Ciò che segue è la QUINTA parte di un piccolo percorso di indagine. Per le prime QUATTRO, si cfr. in nota qui *
FREUD, KANT, E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Se Freud concede talvolta a Kant l’onore di qualche riferimento o citazione, la cosa è più di superficie che di piena condivisione del suo punto di vista critico. Egli ne coglie la vicinanza e la consonanza con il suo progetto, ne segnala il punto di contatto. ma non va oltre e non approfondisce. Nella “Metapsicologia” (1915), nel saggio più lungo intitolato “L’inconscio” (cfr. S. Freud, La teoria psicoanalitica, Boringhieri, Torino 1979, p. 139), Freud cosi scrive: “L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare da un lato, come un’ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e dall’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare”.
Ma subito proseguendo, con un balzo di sorprendente tracotanza, così scrive: “Saremo tuttavia lieti di apprendere che l’opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l’oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno”.
E con toni non diversi, se pure con giusto orgoglio, qualche anno dopo, quando nella prima serie delle lezioni di “Introduzione alla psicoanalisi” (1916-17) parlerà delle tre “grandi mortificazioni” dell’umanità (in astronomia per opera di Copernico e in biologia per opera di Darwin), del suo lavoro egli dice e scrive sicuro di sé: “Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale tende a dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua vita psichica” (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1969).
Che le cose non stiano e non saranno così semplici, lo si vede già pochi anni dopo - e le conseguenze saranno pesanti sul piano di tutto il suo percorso sia personale sia scientifico. Di certo, l’autoanalisi non è finita - e molti sono i problemi ancora aperti. Il problema decisivo, il più importante, è proprio quello posto e affrontato dal padre della rivoluzione copernicana in filosofia, in particolare, dal Kant della “Critica della ragion pratica”, quello del “Tu devi”, della “legge morale dentro di me”. Quando Freud comincia ad affrontare a fondo il problema del Super-Io (“Uber-Ich”), emerge in tutta la sua portata la mancanza di un serrato confronto con Kant. Ostacoli enormi lo tratterranno fino alla fine nell’orizzonte materialistico e positivistico, che pure ha decisamente rotto con coraggio agli inizi del suo lavoro, e gli impediranno di essere più lucido e più coerente con le basi copernicane della sua stessa pratica terapeutica!
In “L’Io e l’Es” (1922), dove la questione del tema “Super-Io (Ideale dell’Io)” comincia ad essere affrontata con forza e la prospettiva è già predeterminata dall’ipotesi avanzata in “Totem e tabù” (1912-13), sono già poste le premesse della incomprensione della lezione del filosofo della interpretazione dei “sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” e del filosofo del “l’uscita dallo stato di minorità”.
Paradossalmente Freud, pur sapendo chiaramente che “quando il tentativo dell’Io di padroneggiare il complesso edipico risulta mal riuscito, l’investimento energetico riferentesi a questo complesso e derivante dall’Es torna all’opera nella formazione reattiva dell’ideale dell’Io” (p.309), resta fermo alla sua ipotesi ( avanzata sul piano storico in Totem e tabù) che religione, morale e sentimenti sociali, “furono in origine una cosa sola. [...] furono acquisiti filogeneticamente a partire dal complesso paterno: la religione e le limitazioni etiche mediante il superamento del complesso edipico vero e proprio, i sentimenti sociali per la necessità di dominare la rivalità residua fra i membri della giovane generazione” (S. Freud, L’Io e l’Es, in “La teoria psicoanalitica”, cit., pp. 327-328) ma, lasciato nella con-fusione il rapporto tra “Ideale dell’io” e “Super-Io”, finisce per cadere nella trappola del ridurre tutto all’uno del “Super-Io” e a impedirsi un’analisi più attenta e critica del discorso di Kant sia sul piano della morale (“che cosa devo fare?”) sia della religione (“che cosa posso sperare?”).
Nel breve saggio “il problema economico del masochismo” (1924), la con-fusione arriva al culmine e nessuna stella brilla più, nemmeno in cielo. E qui, dopo aver riepilogato il discorso su cui ormai si è fatto ‘chiare’ le idee (“il Super-io è infatti il rappresentante dell’Es come pure del mondo esterno ed è sorto in seguito all’introiezione nell’Io dei primi oggetti degli impulsi libidici dell’Es: i due genitori, ma nel frattempo la relazione con tali oggetti è stata desessualizzata, deviata dalle sue dirette mete sessuali”), chiude la partita con Kant: “L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico” (cfr. S. Freud, La teoria psicoanalitica, cit., p.352). Ma il terribile è che la chiude (almeno per ora) anche con il padre Jakob, con Mosè, e con se stesso.
Per Freud non c’è più alcuna distinzione tra Mosè e il Faraone e la Legge di Mosè diventa la “diretta erede” della Legge dell’edipico Faraone!!! Questo chiarisce come non sia affatto né un lapsus né una battuta di spirito assimilare Mussolini a Mosè, come fa nella dedica al Duce sulla copia del “Perché la guerra?”, in cui scrive: “da un vecchio che saluta nel Liberatore l’Eroe della cultura” (1933)!!!
Nel 1932, nella “seconda serie delle lezioni” di “Introduzione della psicoanalisi”, aveva già scritto, con in-credibile superficialità: “Vi ricordo la famosa sentenza di Kant, che nomina, l’uno di seguito all’altro, il cielo stellato e la legge morale entro di noi. Per quanto strano possa sembra questo accostamento - che cosa possono avere a che fare i corpi celesti con il problema se una creatura umana ne ama o ne ammazza un’altra? - esso sfiora tuttavia una grande verità psicologica. Lo stesso padre (l’istanza parentale) che ha dato al bambino la vita e lo ha protetto dai suoi pericoli, gli ha anche insegnato che cosa gli è lecito fare e da che cosa si deve astenere, lo ha istruito ad accettare determinate limitazioni dei suoi desideri pulsionali, gli ha fatto capire che, se vuol diventare un membro tollerato e ben accetto della cerchia familiare e più tardi di associazioni più ampie, deve corrispondere all’attesa dei genitori e dei fratelli che vogliono essere rispettati. Mediante un sistema di premi dati con amore e di punizioni, il bambino viene educato alla conoscenza dei suoi doveri sociali, gli viene insegnato che la sua sicurezza nella vita dipende dal fatto che i genitori, e poi anche gli altri, lo amino e possono credere nel suo amore per loro. L’uomo introduce in seguito tutti questi rapporti, inalterati nella religione. I divieti e le richieste dei genitori continuano a vivere nel suo intimo sotto forma di coscienza morale, con l’aiuto dello stesso sitema di ricompensa e di punizione, Dio regge il mondo degli uomi, dall’adempimento delle esigenze etiche dipende il grado di punizione e di felicità che è assegnato al singolo, nell’amore verso Dio e nella coscienza di essere da lui amato è fondata quella sicurezza che costituisce l’arma contro i pericoli del mondo esterno e del proprio ambiente umano. Infine, nella preghiera, l’uomo si è assicurato un’influenza diretta sulla volontà divina e quindi una partecipazione all’onnipotenza divina”. E aveva liquidato Kant e il problema, con la ferma convinzione della incrollabilità della sua tesi, che “la Weltanschauung religiosa è determinata dalla situazione tipica dell’infanzia” (op. cit., pp. 538-539).
Come ha fatto con Popper-Linkeus (sempre nel 1932) , così ora con Kant: un saluto, al suo busto marmoreo ai giardini pubblici - là dove i bambini vanno a giocare! Solo alla fine, dopo aver superato mille difficoltà nel tentativo di sciogliere l’enigma di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, dopo aver ammesso di aver nutrito speranze nella protezione della Chiesa cattolica (Avvertenza prima. Vienna, prima del marzo1938) e al contempo riconosciuto che “il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una canna al vento” (Avvertenza seconda. Londra, giugno 1938), e aver messo al mondo con il suo lavoro “una ballerina in equilibrio su una punta di piede”, si rende conto di essere divenuto padre. E, finalmente, riconosce di essere diventato - al di là del complesso edipico - anche un viandante libero sulla stessa strada di Mosè, del padre Jakob e della madre Amalia Nathanson, della moglie Martha, della figlia Anna, di Kant, di Popper-Lynkeus, di Einstein, e di tutti gli altri esseri umani.
Federico La Sala (16.06.2010)
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Nota
3. HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
4. KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
PSICOANALISI ARTE E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899):
IL PROGRAMMA (PERSONALE E POLITICO) DI FREUD DI RIPENSARE L’EDIPO COMPLETO E LA DIFFICOLTA’ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "MOSAICO" PERCORSO ...
"SUL ’VOLTO CORNUTO’ DI MOSÈ". Nel commentare il "Mosè" (1513-1515) di Michelangelo (Roma, San Pietro in Vincoli), Flavio Piero Cuniberto, dati alcuni lodevoli chiarimenti filologici sugli equivoci di una "lunga tradizione figurativa", indotti da problemi di traduzione dall’ebraico al latino, "sul ’volto cornuto’ di Mosè", così conclude: "Ma ancora più incomprensibile è che Sigmund Freud, nel suo ampio saggio sul Mosè di Michelangelo ([1913] in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 2 voll., Boringhieri 1969, vol.1, pp.183-213) concentri tutta la sua radiografica attenzione sulla postura contratta della mano che stringe nervosa le tavole della Legge, fino a sfiorare la barba, e sull’espressione del volto, ignorando completamente il motivo della «facies cornuta»: proprio lui, vittima forse di un lapsus freudiano tra i più perfidi." (Flavio Piero Cuniberto). *
"SAPERE AUDE!" (KANT (1784): IL PROBLEMA DEL RINASCERE E DELL’APRIRE GLI OCCHI DINANZI A "DIO" ("AMORE"). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa regno di Ade, agli inferi (nel mondo dei "sogni"), con Virgilio (e l’Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite/Venere e di #Eros/Cupìdo ma) con lo spirito di Era/Giunone - l’aiuto della Madre, di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso Zeus /Giove - lo spirito del Padre: "Flectere si nequeo Superos", Acheronta movebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "stato di minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", tuttavia, Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ Edipo re, evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’ INFERNO E APRIRE GLI OCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
LONDRA. Sigmund Freud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" è stato pubblicato ad Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
Federico La Sala
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"SUL ’VOLTO CORNUTO’ DI MOSÈ:
(Ringraziando Consuela Ionitoae per la magnifica fotografia)
Michelangelo, Mosé, 1513-1515; Roma, San Pietro in Vincoli.
Così la Vulgata traduce il passo dell’Esodo su Mosé, che scende dal Sinai non sapendo «quod cornuta esset facies sua» («khi qaran ‘or panaw» [Es 34,30], «che il suo volto [emanava] un raggio di luce»); e di qui, dalla Vulgata presa alla lettera, la tradizione figurativa di un Mosé cornuto e anzi «bicornis» (perché in genere gli animali dotati di corna ne hanno due; -> nei commenti).
E’ difficile pensare a una svista da parte di Girolamo, profondo conoscitore dell’ebraico: del resto, l’aggettivo «cornutus» (di cui è misterioso il capovolgimento semantico nel linguaggio popolare) non suggerisce affatto che le «corna» siano due, né esclude che Girolamo fosse consapevole di alludere a un «corno di luce».
In effetti, il testo ebraico usa un termine (*QRN), che può significare «corno» o anche «raggio», tenendo presente che i due significati possono convergere nel senso di un raggio-protuberanza-luminosa: in forma di «corno» luminoso che «cresce» sulla testa di Mosé.
(Tra l’altro, è molto notevole l’affinità tra questo «corno luminoso» e la protuberanza cranica detta usnisa, presente nelle raffigurazioni del Buddha e segno di «illuminazione»: -> nei commenti).
Questa valenza del «corno» come segno fisico di uno stato spirituale «elevato» o illuminato è attestatissima nelle Scritture: nei Salmi ad esempio (Ps 92, 11: «et elevasti sicut unicornis cornu meum», al singolare ovviamente), fino al Cantico di Zaccaria nel primo capitolo di Luca («et erexit cornu salutis nobis» [Lc 1,69]).
Per vie che non è possibile esplorare qui, anche la semantica latina di CORNU (*CRN) risulta non lontana dall’ebraico (*QRN): il «corno» essendo indiscutibilmente «ciò che cresce» sulla testa dell’animale e che nell’animale giovane «spunta» (come si dice dei primi raggi di sole, che «spuntano» a Oriente, o dei «cornini» di una lumaca, o di un germoglio che «spunta» sul ramo di un albero). *CR è la radice, non a caso, della «cr-escita», come anche di «cr-e-o/cr-e-are», nelle lingue neolatine e anche germaniche, dove il tedesco Korn [*KR] è il «grano» o il «chicco di grano» destinato alla crescita; e così il greco *KR, come in KRonos, dio delle messi e dell’abbondanza, come nel «corno dell’abbondanza» o «cornucopia», che è però termine latino.
Tornando allora a San Pietro in Vincoli: Michelangelo si attiene qui alla lunga tradizione figurativa, che ancora Gustave Doré riprenderà, adottando la soluzione «ecumenica» del doppio raggio di luce (-> nei commenti). Tradizione che nella materialità del marmo risulta decisamente letterale o letteralizzata.
Ma ancora più incomprensibile è che Sigmund Freud, nel suo ampio saggio sul Mosé di Michelangelo ([1913] in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 2 voll., Boringhieri 1969, vol.1, pp.183-213) concentri tutta la sua radiografica attenzione sulla postura contratta della mano che stringe nervosa le tavole della Legge, fino a sfiorare la barba, e sull’espressione del volto, ignorando completamente il motivo della «facies cornuta»: proprio lui, vittima forse di un lapsus freudiano tra i più perfidi.
Flavio Piero Cuniberto (Facebook)
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.07.2016)
«Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra.
Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti, successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti, dall’altro.
La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa, permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale, quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera? Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi, II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso.
Sentiamo lo stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre anelli di Lessing per concludere - con una punta di relativismo faticosamente esorcizzato dallo stesso autore - centrando ancora una volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e universale».
La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.
Freud e Binswanger divisi dal demone della metafisica
Psicoanalisi. Introdotto da Jung, Binswanger conobbe Freud nel 1907 e avviò subito con lui un carteggio, che fu preludio di una lunga amicizia
di Andrea Calzolari (il manifesto, 29.05.2016)
Sentii parlare per la prima volta dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger da Luigi Gozzi, membro del Gruppo 63, drammaturgo allora esordiente, poi direttore a Bologna del Teatro delle Moline. Era la fine degli anni sessanta e Gozzi stava elaborando una poetica centrata sul manierismo dell’attore, ispirata, tra l’altro, anche a Tre forme di esistenza mancata, il primo libro di Binswanger, del 1956, tradotto in italiano nel ’64. Dedicato al manierismo, il saggio ne proponeva una accezione assai ricca e complessa, nutrita non solo dall’esperienza clinica ma anche da vaste conoscenze in ambito figurativo e letterario: utilizzava, per esempio, il capolavoro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, del 1948, per dimostrare come la pratiche linguistiche di alcuni manierismi schizofrenici, che affettano caratteristici stereotipi espressivi, si apparentino a antiche tecniche letterarie e retoriche.
Mentre si capisce, dunque, l’analogia tra il manierismo attoriale cui Gozzi si dedicava nel teatro d’avanguardia di quegli anni e la «paranoia critica» surrealista, ancora più interessante è vedere come il risultato delle ricerche di Binswanger fosse un brillante esempio di quella che egli chiamò la Daseinanlyse, tradotta un po’ approssimativamente qui da noi (e in francese) come «analisi esistenziale», vale a dire una indagine che cerca la fondazione delle categorie psichiatriche nella fenomenologia husserliana e nel pensiero di Martin Heidegger.
Una delle conseguenze di questo orientamento, e uno degli aspetti più significativi della Daseinanalyse, stava nello sfumare il confine tra il normale e il patologico, mostrando le radici dei fenomeni studiati dalla psichiatria nell’esistenza umana cosiddetta normale, vale a dire nell’essere-del-mondo dell’Esserci (Dasein) come era stato indagato in Essere e tempo da Heidegger. Poco dopo che Binswanger pubblicò Tre forme , dedicato a Heidegger, questi sconfessò lo psichiatra svizzero - che del resto era sempre stato consapevole del fatto che le sue indagini riguardavano i problemi dell’esistenza e non la domanda sull’esistenza - e liquidò con pochi, sprezzanti giudizi quel Freud che, viceversa, Binswanger avrebbe considerato sempre un maestro.
Figlio e nipote di psichiatri, Binswanger aveva studiato nel Burghölzli di Zurigo, la celebre clinica diretta dal grande psichiatra Eugen Bleuler, dove aveva lavorato con 0Chiunque conosca le affascinanti ma turbolente vicende della nascita e del primo sviluppo della psicoanalisi sa che quasi mai il distacco degli allievi dal padre fondatore si è consumato senza traumi e recriminazioni, e sa come di solito questi si concludessero non solo nell’interruzione di ogni relazione, ma nella reciproca disistima: il rapporto tra Binswanger e Freud costituisce una felice eccezione.
La storia di questa solida e generosa amicizia, che si mantenne nonostante il dissenso intellettuale tra i due, venne descritta dallo psichiatra svizzero in un volumetto del 1956 -Ricordi di Freud (Astrolabio 1971) seguendo la falsariga della sua corrispondenza con Freud, ora integralmente tradotta e curata da Aurelio Molaro in un bel libro: Sigmund Freud-Ludwig Binswanger, Lettere 1908-1938 (Cortina, pp. 316, euro 29,00) di piacevole interesse, benché l’introduzione sia impegnativa e un po’ ridondanti le note, fin troppo erudite.
Sullo sfondo delle vicende della scuola freudiana, si possono seguire le biografie dei due corrispondenti, scoprendo, per esempio, un Freud affettuoso, che nel 1912 pur di visitare Binswanger gravemente ammalato (era stato operato per un tumore) urta la suscettibilità di Jung, che pure considera il suo allievo più promettente: come si sa, i primi dissapori con quello che gli era sembrato l’erede destinato a succedergli alla guida del movimento psicoanalitico sarebbero sfociati nella più famosa delle eresie e nella costituzione di un indirizzo di ricerca ancor oggi autonomo e rivale alla teoria e al metodo freudiani.
Se non si consumò una rottura tra Binswanger e Freud, questo dipese non solo dal carattere di entrambi, ma anche dalla apertura della loro intelligenza, nonché da una disponibilità alla speculazione teorica, particolarmente pronunciata nello psichiatra svizzero, attratto fin da giovane dalla filosofia, interesse al quale nemmeno il suo interlocutore era peraltro estraneo.
Le divergenze tra i due, in effetti, non derivano tanto dalla maggiore apertura di Binswanger al pensiero filosofico, da lui fin troppo sottolineata, di contro all’orientamento più scientifico di Freud, quanto a ciò che si rende evidente in una lettera del padre della psicoanalisi, il quale scherzosamente mette in guardia l’allievo dal «demonio» della filosofia, intendendo le speculazioni metafisiche che secondo lui, risolutamente ateo e materialista, possano ostacolare la conoscenza.
Così, quando Binswanger nel 1928 gli fece avere il suo volumetto sul sogno, Freud da una parte si congratulò, ma dall’altra non mancò di criticare la pagina conclusiva in cui Binswanger faceva appello a una metafisica dello spirito che non poteva non condurre all’idea di Dio.Paragonando la religione a una sbronza senza alcol, Freud scriveva di essere sempre stato sobrio, se non astemio: aveva appena pubblicato L’avvenire di un’illusione, ma - diceva - mentre i bevitori di razza gli incutevano rispetto, «solo chi riesce a ubriacarsi con una bevanda analcolica mi è sempre apparso piuttosto ridicolo».
Giudizio che ribadì, seppur temperandolo nei modi, otto anni dopo, quando nel 1936, per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, Binswanger tenne una conferenza, La concezione freudiana dell’uomo alla luce dell’antropologia, che è forse il suo testo più maturo e organico fra quelli dedicati al maestro. In quelle pagine espone i tratti a suo avviso essenziali della dottrina freudiana, centrata sull’idea dell’homo natura, vale a dire dell’uomo in quanto creatura naturale (in opposizione alle altre figure in cui una tradizione millenaria ha di volta in volta identificata l’essenza umana: l’homo coelestis, l’homo universalis e l’homo existentialis).
Se Binswanger non esita a paragonare Freud a Goethe o a Nietzsche, nonché a riconoscere la grandezza rivoluzionaria e il rigore delle sue concezioni, è tuttavia ugualmente deciso nel prenderne le distanze, accusando la psicoanalisi di frantumare la totalità dell’esperienza umana e di ridurne la ricchezza, irrigidendola nella tensione tra pulsioni e illusioni.
Nel ringraziare affettuosamente Binswanger, Freud ribadì le sue posizioni con queste parole destinate a restare famose: «Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono sempre limitato al parterre e al souterrain dell’edificio - Lei sostiene che cambiando il punto di vista si possa vedere anche un piano superiore in cui abitano ospiti distinti come la religione, l’arte e altri ancora. Non è l’unico a pensarlo, è di questo parere la maggior parte degli esemplari civilizzati di homo natura. In tal caso è Lei il conservatore, io il rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, mi permetterei di assegnare a simili individui di alto lignaggio un posto nella mia casupola. Per la religione l’ho già trovato, da quando sono approdato alla categoria di “nevrosi dell’umanità”. Ma probabilmente ci parliamo senza capirci, e il nostro contrasto si appianerà solo fra qualche secolo».
Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa
La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager
Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 09.10.2011)
Rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l’inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l’Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l’Austria.
In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l’Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l’altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest’ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l’acquisto di Maresfeld Garden, l’abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l’ascensore.
L’aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell’elenco che stilò per l’occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.
Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l’ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un’indagine seria riguardo alle cause di quest’inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell’orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D’altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all’epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».
Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all’esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l’intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell’antologia "Best European Fiction 2010", con un’introduzione di Zadie Smith. L’hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.
Nel lager di Terezin, dov’è rinchiusa in un assoluto stato d’infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell’ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell’oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell’infanzia, le tensioni all’interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell’adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale.
C’è l’amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l’ansia martellante di una maternità mai realizzata. C’è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l’obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C’è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l’idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un’unica radice.
La sorella di Freud non è un romanzo "d’ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull’ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all’opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un’occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po’ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.
L’Occidente non è soltanto ateismo e razionalismo
Nel centenario della nascita torna in libreria per Il Mulino un volume del filosofo Augusto Del Noce. Con una postfazione di Cacciari che anticipiamo.
di Massimo Cacciari (Corriere della SerA, 18 giugno 2010)
La novità e l’importanza de Il problema dell’ateismo consistono nell’aver posto al centro della storia della filosofia moderno-contemporanea la posizione (che si fa opzione o postulato) ateistica; questa non è più considerata come il «punto di vista» di questo o quel pensatore, ma come il destino stesso del razionalismo e dell’idealismo europei. Poiché la filosofia è il farsi cosciente del significato di un’epoca, tale suo esito rappresenta perciò la «realtà invadente», «senza precedenti storici» (p. 335) del fenomeno dell’ateismo nel Moderno in tutti i suoi aspetti. La stretta connessione nel libro tra dimensione teoretica e meta-politica, elemento essenziale dell’intera ricerca di Del Noce, si arricchisce qui dell’apporto decisivo della prospettiva propriamente teologica.
Se la filosofia moderna è «segnata» fin dalle sue origini dall’esito ateistico, è evidente come la sua storia debba essere tracciata in connessione stretta con la teologia (p. 75), a differenza di ciò che avviene in quelle «storie» che si muovono dal tacito, e inindagato, presupposto del «progresso» atheos del pensiero occidentale. L’ateismo non potrebbe definirsi, infatti, se non in opposizione a elementi essenziali della tradizione teologica. Per Del Noce ciò non comporta affatto una semplice «sistemazione» storiografica, per quanto originale e «spaesante», il problema dell’ateismo rimane per lui fondamentalmente irrisolto, e cioè permane come aporia immanente allo sviluppo del razionalismo e idealismo moderni fino a quei suoi esiti contemporanei (tra Nietzsche e Heidegger), che potrebbero anche apparire nel più radicale contrasto con le sue premesse.
Un assunto di così straordinario impegno può essere svolto soltanto attraverso una pluralità di approcci, teoretici, teologici, storico-politici, «sincronicamente» e insieme una, direi, vichiana sensibilità per la storia del pensiero, dove la considerazione puntuale dei suoi diversi momenti, nel loro intreccio, sia sempre riportata al comune «destino» di cui appaiono necessaria manifestazione.
Da questo punto di vista, la prima domanda riguarda la differenza essenziale tra l’ateismo moderno e quello antico, ovvero in che termini l’ateismo nella cristianità rappresenti una autentica novitas rispetto alle sue testimonianze grecoromane; su tale base, occorrerà procedere nel distinguere i diversi momenti della storia dell’opzione ateistica, in rapporto alle diverse forme che assumono razionalismo e idealismo moderni, fino al loro apparente dissolversi; infine, si dovranno analizzare proprio tali esiti, esplicitamente ateistici, per coglierne non solo le stridenti differenze, ma come, dal loro stesso interno, riemerga o ri-corra proprio quel problema di Dio, che l’ateismo assoluto o compiuto aveva dichiarato risolto. È a questo punto che si farà maggiormente valere la posizione filosofica e teologica dello stesso Del Noce, e che si renderanno manifesti i presupposti e le ragioni della sua «lotta» al dilagante affermarsi del postulato ateistico (...).
Ma che cosa intendiamo con il termine ateismo? Ne è possibile una definizione in generale, che ne abbracci le diverse epoche? L’ateo è colui che nega l’esistenza di Dio? Ma quale Dio? O ateo è invece chi sostiene che non-è Dio tutto ciò di cui è dimostrabile l’esistenza? In quest’ultimo caso, la posizione atea si avvicinerebbe «pericolosamente» proprio ad un misticismo di impronta neoplatonica.
Forse è possibile, in primissima istanza, e sulla scorta delle indicazioni dello stesso Del Noce, definire ateistica la negazione della possibilità stessa del soprannaturale (p. 356), l’affermazione (che Del Noce ritiene «senza prove») che ogni idea di «trascendenza» determina un’insanabile lacerazione nell’unità dell’Io. Un simile «postulato» sembra precedere e fondare l’ateismo in quanto «certezza» che al termine «Dio» nulla corrisponda di determinato o determinabile. Questa «certezza» si fa strada nella storia della filosofia e nella cultura, nel significato antropologico del termine, europee insieme con la «evidenza» del successo straordinario della comprensione razionale-scientifica della natura.
Da un iniziale agnosticismo è necessario, per Del Noce, che si giunga per questa via ad un ateismo assoluto, e che questo dia vita ad una prassi, ad un agire politico, che si configura per lui come un autentico «stato di guerra» contro Dio.
Ma i passaggi attraverso i quali questo «destino» si dispiega sono essenziali per comprenderne l’intero impianto, poiché essi non segnano momenti che progressivamente si oltrepassano, bensì invece, piuttosto, fattori interni dell’idea stessa di ateismo.