, pur unilaterali, soggettive, antitetiche le une alle altre - mentre per se stesso, il “Cacciatore”, abbia voluto più che nasconderla, per non ostentarla, sviarne il nome, sotto la mole della sua conoscenza sterminata, e l’eleganza dell’understatement. Però, in tutti i suoi libri - La rovina di Kash, Le nozze di Cadmo ed Armonia, Ka, Il rosa Tiepolo, La folie Baudelaire, Il cacciatore celeste, Il libro di tutti i libri, fino agli ultimi -, Calasso ha inseguito il proprio pensiero, verso una salita insieme contemplativa e lucidissima, che scopre e non scopre l’ammirazione drammatica per quanto vorrebbe raggiungere, dimenticando se stesso, o fluendo nel punto luminoso e accecante che è il punctum, il sacro inarrivabile della “letteratura assoluta”, che ha sostituito quello delle religioni, imprescindibili.
Nel 2001, nella Letteratura e gli dèi, proclamando la semi-inutilità delle discipline critiche, dichiarava che quasi «soltanto gli scrittori sono in grado di aprirci i loro laboratori», parlandoci di quella «realtà seconda», del «mistero palese» di ogni forma, «parola di Goethe». E mentre enumera queste guide «capricciose ed elusive... gli unici a conoscere passo per passo il terreno », con i loro saggi, scorriamo i nomi che ha pubblicato - Baudelaire, Proust, Hofmannsthal, Benn, Valéry, Auden, Brodskij, Mandel’šam, Cvetaeva, Kraus, Yeats, Montale, Borges, Nabokov, Manganelli, Calvino, Canetti, Kundera.
Tutti, benché diversi, o talora avversi l’uno all’altro, parlano della stessa cosa: ed essa, più che da teorie, si riconosce da «una certa vibrazione o luminescenza». «Quella specie di letteratura è un essere che parla a se stesso», non perché sia autoreferenziale, né affondata nella “realtà”. A quel punto Calasso offre una lunga citazione da Novalis, sulla prodigiosa natura del linguaggio. Esso nasce dalla conversazione, dalla chiacchiera, da se stesso, e, come le formule matematiche, non è un impossessamento delle cose: quando diventa un mistero prodigioso, nel libero gioco di relazioni che le cose assumono rispecchiandovisi, e che ci anima: e quando - quasi all’insaputa di chi lo esprime - è poesia. E allora, chi ne rende comprensibile il mistero non «è uno scrittore per vocazione, poiché uno scrittore è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato?».
Sempre divagando e omettendo, mostrando errori e aberrazioni dei moderni interpreti, filosofi e non, Calasso procede verso le ultime pagine, sul filo dell’incanto libero delle parole di Novalis, con l’Io, il Sé e il Divino, del frammento di coppa attica dove Apollo tende il braccio verso il giovane che scrive, e in mezzo, la testa tagliata di Orfeo. Fermo è il braccio di Apollo che sostiene la letteratura, e il suo sacrificio, su tutta la scena. Personalmente, avevo messo in serbo anche io, uno dei miei riferimenti preferiti di Novalis, quando dice che il centro unificatore del narrare è la poesia. Perché non ci sono risposte al «che cosa è» la letteratura o la poesia stessa, ma Calasso sapeva bene che questo centro esiste, sebbene sia indefinibile, e rarissimo.
Oggi, mentre molti di noi preferiranno percorrere, come è giusto, l’opera così vasta di Calasso, vorrei ricordare il capitolo su Plotino del Cacciatore celeste, che succede al modello delle metamorfosi di Ovidio, e al suo mondo fluido; con Plotino la caccia alla conoscenza approda in quel volo o «fuga del solo verso il solo», l’Uno, non definibile, perché non limitabile, che si può contemplare soltanto tra luce e tenebra, al di sopra e causa della vita. In Plotino, oltre l’arroganza verbale degli gnostici e la tendenza all’anomia, la tradizione greca del Bello coincidente con il Bene da cui discende, e da cui viene la bellezza del mondo, diventano ricerca inarrestabile della mente e dell’anima: nella supremazia del Bene anche il male entra nell’armonia o senso del tutto. Non mi pare proprio che fossero a proposito le parole scritte qualche anno fa, a caccia di roghi, sulle gnosi del male. Non sono le teorie, né la filosofia né le credenze, che vanno cercate in una figura così straordinaria per la cultura e la letteratura, non solo italiane.
Ho conosciuto Calasso nel 1987, quando Giuseppe Pontiggia volle che lo incontrassi per parlare dei saggi di Yeats che avrei pubblicato nel 1988 con Guanda, sotto il titolo di Anima Mundi. Calasso avrebbe voluto che li curassi per la sua casa editrice, ma avevo già contratto. Ben pochi, in quegli anni, sapevano valutarne la bellezza. Mi propose di tradurre le poesie di Thomas Hardy: non lo feci, e sbagliai. Nel 1988 pubblicò il suo primo libro di successo: Le nozze di Cadmo ed Armonia.
Per chi, come me, ambiva con troppo orgoglio a rifare ex novo il mito, sembrò un esercizio di erudizione. Ma era un errore. Quella “fortunata” erudizione contribuiva a riportare l’attenzione su quanto importa, nella nostra cultura e letteratura, ossia alle origini: le racconta, in modo attento, come, diversamente, già dal 1970 aveva cominciato a fare Pietro Citati, con il suo Goethe, mentre fondava la collana di scrittori greci e latini classici e cristiani della Fondazione Valla/ Mondadori. Se non emergevano scoperte o nozioni “originali”, il suo merito era di ricondurre alla luce, di approfondire concetti magari altrui, che acquistavano una dimensione nuova, anche nei riflessi di altri libri.
Penso non solo alle “acque mentali” delle ninfe, e alle loro configurazioni da Warburg. Ma al termine di abrosyne, una sorta di grazia, diversa dal bello, che viene prima di esso, e che riguarda l’estetica di Saffo. Si dirà che sono cose minori. Non lo sono affatto. Sono stili di civiltà, di intere epoche, e della sostanza del divino che è in noi.
Mi capitò, per la mostra che curavo dei libri di Fellini, di chiedere a Calasso di approfondire il rapporto che Fellini aveva avuto con lui, anche quando fu suo tramite per i diritti di Simenon, con l’editore Daniel Keel. Fu in quel momento, che affiorò anche il progetto del film di Fellini sui miti greci. Ora che esce il libro di Calasso in ricordo di Bazlen, Bobi, non posso che rievocare l’intreccio di persone di cui ha scritto, da non tanto, Margherita Pieracci Harwell, mettendo insieme Cristina Campo, Ernst Bernhard, Gianfranco Draghi, tanto più che proprio l’ultima pagina di Bobi, singolare coincidenza, nomina i due libri che per Bernhard, e per Fellini, furono capitali, e che proprio Bernhard aveva donato a Fellini: l’I Ching, e L’abbandono alla Provvidenza divina, di Jean- Pierre de Caussade.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
Lou von Salomé
Esplorò la forza dell’eros
L’incontro imponderabile che unisce due estraneità
Bellissima e spregiudicata visse l’amore con trasporto fisico e con slancio intellettuale seducendo Rilke e Nietzsche
Cruciale il suo apporto alla picoanalisi con lo studio del narcisismo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 27.01.2019)
L’amore è stato il filo della sua esistenza turbolenta e frammentata, scandita da innumerevoli legami appassionati e drammatici, dai quali lei sembrava ogni volta uscire quasi illesa. Non si contano invece le vittime, più o meno consenzienti, di quei rapporti. Intellettuali, pittori, filosofi, poeti: da Friedrich Nietzsche a Rainer Maria Rilke.
Bellissima e piena di fascino, tenera e volitiva, eccentrica e indomabile, Lou (diminuitivo di Louise) von Salomé rappresenta una figura emblematica che si staglia nell’orizzonte del Novecento europeo agitato da rivolgimenti politici ed esistenziali. Qualsiasi giudizio si voglia emettere su questa donna spregiudicata e anticonformista, certo è che a lei toccò in sorte di esplorare, nei suoi meandri più oscuri, non tanto l’anima della donna, quanto la passione erotica femminile.
Nata a San Pietroburgo nel 1861, trascorse gran parte della sua vita in Germania, nella piccola città universitaria di Gottinga, dove morì nel 1937, in tempo per osservare da vicino la catastrofe. Poco tempo dopo la sua scomparsa, gli agenti della Gestapo ne confiscarono la biblioteca. Ai loro occhi quella specie di strega aveva più di una colpa: soprattutto si era occupata di psicoanalisi, la «scienza ebraica» per eccellenza. Non l’aveva forse escogitata Sigmund Freud?
Pur considerando la scrittura un’attività quasi secondaria, che accompagnava la sua sete di vivere, la sua curiosità intellettuale, il fervore con cui si abbandonava ai rapporti umani, Lou Salomè ha lasciato venti libri e oltre cento saggi, articoli, recensioni. Potrebbe essere definita una scrittrice, se non fosse che ciò che ne contraddistingue il lascito sono proprio gli scritti di stampo psicoanalitico, in cui le esperienze biografiche si coniugano con una introspezione originale.
Con il titolo La materia erotica. Scritti di psicoanalisi, la casa editrice Mimesis ha pubblicato di recente una raccolta, curata da Jutta Prasse. L’arco di tempo va dal 1900, data d’uscita del primo saggio Riflessioni sul problema dell’amore, al 1921, anno a cui risale Il narcisismo come doppio orientamento, dove non è difficile scorgere le tracce del dialogo serrato con Freud.
Perché quell’interesse proprio per la scuola di Freud e non, ad esempio, per l’indirizzo rappresentato da Gustav Jung? La risposta sta nel valore che la psicoanalisi attribuiva alla pulsione sessuale. Lou vedeva così confermata un’idea di cui si era andata convincendo già prima di conoscere personalmente Freud a Weimar, nel 1911, nel Congresso della Società psicoanalitica Internazionale. Quell’incontro fu per lei decisivo perché le fornì i mezzi per sbrogliare l’intrigo della materia erotica che la teneva avvinghiata sin dalla giovinezza.
La forza misteriosa dell’amore era sconvolgente, inebriante, ma anche demoniaca e distruttiva. Affine alla creazione artistica del genio, poteva innalzare a vette supreme o spingere negli abissi più meschini. Di questo aveva già narrato la grande letteratura ottocentesca immortalando i ritratti di Emma Bovary e Anna Karenina, eroine tragiche le cui storie avrebbero dovuto provare l’impossibilità di conciliare amore sessuale e serenità coniugale.
Per Lou era tempo di cercare una terza via, senza rinunciare al rifugio di un compagno, ma senza neppure abdicare alla rigenerazione dell’amore. Il che non voleva dire abbandonarsi ad una facile promiscuità, consegnarsi all’avventura fortuita e banale.
Proprio perché scorgeva nell’amore la forza vitale per eccellenza, scelse di viverlo fino in fondo, con trasporto fisico, ma anche con slancio intellettuale, consapevole della transitorietà di quell’energia che cessava inspiegabilmente, così come nascostamente era sgorgata. Occorreva solo essere pronti e prendere a piene mani la felicità nell’attimo, senza arrovellarsi troppo sul dopo. Pretendere di dare durata a quella passione avrebbe significato essere del tutto irrealistici. Non si può promettere di essere fedeli quando è in gioco l’amore. Di questo aveva discusso a lungo con Nietzsche, che per anni aveva eletto a maestro. Si intuisce perché quella sua irrequieta disinvoltura disorientava i partner, conducendoli talvolta a gesti estremi, in taluni casi teatrali.
Nonostante i conflitti interiori, quello in particolare tra un cuore impulsivo e una volontà imperiosa, Lou superò una dopo l’altra anche le rotture più drammatiche, persuasa della necessità di addentrarsi nel mistero della vita, di esplorarne le vie tortuose, fino ad elevare quella sfera sepolta dell’inconscio alla dignità della coscienza. Quasi in un estenuante esperimento, amava come viveva, viveva come amava. Con spontaneità, ma anche con serietà.
In questa indagine dell’eros, nel suo significato più ampio e profondo, Lou non poteva non votarsi alla vita altrui, perché l’amore è anzitutto il bisogno impellente dell’altro. Si interrogò perciò anche sulla modalità e il valore della fusione, che nell’uomo, in cerca di un’identità rafforzata, rischia di diventare esigenza di possesso, smania di appropriazione, volontà di sottomissione. Questo non avviene nella donna, che - osserva nel saggio Il tipo femmina - sperimenta già sempre l’altro in sé, che è sempre già duale e divisa in sé stessa, laddove «il maschio permane univocamente aggressivo».
Forse si può dire che il suo contributo più rilevante alla psicoanalisi sia lo studio sul narcisismo, che è senza dubbio amore di sé, egocentrismo spinto all’estremo, capace di cancellare del tutto l’altro, ma che a ben guardare ha mille sfaccettature spesso trascurate. Il narcisismo può comprendere persino la sottomissione.
Se qualche decennio fa i testi di Lou von Salomé, con le sue osservazioni provocatorie e talvolta parossistiche, hanno avuto un effetto dirompente, scardinando vecchi luoghi comuni e stimolando il pensiero femminista, oggi non possono non essere lette con occhi diversi. Resta, però, l’originalità della sua riflessione e di quel suo modo di considerare il rapporto erotico non come l’eterna inimicizia tra i sessi, bensì come l’incontro imponderabile tra due estraneità. Ed è proprio ciò che spinge all’unione.
L’amore, forma intermedia tra l’ipseità del singolo e la fraternizzazione comunitaria dei molti, tra egoismo e altruismo, dischiude dunque una sfera che ciascuno è chiamato a esplorare, ma che in nessun modo può essere sottovalutata, ritenuta inferiore, cancellata nell’esistenza umana.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA MENTE ACCOGLIENTE: L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
GIAMBATTISTA VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI .... *
La meraviglia del giardino dei Lari a Pompei
di Paolo Isotta (Libero, 7. X. 2018)
Guardo “Rainews” e leggo che a Pompei è stata scoperta una nuova casa, o almeno una nuova stanza. Dedicata al culto dei Lari, gli dei del più geloso culto familiare. Dieci fotografie mostrano un affresco d’incanto. Da quel che scorgo, oltre uccelli, dipinti con una delicatezza commovente, quella che mi pare una testa di cavallo, ma così affusolata che nella miniatura del Medio Evo diverrà, con la sola aggiunta del segno della fecondità, quella del liocorno. Un policromo pavone ad ali chiuse. Due leoni che azzannano alla caccia un cinghiale. La Natura, contemplare la quale è gioia: per l’Antico. Un sentimento panico che rinasce a volta a volta anche nel Medio Evo, e che il cristianesimo non riesce a reprimere. Alcuni Santi appartengono alla corrente, e fanno eccezione: Francesco, certo, ma sorprende più che tale sentimento esprima un ferreo uomo di potere come Sant’Ambrogio, quando la Chiesa si preparava a sostituire nell’imperio il vacillante Impero.
Poi, due simboli centrali. Una pigna, e ai suoi lati bellissimi serpenti color dell’oro che avvolgono in senso circolare le spire. C’è tutta la filosofia dell’Antico. La pigna è il simbolo della morte, d’immemoriale antichità; accompagna la Magna Mater, Cibele; e sovrasta anche il tirso delle seguaci di Dioniso, dio della morte rituale e della rinascita, perché smembrato e poi risorto; come Osiride. A fianco, un uomo con testa di cane. È Anubis, il dio egizio che presiede agl’Inferi, un po’ Ermes, un po’ Ade: nel sincretismo religioso tipico della tarda Repubblica, del primo Impero. Ci fosse, nel sacello pompeiano, un’immagine di Mitra, il dio misterico venerato particolarmente dai legionarî ma del quale era adepto pure Tiberio, avremmo tutto.
Il secondo simbolo è l’aureo serpente che col corpo disegna un cerchio. È l’immagine dell’Eterno Ritorno. La morte, la vita, l’Eterno Ritorno dell’identico. Il Tempo è un’illusione, omnia redeunt , “tutto ciclicamente torna”, canta Ovidio. Pensiamo al giudeo-cristianesimo: il Tempo come linea, che incomincia con la Creazione dovuta al capriccio del Dio ebraico - quando gli antichi sapevano perfettamente che la materia è eterna è increata -, si ferma con l’Incarnazione e, o, colla finis temporum e il Giudizio che condanna al fuoco senza fine chi è difforme: per razza, per pensiero. Quale immenso regresso culturale! (Sant’Agostino viene definito “filosofo” anche da molti colti storici ...)
Nel giudeo-cristianesimo, il serpente incarna il Male: perché vuole infondere all’ “innocente” bestia Adamo il senso della conoscenza. E la conoscenza, per le religioni che hanno prevalso, è il Male stesso. Onde il Peccato Originale. Per il mondo antico, il serpente, che corona il caduceo, è l’emblema del messaggero degli Dei, Mercurio, e rappresenta Esculapio, la medicina che risana divinamente. Nella Natura è il principio della morte che diventa anche della vita.
E voi? Siete dalla parte delle fiamme eterne o dell’Eterno Ritorno?
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Quando venni dagli uomini, li trovai assisi su di un’alterigia antica" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra).
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
Fiducia nell’uomo
L’assist di Emerson alla filosofia di Nietzsche
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.09.2018)
Ralph Waldo Emerson, nato nel 1803 a Boston, è una figura-chiave della cultura americana. Così, almeno, lo considera un critico come Harold Bloom. Un pensatore quale John Dewey lo intese come il filosofo della democrazia moderna. E un poeta della grandezza di Walt Whitman arricciava il naso dinanzi ai suoi versi e preferiva ammirarlo come critico o diagnostico. Certo, non fu un campione di quelle passioni che rendono interessanti le biografie, anche perché sembrava non conoscere debolezze. Fu però autore dalle concezioni influenti. Di Dante apprezzava «l’energia unita alla simmetria»; quando individuava un nemico, sapeva sistemarlo a dovere: antitetico a Poe, lo definì «the jingle man», l’uomo dei sonagli o giullare che dir si voglia.
Eppure Emerson, che era anche poeta e filosofo e ha lasciato tracce in teologia (sosteneva: Dio è presente nell’anima e da essa direttamente intuibile), fu amato da Nietzsche. Lo scoprì quando aveva diciotto anni e lo lesse per gran parte della vita.
Non è facile tentare anche un inventario degli influssi della sua opera. L’idea che ne caratterizza scrittura e pensiero fu il nesso di finito e infinito, la capacità di individuare il fondamento trascendente della realtà sensibile nella percezione dello spirito umano.
Il suo ottimismo antropologico, che motiva una profonda sicurezza in se stessi, è uno specchio dell’anima statunitense, una sorta di premessa generale al liberalismo con stelle e strisce. Anche se Whitman ebbe riserve sui versi, ne amò lo spirito e le notevoli intuizioni; e così fece molta letteratura americana, sino alla Beat Generation, senza dimenticare che Thoreau gli deve molto, altrimenti non avrebbe osato scrivere che «la poesia è il misticismo dell’umanità».
Non si può escludere, tra i contagiati da Emerson, persino Proust; e inoltre si ritrovano in lui numerose idee del futuro pragmatismo. Qualcuno sussurra che il compositore classico statunitense Charles Edward Ives ne sia discepolo. Di certo - e basti questo esempio - quando si ascolta la Quarta Sinfonia (1909-16) non occorre essere dei critici per capire che il musicista sta inseguendo qualcosa trovabile in Emerson, il quale considerava la morale una guida all’immensa intelligenza divina. Si sospetta e si avverte che le note, simili agli eoni degli gnostici, stanno cercando di compiere il singolare percorso, anche se la complessa orchestrazione e l’uso della poliritmia richiedono per evocare quei suoni due direttori d’orchestra e l’utilizzo di strumenti allora nuovi, come il theremin.
È il caso di fermarsi con influssi e altro, anche perché tali noterelle su Emerson sono state suggerite al vostro cronista dalla ristampa di una sua opera, le due serie dei Saggi curate da Piero Bertolucci, con testo originale a fronte. In sostanza, ritorna con le edizioni La Vita Felice la traduzione riveduta e corretta che uscì nella serie Enciclopedia di autori classici, diretta da Giorgio Colli per Boringhieri. Un lavoro che fece meglio conoscere tale autore, le pagine pacate e coinvolgenti sull’eroismo o sulla prudenza, sulla fiducia in se stessi o sulle leggi spirituali, sulla “superanima” o sui doni. Il lavoro di Bertolocci archiviava la vecchia traduzione di Mario Cossa, uscita da Laterza nel 1925 nella rimpianta Biblioteca di Cultura Moderna .
Rileggere questo americano significa comprendere meglio Nietzsche. La dottrina di Emerson della self-reliance rappresentò per il filosofo tedesco un breviario di coraggio e indipendenza: contribuì ad alimentare il suo progetto di trasvalutazione morale per costruire un uomo nuovo.
La lettura di Susanna Mati
Nietzsche ovvero il signor N.
di Paola Capriolo (Corriere della Sera, 10.11.2017)
Nello sterminato panorama degli studi dedicati all’autore dello Zarathustra, il recente Friedrich Nietzsche di Susanna Mati (Feltrinelli, pp. 186, e 14) occupa una posizione particolare, distinguendosi nettamente da quelle interpretazioni che, sulla scia di Heidegger, a partire dagli anni Trenta si sono sforzate di ricondurne il pensiero a un «sistema» filosofico più o meno implicito. Prendendo le mosse da certe intuizioni critiche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Susanna Mati compie il tentativo opposto: percorrere quest’opera labirintica prendendone assolutamente sul serio lo «stile».
In altre parole, la sua domanda non è: che cosa dice Nietzsche? (una domanda cui è quasi impossibile rispondere in modo univoco di fronte a un filosofo che ha affermato le tesi più contraddittorie), ma piuttosto: in che senso dice ciò che dice? Ovvero, che cosa può mai significare un’affermazione per colui che, annunciando la «morte di Dio» e il congedo da ogni metafisica, è giunto a revocare il valore stesso della verità?
Proprio questa «liquidazione della verità», per dirla con Gottfried Benn, questa impossibilità di affermare una qualsiasi tesi, che fa di Nietzsche «il vero e proprio punto di non ritorno della filosofia occidentale», costituisce la premessa di una lucidissima argomentazione volta a sottolineare il «tratto estetico» del suo pensiero. Non si tratta però, puntualizza Mati, del ritorno a una metafisica dell’arte di stampo romantico, bensì di una «sapienza della parvenza» che avvicina nel modo più ambiguo la figura del pensatore a quella del commediante, di una finzione consapevole di sé e tanto più autentica in quanto votata al naufragio. Così, dalla Nascita della tragedia sino alla catastrofe di Ecce homo, possiamo seguire tappa dopo tappa l’autorappresentazione di questo «giullare dell’eternità» per il quale il pensiero si è trasformato in un gioco di maschere perennemente in bilico sull’ambiguo crinale tra verità e menzogna: fino alla maschera ultima, la follia, «destinata a non essere più tolta da quanto è mimeticamente vera».
La «follia» è l’esito estremo di uno sforzo teoretico che, nella sua «resa dei conti all’ingrosso con la totalità del pensiero occidentale e con le sue conseguenze», agisce come «una dinamite che fa saltare anche se stessa»; ed è insieme il culmine di quella frantumazione dell’io in cui il prospettivismo che caratterizza lo stile di Nietzsche e la sua critica radicale all’idea di un soggetto stabile e unitario si fondono in modo inestricabile con la sua stessa psicologia, o meglio, non-psicologia. Il gioco di maschere, la possibilità di essere, come egli afferma in una lettera a Jacob Burckhardt, «tutti i nomi della storia», hanno quale presupposto un distacco da sé che rasenta l’impersonalità: per questo, oltre che per rispecchiare in qualche modo il «tratto estetico» della filosofia di Nietzsche, Mati lo designa sempre con la sola iniziale, N., alludendo esplicitamente al K. dei romanzi kafkiani.
Come il Josef K. del Processo e l’agrimensore K. del Castello sono e non sono Kafka, così, sembra suggerirci l’autrice, il personaggio di cui si parla nelle sue pagine è e non è il professor Friedrich Nietzsche, il quale a sua volta è e non è Dioniso, lo «spirito libero», Zarathustra. In tal modo il «gioco di maschere» viene arricchito di uno strato ulteriore; ma soprattutto si scongiura l’antinomia in cui rischierebbe di cadere l’intera argomentazione del libro, se fosse svolta in quel linguaggio puramente teoretico e affermativo del quale proprio Nietzsche ha decretato una volta per sempre l’impraticabilità.
Rassomiglianze: Nietzsche, Cocteau, Satie
di Bruno Dal Bon *
Pochi testi sulla musica hanno la forza stringata e penetrante de Il Gallo e l’Arlecchino (1918) di Jean Cocteau, un lavoro di poche pagine che esalta l’audacia della semplicità e della franchezza nell’arte. Un testo nel quale Cocteau si rivolge anzitutto a Nietzsche come ad un modello che lo aiuti a disfarsi del simbolismo sfumato e malaticcio dei suoi esordi letterari.
Tutto ruota intorno alla musica, non solo perché queste pagine sono di fatto il manifesto della rinascita musicale francese tra anni Dieci e Venti del Novecento incarnata dai giovani compositori appartenenti al Gruppo dei Sei (Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey), ma perché, come per Nietzsche, la musica offre a Cocteau la dimensione immanente di un sentire filosofico, ancor prima che estetico o artistico, che tende verso la verità delle cose prossime, verso la limpidezza e la trasparenza del presente, verso tutto ciò che è lontano “da nuvole o caverne”.
“La folla è sedotta dalla menzogna: è delusa invece dalla verità troppo semplice, troppo nuda, troppo poco indecente [...] quella, non eccita gli uomini”. Ed è nella musica che questa tensione verso la verità del presente è più evidente: “attenzione alla vernice, dicono certi cartelli; e io aggiungo, attenzione alla musica”. Una citazione quasi letterale di quel cave musicam che Nietzsche consiglia a “tutti coloro che son uomini abbastanza da tenere alla limpidezza nelle cose dello spirito”.
Il compositore che, fra tutti, meglio testimonia questo spirito è Erik Satie. Cocteau, insieme al Gruppo dei Sei, ne esalta la musica e la figura, considerandolo un caposcuola, forse l’unico musicista capace di scrivere “una musica a misura d’uomo”. “Satie guarda poco i pittori e non legge i poeti, ma preferisce vivere dove fermenta la vita, [...] basta con le nuvole e le onde, ci vuole una musica di tutti i giorni, [...] basta con le amache e le ghirlande, voglio che mi costruiscano una musica dove possa abitare come in una casa. [...] la musica non è sempre gondola, cavallo da corsa, corda tesa; qualche volta è anche una sedia”.
Questo è ciò che Satie nel suo agire irriverente, controverso ed antiaccademico riesce a realizzare, non solo come compositore, ma anzitutto nella sua vita d’artista. Ed anche in questo aspetto, l’idea di Cocteau di considerare la produzione musicale di un compositore solo come una parte della sua vita di uomo e di musicista, non è diversa da quella che ritroviamo in Nietzsche, di una filosofia come vita filosofica, come filosofia in atto. La vita di Satie nel suo insieme, ancor prima delle sue composizioni o del suo lavoro come pianista di cabaret, è presa a simbolo di quell’esprit nouveau capace di afferrare il senso del tempo, capace di offrire quello che definiva, con una curiosa espressione, il quotidiano “pane musicale”.
Lavoreranno insieme al balletto Parade con scene e costumi di Picasso, che sarà rappresentato dai balletti russi di Sergei Diaghilev il 18 maggio 1917 al Théâtre du Châtelet a Parigi. Una creazione che, seppur presentata come balletto, intendeva rompere con ogni genere di tradizione e di forma teatrale. Appolinaire nel suo testo per il programma della prima rappresentazione scrisse che per gli autori “si trattò prima di tutto di tradurre la realtà” non più di rappresentarla. I movimenti di danza non erano legati a un linguaggio astratto, ma erano naturali, reali “solo amplificati e magnificati fino alla danza”.
Molte furono, inevitabilmente, le contestazioni del pubblico e le ostilità della critica musicale parigina. Cocteau rispose l’anno seguente, proprio dalle pagine de Il Gallo e l’Arlecchino: “i musicisti impressionisti hanno creduto che la musica di Parade fosse povera perché era priva di condimento [...] ciò non possono capirlo orecchie abituate al vago e ai brividi. [...] Per la maggior parte degli artisti, un’opera non può essere bella senza un intreccio di misticismo, di amore o di noia; il breve, il gaio, il triste senza idillio sono sempre sospetti”.
Parole che non possono che ricondurci nuovamente a Nietzsche. La predilezione di Cocteau per Satie è infatti analoga a quella del filosofo tedesco per Bizet e per la sua Carmen così come per quegli autori “audaci e leggeri” che ritroviamo citati in alcune delle ultime lettere, allora inedite, che quasi certamente Cocteau non conosceva. Testimonianze nelle quali Nietzsche esalta l’operetta e la zarzuela spagnola elogiando autori come Audran, Offenbach o Von Suppé. Questi sono i compositori che accompagnano Nietzsche nell’ultima fase della sua vita, quella dell’estrema riflessione filosofica. Queste musiche, ma anche questo modo “semplice” di rappresentarle e di viverle in luoghi d’occasione quasi mai teatrali.
Quasi il medesimo contesto dove le musiche di Satie e dei compositori del Gruppo dei Sei si svilupperanno: non più solo le sale da concerto o i teatri, ma i café chantant e i cabaret parigini senza mai disdegnare gli spettacoli circensi o i luna park, la musica da ballo o il jazz. “Nel gorgo dei perturbamenti del gusto francese e dell’esotismo, il caffè-concerto rimane abbastanza intatto [...] qui un giovane musicista potrebbe riprendere il filo perduto. [...] Il music-hall, il circo, le orchestre americane di negri, tutto ciò feconda un artista allo stesso modo di una vita.”
La riflessione di Cocteau sulla musica, come dicevamo all’inizio, non si limita ad esprimere un gusto o una tendenza stilistica, non intende sterilmente contrapporre una nuova scuola francese in alternativa ad altri stili nazionali. La riflessione sulla musica che Cocteau riesce a tracciare nelle poche righe di questo testo è prettamente filosofica, lo è quasi senza volerlo. Nonostante nessuna affermazione abbia l’ambizione di prendersi troppo sul serio e tutto sia giocato in un’alternanza di brevissime intuizioni, paradossi e aforismi, il lavoro di analisi e di approfondimento sono anzitutto filosofici.
Solo nelle ultimissime pagine Cocteau scrive qualcosa di più compiuto sul piano della riflessione, tentando di teorizzare la nozione di rassomiglianza della musica: “la rassomiglianza è una forza obiettiva che resiste a tutte le metamorfosi soggettive. Non bisogna confondere la rassomiglianza con l’analogia. L’artista che ha il senso della realtà non deve mai aver timore d’essere lirico. Il mondo obiettivo mantiene la propria efficienza qualunque siano le metamorfosi che il lirismo può fargli subire. Il nostro spirito digerisce bene”.
Anche in questo caso poche righe alle quali poi aggiunge: “La musica è la sola arte che, secondo la massa, è autorizzata a non rappresentare qualcosa. E tuttavia la bella musica è la musica rassomigliante a qualcosa [...] la buona musica commuove per certa rassomiglianza misteriosa agli oggetti ed ai sentimenti che l’hanno motivata. La rassomiglianza in musica, consiste, non in una rappresentazione, ma in una potenza di verità velata”.
L’opposizione tra “rassomiglianza e analogia” in musica, la definizione di “mondo obiettivo” come forza che nella musica mantiene la propria efficienza indipendentemente dai possibili interventi compositivi o interpretativi atti a nasconderla o deformarla, la straordinaria intuizione di una musica come “potenza di verità velata”, sono tutti concetti che Cocteau ci lascia come elementi di una mappa filosofica ed estetica ancora tutta da disegnare. Parole di un’insolita serietà quasi accademica che, anche quando sembrano sbilanciare il ritmo brillante, asciutto e nervoso di questo libro, riescono tuttavia ad offrirci un nuovo ed insolito accesso alla comprensione della parte più intima e vitale della musica.
Zarathustra: Così parlò Carl Gustav Jung
Esce l’immenso commento al libro più conturbante di Nietzsche, nato
in un seminario tenutosi dal 1934 al 1939.
Fu una scelta problematica, ma necessaria: nelle parole del filosofo c’era la diagnosi di una catastrofe
di Romano Màdera (l’Unità, 03.01.2012)
A cinquanta anni dalla morte, la statura di Jung continua a crescere: nel mondo con la pubblicazione del Libro Rosso e in Italia, finalmente, con la traduzione, per Bollati Boringhieri, del primo volume dell’immenso commento a Così parlò Zarathustra, il libro più conturbante e misterioso della filosofia poetante di Nietzsche. L’edizione inglese era apparsa già nel 1988, due volumi per un totale di 1600 pagine! La mole può spaventare, ma è un segno: per Jung non c’è stato un pensatore a lui contemporaneo, neppure Freud, così decisivo.
Per questo in uno dei suoi seminari zurighesi, seguito e incalzato da un gruppo scelto di analisti, di allievi, di amici (ci sono fra gli altri Aniela Jaffé, Marie-Luise von Franz, Olga Frö be-Kaptein, la fondatrice di Eranos, Barbara Hannah, Joseph Henderson, Emma Jung, Erich Neumann...), Jung decide di commentare riga per riga il testo di Nietzsche. Lo deve fare in inglese, che conosce bene ma non è comunque la sua lingua madre, perché il suo è un pubblico internazionale. Si tratta di uno sterminato dialogo, leggendolo si partecipa dal vivo a uno scambio che va dal ricamo di citazioni da testi della storia delle religioni e della filosofia, alle battute di spirito e alle osservazioni di buon senso.
La scelta di commentare Nietzsche è in se stessa, in quel momento storico il seminario si svolse dal maggio del 1934 al febbraio del 1939 fortemente problematica: il nazismo, complice la sorella di Nietzsche, cercava di appropriarsi del filosofo come di un suo precursore, la febbre di una violenza inarrestabile si comincia a percepire in Europa. Ma proprio qui sta l’interesse vitale dell’analisi dello Zarathustra: Nietzsche si presenta come un caso che in se stesso rappresenta un dramma storico, che ha le sue radici negli spasimi di una civiltà che sperimenta il crepuscolo dei suoi dei ed è afferrata dai mostri che non ha saputo affrontare.
Dice Jung, nel seminario dell’8 febbraio del 1939: «Forse sono l’unico che si prende la briga di entrare così nel dettaglio dello Zarathustra fin troppo, qualcuno potrebbe pensare. Così nessuno comprende realmente fino a che punto Nietzsche fosse a contatto con l’inconscio e dunque con il destino dell’Europa in generale». Sarà l’ultimo mese del seminario. La guerra è alle porte. Jung sa di affrontare nell’individuo Nietzsche e nella sua opera, una condensazione esplosiva di un percorso secolare: la civiltà cristiano-borghese, come la chiamerà Karl Löwith, un altro grande commentatore di Nietzsche, è ormai travolta.
La crisi del mito cristiano sentita personalmente sia da Nietzsche che da Jung, entrambi figli di pastori protestanti spinge alla ricerca di un senso diverso della vita e del mondo. Ciò che è stato rimosso o represso l’animalità, gli istinti preme dal basso e travolge i vecchi valori. Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della sregolazione dei sensi, emerge dall’inconscio di un’intera epoca.
LA BESTIA BIONDA
Il Dio del cristianesimo è morto, proclama Nietzsche. Bisogna risolutamente spingersi al di là della legge del bene e del male, trasvalutare i valori fino ad ora ritenuti sacri, capovolgerli. Un’altra umanità si annnuncia: la «bestia bionda», il superuomo della volontà di potenza, che vuole la vita per come essa è, senza sconti, finte pacificazioni, imbellettamenti. Jung capisce di trovarsi di fronte a un gigante del pensiero, ne soppesa il fascino ma non si lascia sedurre. Sa che la pretesa di Nietzsche di scrivere le sue opere con la sua vita e, insieme, al contrario, di voler separare la sua vita dai suoi scritti, è ingannevole.
La psicologia analitica non è riduttiva, non spiega l’opera con la psicopatologia, ma non accetta neppure che il contesto storico-biografico dell’opera venga cancellato. La corrispondenza non è immediata. Il filosofo del sì alla vita in ogni suo aspetto, per tremendo che sia, compensa l’uomo Nietzsche, malato in ogni sua fibra, fisica e psichica, preda dell’esaltazione, scisso dai suoi istinti, incapace di principio di realtà, tragicamente inadatto alla Terra che predicava di venerare. «Egli parlava di dire Sì e visse una vita di No», scriveva Jung. La pazzia che inghiottì gli ultimi dieci anni di vita del filosofo, probabilmente dovuta alle conseguenze della sifilide, era, secondo Jung, da sempre latente: per cancellare le sue debolezze si rifugiò in una specie di eroismo inflazionato, nemico dell’umano.
La sua dottrina voleva essere un sofisticato, e spiritualmente maturo, superamento dell’epoca cristiana e del suo platonismo per le masse, in realtà presagiva le convulsioni di un mondo che sarebbe stato inghiottito dall’acciaio e dal fuoco di due guerre mondiali. Jung capì a fondo che l’annuncio di Nietzsche era solo la diagnosi di una catastrofe: se il Dio muore allora si rimane senza orientamento.
In realtà il senso non può morire, esso rinasce in una nuova forma dall’anima dell’uomo, una nuova figura del divino è necessaria e si rielabora nell’inconscio. Alla morte di Dio nietzscheana, Jung risponde con le immagini del Sé, di una nuova totalità umana che emerge dalla psiche collettiva e inviduale. Alla volontà di potenza Jung riconosce una parte importante, come peraltro aveva già fatto Adler, ma ne vede i rapporti con le altre forze psichiche: con la sessualità indagata da Freud, con la tendenza a trasformare creativamente, come nella sua psicologia. La volontà di potenza è solo una parte della energia psichica.
All’idea dell’eterno ritorno che vuole per sempre ciò che accade, Jung risponde con le indagini sull’inconscio collettivo, comune all’intera specie, con la teoria degli archetipi. Alla celebrazione del superuomo, Jung indica la via della terra, dell’intero della personalità che vive solo integrando, sempre di nuovo, la propria ombra, le parti difficili da accettare del proprio sentire. Solo così esse non si proietteranno sugli altri alimentando la fame infinita di capri espiatori, di annichilimento dei nemici, di guerre a ripetizione. È la teoria del processo di individuazione.
Questi seminari rivelano, a una lettura attenta, un confronto sistematico di Jung con Nietzsche che ne fa una delle pietre miliari della cultura filosofica e psicologica del Novecento: il caso Nietzsche è la storia dell’Occidente colta in una svolta drammatica, ancora in corso.
FINE DELLA VITA COSCIENTE. In un biglietto a Burckhardt, scritto da Torino il 6 gennaio 1889, si lamenta di essere Dio
SOFFERENZA CONTINUA. A causa del tempo atmosferico ma anche del tempo storico nel quale si trovava a vivere
Nietzsche, ultime lettere prima dell’abisso
Esce da Adelphi il volume conclusivo dell’epistolario
di Gianni Vattimo (La Stampa 18.11.11
Una leggenda metropolitana transoceanica racconta che Arnold Schoenberg, incontrando (si dice in un supermercato) Thomas Mann, come lui riparato in America, a Santa Monica, durante la seconda guerra mondiale, gli gridasse furioso: «Ma io non sono sifilitico». Di questa malattia era vittima il protagonista del Doctor Faustus, il romanzo allora pubblicato in cui Mann raccontava la storia della nascita della musica dodecafonica e dunque di Schoenberg. Mann non pensava soltanto a Schoenberg, nel creare il suo romanzo, ma anche a Nietzsche. Che di sifilide era malato davvero, tanto che la pazzia in cui precipitò alla fine, nei giorni drammatici del gennaio 1889, a Torino, fu proprio l’esito fatale di questa infermità.
Ricordiamo queste cose perché l’ultimo volume dell’epistolario nietzschiano, che l’editore Adelphi manda in libreria in questi giorni, raccoglie e traduce per la prima volta integralmente in italiano le lettere del periodo finale della vita cosciente di Nietzsche, culminando con l’ultimo biglietto scritto a Jacob Burckhardt, suo antico collega di Basilea, che manifesta ormai la pazzia conclamata, e in seguito al quale l’altro amico di Basilea, Franz Overbeck, si precipita a Torino per riportarlo in Germania presso la madre. Il biglietto a Burckhardt, datato 6 gennaio 1889, è quello meritatamente famoso in cui egli scrive: «Caro signor professore, alla fin fine avrei preferito essere professore a Basilea piuttosto che essere Dio; ma non ho potuto anteporre il mio comodo privato al compito di creare un mondo».
Già chiaramente pazzo, soprattutto perché questa lettera viene dopo una serie di altre indirizzate ad amici e conoscenti, oltre che a personaggi che non ha mai conosciuto (Carducci, Ruggeri Bonghi), dignitari (il cardinale Mariani) e monarchi (Umberto I re d’Italia), alla casata del Baden, agli illustri polacchi. Firmate «Il Crocifisso», sempre Dio cioè ma stavolta nella sua incarnazione cristiana... Fermarsi a segnalare queste follie è indiscreto e crudele, come sarebbe indiscreto domandarsi lo hanno fatto vari biografi dove e quando Nietzsche si fosse preso la sua malattia, data la sua notoria propensione a una vita quasi monacale fin dai tempi degli studi universitari. Uno dei suoi più vecchi amici, Paul Deussen, che è anche tra i destinatari delle ultime lettere, racconta che negli anni della giovinezza Nietzsche non sembrò mai nutrire interesse sessuale per le donne, tanto che in un libro sul Segreto di Zarathustra, uno studioso ha avanzato anni fa l’ipotesi che il tormento intimo di Nietzsche fosse una mai riconosciuta omosessualità.
La curiosità circa questi aspetti privati della sua vita è legittima e inevitabile per il lettore di queste lettere più ancora che di altri suoi testi: vi si parla infatti di una sofferenza continua che non è solo strettamente fisica ma, noi diremmo, esistenziale. Sembrerebbe che Nietzsche soffra a causa del tempo: atmosferico, anzitutto, perché è sempre alla ricerca di un clima che si confaccia alla sua salute. Ma soffre anche del «tempo» storico in cui si trova a vivere, e in questo la sua vicenda merita davvero di essere raccontata come quella del Doctor Faustus di Mann: è la storia per tanti versi esemplare di un intellettuale che vive profondamente la propria epoca, nella quale (e pensiamo alla sua giovanile Seconda considerazione inattuale, un testo in cui Nietzsche si mostra già ben consapevole dei rischi a cui va incontro la società della incipiente massificazione) sembra trionfare una sorta di rassegnazione alla mediocrità, al sentimentalismo di un cristianesimo imbastardito.
Anche la continua polemica contro Wagner, che era stato un suo idolo giovanile e con cui aveva pensato di produrre una rinascita della cultura tragica, è ispirata alla diffidenza per un’arte, in questo caso l’opera wagneriana, pronta a fornire spettacolo e fantasmagoria (lo dirà più tardi Adorno) per la sensibilità ottusa di una borghesia che è sempre più classe «media» in ogni senso. Già, ma la rivoluzione di cui si sentiva portatore? Nelle lettere ora tradotte ci sono tanti spunti e riferimenti alle opere degli stessi anni, che inizialmente Nietzsche aveva pensato di raccogliere in un unico monumentale Hauptwerk a cui poi rinunciò, e che divennero in seguito Il crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e tanti frammenti rimasti inediti dapprima pubblicati arbitrariamente (dagli eredi) come La volontà di potenza e oggi più giustamente raccolti nei volumi dei frammenti postumi curati da Colli e Montinari.
Le firme che ricorrono di più nelle ultime lettere sono quelle di Dioniso e del Crocifisso. La trasvalutazione di tutti i valori che Nietzsche progettava era forse il sogno di una riconciliazione tra la tradizione cristiana e quella preclassica greca. Un sogno da «professore di greco a Basilea». Ma la sua opera, bene o male, ha anche contribuito a «creare un mondo», che non cessa di suscitare sempre nuove interpretazioni.
IDEE. Dopo le parole del Papa al Giovedì santo, un excursus sulla critica dei pensatori cristiani all’autore di «Così parlo Zarathustra»
Dioniso contro il Crocifisso
I più severi furono il teologo De Lubac e il filosofo Maritain, che videro nel pensatore tedesco incarnato il dramma dell’umanesimo ateo
Più aperto e dialettico il fondatore del personalismo Mounier, pronto ad accettare le domande inquietanti poste al cristianesimo. Sulla sua scia Marcel
DI ROBERTO RIGHETTO (Avvenire, 14.04.2009).
L a disputa fra Dioniso e il Crocifisso ha contraddistinto la storia del pensiero del secolo scorso, segnato così profondamente da Nietzsche e Heidegger.
Giustamente le parole di papa Ratzinger del Giovedì santo hanno fatto discutere, ma come i pensatori cristiani durante il ’ 900 si sono confrontati con l’ateismo del filosofo autore di Così parlo Zarathustra? Quel Nietzsche che ha decretato la morte della metafisica in nome però di un delirio d’onnipotenza ancora più profondo; quel Nietzsche che si esalta autodefinendosi « il nuovo destino » o scrivendo: « Solo a partire da me ci sono di nuovo speranze » ( Ecce homo); quel Nietzsche che vede se stesso « assiso al letto di morte del cristianesimo», affascinato da questo spettacolo « che è riservato ai prossimi due secoli d’Europa » ( Aurora) e che può soddisfatto proclamare: « Cosa sono mai ancora queste chiese, se non le tombe, i monumenti funebri di Dio? » ( La gaia scienza); quel Nietzsche, infine, la cui « dottrina dell’assenza della compassione del superuomo » è sensibilmente contraddetta dalla sua biografia: come pochi altri egli dovette ricorrere alla pietà nei confronti del prossimo.
La critica cattolica al filosofo tedesco comincia con lo scrittore Giovanni Papini, che accusa il superuomo di Nietzsche di volersi sostituire all’umanità di Gesù, ma finendo per proclamare il declino e la morte dell’uomo stesso. Più profonda la riflessione operata da Emmanuel Mounier: per il fondatore del personalismo la sfida che Nietzsche porta al cristianesimo è essenziale ed egli si rammarica che i cristiani non la prendano sul serio. Nietzsche penetra come nessun altro all’interno della crisi della civiltà occidentale e dell’humus cristiano che l’ha permeata, rivela crudelmente ai credenti la loro infedeltà all’annuncio evangelico, la loro incapacità di vivere una fede vigorosa e piena. Mounier vede Nietzsche come un visionario incompreso: solo un cristianesimo all’altezza delle inquietanti domande nicciane può risolvere, o meglio « dissolvere, trasfigurare nella fede vissuta l’angoscia terribile posta da Zarathustra nel cuore della coscienza contemporanea » ( L’affrontement chrétien, 1945).
Anche per l’esistenzialista cristiano Gabriel Marcel la morte di Dio è un punto di partenza, « qualcosa come un trampolino per un balzo prodigioso, per uno slancio creatore » ( L’homme problématique, 1955). Il Dio di cui Nietzsche ha sancito la morte è il Dio primo motore, il Dio della tradizione aristotelica: di ciò, dice Marcel, non si può che essere felici e trarre la conseguenza che il rapporto fra l’uomo e Dio deve passare da un legame formale e puramente causale a una relazione di libertà. L’opera di Nietzsche, la sua malattia è il simbolo dell’inquietudine lacerante del nostro tempo e rinvia all’immagine spezzata dell’uomo moderno. La proclamazione della morte di Dio non è altro che il segno della « tendenza dell’uomo a glorificare se stesso partendo dalle realizzazioni della tecnica » . Nietzsche fallisce il suo disegno di superare il nichilismo del pensiero moderno e il suo appello al superuomo non fa che aggravare la crisi.
Anche per Jacques Maritain, che a Nietzsche dedicò meno attenzione rispetto a Mounier e Marcel, il filosofo tedesco ha contribuito a svelare « la religiosità senza fede della ragione hegeliana » ( La philosophie morale, 1960). Altri cristiani si sono fatti interrogare dal visionario di Sils- Maria arrivando a conclusioni di più aperta condanna. È il caso del teologo Henri de Lubac: Nietzsche non ha solo dissolto il Dio della metafisica, ma ha portato un attacco frontale al Dio cristiano. Egli va considerato un nemico del cristianesimo e purtroppo « continua a drenare a sé anime nobili, a volte anche anime cristiane il cui accecamento fa fremere » ( Il dramma dell’umanesimo ateo). Per De Lubac Nietzsche propugna il neopaganesimo, che è la vera malattia spirituale del nostro tempo. La sua confutazione di Dio precipita l’umanità nella barbarie e De Lubac ne vede la prova nell’avvento del nazismo che immerge l’Europa nella notte più sicura. Il teologo è allarmato perché il pensiero di Nietzsche non solo sfida il cristianesimo, ma lo corrode dall’interno. Lo stesso Marcel d’altronde, nell’ultima fase del suo pensiero, studierà insieme Nietzsche e Heidegger giungendo a respingerli entrambi e leggendo il loro itinerario come emblematico, della deriva di tutta una civiltà ( si vedano i Cahiers pubblicati postumi nel ’ 79). Anche il pensatore russo Vladimir Solov’ev, noto per un suo scritto sull’Anticristo, ispiratore di Dostoevskij e contemporaneo di Nietzsche ( curiosamente, sono morti ambedue nell’agosto del 1900, a pochi giorni di distanza l’uno dell’altro), dipingeva già quest’ultimo come il precursore dei nemici del Dio cristiano della fine dei tempi. Come si vede, il pensiero cristiano ha guardato con scrupolosità al filosofo tedesco.
Per venire a tempi più vicini a noi, basti citare il filosofo francese Maurice Clavel, per cui il postmoderno è segnato soprattutto da Heidegger. Ecco il vero avversario del cristianesimo: il ritorno del neopaganesimo, il « conglomerato niccianoheideggeriano » al quale si convertono, fra l’altro, molti marxisti. Non lontane appaiono le riflessioni dell’ultimo Luigi Pareyson, il maggior filosofo italiano dal dopoguerra, che ha immaginato un cristianesimo tragico come alternativa reale al nichilismo consolatorio.
FILOSOFIA E TOTALITARISMO, CATTOLICESIMO. PER LA CRITICA DEL PLATONISMO PER IL POPOLO. In omaggio ai maestri del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud....
UN PLATONE REDIVIVO PER IL FUHRER, IL PASTORE, E IL SUO POPOLO: HEIDEGGER A ’SIRACUSA’ ... Pubblicato, ’Logica e linguaggio’, il corso accademico del 1934 che segna il distacco del filosofo dal nazismo. Una recensione di Armando Torno
Pubblicato il corso accademico del 1934 in cui il filosofo eliminò i riferimenti alla politica
Heidegger, l’uscita di sicurezza
Le lezioni su logica e linguaggio che segnano il distacco dal nazismo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 14.12.2008)
Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger diventa rettore all’Università di Friburgo. Wilhelm von Möllendorf, noto socialdemocratico, appena eletto a quella responsabilità accademica, è costretto dal partito nazista a dimettersi.
La votazione che conferirà l’alta dignità al filosofo, ormai noto in tutto il mondo (Essere e tempo è del 1927), avrà una sola astensione: dei 93 professori, 13 furono esclusi perché ebrei; dei restanti parteciparono in 56. Heidegger sarà tesserato. Il fatto avviene il 3 maggio, ma con una retrodatazione di due giorni. In suo favore c’è una clausola: sarà esonerato dal partecipare alle attività di militanza del partito nazista.
Inizia così quell’impegno che durerà tutto il 1933 e una parte del 1934. Terrà, tra l’altro, il 30 giugno la conferenza L’università nel nuovo Reich, subito seguita da un incontro con Karl Jaspers. Il vecchio amico scriverà nella sua Autobiografia filosofica: «Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna fiducia in lui, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella potenza, di cui ora Heidegger faceva parte».
Durante l’estate il neorettore entra in contatto con Carl Schmitt, allora giurista di riferimento del Terzo Reich; in ottobre si rivolge agli studenti esaltando il Führer, mentre l’atteggiamento verso le disposizioni razziali non è monolitico: aiuta il suo assistente Werner Brock, redige però un parere su un docente di Gottinga scrivendo che «ebbe relazioni assai vivaci con l’ebreo Fränkel». Infine, tra le molte cose di quell’anno, l’11 novembre a Lipsia, in occasione del «Proclama della Scienza tedesca per Adolf Hitler», Heidegger pone il suo pensiero al servizio del Führer.
Poi accade qualcosa. Tra i colleghi di Friburgo si fa largo un’opposizione prima strisciante e poi evidente; Ernst Krieck, che vorrebbe diventare l’ideologo di punta del nazismo, lo attacca con un articolo. Il suo rettorato dura dieci mesi; quindi, tra il maggio e il giugno del 1934, Heidegger si allontana dalla politica militante e il corso annunciato per il semestre estivo, Lo Stato e la scienza, decide di non tenerlo, anche se erano già stati fissati giorni e orari: martedì e giovedì, 17-18. Nel primo incontro, di fronte a un’aula gremita nella quale spiccavano le hitleriane camicie brune, egli dichiarò di aver mutato idea e che quelle lezioni le avrebbe dedicate a un nuovo argomento: Logica come problema dell’essenza del linguaggio.
Bene: ora quel corso, con il titolo Logica e linguaggio, vede la luce nella prima traduzione italiana, a cura di Ugo Ugazio (Christian Marinotti Edizioni, pp. 256, e 23). I riferimenti espliciti alla politica vengono abbandonati; Heidegger propone un percorso intensissimo che comincia con una serie di precisazioni su struttura, origine, significato e «necessario turbamento» della logica.
Il filosofo sembra quasi che voglia ripensare le sue idee, senza mai perdere di vista gli adorati greci; sovente offre prospettive di grande effetto e di notevole attualità, come quando si chiede che cosa sia la logica. Tra le risposte che scrive: «Non è mai una sterile polverosa disciplina scolastica»; o ancora: «Logica è per noi invece il nome dato ad un compito, al compito di preparare la prossima generazione perché sia di nuovo una generazione costruita sul sapere, tale cioè che sappia e voglia sapere, tale che sia davvero in condizione di sapere. Per questo compito non occorre la scienza».
Ma quanto abbiamo citato è un cenno di un discorso infinito. Il curatore dell’edizione tedesca, Günter Seubold, nella nota posta in calce al testo, ricorda lo straordinario interesse di queste lezioni giacché presentano in modo comprensibile una problematica attuale: le cattedre di logica sono tenute dai matematici che trattano dei loro problemi, cioè di cose scientifiche, e da filosofi di professione che in genere si limitano a corsi introduttivi per lo studio di base.
Per Heidegger la logica «è tutt’altro che indisciplinata chiacchiera proposta come visione del mondo, ma è sobrio lavoro congiunto allo stimolo genuino e al bisogno essenziale». Non a caso due capitoli di queste lezioni sono dedicati alle domande sull’essenza dell’uomo e sull’essenza della storia. Qua e là si leggono dei periodi su cui val la pena riflettere: «Sebbene un popolo faccia la sua storia, questa storia non è certo il prodotto del popolo; per parte sua, il popolo è fatto dalla storia»; e ancora: «Il linguaggio è mezzo capace di formare e conservare il mondo ». La logica diventa il bisturi che Heidegger utilizza in queste lezioni per entrare nel corpo del sapere e per eliminare i mali incontrati.
Il lettore segue il lavoro del filosofo attraverso dense riflessioni sul tempo oltre che sul linguaggio (quest’ultimo, scrive Ugazio nella sua preziosa nota all’edizione italiana, «è esso stesso il mondo in cui avviene la comunicazione»). Le pagine si chiudono trattando «la poesia come linguaggio originario».
L’editore Marinotti, che nel 2007 aveva pubblicato di Heidegger l’Avviamento alla filosofia, ha reso un notevole servizio ai chiarimenti in corso. Li ricorda lo stesso Günter Seubold, dopo aver sottolineato il ruolo di pietra miliare di queste lezioni del 1934, che segnano il passaggio dalla fase ontologica fondamentale a quella della storia dell’essere: «Sono importanti per una sufficiente comprensione della situazione di Heidegger all’Università subito dopo l’abbandono della carica di rettore. Molto di quello che è stato scritto troppo in fretta sull’impegno nazionalsocialista di Heidegger dovrà essere rivisto e sottoposto ad una nuova interpretazione in base a queste lezioni». Insomma, esse aiutano a capire cosa cambiava in lui e in quali scenari si collocherà il suo pensiero. Dopo un anno di nazismo militante.
In libreria
Gli interrogativi teologici e le polemiche di Farias
In Italia ci sono circa 300 titoli «di e su» Heidegger. Ricordiamo tra gli ultimi, edito da Marinotti, Jean Beaufret, In cammino con Heidegger (pp. 204, e 18). Giancarla Sola ha scritto per il melangolo Heidegger e la pedagogia (pp. 198, e 16).
Le implicazioni teologiche: curato da A. Molinaro, Heidegger e San Paolo, (Urbaniana University Press, pp. 160, e 14) e di Duilio Albarello La libertà e l’evento. Percorsi di teologia filosofica dopo Heidegger (Glossa, pp. 328, e 28).
Sossio Giametta dedica un ampio saggio ad Heidegger nel volume I pazzi di Dio (La città del sole, pp. 664, e 36), mentre di Bernhard Casper c’è l’importante Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento (Morcelliana, pp. 176, e 12,50). Victor Farias ne L’eredità di Heidegger (Medusa, pp. 230, 14,80) radicalizza la vecchia tesi: fra il nazismo e il filosofo ci fu molto di più di occasionali convergenze (Ar.To.).
Un convegno a Vercelli indaga l’eredità lasciata dalla tragedia classica nel mondo globalizzato
Il senso tragico tra estetica e religione
di EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 10.10.2008)
Luogo principe dell’incontro tra estetico e religioso, il tragico costituisce uno dei punti nodali della riflessione filosofica contemporanea, dalla Na- scita della tragedia nietzscheana in giù. Già confluenza tra la rappresentazione della percezione tragica della realtà e il religioso nella tragedia greca, nel passaggio dall’antichità alla cristianità il tragico è stato a un tempo negato e risolto con la promessa della salvezza. Eppure, non smette di interrogare l’uomo, anche contemporaneo. A indagare su «Tragico, estetico, religioso » sarà oggi il convegno che si terrà a Vercelli presso l’Università del Piemonte orientale ( Cripta di Sant’Andrea, ore 9.30), con le relazioni di Livio Bottani su « Il tragico e la disumanizzazione » , Sergio Givone su « La radice estetico- religiosa del tragico » e Gianluca Garelli su « Il tragico e l’umanesimo » e con una tavola rotonda tra Claudio Ciancio, Mario Costa, Ugo Perone, Maurizio Pagano, Fabio Galandini, Oswald Schwemmer e Federico Vercellone.
« Il tragico - spiega Bottani, organizzatore dell’incontro nel quale presenterà il suo Il tragico e la filosofia ( Mercurio, pagine 576, euro 36,00) -, almeno come idea inerente a un simbolico di tipo generale, non fu mai moneta corrente, né lo è oggi. Eppure manifesta particolare prossimità sia con l’elemento estetico sia con l’elemento religioso. Ciò vale, certamente, nel caso della tragedia antica, nella quale, con grande evidenza, l’estetico si era intrecciato strettamente al religioso. D’altronde, sul fatto che la rappresentazione drammatica delle gesta di eroi tragici abbia origini religiose non dovrebbero sussistere dubbi: come sottolinea René Girard, la tragedia classica ha avuto origine nel fondamento stesso di quello che per lui è propriamente il religioso, ossia il sacro, vale a dire nel meccanismo della vittima sacrificale, del capro espiatorio ». A spezzare questo meccanismo, per Girard, è intervenuto il paradosso cristiano, il Dio incarnato che non si piega alla colpevolizzazione e fa deflagrare la propria innocenza: ma, se come evento estetico- religioso la tragedia è morta, sopravvive ancora come consapevolezza di quella cesura originaria della condizione umana che è il sapere la morte, senza saperne il senso; dimensione ineliminabile dell’umano, anche nel presente lacerato dagli esiti della globalizzazione culturale e della mondializzazione economica.
Il Centro 25.08.2008
Iniziativa all’Aquila di Padre Quirino
Messa per Nietzsche, il vescovo è d’accordo
Molinari: ma evitiamo di beatificarlo
In pochi alla celebrazione a San Bernardino
di Giampiero Giancarli
L’AQUILA. L’idea di celebrare una messa in ricordo del filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche, clamorosa sotto il profilo culturale, non ha riscosso l’interesse dei fedeli. Non più di trenta persone, infatti, hanno partecipato alla funzione officiata da padre Quirino Salomone, nella basilica di San Bernardino. Il vescovo Molinari è d’accordo sull’iniziativa: ma evitiamo di beatificare il filosofo.
Anzi, a dire il vero, sembrava che dopo l’uscita dal luogo di culto della gente che aveva partecipato della precedente messa, la basilica fosse destinata a restare deserta ma poi, alla spicciolata, sono arrivati alcuni fedeli che hanno assistito alla funzione religiosa. L’orario delle 19,30, del resto, non era certo quello più adatto per attendersi una gran folla nella grande basilica bernardinana.
Tra i presenti anche persone che nulla sapevano del pur famoso filosofo tedesco, morto nel 1900, e ancora meno del clamore suscitato dall’iniziativa di padre Salomone. E qualcuno, forse, è rimasto inizialmente spaesato dalla lunga e appassionata omelia del sacedote, in parte intrisa di contenuti filosofici di spessore, ma poi tutti sono stati coinvolti dalle indubbie facoltà oratorie di padre Quirino.
«Se questo filosofo con le sue opere è stato un male per la Chiesa», ha detto padre Quirino «io invoco la pietà di Cristo anche per lui». E questo, come ha tenuto a precisare il frate francescano, rientra perfettamente nel messaggio del Perdono celestiniano.
«Il Padre», ha aggiunto inoltre il rettore della basilica, «ama tutti i suoi figli e ha una particolare predilezione per chi si allontana da lui e quindi per chi ne ha più bisogno. Questa è una provocazione per risvegliare la fede. Non dimentichiano che i martiri non hanno mai maledetto i loro carnefici, semmai ne hanno chiesto al Padre la salvezza. Dobbiamo ricordarci che nessuno è mai escluso dalal misericordia di Dio». Sull’iniziativa di una messa in onore del filosofo si registra anche una presa di posizione dell’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari. «C’è una discussione sull’ateismo di questo filosofo, e alcune pagine delle sue opere sembrano contrarie alla religione cattolica» ha commentato il prelato «ma sono stati molti coloro che hanno visto del positivo in queste dissertazioni. La sua avversione non è nei confronti di Dio e della Bibbia ma contro alcune forme di religione che non sono autentiche. Questo deriva da esperienze personali difficili».
«In fondo» prosegue «la Chiesa non deve fare altro che predicare la misericordia divina. Anche Giuda, qualora si fose pentito, sarebbe stato perdonato. Nessuno, per il Signore, è perduto. Pregare per una persona che ha avuto tanti legami con questa città è sempre giusto specie se ha sbagliato. L’importante è non strumentalizzare il messaggio evitando il rischio di una “beatificazione” del filosofo in questione. Conosco bene il professor Arturo Conte e sono certo che non volesse dire nulla di contrario alla fede».
Padre Quirino, infine, non ha escluso in futuro un convegno su queste tematiche.
Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo
Jaspers di fronte al dio di Nietzsche
L’autore di "Così parlò Zaratustra" svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un vuoto che nessuno saprà come riempire
di Sergio Givone (la Repubblica, 01.08.08)
Tramonta l’idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sarà un’apparizione grandiosa. Ma non è la dottrina dell’eterno ritorno o l’idea del superuomo a spiegare il caso-Nietzsche. I concetti che caratterizzano il suo pensiero sono per lo più iperboli filosofiche. Possono voler dire tutto, ma in realtà non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguità e contraddizioni l’opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un vuoto che nessuno saprà come riempire.
È quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pagg. 141, euro 14). Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo è la nostra provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di ciò che ne resta e di ciò che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario. E affermare, per esempio: la verità è una sola, quella della scienza, dunque la fede non ha più ragion d’essere. Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l’autentico anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente «scrollarselo di dosso».
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a Ivan Karamazov, «fratello di sangue») Nietzsche ha imparato che la battaglia contro il cristianesimo dev’essere condotta con armi cristiane. Solo chi è intellettualmente onesto può permettersi di dichiarare che la fede non è più credibile. Ma è stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel particolare tipo di morale che consiste nel volere la verità a tutti i costi.
La verità incondizionata, assoluta, non una parvenza di verità, e tanto meno una verità buona a consolare ma non a convincere. In un’ottica cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, così premurosi e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la verità su di lui. Per un verso Nietzsche usa i toni più duri e sprezzanti: «A chi oggi mi risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c’è un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto». Per l’altro parla di una tensione spirituale la cui origine è cristiana: «Anche noi che oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco dall’incendio scatenato da una fede millenaria». Con Goethe Nietzsche ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel cristianesimo che costringe l’uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia più grande di qualsiasi tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La risposta di Nietzsche è netta, inequivocabile: non resta più niente. O se si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui vastità non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i più, che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente è possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato con sé. Tra di essi c’è per l’appunto la dottrina dell’eterno ritorno e l’idea del superuomo. Ma c’è anche la sostituzione del dio cristiano con Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d’un certo eroismo sublime, che dice sì alla vita così com’è, col suo carico di gioia e di sofferenza e indifferente al bene e al male. Cui segue però da parte di Nietzsche la confessione: «Sono l’opposto d’una natura eroica», immediatamente affiancata dal riconoscimento d’una certa affinità con Gesù, il mite predicatore delle beatitudini. Fino all’identificazione con la più improbabile delle divinità: Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando il mondo si sarà liberato dal cristianesimo. Per sé egli riserva la parte della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non è lui il primo a sapere che la stella da cui viene un’ultima luce sul mondo è una stella ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed è che Nietzsche lancia «un grido micidiale» a coloro che si lasciano sedurre da lui e pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi cristiani: «A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia sapienza! Cavagli gli occhi!»
Torna il classico «Condotta di vita»
L’ombra di Emerson influenzò Nietzsche
di Paola Capriolo (Corriere della Sera, 09.09.2008)
Non più tradotta in Italia dal 1923 e ora riproposta in una nuova edizione a cura di Beniamino Soressi (Rubbettino, pp. 310, e 24), Condotta di vita di Ralph Waldo Emerson occupa una posizione di particolare rilievo non solo nella bibliografia del suo autore, ma nella storia del pensiero: quest’opera pubblicata nel 1860 dal padre del trascendentalismo americano ebbe infatti la ventura di capitare tra le mani di un diciassettenne tedesco di nome Friedrich Nietzsche e di esercitare un notevole influsso sulle sue prime speculazioni filosofiche. Influsso che, secondo Soressi, rimarrebbe determinante anche per il Nietzsche maturo, le cui teorie troverebbero nelle pagine di Emerson anticipazioni significative.
In effetti, le affinità saltano agli occhi: nei saggi scintillanti di humour e vibranti di accensioni poetiche che compongono Condotta di vita non è difficile veder prefigurate molte tra le idee più caratteristiche del grande filosofo di Sils Maria, da quell’eroico amor fati di cui egli avrebbe fatto anni dopo la sua divisa, alla dottrina del superuomo («Questi milioni li chiamiamo uomini, ma non lo sono ancora. Interrato per metà, scalpitando per esser libero, l’uomo ha bisogno di tutta la musica che si può portargli per estrarlo»), sino al disprezzo delle masse o alla diffidenza per la compassione intesa come forza frenante e ostacolo allo sviluppo. Ma soprattutto, ad accomunarli è la tesi fondamentale che la vita sia «una ricerca della potenza», e che la legge di questa potenza consista nel tendere al proprio infinito accrescimento.
Sarà perché dalle due sponde dell’Atlantico entrambi descrivono lo stesso mondo, quello della tecnica, della modernità giunta al suo pieno dispiegamento, della rivoluzione industriale che proprio allora andava incontro a una vertiginosa accelerazione; ed entrambi possono essere considerati come interpreti, cantori, «giustificatori» filosofici di questo mondo. Nietzsche in modo più sottile e costantemente venato di ambiguità regressive; Emerson con una rude schiettezza tutta americana, come dimostra la sua esaltazione quasi candida della ricchezza, della corsa al profitto, di quella razza di uomini «arditi e duri», traboccanti di un sovrappiù di energie, che hanno «teste piene di martelli a vapore, pulegge, manovelle e ruote dentate» e grazie ai quali «ogni cosa inizia a risplendere di valori».
Qui però le analogie finiscono per lasciare il posto alla più abissale differenza, perché Emerson, pur proclamando che la potenza «non si veste di satin» e tende a calpestare con libertà selvaggia tutti i nostri pregiudizi di uomini civilizzati, non ha il minimo dubbio che essa finirà col trovarsi «in armonia con le leggi morali ». Ai suoi occhi di strenuo conciliatore il male stesso è semplicemente «il bene nel suo farsi», e nonostante ogni apparenza contraria «l’ordine e la sincerità dell’Universo sono assicurati da Dio, che delega la sua divinità ad ogni particella ». Insomma, Emerson è uno degli ultimi e a tratti dei più ingenui epigoni di quella visione risalente a Platone secondo la quale l’universo si dice cosmos e non acosmía, ordine e non caos, mentre l’importanza cruciale di Nietzsche nella storia del pensiero sta precisamente nell’aver respinto con determinazione tale antichissimo presupposto.
Da questa antitesi essenziale discendono tutte le altre, compresa l’opposta collocazione politica dei due pensatori: «reazionario » Nietzsche, decisamente progressista Ralph Waldo Emerson, tanto da battersi contro la schiavitù schierandosi al fianco degli abolizionisti e da venir considerato dalla posterità come «il filosofo della democrazia». Se il primo ci inquieta, dalla lettura del secondo si esce, almeno nelle sue intenzioni, profondamente rassicurati, e se l’uno parlerà sempre al cuore di tutti gli apocalittici, dall’altro trarranno conforto quanti si ostinano a sperare ancora nell’inevitabile trionfo del bene.
Emerson il poeta salva il «teologo»
Lo scrittore americano dell’Ottocento legge la natura come una manifestazione dell’anima universale E così il punto di vista artistico diventa mistico
di ROBERTO MUSSAPI (Avvenire, 19.06.2010)
«Sono nato poeta. Poeta di terz’ordine, senza dubbio, ma poeta. Questa è la mia natura e la mia vocazione. Il mio canto, non c’è dubbio, è rauco, e per la maggior parte in prosa. Tuttavia sono poeta, nel senso che percepisco e amo le armonie che sono nell’anima e le armonie che sono nella materia e specialmente le corrispondenze tra queste e quelle». Nato a Boston nel 1803, morto nel 1882, Ralph Waldo Emerson è uno dei grandi fondatori della letteratura e del pensiero americani. Il suo saggio fondamentale, Natura, esce nel mitico quinquennio in cui esplode in forma piena la nuova letteratura americana: tra il 1850 e il 1855 vedevano la luce Moby-Dick di Melville, i capolavori di Thoreau, Hawthorne, il mitico Foglie d’erba , grande libro di Walt Whitman che fonda la poesia americana, e appunto i saggi di Ralph Waldo Emerson. Che non solo sono fondamentali come alimento della poesia di Whitman, ma mettono in azione e in scena la poesia come forza motrice dell’universo letterario.
Emerson sa di essere, in senso stretto, poeta di terz’ordine, come i suoi peraltro pochi versi dimostrano. Ma sa di essere poeta in toto, in quanto fonda il suo pensiero sulla poesia come forza simbolica al centro dell’essere. Quando pubblicai un’ampia scelta dei suoi saggi nel 1989 in un Oscar Mondadori (un’edizione mirata a un pubblico vasto), speravo che la centralità della sua esperienza si imponesse nell’elaborazione poetica e in genere culturale italiana. Ciò non avvenne, ma la crescente attenzione alla sua opera sembra dimostrare che bisogna avere pazienza.
Una raccolta di saggi appena uscita, Teologia e natura, a cura di Pier Cesare Bori (traduzione di Massimo Lollini), attesta che Emerson sta entrando nel nostro mondo. L’elemento fondamentale dell’opera di Emerson è la continua attenzione alle relazioni, a ciò che lega tutte le parti della realtà. Per ottenere tale visione profonda, Emerson postulò uno «sguardo obliquo», o «indirezione », consistente nel guardare le cose «con l’angolo meno usato dell’occhio... Non apprendiamo niente esattamente finché non apprendiamo il carattere simbolico della vita». L’aggettivo «trascendentale» coniato da Emerson indica la parola capace di cogliere la natura simbolica della cosa, in tal modo riunificandola ulteriormente all’anima di cui la cosa è simbolo.
Splendida la metafora della vita come «un cerchio il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo» che pare desunta dall’osservazione del miracoloso crearsi e svanire della forma quando si lancia un sasso in un’acqua ferma. Circolarità, natura come manifestazione dell’anima universale, le due polarità che reggono il mondo, di cui l’interprete eletto è il poeta. Non necessariamente o meglio non esclusivamente il grande poeta, ma l’uomo che osserva la realtà dal punto di vista della poesia. Visione poetica del mondo che è anche visione mistica.
I grandi temi del pensiero, della natura, della storia, del mito, della morale sono rivisitati in un excursus straordinario che - parafrasando l’autore - scorre perennemente davanti alla Sfinge: Platone e Socrate, Buddha e Shakespeare, Coleridge e Swedenborg, i sapienti dell’umanità sfilano davanti alla statua dell’enigma. È un superamento del pensiero filosofico in senso stretto, nel recupero, accanto ai filosofi, del pensiero lontano, orientale e antico, di quell’originario e generante stupore. Ora nello scritto illuminante che accompagna la felice e necessaria scelta di saggi emersoniana, Bori indica addirittura un superamento del pensiero teologico dal quale, come egli dimostra, Emerson in parte sostanziosa discende. Al magistero di quelli che definisce ebrei e greci, intendendo l’Antico e il Nuovo Testamento, Emerson accosta la parola della natura stessa e la lettura di altre grandi religioni.
Non un generoso eclettismo, prosegue Bori, ma uno smarginamento e una discesa verso il fondo del pensiero biblico. Che non è ridimensionato ma come liberato al suo brivido germinale e al suo divenire. Emerson esce dalla teologia grazie all’idea di essere poeta. Un poeta scadente per i suoi versi, un vero poeta perché mette al centro di filosofia e teologia la voce profetica e visionaria che le originarono e ancora le ispirano.
Ralph Waldo Emerson
TEOLOGIA E NATURA
Marietti. Pagine 208. Euro 12 ,00
L’umanesimo “americano” di Ralph Waldo Emerson
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, venerdì 7 settembre 2018)
Quando si usa il termine “umanesimo” si pensa di solito alla grande tradizione europea nata in Italia con Petrarca, Ficino e Pico della Mirandola, continuata con Erasmo e Montaigne, culminata in Francia con Rousseau, in Inghilterra con Samuel Johnson e in Germania con Goethe e Schiller, cioè con i fondamenti filosofico-letterari e morali del romanticismo.
Noi europei continuiamo a sottovalutare, se non ignorare, l’umanesimo americano che nasce nell’Ottocento e ha caratteristiche proprie tuttora operanti nella prima e più grande società democratica dell’Occidente. Alla fonte di questo umanesimo c’è l’opera di Ralph Waldo Emerson (1803-1882), inizialmente ministro della Chiesa unitariana e predicatore, poi conferenziere, saggista e anche poeta.
Il suo seguace Henry David Thoreau ha acquistato una notorietà maggiore del maestro per il radicalismo politico e pratico formulato in scritti come La disobbedienza civile (1849) e Walden o la vita nei boschi (1854).
L’umanesimo di Emerson, che prese il nome di “trascendentalismo”, ovviamente non nasce dal nulla: presuppone quello europeo e classico, quello inglese di Coleridge e Carlyle, influenzati a loro volta da Kant e dall’idealismo tedesco, ma non trascura teologia e mistica, pur ispirandosi alle tendenze pragmatiche e vitalistiche della democrazia americana.
Ora la migliore occasione per chi volesse conoscere Emerson è l’uscita in due volumi dei suoi Saggi, pubblicati dalle edizioni La vita felice a cura di Piero Bertolucci con testo originale a fronte (pagine 548 e 352, euro 29,00). L’individualismo etico e civile americano non si spiega senza la sua origine nel trascendentalismo (che ha coinvolto anche due classici come Melville e Whitman).
Spiega Bertolucci nella sua introduzione che il primo compito educativo dell’intellettuale «si attua secondo Emerson attraverso la scoperta dell’io individuale e il suo potenziamento attraverso l’assunzione della realtà esterna nell’interiorità». La storia si realizza nella biografia di ognuno e nel rapporto dell’individuo con la Natura. «Tutte le cose sono morali», dice Emerson. E poi: «Nessun fatto è sacro per me, nessuno è profano». Due dei suoi saggi fondamentali sono intitolati La fiducia in se stessi e Esperienza. L’io individuale ha la sua radice nell’io universale. Ma senza esperienze personali e dirette non si conoscono la realtà e i suoi limiti.
Jaspers rilegge Nietzsche
DI MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 13.12.2008)
Nel titolo dell’introduzione - La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana - si trova la chiave di lettura dell’agile lavoro che Karl Jaspers dedicò al rapporto tra il filosofo del Superuomo e la religione cristiana. Il testo dell’opera riproduce quello di una conferenza tenuta da Jaspers ad Hannover nel maggio del 1938, esattamente due anni dopo la pubblicazione dell’ampia monografia nietzscheana da lui pubblicata a Berlino, presso l’editore de Gruyter. In questo secondo lavoro, il pensatore di Oldenburg si concentra su quello che molti considerano l’aspetto più caratteristico e significativo del messaggio di Nietzsche, ovvero sull’attacco spietato da lui scagliato nei confronti del cristianesimo.
L’anticristianesimo nietzscheano sarebbe dunque, ad avviso di Jaspers, il frutto avvelenato di una pianta le cui radici affondano comunque nel terreno della tradizione che si richiama al Vangelo: a questo riguardo, non risulta difficile trovare nell’opera di Nietzsche, accanto a espressioni aspre sino alla blasfemia, affermazioni che testimoniano una sorta di rispetto e di ammirazione nei confronti del cristianesimo e persino della Chiesa.
Secondo Jaspers, il rapporto che Nietzsche ebbe con il messaggio cristiano fu decisamente contraddittorio, e ciò viene da lui spiegato nei termini seguenti: « L’ostilità nei confronti del cristianesimo come realtà è in Nietzsche inseparabile dal suo effettivo legame col cristianesimo come istanza » . Secondo Jaspers, il pensiero nietzscheano si muove nell’alveo della tradizione cristiana e « la sua lotta al cristianesimo non significa affatto abbandonarlo, né restaurarlo, né cadere in una civiltà precedente, ma superarlo ulteriormente, e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo » .
A giudizio di Jaspers, il cristianesimo come dottrina e come dogma fu sempre del tutto estraneo a Nietzsche, ma le sue esigenze di moralità e di sincerità gli furono costantemente presenti; egli manifestò impulsi cristiani ( anche nell’anticristianesimo), ma non accettò mai i contenuti del cristianesimo. D’altro canto, non possiamo dimenticare che, in gioventù, il filosofo dell’Anticristo, che abitò a lungo in una canonica, era stato autore di versi come i seguenti: « Tu hai chiamato; / Signore, io m’affretto, / e sto / ai piedi del tuo trono. / Infiammato d’amore / mi colpisce tanto vivamente / e penosamente / la tua vista, fino a penetrarmi il cuore. / Signore, io vengo » .
Karl Japers
NIETZSCHE E IL CRISTIANESIMO
Christian Mariotti Edizioni
Pagine 142, Euro 14.00