Con Freud, probabilmente, nessuno (né del ‘mondo’ psicoanalitico, né tantomeno del ‘mondo’ filosofico) ha ‘dialogato’ con più libertà di giudizio e onestà intellettuale di Elvio Fachinelli (1928-1989). E, come si sa, “essere giusti con Freud” non è affatto facile!
Fin dall’inizio, egli ha colto con lucidità e precisione il cuore pulsante della “rivoluzione psicoanalitica” e, consapevole di tutta la sua portata epocale, fino alla fine ha fatto di tutto (pur tra totali incomprensioni) per assicurarne la vita.
Grandezza e limiti di Freud: “Su Freud” (a c. di Lamberto Boni, Adelphi, Milano 2012, e. 12, pp. 115) è un’ottima occasione per riconsiderare il percorso di Elvio Fachinelli e rendersi conto del suo lavoro (dal 1966 al 1989) per portare la psicoanalisi fuori dalla claudicanza e dalla cecità dell’orizzonte edipico.
Nel 1966, semplicemente, Fachinelli è già Fachinelli! Per dirla in breve, nella sua lettura di Freud (questo è il titolo del primo saggio, così articolato: Un Conquistador; L’archeologia del banale; Un modello vittoriano; Dickens, l’infanzia; Il frammento goethiano; Un giuramento materialista; Come lo spirito curerà se stesso; Resistenza, inconscio, sesso; L’autoanalisi; Edipo e suo padre; Mosè è un Egizio; Il mito e la civiltà), egli non solo si rende del fatto che “il conflitto di ambivalenza sull’esser ebreo [e povero, fls] che esisteva nel figlio di Jakob” (p. 16), ma anche di come e quanto il nodo edipico non risolto pesi su “i significati nuovi che emergono dal suo lavoro e ai quali non sa dare una definizione precisa” e come tutto, alla fine, possa finire nel vicolo cieco della tendenza alla distruzione, al “ritorno all’inorganico”, tra le braccia del cosiddetto istinto di morte: “La rivelazione di questa tendenza (...) avviene, in Al di là del principio di piacere, del 1920, attraverso il ritrovamento del mito di Eros e di Thanatos in lotta continua e incerta tra loro” (p. 60).
Fachinelli è ben consapevole che “l’ambiguità del mito” non risolve affatto il problema, ma come e con Freud non dispera, e con un colpo d’ala così ‘chiude’ il discorso su “Freud” e così comincia il suo cammino: “Un’indicazione ben tenue e fragile, disarmata; come se fra tante corazze e armature di ferro, egli ci desse un semplice filo da seguire; ma un filo ricorda Platone, che è duttile quanto il ferro è rigido, perché è un filo d’oro” (pp. 60-61).
Il cammino sarà lungo, ma il linguaggio già annuncia la consapevolezza di “Sulla Spiaggia” (cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 13-25). Dal labirinto si può uscire!
Chi pensa (e sono in molti) che il “volo a grande altezza” di Freud, che fece dire a Breuer di guardare “a lui come la gallina il falco” (p. 41), sia in rapporto di opposizione con l’atterraggio di Fachinelli “sulla spiaggia”, credo che sia come uno scienziato aristotelico-tolemaico che viva dopo Copernico e dopo Galilei come dopo Newton, Kant e Einstein, e continui a misurare sul suo “letto di Procuste” le acquisizioni del lavoro di ricerca sia di Freud sia di Fachinelli! Non ha ancora e alcuna consapevolezza, per dirlo con le stesse parole di Fachinelli (1986), del fatto che “ciò che è radicalmente nuovo e diverso nell’esperienza analitica - e che per certi versi è anche arcaico -” è “un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la ‘nobile sofistica’ di Protagora e Socrate”(E. Fachinelli, Su Freud, cit., pp. 80-81).
FREUD E “LA MENTE ESTATICA”.
Nel testo del 1966, semplicemente, Fachinelli ha già conquistato ed evidenzia decisiva consapevolezza e chiarezza critica sull’epocale novità e inaudita portata della “situazione sperimentale escogitata da Freud per la cura dei nevrotici” (p. 43). Quella di Freud non è (come potrebbe apparire a uno sguardo superficiale) solo una geniale “innovazione tecnica” dell’intelligenza astuta della ragione tradizionale.
C’è anche questo, “ma più profondamente” - a ben guardare - c’è ben altro: “se ripercorriamo - scrive Fachinelli - il lento cammino che va dalla suggestione ipnotica alla soggezione vigile, alla concentrazione attiva, vediamo emergere l’oggetto della cura, la nevrosi del catalogo naturalistico, come soggetto uomo, che ha in sé il suo significato e parallelamente, Freud rinuncia a ogni strumento di intervento diretto, apparentemente risolutore, si fa quasi passivo e distante, ascoltatore paziente” (pp. 41-42).
E, ancor di più e meglio precisando, nota e commenta Fachinelli: “La ricerca freudiana è immediatamente antiaristocratica, spoglia di ogni privilegio o superiorità d’orgoglio. Egli tenta di farsi semplice ascoltatore di se stesso, lasciando riaffiorare, come nei suoi nevrotici, la parte calpestata, rifiutata”.
E’ la svolta decisiva: “Letteralmente, Freud - scrive Fachinelli - diventa il paziente di se stesso, con una lucidità che apparirà più tardi, e non senza ragione, persino disumana (“ Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso”). In questo modo si stabilisce uno scambio continuo tra ciò che impara dai suoi malati e ciò che ricava da se stesso”(p.46). L’Interpretazione dei sogni, che esce alla fine del 1899, è il testo fondamentale - prosegue Fachinelli, poco oltre (e si tenga presente che si è nel 1966) - della nuova scienza psicologica e, osiamo dire, della nuova ragione“.
Per Freud, "è finita una sorta di prolungata infanzia, l’indugio di fronte a se stesso” (p.54). Egli ha trovato la sua strada: messosi in gioco, coraggiosamente, e dato il via alla difficile e interminabile trasformazione di sé, si incammina fuori dell’orizzonte teorico del suo tempo: egli non tornerà mai più indietro. Troverà infiniti ostacoli esterni e interni, ma porterà avanti il suo lavoro fino alla fine.
Il viaggio appare interminabile, ma anch’egli - se pure tra e con grandi difficoltà - atterrerà “sulla spiaggia”, a Londra, a Maresfield Gardens. Non proprio come sogna sbarcando, come “un conquistador”, ma sicuramente come un uomo coraggioso, come un ebreo salvato dalle armate del Faraone del XX da quel Mosè che lo ha accompagnato per tutta la vita e che ora egli ha portato con sè anche in Inghilterra, non solo come materia per un libro (da finire - L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1934-1938) nelle casse dei suoi bagagli.
IL VOLO "A GRANDE ALTEZZA" DI FACHINELLI (1984-1988)
In “Psicoanalisi”, testo inedito del 1984 (cfr.: Su Freud, cit.), forte anche delle esperienze fatte all’interno della pratica terapeutica, Fachinelli riprende con chiarezza e determinazione il discorso già fatto nel 1966, e riafferma tutto il valore del metodo di lavoro e di ricerca di Freud: “Promozione piena degli Enfalle, ovvero “metodo delle libere associazioni”; rivelazione attraverso di esso dell’inconscio e dell’infantile; elaborazione della relazione analista-analizzato come rapporto che oltrepassa decisamente quello classico di osservatore-osservato: sono questi alcuni elementi fondamentali di un’esperienza ben distinta, nella quale compaiano e si sviluppano, tra il passato spesso dimenticato o distorto e il presente, concordanze, repliche, riprese".
E’ ciò che potremmo chiamare - precisa Fachinelli - "il nucleo solido o pesante della psicoanalisi, ciò che ha consentito all’esperienza freudiana di essere ripetuta, confermata e contraddetta alÌ’interno di uno specifico dispositivo o setting analitico che, pur nelle variazioni intervenute successivamente, manifesta la costanza e l’uniformità di uno specifico laboratorio scientifico”.
E, chiarito questo punto incontrovertibile, sollecita a prendere atto che “è dentro questo laboratorio che sono intervenuti i progressi più significativi della psicoanalisi”, a uscire dal dogmatismo e dalla minorità, a prendere le distanze da quel “luogo comune piuttosto diffuso, secondo il quale la psicoanalisi comincerebbe e finirebbe con Freud”(p.66), e a fare uso della propria intelligenza e della propria facoltà di giudizio. E invita anche a ben comprendere la natura della diffusione della psicoanalisi nel mondo: quanto è avvenuto dopo Freud “è un tipo di diffusione che ricorda l’espansione di un movimento ideologico, o anche di una religione in senso tradizionale”, non “la diffusione - eventualmente ritardata, ma poi rapida e universale - di una scoperta scientifica in senso stretto” (p. 64).
Per Fachinelli, questa è solo una premessa , ma è la premessa fondamentale: “Vi è dunque uno specifico psicoanalitico strettamente collegato all’instaurarsi di un quadro “sperimentale” determinato. Su questo non sembra esservi disaccordo”. La questione decisiva, a cui sollecita a pensare e che pone all’ordine del giorno, è quella di affrontare “il disaccordo” che esiste e sorge “non appena da questo piano di esperienza ripetibile, individuale-tipica, si passa a un tentativo di comprensione o spiegazione generale dell’esperienza stessa, dei suoi presupposti e delle sue implicazioni. Quando cioè ci si pone il problema del modello o dei modelli che organizzano l’esperienza stessa”(pp.67-68).
Detto diversamente e velocemente: per non diventare del tutto ciechi e zoppi all’interno del laboratorio psicoanalitico, è più che urgente andare avanti, oltre Freud, oltre l’orizzonte scientifico del suo tempo e anche della sua grande capacità di far leva su” modelli diversi (energetico, dinamico-conflittuale, topico), alquanto eterogenei tra loro”, per dare conto “dell’insieme complesso dell’esperienza analitica, evitando di scartarne sezioni importanti e irriducibili all’uno o all’altro di essi” (p.68).
In questa direzione e con questa consapevolezza Fachinelli muove e sollecita a muoversi, non altra: il suo desiderio non viene dalle stelle, ma nasce ed è nato all’interno stesso del laboratorio e, per certi aspetti, è la ripresa della stessa lotta di Freud con se stesso, per salvare la sua “creatura”, la stessa psicoanalisi, (dal quadro teorico e) dall’inesorabile avanzata della pulsione di morte.
Di fronte a “casi clinici” come quello dell’“uomo col magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista” (J.J. Abrahams, edizioni L’erba voglio, 1977), o quello presentato in “La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo” (E. Fachinelli, edizioni L’erba voglio, 1979), o quello presentato in “Claustrofilia. Saggio sull’orologia telepatico in psicoanalisi” (E. Fachinelli, Adelphi , Milano 1983), non si può né chiudere un occhio né chiudere gli occhi; Fachinelli rompe gli indugi e decide di muoversi. Egli sa già dove andare, e già anticipa il suo tema.
Sempre nello stesso testo, “Psicoanalisi” del 1984, così scrive: “Dopo Freud, nell’esito trionfale della psicoanalisi, si è andato via via perdendo il senso di situazioni bloccate, impoverite, su cui Freud e gli psicoanalisti intervengono” e di pari passo è si andato riaffermando - egli ipotizza - il potere di quella cultura in cui “funga o fungesse ciò che è caratteristico di Freud, vale a dire la concezione di una continuità di fondo dello psichico, che ignora il discontinuo e il radicalmente diverso, ignora differenze di livello e il salto o la rottura che esse implicano come è evidente “nell’approccio difficoltoso e appunto nostalgico alle figure piene, mitizzate, del Rinascimento” da parte dello stesso Freud (pp.72-73).
In questo senso, nelle sue esitazioni, “Freud precorre un’epoca in cui l’esperienza estetica svanisce come esperienza distinta, compatta, e soltanto affiora o balena qua e là, in contesti diversi. E ciò che vale per l’esperienza estetica si potrebbe ripetere per altri livelli dell’umano, in primo luogo per un livello immediatamente contiguo a quello estetico, quello che potremmo chiamare livello estatico. Il quale è certamente, nella nostra cultura, ai limiti del tabù e dell’impronunciabile”.
E proseguendo, ben consapevole del suo programma di ricerca, così conclude: “Proprio in queste direzioni si avvertono forse oggi segni di mutamento: ciò che non si poteva toccare o dire comincia forse a farsi via praticata o praticabile. Ed è a questo punto, crediamo, che si fa sempre più chiaro il limite antropologico e storico della psicoanalisi freudiana”(pp.73-74).
“Sulla spiaggia” è il testo del 1985 (“Lettera Internazionale”, n. 6, autunno 1985) con cui Fachinelli ‘ricorda’ a Freud (e a se stesso) i temi della lunga “conversazione conoscitiva” e spicca il suo “volo a grande altezza”. Negli anni successivi continua a lavorare sul tema: nel febbraio del 1989 è stampata e resa pubblica “La mente estatica” (Adelphi, Milano 1989). Un nuovo orizzonte si spalanca, ma le reazioni di psicoanalisti e filosofi sono timidissime e fredde.
Come sapeva e aveva già scritto nel 1984, l’estatico è, nella nostra cultura, ai limiti del tabù e dell’impronunciabile. Gli intellettuali istituzionalizzati (freudiani e non), alla fine prendono le distanze e tacciono. A vent’anni e più dalla sua morte stentano ancora a capire il senso del suo lavoro. Ma il fatto è un fatto e resta (ancora da pensare): il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza e il frutto del lavoro di tutta la sua vita è di grande rilevanza teorica e culturale, in generale.
Contrariamente a quanto sì è ritenuto e detto, Fachinelli non ha mai abbandonato il programma di Freud: pensare non solo se stesso (il medico) come paziente, ma anche l’altro ( il paziente) come medico. Più di tutti, egli ha ben capito la portata radicale del pensare l’altro (anche se stesso!) come soggetto e l’ha fatto proprio da uomo, da psicoanalista, e da pensatore, fin dall’inizio.
Egli non si è mai sganciato dalla pratica clinica e dalla referenza teorica freudiana: anzi, più di tutti, ha difeso e lavorato a illuminare criticamente il “concreto della situazione a due”, per liberarla dalle esitazioni e cecità ereditate dallo stesso Freud, sia dal lato del soggetto-analista sia dal lato soggetto-paziente, non per mandarla in soffitta e andarsene a esplorare i territori dell’immaginario e le potenzialità della suggestione! Nell’aut-aut “Freud o Iung”, egli non ha mai creduto (o ceduto): già nel 1967, nella prefazione al lavoro di E. Glover con l’omonimo titolo, aveva chiarito la sua posizione e non ha mai sognato di proporsi (alla Jung) come “pastore di anime”!
Provare per credere! In “Su Freud”, sono ripresi due testi importanti e fondamentali, scritti dopo la pubblicazione di “La mente estatica”. Un consiglio: per non equivocare (o parlare a ruota libera) sul suo lavoro e sul suo orizzonte teorico ( il primo è del gennaio 1989 ed è intitolato “Freud, Rilke e la caducità”, il secondo è dell’inizio di aprile 1989 ed è intitolato “Il dono dell’imperatore”), vale la pena leggerli e rileggerli con attenzione. Sono stati scritti con i suoi “consiglieri segreti” di sempre: Walter Benjamin (“Angelus Novus”: “Tesi di filosofia della storia”) e Theodor W. Adorno (“Minima moralia”).
Nell’uno la riflessione è ancora e di nuovo sulla pulsione di morte e nell’altro si affronta il tema del potere sulla vita e sulla morte ("questa inquietante istanza centrale di autorità") e dell’analisi dei poveri, in connessione col tema del dono e della gratitudine in Freud, con tutte le sue implicazioni (rispetto al passato e rispetto al futuro non solo della psicoanalisi)!
“Imprevisto e sorpresa in analisi”: alla fine del loro percorso, al di là della morte (l’uno sfuggito alla polizia del “Faraone”, l’altro vittorioso su Oloferne), Fachinelli ritrova Freud e Freud ritrova Fachinelli e, insieme, riprendono la “conversazione conoscitiva” nel loro laboratorio, e la navigazione nel "gran navilio” di Galilei. (Federico La Sala, 04.10.2012)
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
Federico La Sala
di Elvio Fachinelli*
San Lorenzo al mare. Pomeriggio ventoso di settembre, nuvole rapide sfilacciate. Dal limite della spiaggia dove mi trovo, con le spalle verso il paese, il mare è un nastro viola che si arrotola e si srotola senza fine. Sono fermo da più di un’ora, forse. Nel punto in cui ho messo la sdraio, al riparo, non c’è vento, soltanto una folata ogni tanto. Sono scivolato in uno stato di torpore. Invece vorrei essere lucido, attivo, produttivo... Riprendere le idee di questi mesi. Scavare gli appunti, i libri. Scavare l’insoddisfazione. Mi ci vorrebbe qualcosa che vincesse questo stato d’inerzia, qualcosa che facilitasse l’attività intellettuale... Continuo a guardare affascinato il nastro del mare.
Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato. E l’essenziale, ovviamente, è che le armi siano ben fatte, adeguate. Se non sono tali in partenza, bisogna renderle adeguate: con la psicanalisi, appunto. Altrimenti disarcionamento, se non disastro.
Ma se questo è vero bisogna rovesciare la prospettiva, mettersi dall’altro lato (della barricata, mi vien da scrivere: ma usando questa parola, resto nell’àmbito dell’arte militare). Non inibizione, rimozione, negazione, eccetera: i diversi stratagemmi, le difese parziali di un’impostazione difensiva generale. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte.
Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese.
Quest’idea del rovesciamento di prospettiva, necessario, di colpo mi ha svegliato. Sono lucido, ora, attento, pronto. Ma nello stesso tempo quella comunicazione del semisonno, quasi esterna, mi sembra esaurita. La ricerco volontariamente, invano.
Una ragazza ha sognato schifosi scarafaggi che si accoppiano, le salgono sui piedi. Di giorno, è ossessionata dai possibili "nidi" di scarafaggi in casa sua, disinfetta a tutto spiano. "Che ci sia in me una forza sessuale come nelle bestie?". Insomma, una strenua difesa, un lungo battagliare contro qualcosa che non riesce ad accogliere. Alla fine, i suoi impulsi sono stati trasformati in scarafaggi.
Qui, sulla spiaggia, mi succede qualcosa di insolito. Improvvisamente, vedo l’affinità tra ciò che mi è affiorato in un lampo, semplice trovata, pensiero sintetico venuto da un’altra parte, e il processo dell’invenzione - scientifica o non scientifica. Perlomeno in alcuni casi.
È l’improvvisa comparsa di un materiale organizzato, coerente, a partire da frammenti; a partire, spesso, dalla disperazione di riuscire in un compito consapevole.
Dunque non importa l’àmbito della scoperta - scientifica, artistica, d’altro tipo; né la sua ampiezza. Importa quel movimento chiaro, netto - sempre lo stesso? -, che mette a posto, ordina, dà forma, e insieme inonda di gioia e certezza.
Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto e non soltanto dal rapporto con Fliess, che di sicuro viene dopo.
Poi, in Freud e soprattutto nei seguaci, slittamento verso una rinnovata apologia della difesa, tendenziale riduzione del cosiddetto inconscio - di ciò che voleva essere accettato - alle dimensioni delle barriere costruite contro di esso. Con l’esclusione forse di Ferenczi.
Quest’idea dell’accettare e della sua importanza mi è venuta, in forma pura, astratta, nel momento in cui, assonnato, ho accettato e direi quasi ascoltato ciò che mi veniva da non so dove. Se l’avessi cercata, inseguita consapevolmente, l’avrei trovata? Forse. Anche se ne dubito. Ma in ogni caso non ci sarebbe stata questa gioia di risveglio che mi ha preso.
La coscienza come area ristretta, perimetro definito che tende a imporsi come misura di tutto lo psichico, anche in coloro che l’hanno misurato e che ogni giorno sono costretti a osservarne i limiti, le coartazioni. O proprio per questo.
Come scrivere tutto questo? Vento sulla fronte, rombo del mare, luce, torpore, pensiero dell’accettazione, gioia, gioia con senso di gratitudine, verso chi?
L’immagine di un lungo prato di montagna, visto al tramonto dal limitare di un boschetto. Lo riconosco, è della mia infanzia. E mi è stato evocato per la prima volta, giorni fa, ascoltando la «canzone di ringraziamento» di un quartetto di Beethoven.
Necessario silenzio assoluto, solitudine. Come in una camera anecoica, dove si avverte solo il proprio respirare, pulsare.
Le persone che passano sulla spiaggia, vicine o lontane, m’infastidiscono. Anche se gradevoli, interessanti. Introducono immediatamente un’altra logica, la logica del desiderio, del contatto. Limito lo sguardo, allontano i viventi. Nello stesso tempo, mi sento più vivo.
Ora il mare è alternanza di lame di luce. Verità del detto di Ferenczi: non il mare è simbolo della madre, ma la madre del mare.
Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento.
A occhi socchiusi, il mare è sottili lamine d’argento che vibrano obliquamente. Righe di diverso splendore.
Si può variare questo sguardo, che oltrepassa la visione distinta. Prima mare, strisce viola; poi lame, poi righe di luce. A occhi chiusi, fuochi fatui. Riconoscere la necessità, non soltanto l’esistenza, di queste diverse visioni.
Contemporaneamente, io come sguardo che impara non un paesaggio, o più paesaggi, ma se stesso paesaggio. Sguardo-mare.
Accettazione della posizione del corpo, del suo peso, di ogni singola giuntura. Avvengono aggiustamenti lievi, scricchiolii come nel legno di una barca.
Vivere a lungo in questi modi, mi sembra impossibile; probabilmente non auspicabile. Ma necessario imparare a disporne.
Ora desiderio di continuare questi appunti e insieme impazienza di smettere, andar via. Come se avessi già avuto abbastanza, come se mi allontanassi troppo dal resto. Tempo espanso. Non immobile ma come fluttuante in immobilità.
Riprendo. La difesa, spinta fino alla cancellazione vera e propria, è in rapporto con un certo stato di vigilanza, di senso del pericolo. È il privilegio dovuto o concesso alla vigilanza che conferisce un privilegio sovrano alla difesa. Problema dei limiti di tolleranza, oltre i quali la difesa scatta come una tagliola.
Una tagliola che taglia nel vivo. Uccelli, lepri catturate sull’altopiano, quando bambino seguivo i miei parenti cacciatori. Altre immagini di taglio, recisione, strappo. Diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa. Allentamento nel sogno, nel fantasticare, nell’inventare, nell’usare droghe - insomma in quella phantastica umana dove, a tratti, passa un messaggio inatteso.
Il sogno osa generalmente più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui, l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile, nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora.
Ma l’accoglimento non è simmetrico alla difesa. C’è un funzionamento diverso, un’altra logica. L’afasia non procede negli stessi modi della parola intatta - e proprio Freud ne ha trattato. Se l’afasico torna a parlare, la sua parola potrà risultare simile, quasi indistinguibile, rispetto alla parola intatta. Ma non sarà mai questa parola.
Quindi non esiste difesa ’normale’? Esistono altri modi di esistere e creare, che soltanto superficialmente possono essere accostati alla difesa.
Un’analisi basata sistematicamente sullo smantellamento delle difese incontra ad ogni passo quel pericolo che le ha fatte erigere. Da ciò un rinnovato impulso a difendersene. Come un demolire e ricostruire di nuovo, continuamente, dighe, barriere. L’analisi assume allora il senso di una decondizionamento ad infinitum. Interminabilità, eccetera.
E neppure si tratta di saltare oltre le barriere, di sorpresa, o astutamente. In questo modo, ancora una volta, le barriere sono all’orizzonte dell’agire. Piuttosto lasciar affluire, lasciar defluire, immergersi, nuotare nella corrente. I paletti della difesa finiranno, forse, per scendere alla deriva.
Rendere conscio può significare allora soltanto delineare,prima e dopo, il posto occupato dal sistema vigilanza-difesa. Non pretendere di far passare attraverso di esso ciò che non gli appartiene. Progetto infantile: svuotare il mare con un secchiello. O setacciarnetutta la sabbia. Anche il progetto di Freud - prosciugarel’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee - è infantile.
L’insistenza sulle difese è sempre, implicitamente, insistenza sull’offesa, sulla capacità di offendere. Collegamento del sistema vigilanza-difesa con la più affermata impostazione virile. E allora accogliere: femminile?
Il femminile sarebbe allora nel cuore,il cuore, di molte e diverse esperienze. E anche di questa mia esperienza.
Al momento di diventare sciamani, si dice, gli uomini cambiano sesso. È così posta in rilievo la profondità del mutamento necessario. Il femminile come atteggiamento recettivo non abolisce però il maschile, gli propone un mutamento parallelo.
Il maschile si delinea allora come un paziente, faticoso, a volte quasi cieco operare che precede e segue l’atto creativo. Scegliere, disporre materiali, ispezionare, scrutare, scavare. Seminare. E più tardi raccogliere, sviluppare, trasformare. Alternanza ritmica del maschile e del femminile.
In questa prospettiva, difesa e offesa come distorsione o perversione del maschile. A volte necessaria; sempre secondaria.
In alcuni casi, delirio di difesa. Contro la minaccia del pericolo interno, costruzione di barriere, controbarriere, altre barriere, secondo formule e numeri che finiscono per essere magici. Somma vigilanza, somma inibizione. Dentro il suo castello dalle sette mura, la principessa non riesce più a muoversi.
La coscienza stessa sembra allora far parte per intero del sistema di fortificazioni. Sembra essere uno dei suoi bastioni più forti.
Eppure, a volte, in questo bastione, mentre si stabilisce una zona del tutto opaca, insensibile, altre si fanno straordinariamente chiare e vibranti. Come nella vita di certe antiche dame di corte giapponesi, attente più alla brina della notte che alla vita stessa, come la si intende comunemente. Ma quell’attenzione alla brina è vita, vita di intensità prodigiosa.
Animali che, a poco a poco, vivendo nel buio, diventano ciechi. Ma in quel buio sviluppano altri organi di senso.
Chi può stabilire che cos’è essenziale e non essenziale, importante e non importante? Chi può giurare: questo è il centro, e quella è la periferia?
Il tempo, mi sembra, non passa. Dilatazione e febbre insieme. Un tempo senza centro, vibrante.
Accogliere chi? Un ospite - interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace della prudenza di chi edifica muraglie.
Di nuovo: Cnosso, Festo, le potenze aperte sull’orizzonte marino. E anche qui, importanza del femminile: la dea dei serpenti, a seno nudo; la dea delle colombe. Le danze estatiche di primavera, ritorno della giovane Kore, dea della vegetazione.
Com’è angusta, soffocata, a questo punto, la metafora freudiana del «salotto» separato dall’«anticamera». Triste come la sua casa in Bergasse, con la finestra dello studio rivolta a un muro di cemento. Eppure, anche lì, anche davanti a quel cortile senz’alberi, Freud sapeva che c’era il mare.
Il concetto di difesa definiva all’inizio le difficoltà e le impasses di un comportamento alterato; rapidamente è diventato normativo, capace di stabilire leggi e criteri, anche per il comportamento non alterato. E questo perché si è presupposta implicitamente una continuità tra l’uno e l’altro. L’anormale è diventato, con qualche differenza quantitativa, il normale.
Ecco allora l’impaccio, mai eliminato, di fronte a ciò che si potrebbe chiamare l’ipernormale, il comportamento infrequente, talvolta raro, talvolta persino eccezionale, che però riempie e feconda il comportamento medio, statistico.
Miseria incurabile della teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime sin dal principio. La psicanalisi dichiara: ecco un letterato chiaramente nevrotico; un filosofo ossessivo; un matematico quasi psicotico, un musicista autistico... Ma la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco.
E oltre, il territorio della mistica. Non la religione istituita. Ma la mistica come zona irriducibile, inassimilabile, refrattaria alla religione stessa. Apex mentis. Mistica che è nello stesso tempo rapporto percettivo, percezione possibile ad alcuni, se non comune a tutti. Molte mistiche? evitare i codici che, invariabilmente, da sempre rifiutano o sequestrano questi tipi di esperienze.
Le cose che vengono da un’altra parte: come un accenno imprevisto che muta, che sposta l’intera figura. Da questo punto di vista, limiti ben evidenti della psicanalisi. E limiti ben evidenti dell’antropologia fondata su di essa.
Ora il rombo del mare è un respiro calmo, profondo. Chiudo gli occhi. Non c’è bisogno di vigilare. I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio: diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia.
*
Lettera Internazionale, 2, n. 6, autunno 1985;
E. Fachinelli, La mente estatica, Milano: Adelphi 1989, pp. 13-25.
"LA NAVE"(1905):
[SETTING (PSICOANALITICO) *
Il setting psicoanalitico tra creatività e coazione
di Simona Argientieri *
il setting esplica innumerevoli funzioni. Consente, innanzi tutto, di limitare le irruzioni della realtà esterna, per dare invece spazio alla realtà interna, sia attuale che remota, del paziente. È ancora il setting, grazie alle regole della neutralità e dell’astinenza, a consentire quella condizione “asimmetrica” che fa sì che l’analista immetta nel rapporto solo quei livelli del suo pensiero e delle sue emozioni che possono andare al servizio della cura. Il regime di frustrazione, di ascolto e di rinuncia all’azione, favorisce il processo mentale che dall’ignoto inconscio va verso l’espressione verbale e l’interpretazione, verso la coscienza e la conoscenza. Infine, è il setting ad offrire la possibilità della “messa in scena” del transfert, come regressione, riattivazione, ripetizione delle antiche vicende intrapsichiche irrisolte. Quel transfert, terreno precipuo dell’interpretazione psicoanalitica, che - secondo l’originaria felice definizione Freudiana - è “reviviscenza del passato e fraintendimento del presente” (1914).
Si comprende dunque perché il setting, quale garante delle “regole del gioco” che consentono l’emergere del transfert, venga da molti considerato come una funzione terapeutica specifica. Desidero fareriferimento, in particolare, al contributo di Josè Bleger (1967), il quale considera il setting, in quanto complesso di norme ed atteggiamenti, come una “istituzione”; custode del nucleo fondamentale dell’identità e limite dello schema corporeo ai livelli nei quali vige l’indifferenziazione corpo/spazio e corpo/ ambiente. Il setting, dice, deve servire a ristabilire la simbiosi originaria, ma proprio al fine di modificarla interpretandola. Poiché il setting è il depositario della “parte psicotica” della personalità, cioè della parte indifferenziata e irrisolta dei primitivi vincoli simbiotici, al di fuori di un setting rigoroso si può occultare il transfert psicotico.
La prassi psicoanalitica - osserva ancora Bleger - si fonda su due pilastri: da una parte il processo del lavoro analitico, articolato tramite l’interpretazione, e l’elaborazione, nella dimensione dell’evoluzione e del cambiamento; dall’altra il setting, -“cornice” (“encuadre”) che contiene analista e analizzato - che invece vive nella dimensione della costanza e della permanenza. Il setting è di per sé muto; ci rendiamo conto della sua importanza solo quando si infrange o viene a mancare; ma il setting può essere analizzato solo all’interno del setting stesso. Proprio in quanto virtualmente stabile e al di fuori della processualità, - conclude - diviene il garante della possibilità del cambiamento psichico.
Se è la fedeltà al setting a creare le premesse per la maturazione e per la crescita, si giustifica l’ipotesi di inscriverlo in un più ampiovambito culturale, considerandolo come un rito; non solo nel senso di corpo formale di norme, ma soprattutto, nel senso etno-antropologico di procedura simbolica che conferisce senso all’esperienza.
In ragione della sua importanza basilare, che lo vincola all’identità stessa della psicoanalisi, il setting è esposto a continue insidie da parte delle forze potenti che sempre si oppongono al processo analitico: difese, resistenze - prevalentemente inconsce - che tentano di eludere il cambiamento per la ragione, non banale, che cambiare è doloroso.
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Simona. Argentieri - Il setting psicoanalitico tra creatività e coazione
dal libro "Il setting come cornice. Stabilità, variazione, acting out".
a cura di Ignazio Cannas/Matteo De Simone. NiComp L.E. editore
Sul tema, cfr.
Dizionario Enciclopedico Interregionale di Psicoanalisi dell’IPA,
SETTING (PSICOANALITICO)
Voce Tri-regionale
Federico La Sala
CULTURA
Dentro la relazione dei corpi, tra pratiche e femminismo
di Caterina Venturini (il manifesto, 27 settembre 2023)
In un momento in cui il dibattito pubblico del nostro Paese, seguendo una tensione diffusa in Occidente, si è polarizzato su opinioni dogmatiche inconciliabili, soprattutto per quanto riguarda le grandi questioni etico-politiche conseguenti al non più ovvio legame tra madre, materno e femminile, esce un libro che partendo da posizioni consolidate non teme di interrogarne i nodi problematici, dovuti alle contraddizioni dei corpi, del desiderio e delle nostre identità sessuali sempre in mutamento.
In una parola: è appena uscito un libro eretico, La porta delle madri (Cronopio, pp. 146, euro 13) e lo ha scritto una grande psicoanalista femminista, Manuela Fraire, che potendo contare su due esperienze di vita ugualmente dense e importanti, una lunga militanza nel femminismo a partire dai gruppi di autocoscienza degli anni 70, e una professione analitica ricca di decenni, non ha avuto esitazione a unire questi due sguardi, compresenti e inseparabili, della sua vita. Sguardi che da sempre la interrogano sui limiti di alcune posizioni dell’una e dell’altra parte, un ancora eccessivo binarismo della psicoanalisi e il pericolo della desessualizzazione dei corpi in funzione del genere dell’ultimo femminismo, spingendola a scrivere quello che a tutti gli effetti si rivela un pamphlet di intenso ragionamento che non solo intreccia fili ed esperienze, ma rilegge anche i propri interventi del passato alla luce dell’attuale.
GIÀ IN UN CONTRIBUTO del 98, Fraire si opponeva «alla maternità come naturale e auspicabile meta della femminilità» credendo «che una decostruzione del paradigma materno da parte delle donne giocava in favore della libertà sia femminile che maschile». All’epoca non si parlava ancora di Gpa (Gestazione per altri) ma a una certa parte di femminismo, che pure aveva attraversato teorie e pratiche della differenza sessuale, era già chiaro come la procreazione non dovesse avere necessariamente come esito la maternità, e come la donna dovesse disgiungersi dalla madre.
Cosa resta allora di quell’enigma del materno che non può che cominciare con Freud, che nel 1932 scrisse che il dottor Breuer cinquant’anni prima aveva in mano la chiave della porta delle madri, ma la lasciò cadere, facendo intendere che quella chiave avrebbe voluto prenderla in mano lui, eppure - ci mostra Fraire - quella chiave non aprirà la porta delle madri fino al nostro secolo quando il femminismo da una parte, la psicoanalisi postfreudiana dall’altra e le nuove famiglie poi, schiuderanno nuovi scenari. Tramontata la famiglia edipica di madre-padre-figlio, c’è stata una riorganizzazione dei ruoli ancora in atto in cui prevalgono come elementi di novità, famiglie monogenitoriali o con due persone dello stesso sesso o in transizione, o che non hanno scelto nessuno dei due. Di questa genitorialità non binaria, non identificata né con un materno né con un paterno, ha senso occuparsi oggi per farsi domande che superino la questione di genere e tornino a occuparsi dei corpi (tutti) dal punto di vista di un sessuale che viene prima di qualsiasi attribuzione.
Tanto più che risulta ormai chiaro che la pulsione dell’infans proviene dalle fantasie che l’adulto (uomo o donna che sia) immette inconsapevolmente nelle cure primarie: fantasie non più asessuali, come voleva Freud ma che contengono la storia sessuale che l’adulto porta con sé (Laplance).
E allora dov’è la differenza tra madri e padri dal momento che chi viene al mondo riconosce molto presto voci diverse e non è solo in simbiosi con la madre? Piera Aulagnier, sempre citata da Fraire, dice che la nascita psichica di un bambino è frutto dell’incontro tra il discorso che gli/le è indirizzato e l’effetto che questo discorso ha sul suo essere/corpo, portando al centro della questione la reale differenza che è quella tra sessuale animale e sessuale umano: ossia il linguaggio che rende la madre biologica sostituibile.
«MADRI SI DIVENTA - dice Fraire - se lo si desidera, a separazione avvenuta tra feto e gestante: la maternità non è legata al corpo più di quanto non lo sia al linguaggio». Parole molto importanti che arrivano dritte al cuore di una questione in cui l’unica differenza tra maschile e femminile risulta, ancora al momento, nel fatto che solo all’interno del corpo delle donne avviene la creazione del vivente. Non a caso, ricorda Fraire, la più grande rivoluzione le donne l’hanno fatta con la depenalizzazione dell’aborto quando hanno affermato una signoria sul loro desiderio di procreare.
Legittimare questa pratica ha portato alla vera liberazione del loro desiderio di maternità, non più vissuta come un destino. Disgiungere definitivamente il femminile dal materno, ha dato anche agli uomini la possibilità di partecipare attivamente alla cura senza necessariamente la supervisione di una donna. Semmai, avverte Fraire, c’è ancora da capire le conseguenze che avrà sull’uomo un’esperienza che implica la totale dipendenza del, e dall’altro, cosa a cui la donna è allenata da secoli.
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E COSMOLOGIA:
"IL MOVIMENTO DI UN’ANALISI" (NELLA "STANZA" DI FREUD) E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (NELLA "NAVE" DI GALILEO GALILEI).
Una nota sul tema, in memoria di Sigmund Freud (1939), Elvio Fachinelli (1989) e di Jean-Bertrand Pontalis (2013).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI (*). Nella "#culla" di Freud, a ben considerare, c’è la #memoria della #rivoluzionescientifica, e, al contempo, ci sono le #tracce per una ripresa della #rivoluzionecopernicana kantiana e una #svolta_antropologica epocale: la sollecitazione pontalisiana a "trasmettere il movimento di un’analisi" è un grande invito a rileggere il "#Dialogo sopra i #due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" (#GalileoGalilei, 1632) e riprendere il lavoro nella "stanza" della "grande nave":
PSICOLOGIA, FILOSOFIA, E CRITICA DELLA RAGIONE "PURA":
USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ"(I. KANT, 1784 - M. FOUCAULT, 1984).
SUL "MOVIMENTO DELL’ANALISI" (J.-B. PONTALIS) E SULLA "MATURITÀ" DELL’ ANALISTA,
QUESTA LA RISPOSTA DI FREUD (1° maggio 1932) A S. H. FOULKES:
L’ORDINE DEI DISCORSI
Mondi nuovi mai visti prima
La porta delle madri di Manuela Fraire.
di Felice Cimatti (FataMorgana-Web, 16 Settembre 2023)
“Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”, dice fra sé e sé Nia, l’aliena del capolavoro di Eleanor Arnason, Sigma Draconis (A Woman of the Iron People, 1991), alla fine dell’avventura che l’ha portata a conoscere gli alieni (che in questo caso sono i terrestri, e in particolare Lixia, l’antropologa della spedizione), sbarcati per la prima volta sul suo pianeta. Nia è una vivente simile agli umani ma ricoperta da una folta pelliccia che appartiene ad una civiltà preindustriale, in cui i ruoli di quelli che sulla Terra sarebbero donne e uomini sono profondamente diversi. Le “donne” di Sigma Draconis vivono infatti insieme nei villaggi con i loro figli, mentre gli “uomini”, vivono da soli nelle immense pianure del pianeta (i giovani “maschi” lasciano i villaggi all’inizio della pubertà).
L’eterosessualità è un tabù che può essere infranto solo durante la breve stagione degli amori. Nel romanzo si allude ad eventuali relazioni omosessuali fra le donne dei villaggi (non a quella maschile), alcune delle quali non sono interessate neanche ad avere figli. Nia, tuttavia, è stata cacciata via dal suo popolo - il popolo del ferro; Nia infatti è un’abile fabbro (fabbra?), su Sigma Draconis un tipico lavoro “femminile” - perché aveva voluto vivere stabilmente con un “uomo”. Dopo la fine tragica di questa relazione vive da sola nelle sconfinate praterie delpianeta. Nia, in sostanza, non vive come il suo popolo, e la sua conformazione fisica, avevano deciso che avrebbe dovuto vivere. Nia è libera.
A questo serve la fantascienza, a immaginare forme di vita diverse da quelle che la nostra mancanza di immaginazione, o la nostra paura, ci impedisce di sperimentare. È questo il punto di contatto fra la fantascienza e la psicoanalisi, almeno la psicoanalisi così come la teorizza e la pratica la femminista e psicoanalista Manuela Fraire: il lavoro psicoanalitico, infatti, «mette fuori gioco l’illusione di una ricostruzione da erigere sui resti del passato, poiché a guidare la navicella spaziale in cui si trovano per un certo tempo paziente e analista è pur sempre il desiderio di incontrare mondi nuovi mai visti prima» (Fraire 2023, p. 75). Non è il passato l’oggetto della psicoanalisi, e quindi il rimosso e il già stato (che per sua natura non cerca altro che di ripetersi), è piuttosto l’invenzione di un futuro non ancora immaginato. Si tratta, come scrivevano Deleuze e Guattari, di produrre nuovo inconscio, ossia nuova impensabile vita.
Ma perché, si chiede Fraire, non riusciamo proprio a vederli (e appunto, nemmeno a immaginarli), questi “mondi nuovi”? Perché non riusciamo a vedere l’aliena Nia - una “donna” pelosa con le mani da fabbro - che virtualmente è in ciascuna di noi? Perché ciascuna di noi è intrappolata, come invece non è Nia, nello schema delle identità e dei ruoli che ogni identità sembra inevitabilmente destinata a portarsi con sé. Fraire, abbiamo detto, è prima di tutto una femminista, e quindi è di Nia che ci stiamo occupando. Ecco perché Fraire ci aiuta a sbrogliare il groviglio di associazioni fra identità e doveri che rende così asfissiante la posizione femminile. Si parte, intanto, dalla differenza fra i sessi: «La differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarità. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale» (Fraire 2023, pp. 16-17).
Il sessuale, o per usare la formulazione di Laplanche il sexuale, è il campo della sessualità non riproduttiva, ossia il campo vastissimo della sessualità libera e creativa - «il sessuale infantile perverso e polimorfo che precede le assegnazioni» (ivi, p. 45) identitarie sociali - che non rientra nello strettissimo spazio della sessualità al servizio della riproduzione della specie. Il sexuale è libero. Che succede, si chiede Fraire, se questo campo di virtualità non identitarie viene lasciato libero di sperimentare? Si pensi, ad esempio, alla «opportunità che donne e uomini si stanno dando reciprocamente di fare esperienza di una genitorialità risultato della disgiunzione tra procreazione e maternità [che] apre ad un’impresa comune senza cui è difficile immaginare un futuro della specie» (ivi, p. 37). Perché Nia deve per forza essere madre per avere dei figli? E ancora, perché non poter immaginare un mondo in cui «la maternità non è legata al corpo» (ivi, p. 46)? Già, perché no? O perché non accorgersi (una scoperta che Fraire ricava da tante analisi di donne) «che l’esperienza della gravidanza può essere desiderata come fine a sé stessa» (ivi, p. 47) e non per diventare madre?
E ancora, perché non prendere atto con sollievo, e non con rimpianto, che «spettacolare è dunque non il declino del padre, ma del patriarcato come sistema che ha regolato il rapporto tra i sessi. Ci sono le condizioni perché la funzione paterna si smarchi dall’ombra del padre patriarcale?» (ivi, p. 77). Si può essere “padre” senza essere padre biologico, come si può essere “madre” senza essere state le portatrici del neonato? È solo l’utero che definisce l’essenza di una donna? Questo ci mostra Nia, un mondo molto diverso dal nostro ma anche molto simile al nostro, un mondo che in realtà è già presente, è già il nostro mondo, ma non riusciamo a vederlo, come l’esploratrice Lixia che all’inizio non riusciva a capire la stranezza di un mondo in cui l’eterosessualità è quasi un peccato contro natura (un tema simile viene esplorato in un altro appassionante romanzo di Eleanor Arnason, Meduse, Ring of Swords, 1993).
Mettere in campo il sexuale significa allora salire sulla “navicella spaziale” per provare a fare esperienza di “mondi nuovi” in cui «la donna non è colei che NON ha il pene, così l’uomo non è colui che NON ha il seno» (ivi, p. 86). Si tratta di immaginare una “identità” non costruita in contrapposizione ad un’altra identità, come se maschile e femminile esaurissero tutto lo spazio delle possibilità di individuazione. C’è sempre quel “resto”, ci ricorda Fraire, ossia il sexuale, che non è assimilabile alle identità precostituite e già da sempre assegnate. C’è sempre la possibilità di prendere la strada di Nia l’aliena.
Già la sentiamo la scontata obiezione: ma che cos’è una donna se non un vivente che appunto “non ha il pene”? E che cos’è un uomo se non un vivente “che non ha il seno”, e che quindi non può allattare? Ma si può essere madre solo in un modo? E padre soltanto in un modo? In realtà “la novità” del nostro tempo «riguarda una genitorialità non identificata né con il materno né con il paterno, una posizione non di genere, non binaria» (ivi, p. 92). Che una genitorialità del genere sia al momento impensabile (anche se non per tutti) non vuol dire che sia sbagliata o contro natura, ché la storia di Nia ci mostra che la natura è un vincolo di cui non possiamo non tenere conto, ma non un impedimento assoluto. Nia è “donna”, ma questo non significa che non possa scegliere una vita diversa da quella che la sua costituzione fisica, e le tradizioni del popolo del ferro, avevano deciso per lei. Non si tratta nemmeno di inventarsi a capriccio una identità; si tratta piuttosto del faticoso lavoro che porta ogni corpo umano, o quasi umano come quello di Nia, a costruire una identità in cui diventare sé stessi.
E non è certo una caso che Nia sia una “donna”, perché è sul corpo delle donne che è più forte la pressione sociale a identificarsi prevalentemente, se non esclusivamente, con il ruolo di madre. Nia sperimenta sé stessa, sperimenta la propria identità quando si accompagna agli alieni terrestri per scoprire una vita completamente diversa dalla sua. Come scrive Fraire, è «spaventoso ammettere che una donna possiede un corpo dentro il quale può, oltre che fare, anche disfare il vivente. (Frankenstein è il parto della fantasia di una donna e non di un uomo, non bisognerebbe dimenticarlo). Nelle pratiche abortive quando liberamente scelte dalla donna è lei stessa che occupa il posto dello scienziato sperimentatore» (ivi, p. 97). In questo senso aprire “la porta delle madri” (un’espressione usata da Freud) significa liberarle dall’unica identità - quella materna - che sempre di nuovo le si vuole attribuire. Fare la madre, ovunque tale desiderio si manifesti, come reiterazione del dono d’amore che da quella abbiamo ricevuto o come risarcimento per ciò che è mancato nel suo amore, è un’illusione pericolosa. Vuol dire negare ciò che la persona/madre sta a ricordare e testimoniare: che nel legame con la madre c’è fin dall’origine una mancanza, il cui senso in potenza consiste in un’apertura a impedire la fusione, la reduplicazione dell’identità, l’annessione a sé dell’altro (ivi, pp. 116-117).
Torna qui il tema di quel “resto” inassimilabile che sfugge alla presa delle identità precostituite. La madre è madre, ma non è solo madre né principalmente madre. C’è anche questo dietro “la porta delle madri”, un mistero, una “apertura” che non si può rinchiudere in una identità definita una volta per tutte. Torna, soprattutto, il tema della libertà, che è al centro di questo libro. Una libertà che non significa tanto libertà di affermare sé stessi (secondo la formula tautologica dell’identità, A = A), al contrario, è la libertà di perdere sé stessi, cioè di offrirsi all’incontro con l’altro, come Nia nei confronti dell’aliena terrestre Lixia. È questo il desiderio femminile secondo Fraire, un desiderio che non è alla ricerca di ciò che manca, al fine di ricostituire un’unità (sul modello di quella fusionale della madre con il corpo che le cresce dentro), al contrario, un desiderio che cerca l’impensabile e inassimilabile reale del mondo. Fraire pone allora una distinzione radicale fra l’atteso e l’ospite. Nel primo caso «desiderio sta qui per vagheggiamento di qualcuno o qualcosa che appaia al momento dell’incontro come ciò che attendevamo e per ciò stesso conforme. Chiamiamo “l’atteso” l’oggetto che presenta al momento dell’incontro questa caratteristica. Per differenza chiamiamo “l’ospite” quell’oggetto che si presenta con caratteristiche di non riconoscibilità e per ciò stesso difforme» (ivi, p. 138). Anche se quando poi l’incontriamo lo detestiamo, è l’ospite che desideriamo di incontrare (come Nia verso Lixia, e Lixia verso Nia), perché solo l’ospite ci cambia la vita:
I “mondi nuovi mai visti prima” si aprono solo quando ci esponiamo alla possibilità dell’incontro con l’ospite inatteso. Finisce un mondo, ne comincia un altro. La psicoanalisi, e il femminismo, per Manuela Fraire sono due pratiche che non hanno altro scopo che vincere la paura dell’ospite. L’atteso, il noto, l’identità. Quant’era bella la vita prima che arrivassero gli alieni dalla Terra. Ma gli alieni sono ormai sbarcati, in realtà sono già da sempre arrivati. La vita comincia solo quando si apre “la porta delle madri”. Poi non resta che seguire Nia, l’aliena: “Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”.
Riferimenti bibliografici
E. Arnason, Sigma Draconis, Mondadori, Milano 1991.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ANTROPOLOGIA CULTURALE, ARTE E PSICOANALISI...
L’UOMO VITRUVIANO, LA DIGNITÀ DELL’UOMO, E LA DIGNITÀ DELLA DONNA.
In memoria di Franca Ongaro Basaglia e Ida Magli....
Con l’anno nuovo e l’arrivo dei Magi presso la "sacra famiglia", è proprio bene richiamare l’attenzione sulle parole del Salmo (8: 4-8): “Che cos’è l’uomo che tu n’abbia memoria? e il figliuol dell’uomo che tu ne prenda cura! Eppure tu l’hai fatto poco minor di Dio..”; e, lodevolissimamente, sollecitare a riflettere sul tema e sul significato di "uomo" e di "figliuol dell’uomo".
Ma di quale uomo si parla? Si parla solo di andrologia?
Riprendendo "l’uomo vitruviano", Leonardo ha fatto un disegno, ma l’industria "culturale" di ieri e di oggi ne ha fatto un mito, che associato alla generica e generale parola di "uomo" e "figlio dell’uomo" ha guidato e guida ancora l’immaginazione filosofica, teologica, artistica dei "diritti dell’uomo"!
Ma cosa "nasconde" questa mitizzazione e idolatrizzazione dell’ Uomo Vitruviano (dello stesso tempo di Leonardo e Raffaello, vedere l’altra faccia del quadro (1510), quello del Sapiente di Charles de Bouelles.? Semplimente "l’altra metà del cielo" è confinata nello stadio dello specchio, nello stato di minorità.
Luce Irigaray, in occasione dell’ 8 marzo del 2004, sul "Perché il pianeta donna non è stato ancora esplorato a fondo", ricordava: “[...] Mafalda a suo padre che sostiene che “l’occhio di Dio ci vede tutti uguali”: “Ma chi è il suo oculista?” lei gli chiede“.
IL MONDO E’ UNO. Non è più tempo né di conquistatori (il ’vecchio’ gioco di "Freud o Jung?", alla Eduard Glover) né di colonizzati (Cuernavaca). Una antropologia (e una cristologia) al di là dell’orizzonte edipico e della cosmoteandria andrologica (Dante 2021 insegna) è già nata: Giuditta ha tagliato la testa ad Oloferne e la critica della demitizzazione non solo della "nascita dell’eroe" (Otto Rank) ma anche della stessa figura di Freud e delle strutture chiesastiche della psicoanalisi (si vedano le preziose ricerche e il lavoro investigativo di Michele Lualdi) ha aperto porte e finestre sugli infiniti universi...
Dall’alto della mia ignoranza, non è più il tempo di esportazione né di peste né di democrazia! Sigmund Freud da Londra se ne sta "sulla spiaggia" di Maresfield e guarda compiaciuto il cielo stellato (Kant) e sorride: la claustrofilia è finita e ha capito che "la mente estatica" (Elvio Fachinelli) è la via di una formazione cosmica e di un’amicizia stellare...
Il linguaggio e la parola nella talking cure,
di Maria Grazia Antinori, Psicoterapeuta. *
L’incontro analitico avviene nella stanza d’analisi, uno spazio accogliente ma allo stesso tempo discreto, il paziente si distende sul lettino assumendo una posizione rilassata che facilita la regressione; l’analista si siede alle sue spalle, fuori dal campo visivo. L’unica regola analitica attiva per il paziente è quella delle libere associazioni e del pensiero fluttuante, ossia parlare liberamente, possibilmente senza autocensure, seguendo il flusso spontaneo dei pensieri.
L’analisi si svolge in una sorta di contenitore psichico e temporale che è il setting, che comprende anche gli accordi condivisi tra i due protagonisti come tempi ed orari delle sedute, onorario, regolazione delle assenze ecc.. In questa cornice dove l’agire è sospeso, l’aspetto fondamentale della talking cure, la cura con le parole (Freud, 1937), è proprio il linguaggio che paziente ed analista costruiscono insieme. Il senso, il valore, le modalità della comunicazione all’interno del gioco tra transfert e controtransfert, sono l’unica forma di azione in un setting che impone l’astinenza da tutte le altre forme di agito.
La psicoterapia è un osservatorio privilegiato dei fenomeno linguistici che normalmente caratterizzano qualsiasi relazione umana. Il linguaggio è profondamente intriso di vita in uno scambio diretto e costante con l’esperienza sensibile, una sorta di sentimento atmosferico sfuggente ma allo stesso tempo influente nell’orientare la ricerca di una rappresentazione in cui si sovrappongono elementi di familiarità ed estraneità in un processo aperto tra interno ed esterno, tra conosciuto ed estraneo. La psicoterapia diventa un tentativo di rappresentare e costituire nel linguaggio, la complessità della nostra esperienza tra vissuti ordinari ed eventi inattesi, trasformando l’inquietudine e l’angoscia in fonti di creatività.
L’analista e il paziente partendo dai loro linguaggi privati, condividono il compito di costruire una lingua comune pur avendo ruoli asimmetrici; l’analista aiuta il paziente a trovare nuove strade e questo può avvenire solo se i due protagonisti dell’incontro analitico, riescono a forgiare e a condividere un linguaggio comune.
Il linguaggio quindi non è semplicemente il mezzo di comunicazione ma assume la posizione del “terzo analitico” ossia il medium comunicativo e al contempo anche il mezzo attraverso cui l’esperienza prende vita. La teorizzazione del “terzo analitico”, è dello psicoanalista Ogden che nei suoi scritti ha molto riflettuto sull’uso e la funzione del linguaggio.
Secondo Ogden, l’analista lotta con il linguaggio, all’interno della relazione analitica, nel tentativo di dire al paziente qualcosa che è fedele all’esperienza emotiva sia inconscia che conscia. La consapevolezza dei propri stati d’animo è mediata dalle parole, si conosce attraverso le parole, si pensa con le parole. -“Fondamentale per un’esperienza analitica che abbia un buon esito è lo sviluppo dell’uso di un linguaggio adeguato al compito di comunicare a se stessi e agli altri qualcosa di quello che uno sente e pensa. Non esiste una forma ideale per il colloquio analitico, al contrario il modo in cui l’analista e l’analizzando parlano uno all’altro è qualcosa che devono inventare per se stessi” (Ogden, 2008, p. 32)
La psicoanalisi è fondata su un paradosso, è una teoria in continua evoluzione che si è sviluppata in circa un secolo, e allo stesso tempo, ogni analisi è unica ed irripetibile in quanto l’analista deve reinventare la psicoanalisi per ogni singolo paziente: “l’analista deve imparare da capo come essere analista con ogni nuovo paziente e in ogni nuova seduta” (Ogden, 2008, p. 7) pur mantenendo fermi e certi elementi quali gli scopi terapeuti, il ruolo, le responsabilità e i valori. Il compito costante dell’analista è quello di creare le condizioni nelle quali l’analizzando, con la partecipazione dell’analista, possa migliorare la sua capacità di sognare i suoi sogni non sognati ed interrotti (Ogden, 2008, p. 7).
Il “terzo analitico” si fonda sulla costruzione di una lingua comune metaforica che veicola una vera esperienza emotiva. “Una persona si rivolge a uno psicoanalista perché si trova in uno stato di sofferenza emotiva che non è in grado di definire, inoltre non è in grado di sognare (cioè di fare lavoro psicologico inconscio) o è così disturbata da ciò che sta sognando che i sogni vengono interrotti. Fino a quando è incapace di sognare la sua esperienza emotiva, l’individuo non può cambiare, non può crescere, non può diventare qualcosa di diverso da ciò che è stato. Il paziente e l’analista si impegnano in un esperimento, nei confini della situazione analitica, che ha lo scopo di creare le condizioni nelle quali l’analizzando (con la partecipazione dell’analista) possa migliorare la sua capacità di sognare i suoi sogni non sognati e interrotti. I sogni sognati dal paziente e dall’analista sono contemporaneamente i loro sogni (rêverie) e quelli di un terzo soggetto che allo stesso tempo è il paziente e l’analista e nessuno dei due. Partecipando alla sua attività di sognare i sogni non sognati e interrotti, l’analista riesce a conoscere il paziente in un modo e a un livello di profondità che gli consente di dirgli qualcosa che è fedele all’esperienza emotiva, sia inconscia che conscia, che avviene nella relazione analitica in un momento dato. Ciò che l’analista dice può essere usato dal paziente per il lavoro psicologico conscio e inconscio, cioè per sognare la sua propria esperienza, così da potersi sognare più pienamente nell’esistenza” (Ogden, 2008, pp. 13-14).
La responsabilità dell’analista, è nei confronti del benessere del paziente, piuttosto che nel mettere in atto le regole analitiche, fondamentale, ancora una volta è il linguaggio adatto al compito di comunicare, l’analisi è un impresa continua, un’invenzione unica.
La psicoanalisi a partire da Bion nell’ultimo quarto di secolo, ha iniziato a dare valore alla capacità dell’analista e del paziente di non sapere, di sostenere uno stato di non conoscenza; non sapere è una precondizione per essere in grado di immaginare, funzione indispensabile per poter pensare, giocare, sognare, modificare i dati di un problema e ogni tipo di attività creativa. E’ lungo e complesso il processo che porta un analista a maturare una tale flessibilità e modulazione del linguaggio: “Semplicemente parlare a un paziente, nella mia esperienza, normalmente implica “parlare semplicemente”, cioè parlare in modo semplice e chiaro, libero da cliché, gergo, e da toni di voce “terapeutici” o in atro modo “sapienti” (Ogden, 2009, p. 4).
Ogden nella sua lunga e vasta esperienza di analista con pazienti incapaci di sognare ad occhi chiusi ed aperti, ha osservato come spesso si sia ritrovato in conversazioni apparentemente non analitiche incentrate su i libri, i film, gli spettacoli, la politica e qualsiasi altro argomento che l’analizzando volesse introdurre. Questo parlare di argomenti diversi e lontani dall’analisi, in realtà si è rivelato una preziosa opportunità, una forma di sognare da svegli, un parlare come sognare: parlare come sognare appare superficialmente come non analitico, ma, secondo me, nelle analisi alle quali mi sto riferendo, esso rappresenta un risultato significativo, in quanto spesso è la prima forma di conversazione che ha luogo in queste analisi che viene sentita reale e viva dal paziente e da me” (Ogden, 2009, p. 10). Questa nuova esperienza, progressivamente nel tempo, apre nuove possibilità nella relazione analitica, conducendo il paziente ad acquisire la possibilità di parlare al proposito del sognare, cioè di aprirsi al discorso autoriflessivo nel rapporto analitico e nella vita stessa. Questi pazienti sperimentano la loro aumentata capacità di sognare e di pensare e di parlare a proposito del loro sognare e di pensare e di parlare a proposito del loro sognare come un’esperienza di svegliarsi a sé stessi (...) Nella nostra scoperta del parlare-come-sognare, questi pazienti ed io stiamo riscopriamo il sognare e la libera associazione” (Ogden, 2009, p. 10).
Questo modo di procedere di Ogden, sembra un esempio ideale dell’atteggiamento analitico suggerito da Bion, ossia di incontrare ogni paziente in ogni nuova seduta come se fosse la prima volta, mettendo da parte quello che già si conosce liberandosi da quello che si è imparato dall’esperienza. “Solo allora (l’analista) può provare a liberarsi da ciò che pensava di sapere, in modo da essere recettivo a tutto ciò che non sa” (Bion, 1970)
Bibliografia
* Fonte: ARPIT (Dott.ssa Maria Grazia Antinori, Febbraio 11, 2016).
IL QUINTO PRIVILEGIO DELL’INCONSCIO (ELVIOFACHINELLI) E "LA MENTE ORIENTALE" (CHRISTOFER BOLLAS): ELVIO FACHINELLI, SIGMUND FREUD, E GEORG GRODDECK ... *
QUALCHE PAROLA IN MEMORIA DI GEORG GRODDECK
di Hermann Keyserling *
Il 10 giugno 1934 morì a Zurigo, all’età di sessantasette anni, il medico di Baden-Baden Georg Groddeck, il solo autentico e qualificato continuatore della scuola di Schweninger. Con lui è scomparso uno degli uomini più straordinari che io abbia mai incontrato. È l’unica persona di mia conoscenza che mi abbia sempre fatto pensare a Lao-Tse: il suo non-fare era creativo, a un grado addirittura magico.
Egli si atteneva al principio che il medico nulla sa, nulla può fare, e pochissimo deve fare: dovrà soltanto, con la sua presenza, risvegliare le forze risanatrici insite nel paziente. Naturalmente, questa tecnica del non-sapere e del non-fare non gli avrebbe permesso, da sola, di mantenere in vita la sua clinica di Baden-Baden. Perciò egli guariva facendo uso di una combinazione di psicoanalisi e di massaggi, in cui aveva una parte non trascurabile l’infliggere dolore: dalla reazione di difesa contro il dolore sorgeva nei suoi pazienti (a Groddeck ricorrevano soltanto coloro che avevano delle affinità con lui) la volontà di guarire; e, allo stesso tempo, dall’acuto dolore che certe domande miravano a provocare gli veniva sempre qualche idea utile per la cura. Fu così che Groddeck mi guarì, in meno di una settimana, di una flebite ricorrente che, secondo il parere di altri medici, avrebbe dovuto affliggermi per molti anni, se non per tutta la vita.
Ma l’essenziale in Groddeck, era la sua silenziosa presenza. Quando eravate con lui, ed egli non vi domandava nulla, vi venivano in mente più idee che non di fronte al più abile analista. Tuttavia, in Georg Groddeck, io non tanto rispettavo e amavo il medico quanto il saggio paradossale. Egli non apparteneva ad alcuna scuola: su ogni cosa aveva le opinioni più strettamente personali, e spesso le più eretiche. Ed erano tutte, se intese nel senso giusto, cioè non troppo alla lettera, opinioni profonde.
Non conosco nessun filosofo della natura che come lui abbia esaltato la condizione dell’infanzia; si potrebbe addirittura dire che il suo ideale fosse l’uovo, perché nessun organismo già formato sa fare ciò di cui esso è capace. Nell’amoralità delle sue concezioni egli non era secondo a nessuno. Era un eccentrico all’ennesima potenza. Ma aveva un contatto così diretto con l’«Es» creatore che era in lui (è stato Groddeck a coniare il termine tecnico «Es», in contrapposizione all’«Io») che tutte le sue idee, anche se espresse nella forma più bizzarra, riflettevano sempre delle profonde verità.
Nei suoi libri apparsi a tutt’oggi (Lo scrutatore d’anime e Il libro dell’Es) non è facile, per chi non lo abbia conosciuto personalmente, cogliere questo aspetto essenziale di Groddeck. Ma per alcuni anni egli ha pubblicato privatamente una rivista così interessante, «Die Arche» («L’arca»), che io spero molto che i suoi eredi ne raccoglieranno e ripubblicheranno l’importantissimo contenuto.
Durante il suo ultimo anno di vita egli lavorò a un volume che intendeva fare uscire dopo la sua morte. Ma, come accade per tutte le persone più ricche di vita, la presenza personale di Groddeck contava molto, molto più di quel che egli esprimeva nelle parole e nelle teorie. Hanno potuto accorgersene, talora, i partecipanti ai seminari della «Scuola della saggezza» a Darmstadt: molte volte Groddeck vi prese la parola, ma era soprattutto la sua semplice, viva presenza a fare di Groddeck un partecipante insostituibile di quelle riunioni: ora provocando, ora esasperando, ora affascinando, egli costringeva ognuno a pensare con la propria testa. La sua scorza era ruvida: la sua anima, troppo vulnerabile, aveva bisogno di questa protezione. Ma, nell’intimo, era uno degli uomini più caldi, più affettuosi, più preoccupati del bene altrui, e più grandi che io abbia mai incontrato.
* Georg Groddeck, "Il libro dell’Es", Postfazione di Hermann Keyserling, Adelphi, Milano 1971 (V ed.).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA MENTE ORIENTALE. Psicoanalisi e Cina (Christofer Bollas, Milano 2013). "La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud (Luciana Sica, Se l’inconscio è made in Cina, la Repubblica, 15 settembre 2013).
FLS
PSICOANALISI E FILOSOFIA.
SU FREUD: RIPARTIRE DAL PRINCIPIO.
Per comprendere meglio Freud e la sua "rivoluzione psicoanalitica" ("Die Frage der Laienanalyse",“Il Problema dell’analisi profana”: «Non succede nulla di strano, i due si parlano. [...] L’analista dà appuntamento al paziente a una certa ora del giorno, lo lascia parlare, lo ascolta, poi gli parla e gli chiede di ascoltare ciò che ha da dirgli»"), c’è solo da salire su una grande nave, scendere nella stiva, e rileggere il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano" di Galileo Galilei: a partire da Copernico, da qui (da questa opera) prende il via la navigazione nell’oceano celeste (Keplero) e si apre la strada alla relatività di Einstein (e non al relativismo culturale dell’antropologia culturale e di Gregory Bateson!), alla rivoluzione copernicana di Kant, e alla rivoluzione di Ferdinand de Saussure, proprio da "due persone che discorrono" ("Corso di Linguistica Generale").
Per andare oltre le robinsonate (Marx) e oltre l’edipo (Freud), e uscire dal #terrapiattismo non c’è altra via: con Elvio Fachinelli, superare la claustrofilia (1983), portarsi "sulla spiaggia" (1985), andare oltre le colonne d’Ercole (di Edipo), e non naufragare (come Ulisse), ma uscire dall’inferno (Dante 2021) e rinascere! O no?!.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE E SAUSSURE: UNA SOLA TEORIA, QUELLA DEI "DUE SOLI". Ipotesi di lavoro
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
UN SASSO NELLO STOMACO DELLA PSICANALISI: IL “CASO” DELLO “PSICANALISTA «COL MAGNETOFONO»”!
«Disse Freud: “Tre sono i mestieri impossibili: governare, educare, psicoanalizzare”. Tutte e tre sono attività che hanno a che fare con l’inconscio. E proprio per questo non possono essere attività scientifiche. Ciò non toglie che il politico, l’educatore e lo psicoanalista debbano conoscere le scienze che li riguardano, debbano ispirarsi a esse, ma non sono essi stessi scienziati. Queste pratiche di cura sono aperte a tutte le alee della contingenza: ogni società e ogni epoca è diversa dall’altra, ogni educando è diverso dall’altro, ogni analizzante è diverso dall’altro. Guai generalizzare! La scienza generalizza, le pratiche di cura particolarizzano.» (Sergio Benvenuto, “Ti metti alla pari con Lacan! Patafisica psicoanalitica”, Le parole e le cose, 26 aprile 2021).
ACCOLTA QUESTA PREMESSA che ci colloca in un orizzonte-paradigma che presuppone e accetta la distinzione tra “le scienze” e “le pratiche”, per uscire da “un certo dogmatismo in psicoanalisi” (come dal “dogmatismo settario marxista”), forse, è proprio opportuno, per cercare di portarci “sulla spiaggia” e ristabilire il contatto con il mare aperto, ricordare il “caso” dello “psicoanalista «col magnetofono»”, Elvio Fachinelli!
UNA CURIOSA IMMOBILITA’. Nel 1977, Fachinelli pubblica il testo di uno straodinario caso, quello di “J.-J. Abrahams. L’UOMO COL MAGNETOFONO dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista, con note di J.-P. Sartre, J.-B. Pontalis, B. Pingaud e E. Fachinelli” (edizioni L’ERBA VOGLIO). Nel suo intervento, dal titolo “La parola contaminata”, egli scrive: “Leggendo i commenti preposti (nell’edizione originale di «Les Temps Modernes», 1969), al testo di Abrahams, si ha ora il seno di una curiosa immobilità. Sartre pone una domanda, parziale se si vuole, ma pungente: quella della violenza (o del potere) che sta dentro la relazione psicanalitica; Pontalis e Pingaud rispondono in modo generale e come di lato: scacco della reciprocità, testimoniato nell’opera stessa di Sartre (Pontalis); reciprocità come esito finale, come conquista (Pingaud). Le spade si sono incrociate, senza dubbio, ma i duellanti non sono andati oltre la prima mossa. E il testo di Abrahams risulterebbe così un exploit solitario, fermo come un sasso nello stomaco della psicanalisi - che ne ha digeriti ben altri. Senonché alcuni mesi fa è uscita una raccolta di vari scritti di Abrahams (L’homme au magnétophone, Le Sagittaire, Paris, 1976) che a mio parere riapre il problema e permette, forse, di far muovere quel sasso [...]”.
FAR MUOVERE QUEL SASSO! Nel 1979, Fachinelli pubblica “La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo” (edizioni L’ERBA VOGLIO), nel 1983 “CLAUSTROFILIA. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi” (Adelphi), e, nel 1985, un breve testo “Sulla spiaggia” ( “Lettera Internazionale”, 2, n. 6, autunno 1985).
Con evidenti “segnali” di grande audacia teorica., Fachinelli si mette in gioco, coraggiosamente, e si porta “al di là del bene e del male” - al di là del femminile e del maschile e al di là della debolezza e della forza: depone le armi dialettiche della “intelligenza astuta” hegelo-lacaniane e osa aprire la porta a un nuovo orizzonte-paradigma, a una nuova antropologia e a una nuova psicoanalisi.
Nel febbraio del 1989, stampa “La mente estatica”: “La metamorfosi dei sensi, non un loro oltrepassamento, è anche - scrive Fachinelli - al centro del trasumanar dantesco”. Che dire? Non è ora di uscire dall’inferno, e dal presente lockdown?!
DOC.: L’ARTISTA «COL VIDEO-REGISTRATORE»(2021)!
Primo Maggio
Fedez e il video della telefonata con la Rai: «Sul palco devo essere libero di dire quello che voglio, non lo stabilite voi»
Fedez dopo il discorso del Primo maggio pubblica il video della telefonata con la Rai: «La vicedirettrice di Rai 3 Ilaria Capitani mi esorta ad “adeguarmi a un sistema”»
di Greta Sclaunich *
Fedez accusa i vertici di Rai3 di avergli chiesto di omettere nomi e partiti dal suo intervento sul palco del Concertone, la Rai controbatte smentendo pressioni e censure preventive. Ma il cantante non ci sta e, subito il suo discorso sul palco del concerto del Primo Maggio, ribatte su Twitter: «La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi».
Pubblicando il video della telefonata, nel quale si sente la discussione molto accesa con i dirigenti di Rai3 [...] *
*Corriere della Sera (ripresa parziale).
VITA, FILOSOFIA, E PSICOANALISI. ELVIO FACHINELLI (1928-1989):
LA FRECCIA FERMA [1979], CLAUSTROFILIA [1979] ... E LOCKDOWN, OGGI [2021]
PREMESSO E CONSIDERATO CHE "In Italia la vicenda di Abrahams e il suo gesto di rottura arrivano nel 1977 grazie alla casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio. La vicenda riverbera fino ai nostri giorni e il dialogo psicoanalitico viene ripubblicato, a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, per Ombre corte. 1967-1977-2017: l’uomo col magnetofono non c’è più, ma la sua registrazione testimonia ancora di qualcosa che, nell’era della tecnica, forse non ha più così risonanza: i rapporti di potere all’interno dei setting di psicoterapia" (Gianluca D’Amico, "Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono", Psicologia Fenomenologica, 21.04.2021), è da DIRE (a mio parere, ovviamente) che la situazione del "lavoro psicoanalitico" OGGI è ancora (purtroppo) come (e peggio di) IERI: "Leggendo i commenti [...]" al testo di Abrhamms, scrive Fachinelli (nel 1977) - "si ha ora il senso di una curiosa immobilità". Niente è cambiato! E tutto è fermo: una questione al di là del bene e del male, al di là della debolezza e della forza e al di là del femminile e del maschile (sul tema, cfr. La lezione di Dante - e Nietzsche, oggi)!
Giusto: "Che la vicenda di Abrahams instilli in noi tecnici della salute mentale il dubbio. Il dubbio sul nostro sapere; il dubbio sull’uso che ne facciamo di questo sapere di fronte alla persona che incontriamo e che ci chiede aiuto. Il delicato e strano equilibrio di cui parlavamo prima è un equilibrio che dovrebbe farci oscillare e renderci consapevoli di questo esercizio di oscillazione: a tratti posso pendere dalla parte della tecnica, del come si fa; a tratti mi sarà necessario pendere dalla parte della soggettività che eccede la tecnica e, quindi, chiedermi non tanto come si fa a guarire questo disturbo ma chi è questo persona che ho di fronte e chi sono io per lei: appunto, l’enigma dell’intersoggettività.
Niente di magico e spirituale, anzi. Si tratta, per l’appunto, di un esercizio: fare pratica di pensiero debole direbbe il filosofo Pier Aldo Rovatti. Prendere distanza dalla tecnica, immergersi nella dimensione profondamente interpersonale dell’esperienza per costruire e ricostruire costantemente questa fragile sensazione di reciprocità con l’Altro" (G. D’Amico, cit.)!
Ma per fare questo passo, al di là della vecchia antropologia, occorre portarsi "Sulla spiaggia" (1985), deporre le armi dialettiche della "intelligenza astuta" hegelo-lacaniana, e "mettersi in gioco, coraggiosamente", come ha sollecitato a fare e ha fatto Fachinelli ("La Mente estatica", 1989).
Federico La Sala
Essere giusti con (Kant e) Freud....
PACCOTTIGLIA FREUDIANA
di Sergio Benvenuto *
Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica - né agiografica né spregiativa - di Freud.
In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?
No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.
Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose... Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla.... Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant... per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.
* Fonte: Le parole e le cose, 15 febbraio 2021 (ripresa parziale - senza note).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA: FREUD CON KANT.
FLS
GRAZIE A 8 ANNI DI OSSERVAZIONI DEL NANÇAY RADIO OBSERVATORY
Conferma stellare per la caduta libera di Einstein
Combinando i segnali radio provenienti da una pulsar appartenente a un sistema stellare triplo con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali, un team di ricerca internazionale ha testato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein: il principio di equivalenza o universalità della caduta libera, confermando la teoria anche per questi oggetti cosmici così grandi
di Giuseppe Fiasconaro *
Un team di ricerca internazionale ha verificato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein, il principio di equivalenza, o universalità della caduta libera: quello secondo il quale la gravità attira tutti gli oggetti con la stessa accelerazione, a prescindere dalla loro composizione, densità o forza del campo gravitazionale. Lo hanno fatto monitorando con precisione il movimento di una pulsar, Psr J0337 + 1715, all’interno di un insolito sistema stellare triplo, combinando i dati con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali.
L’universalità della caduta libera è una caratteristica unica della gravità, che si manifesta - a differenza di tutte le altre interazioni in natura - attirando tutti gli oggetti con la stessa accelerazione. Un principio che implica l’uguaglianza tra massa gravitazionale e massa inerziale (principio di equivalenza). Due corpi con masse diverse, e campi gravitazionali diversi, accelerano dunque allo stesso modo verso un terzo corpo che li attrae.
Da Galileo Galilei, nel suo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a Isaac Newton, nei Principi matematici della filosofia naturale, molti si sono occupati di questo principio fondamentale. Ma a cosa attribuire il fenomeno? Ci pensò Albert Einstein nel 1907, ipotizzando che la gravità fosse una manifestazione non di uno spazio euclideo, ma di uno spazio-tempo curvo, quello di Friedrich Gauss, Bernhard Riemann, etc, che agisce su tutte le masse allo stesso modo.
Un concetto che è al centro della sua teoria generale della relatività. Una intuizione che lo stesso Einstein definì: “the happiest thought of my life“, il pensiero più felice della mia vita. In pratica Einstein attribuì gli effetti della gravitazione alle proprietà dello spazio-tempo e non ai corpi stessi, e questo assicurava che la caduta libera fosse identica per tutti i corpi.
A questo punto era necessario valutare la fondatezza della teoria. Nei secoli sono stati condotti diversi test per verificare questo principio. Quello più preciso è stato finora ottenuto da un mini-satellite appositamente progettato chiamato Microscope, sviluppato dal centro nazionale di studi spaziali francese (Cnes). Nell’esperimento, le piccole masse di prova all’interno del mini-satellite, soggette al campo gravitazionale della Terra, hanno mostrano accelerazioni uguali con una precisione di una parte su 1014.
Un altro test per verificare questo principio è stato il Lunar Laser Ranging, che si basava sulla misura della distanza tra la Terra e la Luna, entrambe in caduta libera verso il Sole. Una loro differenza nella velocità di caduta sarebbe apparsa come una variazione di distanza. Grazie a questo esperimento, “sparando” raggi laser su tre riflettori lasciati sulla Luna durante le missioni dell’Apollo 11, 14 e 15, è stato possibile misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori sulla Luna con una precisione di pochi centimetri. I risultati, con una precisione di una parte su 1013, concordarono con le previsioni della relatività generale: la Terra e la Luna cadono con la stessa accelerazione nel campo gravitazionale del Sole.
Il nuovo test che il team di ricerca guidato da Guillaume Voisin del Jodrell Bank Centre for Astrophysics di Manchester ha condotto, i cui risultati sono riportati su Astronomy & Astrophysics, è per alcuni aspetti analogo all’esperimento Lunar Laser Ranging, ma a differenza di quest’ultimo ha utilizzato un sistema stellare triplo, costituito da una pulsar e da due nane bianche, come banco di prova ideale per testare l’universalità della caduta libera.
La pulsar è Psr J0337 + 1715, una stella di neutroni distante 4200 anni luce nella costellazione del Toro che mostra regolari impulsi radio mentre ruota 366 volte al secondo attorno al proprio asse. Un corpo in reciproca interazione con altre due stelle, entrambe nane bianche, rispetto alle quali è molto più massiccia: ha più massa del Sole (1.44 masse solari) schiacciata in un diametro di poco più di 20 chilometri, raggiungendo densità di oltre un miliardo di tonnellate nel volume di una zolletta di zucchero.
Nell’esperimento, Psr J0337 + 1715 e la nana bianca interna (0.2 masse solari), sono equivalenti alla Terra in orbita con la Luna dell’esperimento con la misura laser lunare. La nana bianca esterna (0.4 masse solari) è l’equivalente del Sole, fornendo il campo gravitazionale in cui cade il sistema interno (pulsar/nana bianca interna). In questo caso però, invece di usare un raggio laser per misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori, viene utilizzato il tracciamento preciso dei segnali radio provenienti dalla pulsar.
Nello studio, utilizzando il radiotelescopio francese Nançay per misurare con precisione i tempi di arrivo degli impulsi radio provenienti da Psr J0337 + 1715 in un arco temporale di otto anni, i ricercatori mostrato che la pulsar e la vicina nana bianca cadono nel campo gravitazionale della nana bianca esterna con la stessa accelerazione al meglio di due parti per milione (2 parti su 106), confermando ulteriormente il pensiero più fortunato della vita di Einstein.
Teorie alternative della gravità prevedono deviazioni da un’accelerazione universale, che aumenterebbero di grandezza con la quantità di curvatura spazio-temporale causata dall’oggetto. Per oggetti come la Terra, il Sole e per stelle come le nane bianche, la curvatura spazio-temporale è molto piccola. Per le stelle di neutroni, invece, la curvatura è da un milione a miliardi di volte più grande. Questo risultato, sebbene meno preciso del Lunar Laser Ranging, conferma la costante accelerazione nonostante l’enorme curvatura spazio-temporale causata dalla pulsar, provando la legge della gravitazione di Einstein anche per questi oggetti cosmici così massicci.
«Aver confermato il principio della caduta libera con questa precisione costituisce uno dei test più rigorosi mai fatti prima della teoria di Einstein, e la teoria ha superato il test a pieni voti», sottolinea Voisin. «Inoltre, i risultati forniscono vincoli molto stringenti alle teorie alternative della gravità, che competono con la relatività generale di Einstein per spiegare la gravità e, ad esempio, l’energia oscura».
Psr J0337 + 1715 mostra infatti come l’intuizione geniale di Einstein si applichi anche a oggetti cosmici estremi come le stelle di neutroni, che furono scoperte per la prima volta solo 50 anni dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale. «Forse più di qualsiasi test precedente» conclude Paulo Freire, astronomo del Max Planck Institute for Radio Astronomy e co-autore dello studio «questo risultato indica che il pensiero più fortunato di Einstein cattura davvero qualcosa di fondamentale sulla gravità e sui segreti della Natura».
*FONTE: MEDIA-INAF, 14/06/2020 (ripresa parziale).
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@UNESCO #LogicDay Uscire dall’#infernoepistemologico: ripartire con #Quine e #Nozick da un nuovo #principiodicarità, ridiscendere nella #nave di #galileogalilei, e riprendere la #navigazione con #Einstein
ROVELLI - i quanti, l’epistemologia e l’interdisciplinarietà
di Giorgio Mattana *
“E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro ...” (p. 127). Helgoland è un appassionante libretto in cui il fisico Carlo Rovelli espone con leggerezza, adottando la forma del racconto scientifico-filosofico, la sua interpretazione “relazionale” della meccanica quantistica, nonché la visione del mondo a suo avviso più coerente con essa. Nel 1925 il giovane Werner Heisenberg, sulla sperduta isoletta del Mare del Nord Helgoland, detta anche Isola Sacra, in una sorta di ritiro spirituale, concepisce la teoria dei quanti. A definirne il formalismo matematico contribuiranno altri giovani scienziati: Pascual Jordan, Paul Dirac e Wolfgang Pauli. Max Born, quarantenne, è il più anziano del gruppo. Alcuni la chiamano “la fisica dei ragazzi”, ma è una svolta epocale. Si uniranno poi all’impresa Ervin Schrödinger, Louis de Broglie e altri. Padri spirituali ne sono a vario titolo Max Planck, con la sua fondamentale costante, Niels Bohr con il suo modello dell’atomo, e Albert Einstein, che peraltro non ne accetta le implicazioni indeterministiche, con l’idea dei “quanti” di energia.
La teoria dà conto in modo mirabile di una serie di sconcertanti risultati sperimentali che tormentavano i fisici del primo Novecento, ma scuote al tempo stesso dalle fondamenta l’immagine scientifica del mondo. Ancora più della relatività generale di Einstein, che modificava radicalmente la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana e del senso comune, rendendoli dipendenti da masse e movimenti e fra loro inscindibilmente interconnessi.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce l’impossibilità di accertare contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone, variabili che nel mondo macroscopico permettono di calcolare la traiettoria di ogni corpo in movimento, sfidava le basi della fisica classica, nella quale Rovelli sembra a tratti includere la stessa relatività, al fine di sottolineare la sconvolgente novità dell’immagine della natura riflessa dalla meccanica quantistica.
La peculiarità del testo non risiede tuttavia nella brillante esposizione dei caposaldi della teoria, già oggetto di numerose trattazioni divulgative incluse quelle dello stesso Rovelli, ma nell’illustrazione della sua interpretazione “relazionale” e delle sue più significative ricadute filosofiche e interdisciplinari. Il principio di indeterminazione, la misteriosa costante di Planck, l’effetto fotoelettrico, la sovrapposizione quantistica illustrata dall’apologo di Schrödinger del gatto sveglio/addormentato, che Rovelli sostituisce a quello vivo/morto, lo sconcertante fenomeno dell’entanglement, per cui due particelle venute a contatto nel passato mantengono una sorta di legame reciproco anche a migliaia di chilometri di distanza, ci fanno gettare lo sguardo su un abisso dove la realtà ordinariamente intesa scompare. Il mondo della fisica classica, erede del meccanicismo settecentesco, fatto di materia e movimento, viene soppiantato da un mondo di relazioni e di eventi che prende forma dalle fondamentali intuizioni di Heinsenberg sulla fisica degli “osservabili”.
Perché cercare di capire cosa fa l’elettrone, e con esso tutte le altre particelle della fisica subatomica, quando non lo osserviamo? E se l’elettrone non seguisse alcuna orbita? E se prendesse forma, assumesse questa o quella caratteristica, per esempio emettere luce, solo nell’interazione con noi? Quello che si profila è un radicale mutamento di paradigma scientifico-filosofico, una nuova visione della natura basata sulla considerazione che l’interazione fra osservatore e osservato codificata da Heisenberg è la regola, non l’eccezione.
Nulla esiste in assoluto, tutto è in relazione a qualcosa, proprio come l’elettrone esiste nella relazione con noi e assume interagendo con i nostri strumenti di misura posizione, velocità o energia. Non esiste un elettrone “in sé”, con una sua orbita definita che non riusciamo a cogliere per l’imperfezione del nostro sistema osservativo. Non esiste una natura popolata di oggetti con proprietà assolute, nulla esiste in “sdegnoso” isolamento: tutto è in relazione ad altro, tutto interagisce con altro, tutto è in relazione con tutto. Il sasso è in relazione con il suolo a cui si “manifesta” con il suo peso, la velocità è sempre in relazione al sistema di riferimento, l’alto e il basso esistono solo in relazione alla superficie terrestre. È un’ontologia di relazioni, di cui gli oggetti rappresentano i “nodi”, di sistemi fisici che si rispecchiano gli uni negli altri. E tali relazioni non poggiano su nulla di solido, come stabiliva la fisica della materia e del movimento, delle qualità primarie oggettive in sé esistenti e di quelle secondarie. La grammatica del mondo scoperta dalla fisica quantistica non è costituita da semplice materia e movimento. “La relazionalità che permea il mondo scende fino a questa grammatica elementare. Non possiamo descrivere nessuna entità elementare se non nel contesto di ciò con cui è in interazione” (148).
Dietro la fisica degli “osservabili” di Heisenberg c’è Ernst Mach, profondamente influenzato dalla lezione humeana, che ha proposto l’empiriocriticismo come la cornice concettuale più adatta a inquadrare l’impresa conoscitiva umana, successivamente adottata dai neopositivisti del Circolo di Vienna. Dell’epistemologia machiana, anche detta fenomenismo, Rovelli sottolinea lo spirito antimetafisico, la scrupolosa aderenza ai dati dell’esperienza e lo smascheramento degli errori e dei paradossi connessi al bisogno di oltrepassarli postulando un mondo di oggetti, cose o enti sussistenti in modo assoluto e dotati di proprietà definite una volta per tutte. Contro Mach si era scagliato Lenin in nome del materialismo attaccandone il portavoce russo Bogdanov, ma dalla disamina di Rovelli è il materialismo che esce sconfitto, in quanto rappresentante della vecchia metafisica, non diversamente dalle idee platoniche e dallo spirito assoluto di Hegel.
L’empiriocriticismo machiano si presta invece ottimamente a fare da sfondo a quel mutamento di paradigma (Kuhn) o a quella rottura epistemologica (Bachelard) che ci propone la meccanica quantistica. La teoria più strana, controintuitiva e sconvolgente che sia mai stata concepita, ma anche la più riccamente confermata: “non ha mai sbagliato”. Non si dimentichi che a non essere prevedibile è il comportamento della singola particella, che le sue leggi sono probabilistiche e che in quanto tali sono state sempre confermate, per non dire delle loro innumerevoli applicazioni tecnologiche. Da essa Rovelli deriva una visione più “leggera” della natura, come trama di relazioni e gioco di specchi, priva di un fondamento assoluto e di un punto di vista privilegiato, così nuova da chiamare in causa un pensiero ancora più radicale e “altro” di quello machiano. La dottrina di Nāgārjuna, pensatore indiano del secondo secolo, asserisce esplicitamente “che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro” (p. 150). L’assenza di esistenza indipendente è “vacuità”: “le cose sono vuote nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro” (p. 151). “La lunga ricerca della ‘sostanza ultima’ della fisica, passata attraverso materia, molecole, atomi, campi, particelle elementari ... è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale” (p. 153).
Le ricadute interdisciplinari dell’interpretazione della realtà proposta da Rovelli sono facilmente intuibili, sia a livello generale sia per quanto riguarda la psicoanalisi, dove non può non trarne alimento la concezione relazionale della mente affermatasi negli ultimi decenni. L’evoluzione della teoria da un modello strettamente unipersonale verso modelli sempre più caratterizzati in senso relazionale, dalla concezione kleiniana delle relazioni oggettuali, alla visione winnicottiana della relazione madre-bambino, al modello bioniano della rêverie e della relazione contenitore-contenuto, fino alla teoria del campo e ai modelli intersoggettivisti e relazionali, sembra ormai un fatto acquisito. Come in fisica il mondo degli oggetti si stempera in un più fluido e cangiante mondo dove la lama di un coltello assomiglia alla spumeggiante cresta di un’onda dell’oceano, dove le cose si palesano le une alle altre nell’interazione, proprio come all’osservatore umano, così in psicoanalisi l’osservazione della mente in interazione con un’altra mente ne ha evidenziato le caratteristiche relazionali. E come non ha senso parlare in assoluto delle proprietà di un oggetto, così non ha senso parlare di un soggetto che non sia in relazione con altri soggetti che ne riflettono l’immagine e ne vengono riflessi, in una complessa trama di relazioni di cui rappresentano i nodi.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che l’evoluzione relazionale della psicoanalisi sia consistita nell’abbandonare l’implicito isomorfismo con il mondo della fisica classica, popolato di oggetti, cose o enti concepiti come in sé conclusi e privi di relazione ad altro, per approdare a una visione più fluida, molteplice e interattiva della soggettività, sempre legata a una complessa e mutevole rete di relazioni esterne e interne. Ma l’utilità del punto di vista relazionale riguarda anche il rapporto della psicoanalisi con le altre discipline, riecheggiando le più condivisibili acquisizioni postmoderne sul carattere prospettico e contestuale di ogni attività conoscitiva, senza assecondarne le più radicali e discutibili derive scettiche e nichiliste. Si tratta di una visione relativa e complessa della conoscenza, basata sul lutto della verità unica e della spiegazione definitiva, ma compatibile con l’esistenza di specifici criteri di referenzialità e validazione all’interno di ogni disciplina. La congruenza fra metodo e oggetto permette di vedere la psicoanalisi come una disciplina caratterizzata da uno specifico metodo di indagine e da un altrettanto specifico sistema concettuale e linguistico, adeguati alla conoscenza di un determinato oggetto e irriducibili ad altri metodi e sistemi. Su questa base essa può dialogare con le altre discipline nella consapevolezza della relatività delle proprie conoscenze, ma anche della loro irriducibilità a quelle delle altre scienze, alla ricerca di una descrizione sempre più articolata, complessa e verosimilmente mai definitiva del soggetto umano.
*Fonte: Spi-Web, 12 Novembre 2020
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
*
STORIA, FILOSOFIA, E SCIENZA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero 7giugno 2019 ...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ! PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! ... *
Giacomo Contri
“Grazie a Lacan ho viaggiato su una nave pirata. La sua è l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Era il pazzo fuggito dalla gabbia, faceva paura"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 16.07.2017) *
Giacomo Contri ha introdotto Jacques Lacan in Italia. Lacan genio e provocatore: fumo (molto per alcuni) e arrosto. "Quando portai gli Scritti di Lacan in Italia la psicoanalisi si era ridotta al palloncino in mano alla creatura, robetta infantile, pisciatine nel letto, sgridate e avvertimenti. E allora ecco giungere un signore, con i suoi baveri di pelliccia e il fumo dei sigari, a portare lo scompiglio. Sì, improvvisamente, senza preavviso, il pazzo era fuggito dalla gabbia e tutti ne ebbero paura o ne furono soggiogati". Gli Écrits ai quali Contri allude comparvero in Francia mezzo secolo fa e in traduzione da Einaudi una decina di anni dopo. Rappresentarono, per molti versi, una svolta, un vocabolario nuovo: a volte astruso, altre affascinante su cui far poggiare quel vasto e traballante regno della psicoanalisi. "A quell’epoca Lacan aveva solo sporadici lettori in Italia. Ricordo ancora una quartina che Elvio Fachinelli mi dedicò: "Mena Lacan per l’aia/ Giacomo Contri analista/ Prima che sian migliaia/ Sparagli a vista". Elvio fu un amico, ma poi il fuoco ha abbondato" . Contri sembra un personaggio disegnato da Max Bunker, alias Magnus, l’accostamento mi viene anche notando una pila di fumetti, seminascosta tra una tenda e il mobile.
Legge anche fumetti?
"Perché non dovrei? È letteratura popolare, ne ho una biblioteca enorme".
Cosa la seduce del fumetto?
"La mitologia che le immagini si portano dietro. Il lato mitologico dell’esistenza fu avversato da Platone, che poi non disdegnò di usare il mito. Freud invece ne ha spremuto il succo".
Ha senso dirsi oggi freudiani?
" È soltanto un modo di dire, un’etichetta e niente più. È venuta meno quella unicità che Freud stesso si era attribuito con i suoi libri e le sue parole. Solo io, ripeteva, posso dire che cosa è o non è la psicoanalisi. Parlava come il Papa".
Poteva permetterselo?
" Certo, costruì la psicoanalisi come se fosse una scienza sperimentale. L’osservazione era il primo momento della sperimentazione. E il territorio delle nevrosi è in larga parte esplorabile".
Ma la nevrosi non è proprio ciò che sfugge alla sperimentazione? Ciascuno vive soggettivamente la propria nevrosi.
" Magari fosse così. La verità è che la nevrosi, come la psicosi, è una gabbia coattiva, non la si vive secondo un modo proprio. Voglio dire che la nevrosi è come un cristallo, incapace di varianti".
Ma allora perché Freud è tramontato?
"Sono tramontati i freudiani. Rimozione, coazione a ripetere, fissazione, angoscia non sono affatto tramontate".
Lei come è finito a occuparsi di psicoanalisi?
" La prima cosa che mi è accaduta è stata laurearmi in medicina. Ma non avrei mai fatto il medico. Mi iscrissi nel 1961, l’anno dopo cominciai a frequentare l’istituto di psicologia e in particolare entrai in contatto con Marcello Cesa- Bianchi. A quel tempo la psicoanalisi freudiana si incarnava in Cesare Musatti e nel suo allievo Franco Fornari. Poi lasciai Milano e presi la strada per Parigi. Pensai di trovare lì il clima culturale giusto".
Come si adattò?
"Cominciai a frequentare l’École pratique. I primi contatti furono con Roger Bastide, Roland Barthes e Claude Lefort. Avevo grande stima per Louis Althusser, e per il suo modo originale di leggere Marx e uccidere la moglie. Neanche Jarry avrebbe saputo tenere insieme quelle due tragedie".
Che cosa le legava?
"Fu un omicidio ad alto tasso simbolico. Consumato contro la sua comunità intellettuale, che gli faceva abbastanza schifo".
Mi sembra un accostamento azzardato.
"E perché? In entrambi i casi agiva contro l’autorità: il matrimonio, gli affetti, le lusinghe. Disse che su Marx si era inventato tutto e che li aveva presi in giro. Trovo divertente che per molto tempo Étienne Balibar, suo allievo prediletto, tutte le settimane gli portasse i panini in manicomio!".
Lei lo avrebbe fatto per Lacan?
"Il manicomio di Lacan era il mondo!".
Come lo ha conosciuto?
" Sentii parlare dei suoi celebri seminari. Avevo conosciuto François Wahl, il direttore delle edizioni Seuil, suo amico. Gli chiesi se poteva introdurmi. Venivo da un po’ di letture psicoanalitiche e nel 1968 ebbi tra le mani gli Écrits. Lacan abitava in rue de Lille. Giunsi in una tarda mattina con la mia personalissima mitologia sull’uomo. Faceva molto freddo. Mi venne ad aprire Gloria, la segretaria".
E Lacan?
" Arrivò dopo un po’. Guardai quest’uomo che sembrava avesse fretta. Avemmo una conversazione rapida e insensata. A un certo punto mi chiese cosa stessi leggendo, risposi Max Weber. Il colloquio si interruppe a quel punto".
Forse si aspettava che citasse un suo libro.
"Non era tipo da accettare piaggerie. Andai a trovarlo diverse volte. Mi considerava un potenziale allievo. Cominciai l’analisi con lui".
Era necessaria?
"Beh, se volevo lavorarci assieme era una premessa indispensabile. Le sue sedute psicanalitiche erano famose per la rapidità, non superavano mai il quarto d’ora".
Finita la seduta come si sentiva?
" Bene, mi piacevano quegli incontri. Avevo la netta sensazione che qualcosa di non presente in me uscisse dal mio pensiero".
Catherine Millot in un recente libro (edito da Cortina) ha raccontato il Lacan privato, ne esce un ritratto piuttosto insolito, perfino sorprendente.
" Ho conosciuto bene Catherine, una donna bellissima che fu prima amante e poi compagna di Lacan. Non ho letto il libro, ma credo sapesse molte cose della sua vita privata".
E lei cosa sapeva del Lacan meno noto?
"Aveva ereditato qualcosa del vecchio surrealismo".
Un provocatore?
" Un provocatore e un maramaldo, nel senso " tu uccidi un Io morto". Non aveva nessuna fiducia nell’Io; nel pensiero; nella norma. Semplicemente era dalla parte della legge simbolica non da quella giuridica. Mi torna in mente un piccolo episodio".
Quale?
"Eravamo in macchina, lui guidava con molta spericolatezza e detestava i semafori. Diventava matto davanti a un semaforo rosso. Era uno dei suoi tratti patologici: non accettare la norma".
Insomma un pessimo cittadino.
" Non era un esempio di urbanità e di disciplina. Per lui il diritto era una entità impensabile. Come impensabile era la libertà. Anni dopo, staccandomi da quella visione, sostenni che dopotutto la vita psichica è vita giuridica".
Un’affermazione misteriosa.
" Frutto delle mie letture kelseniane. Kelsen teorizzò una cosa che ho fatto mia: l’uomo non è imputabile perché è libero; è libero perché è imputabile".
È libero perché una norma può condannarlo?
"Secoli di discussioni sul libero arbitrio sono stati azzerati. La vita psichica è vita giuridica perché niente di quello che facciamo è esente dall’imputabilità. Noi compiamo atti che sono imputabili da altri secondo norma".
Che ruolo gioca la colpa?
" Nessuno. Da quando in qua il delitto è fonte e senso di colpa? Quando Freud legge Delitto e castigo vuole capire perché Raskolnikov prima uccide la vecchia e poi tenta di tutto per farsi scoprire. Il motivo è chiaro: Raskolnikov deve dare un contenuto alla propria colpa. È il senso di colpa che giustifica il delitto e non viceversa".
Il crimine come gratificazione?
" Perfino nella Bibbia si dice: guardatevi da questi uomini, commettono le ingiustizie più atroci e sono felici".
Più che la Bibbia sembra il Marchese De Sade.
"Mi viene in mente il saggio di Lacan su Kant contro Sade".
Le viene in mente perché?
"Sono messe a confronto due forme di perversione".
Sade certamente, ma Kant?
" Kant è uno scrittore dell’orrore e della perversione. È il prezzo che paga per essere il pensatore della purezza e della ragione. Dietro il suo pietismo cristiano si nasconde la più formidabile macchina anticristiana che la modernità abbia mai costruito".
Qual è il suo rapporto con la religione?
"Perché me lo chiede?".
Ci sono molte tracce nel suo pensiero.
"Il cattolicesimo è stato uno dei miei orientamenti. Potevo gettare la fede alle ortiche o tentare di fare un passo ulteriore".
Verso quale direzione?
" Mi sono convinto che Gesù non fosse un semplice maestro, un guaritore o un santone. Era un pensatore, come fu Platone prima di lui o Galileo e Marx dopo di lui. La mia considerazione non implica nessun riferimento alla sua esistenza storica. Per me è sufficiente sapere che il suo pensiero formale si è costituito nella seconda metà del primo secolo".
Si sostiene che sia stato Paolo a dare forma a quel pensiero.
"Si è spesso detto che, stringi stringi, Paolo abbia inventato il cristianesimo. Secondo me lo ha messo in bella copia. La verità è che il cristianesimo nasce da un oscuro pensiero che lo precede".
Oscuro perché? La predicazione del Cristo fu semplice e diretta.
"Nel senso dello "Spirito" che precede la "lettera". Il pensiero di Gesù non è ontologico, né metafisico, mantiene una distanza netta dal pensiero greco. Né tanto meno è un pensiero teologico".
Non è un pensiero religioso?
"È un pensiero che non è né ha religione. È il pensiero dell’innocenza ".
Però lei è cattolico.
"Apostolico e romano. Da questo punto di vista definirei la Chiesa non un unione mistica né di massa, ma una costellazione di legami sociali. Se ha senso distinguere una fede questa può solo consistere in un giudizio di affidabilità. Fede è comprendere se un pensiero è affidabile. Altrimenti è solo un gadget dello spirito".
So che lei si è affidato a don Giussani.
"Sono stato tra i primi a partecipare al movimento di Comunione e Liberazione fondato da don Giussani".
Come avvenne l’incontro?
" Al ginnasio dove lui insegnava religione. Lo incontrai nel 1956. Fino al 1969 sono stato ad ascoltarlo. Nella piattezza abitudinaria del mio credo fu un fulmine a ciel sereno. Parlava di Gesù come di un "fatto"".
Come un fatto in che senso?
" Fuori dalle traiettorie teologiche e morali. Meritava di essere ascoltato. Era un prete che non aveva niente del prete. Il che sembra quasi impossibile".
È una notazione interessante.
"Mi pare fosse Guicciardini a parlare della scelleratezza dei preti. E Giussani non aveva niente di scellerato".
La sua lezione in che cosa è consistita?
" Forse nella difficile collocazione del suo pensiero. Aveva un orientamento che chiamerei il senso del religioso. Che è molto diverso dalla religione in quanto tale. È arduo definire Giussani cattolico e forse anche per questo non ha mai contrastato le cose ufficiali del cattolicesimo. L’ultima volta che lo vidi fu in casa di amici comuni".
Un congedo?
"In un certo senso. Era sulla sedia a rotelle. Mi guardò con quegli occhi grandi e sporgenti che accentuavano il volto scavato: Giacomo, disse stringendomi la mano, non si capisce più niente".
Cosa c’era da capire?
" Non c’era una risposta canonica in grado di spiegare quella confessione che mi fu fatta all’inizio del nuovo secolo. Un uomo che aveva lottato per tutta la vita per un fine improvvisamente si trovava davanti a un fallimento epocale e certo non bastavano, a rendergli meno amara la situazione, le decine di migliaia di persone che componevano il suo movimento. La verità è che don Giussani è stato uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto".
Ma ha coinvolto e fatto crescere un movimento.
" È vero, ma mi fermerei lì. Quel " non si capisce più niente" lo avevo vissuto molti anni prima e fu il motivo per passare armi e bagagli a Freud e poi a Lacan".
Forse a questo punto bisognerebbe accennare al cattolicesimo di Lacan.
"Ah! Diceva di avere un grande amore per il cattolicesimo. Ma nelle sue migliaia di pagine non ho letto nulla di significativo sull’argomento. Dal cattolicesimo aveva ereditato l’amore per le chiese barocche e l’ipocrisia suprema".
Dopo tanti anni di frequentazione non le è venuta la tentazione di liberarsi di Lacan?
"La sua fu l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Con lui è stato come andare dagli Appennini alle Ande senza cercare la mamma. No, non intendo liberarmi dall’esperienza di avere viaggiato su una nave pirata".
Che cosa è un maestro per lei?
" Il maestro non è la buona via, ma tant’è ci passiamo tutti. A Lacan il maître non piaceva né come maestro né come padrone. Ma lui fu maledettamente entrambe le cose".
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
Psicoanalisi contaminata. Il caso di Jean-Jacques Abrahams. Recensione di "Un singolare gatto selvatico"
di Alessandro Siciliano *
Jean-Jacques Abrahams ha 32 anni quando, nel dicembre 1967, si presenta per l’ultima volta nello studio del suo analista. Era in analisi dall’età di 14 anni, per volontà del padre, e dopo diverse interruzioni decide intorno ai 28 anni di interrompere definitivamente la sua terapia, da sempre vissuta come violenta e obbligata. Tre anni dopo accade l’episodio che lo renderà celebre fra le marginalità della storia della psicoanalisi e che sarà discusso da Sartre, Pontalis, Pingaud, Fachinelli, Deleuze e Guattari, Castanet, negli anni fra il ’69 e il ’77.
Tale episodio costituisce un evento, una “irruzione”, dice Fachinelli; un oggetto sconosciuto e irriconoscibile agli occhi dell’analista prima, dei commentatori poi, si presenta sulla scena del setting psicoanalitico. Jean-Jacques Abrahams entra nello studio del suo analista e accende un magnetofono, un vecchio registratore, con l’intenzione di registrare il colloquio. “Credevo di dovergli [all’analista] far parte del risultato delle mie riflessioni, fatte nell’intervallo, sullo scacco di ciò che era stata questa interminabile relazione analitica”. L’atteggiamento è recriminatorio, il paziente chiede all’analista che gli vengano “resi dei conti”, che risponda a una imputazione pronunciata nei confronti dell’analista e della psicoanalisi tutta. Il Dialogo psicoanalitico finisce con l’internamento del protagonista in ospedale psichiatrico. Abrahams fugge dunque dall’ospedale, sbobina il nastro e lo invia alla redazione della rivista Le Temps Modernes, dove viene pubblicato nel 1969, con commenti critici di Jean-Paul Sartre, Jean-Bertrand Pontalis e Bernard Pingaud.
La vicenda sarà discussa da tanti altri, in primis da Deleuze e Guattari ne “L’Anti-Edipo”. Negli anni della contestazione, Jean-Jacques Abrahams, con il suo gesto di denuncia assolutamente sui generis, acquista una certa notorietà, producendo un dibattito sullo statuto della psicoanalisi: pratica di liberazione del soggetto o dispositivo borghese di regolamentazione del desiderio?
Ci viene data occasione, oggi, di ritornare a parlare e discutere di tutto ciò, grazie al lavoro di Pietro Barbetta, Enrico Valtellina, Giacomo Conserva e degli altri autori di Un singolare gatto selvatico, edito da Ombre Corte. “Ulteriore tappa della fortuna di Jean-Jacques Abrahams”, questo piccolo volume ripropone il celebre “dialogo psicoanalitico” tra Abrahams e il suo analista, pubblicato per la prima volta nel ’69 in Francia e nel ’77 in Italia, a opera di Elvio Fachinelli, sulla rivista “L’Erba voglio”; a seguire, i testi di Sartre, Pontalis e Pingaud, il bellissimo commento di Fachinelli, le distopie realizzate del nostro Abrahams, e poi Lea Melandri sull’esperienza di “L’Erba Voglio”, Antonello Sciacchitano su psicoanalisi e psicoterapia, Alfredo Riponi sulle risonanze del testo biblico nella parola di Abrahams.
Cos’è che rende interessante la performance di Abrahams? Di fatto non sappiamo nulla della storia che fa da contesto all’evento in questione. Tuttavia, se leggiamo i suoi scritti, in particolare Fallofonia e Che si fotta il sonoro, il profilo dell’avversario, della cosa contro cui Abrahams si scaglia senza riserve si fa più chiaro. E in fondo, viene da pensare che forse ogni contestazione abbia in sé un richiamo abrahamsiano.
C’è infatti una progressione in Dialogo psicoanalitico, Fallofonia e Che si fotta il sonoro: il primo è una denuncia del dispositivo analitico, la talking cure, il rapporto terapeutico basato sulla parola; il secondo è un testo in cui si critica un altro dispositivo, il dispositivo dei dispositivi, il linguaggio; nel terzo testo, Abrahams inveisce contro l’avvento del sonoro nel cinema, dunque contro la voce.
Psicoanalisi, linguaggio, voce. “Se la specie umana è pressappoco una delle poche in cui ci si uccide l’un l’altro è sicuramente a causa del linguaggio” (p. 116). Questa linea interpretativa ci permette di cogliere meglio le questioni in causa nel Dialogo psicoanalitico.
Leggendo il Dialogo, appare chiaro come l’oggetto della contestazione del protagonista sia la tecnica psicoanalitica. “Non si può guarire là sopra!”, rimprovera Abrahams indicando il divano. La pratica analitica, dice, non aiuta a “guardare in faccia gli altri”, a viverci assieme, non insegna nulla di buono sulla impossibilità in gioco nei rapporti e nei legami sociali. Nel prescrivere l’astensione dall’azione, per favorire e incentivare l’analisi della vita psichica attraverso il medium della parola, la psicoanalisi ostacolerebbe l’elemento propulsivo, trasformativo dell’azione umana, disinnescherebbe la possibilità per l’uomo di risolvere la causa del proprio disagio e della propria angoscia nella realtà, attraverso un’azione che punti a toccare, a trasformare la realtà.
Un elemento in particolare disturba Abrahams, elemento che ha a che fare con una certa violenza. Nel Dialogo psicoanalitico sono frequenti i momenti in cui i due “attori” si accusano vicendevolmente di violenza, violenza fisica del paziente, violenza simbolica dell’analista. Ed è proprio contro questa “violenza simbolica” che il nostro intende fare qualcosa, per riscattare sé stesso e tutte le altre vittime di tale violenza.
“In cosa consiste questa violenza?”, si chiede Fachinelli nel suo commento, scorgendo nel Dialogo psicoanalitico e negli altri due testi una collocazione precisa di tale violenza: “Ciò che conta soprattutto è la traduzione in parole effettuata dall’analista, o meglio il presupposto di traducibilità - implicito nella sua posizione e nella sua tecnica - di tutto ciò che proviene dall’altra parte. Insomma, il conflitto dentro l’analisi è solo in parte conflitto tra chi interpreta e chi viene interpretato; più profondamente, esso si concentra intorno alla decisione di permutazione o equivalenza verbale di quanto accade” (p. 46).
Psicoanalisi, linguaggio, voce. Sotto accusa è dunque la legge fondamentale di ogni civiltà umana: la legge della parola. Sotto accusa, secondo Fachinelli, è quella strana legge non scritta, ma scritta ovunque e da sempre, che impone che tutto il reale passi attraverso la strettoia del simbolico. Jacques Lacan, utilizzando Ferdinand De Saussure, parlerà di significante. L’essere umano si costituisce prendendo le distanze, emancipandosi dal reale attraverso la mediazione del significante, attraverso cioè una struttura che abolisce la cosa nella sua immanenza per conservarla nella trascendenza del simbolo di quella stessa cosa (la hegeliana Aufhebung). Nell’habitat umano, le cose significano altre cose, e la significazione è il movimento che collega tutte le cose e che crea un discorso. Il discorso sarà dunque un modo per fondare un legame sociale tra esseri umani attraverso la stabilizzazione di determinate significazioni, di determinati sensi. Nell’ordine del discorso si “dirà” ciò che è ammesso e ciò che non lo è, ciò che è riconoscibile, visibile, dicibile, conscio, e ciò che è irriconoscibile, invisibile, indicibile, inconscio. La voce del Padrone pronuncia un discorso che denota, inquadra la vita come vita umana; il soggetto, dice sempre Lacan con un gioco di parole, è assoggetto, in posizione di sudditanza rispetto all’Altro. Nell’habitat umano, il reale è dunque cancellato originariamente, pertanto insiste e torna sempre allo stesso posto.
Tutta la lotta di Abrahams sembra andare contro questo funzionamento. Il gesto del nostro uomo col magnetofono veicola una obiezione fondamentale, mirabilmente colta da Fachinelli, contro un dispositivo terapeutico (che sarebbe scorretto identificare nella psicoanalisi, come se esistesse La psicoanalisi) fondato rigidamente sul “presupposto di traducibilità” in parola di tutto ciò che non è parola. “Un movimento teorico che, riferito non a ciò che taglia fuori, ma a ciò che si annette, dobbiamo pure chiamare predace, tende perciò ad abbinarsi a una pratica della “trasformazione”, del “controllo”, che in alcuni suggerimenti estremi delinea una “somministrazione” del codice della normalità”. Ciò che l’uomo col magnetofono mette in atto, continua Fachinelli, è “un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività, e che passa attraverso la parola contaminata, per così dire, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola” (p. 47).
Ci sembra allora importante avere l’occasione di ricordare, o incontrare per la prima volta, il personaggio concettuale di Jean-Jacques Abrahams, grazie al lavoro di questo vitalissimo gruppo di studiosi, consolidatosi attorno all’interesse per le marginalità, letterarie, psicoanalitiche, filosofiche, storiche. Ricordiamo infatti un altro bel lavoro a cura di Barbetta e Valtellina, Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (Manifestolibri, 2014), dedicato allo “studente di lingue schizofrenico” che, con i suoi due romanzi in neolingua, ha insegnato più di qualunque teoria su linguaggio e schizofrenia. Così come in Wolfson, anche nell’uomo col magnetofono possiamo trovare una importante lezione, messa in scena ad opera di quello che di solito è l’oggetto dei saperi “psi”, oggetto piuttosto recalcitrante. E possiamo intendere questa lezione, a condizione, però, di sospendere le difese rispetto all’evento, che in psicoanalisi possono prendere il nome di “diagnosi”, “passaggio all’atto”, “follia”.
* http://www.psychiatryonline.it/node/6845, 22 giugno, 2017
Convivenza senza spada
di Marina Lalatta Costerbosa (Alfabeta-2, 18 maggio 2017)
C’è qualcosa che caratterizza la tortuosa vicenda dell’anarchismo: il suo essere bistrattato, denegato, occultato. La storia dell’anarchismo è la storia di un grande assente: perché non riconosciuto, non rintracciato come tale, oppure perché maliziosamente omesso e ridimensionato, sulla base del pregiudizio della sua irrilevanza. Ma, come spesso accade, il rimosso ricompare via via, sempre di nuovo, lavora sotto traccia; e così, un po’ paradossalmente, l’anarchismo è onnipresente, nella forma delle sue domande, fondamentali e ineluttabili, con una «sorprendente persistenza nel tempo» e la capacità di resistere alle «condizioni “climatiche” più difficili».
Gli interrogativi di fondo dell’anarchismo sono quelli connessi al problema della convivenza sociale sullo sfondo di norme prive di violenza, per recuperare una relazione concettuale individuata nell ’Antropologia di Kant che definì l’anarchia come «Gesetz und Freiheit ohne Gewalt» (legge e libertà senza violenza). Ma, ancora, sono cruciali i quesiti impliciti in quella tensione tra libertà e diritto, che si coniuga con l’ineludibile natura bifronte dell’universo giuridico, come è stato ben colto e cristallizzato nelle pagine di Andrea Caffi. E pure sono decisive le questioni legate alla relazione «non ufficiale» tra anarchia e democrazia: rapporto tormentato, questo, a cominciare dall’ambivalenza della cittadinanza democratica che, per includere ed estendere la partecipazione deliberativa, non può bandire l’incombente vocazione all’esclusione.
Non è all’anarchismo filosofico che si rivolge dunque lo sguardo di Massimo La Torre, bensì all’anarchismo politico. Se l’anarchismo filosofico si limita ad affermare «la mancanza di sostrato normativo forte di pretese che comunque rimangono valide da un punto di vista sociologico o fattuale», l’anarchismo politico, l’anarchismo “classico”, rivendica per sé progettualità; la sua «negazione della giustificazione dell’autorità» si fa costruttiva, proiettiva, lanciata verso un futuro immaginato possibile.
Coerente rispetto alla propria radicalità, attratto dalla profondità e dalla ricerca della verità empirica dei rapporti di potere reali, l’anarchismo difende e legittima il primato della ragione, di una ragione nella quale va riposta fiducia, contro le infinite guise del dominio. Ma «anarchismo» significa immediatamente anche centralità di un sentimento, quello della compassione per il debole che subisce il dominio del più forte. «Il terreno comune del “canone” dell’anarchismo politico» non è tanto o prioritariamente «l’avversione per lo Stato», ma «la pietà per il dominato e l’inferiore, quale che esso sia, come che esso fenomenologicamente possa darsi, con in più il “principio speranza”».
Talvolta si è affiancato l’anarchismo all’anarco-capitalismo, ma La Torre fa ordine e ricolloca tutto al suo posto. Avoca al pensiero anarchico il cuore libertario, e precisa il tratto contingente del punto di sovrapposizione esistente tra anarchismo e anarco-capitalismo: l’avversione all’ordine statale. Sono diversissime le ragioni di tale avversione. All’anarco-capitalista non interessa, anzi egli giustifica, il dominio generato dal fenomeno proprietario e delle sue logiche di profitto; al contrario la ragione del reciso antistatalismo dell’anarchico risiede nel fatto che «è penoso che un essere umano comandi su un altro suo simile, e ancor più penoso è che questo comando si perpetui, si strutturi e si autolegittimi».
La Torre ripercorre la vicenda dell’anarchismo entro una densa trama interpretativa, scandita dalle figure polari di Godwin, Proudhon, Stirner, e poi Bakunin, Kropotkin, Tolstoj, e ancora gli «amici avversari» Malatesta e Merlino. Attraverso la lettura dei capitoli dedicati a questi «anarchici “veri”» si segue il filo di un discorso che forse al termine deve in modo particolare a Francesco Saverio Merlino l’onere e l’onore della sintesi di un progetto «plausibile», che persiste e risuona persino oggi nell’ideale di società di Habermas (il cui progetto di giustizia può essere meglio inteso non trascurando il suo essenziale e dichiarato nocciolo anarchico).
Merlino «rivela l’“anima” del libro e le sue intenzioni», la sua idea di anarchia possibile si staglia preziosa sullo sfondo. È infatti proprio lui - spiega La Torre - che «ritessendo il filo della riflessione proudhoniana, distingue tra Stato, o potere di dominio, e dimensione politica, intendendo con quest’ultima designare un dato strutturale (non contingente, dunque) della società: le sue istituzioni». Ed è sempre lui a sottolineare «la dimensione non tecnica, e sempre normativa, e tuttavia non meramente volontaria, o egocentrica, bensì relazionale, dunque pubblica, dell’azione comune tra gli uomini nella loro convivenza». Convivenza questa che costituisce la condizione di possibilità per la pratica di una libertà intesa «come il diritto uguale di ogni essere umano a partecipare delle condizioni che rendono possibile il benessere di tutti e di ciascuno».
Chi ha iniziato a seguire la riflessione “larga” (per dirla ancora con Kant) di Massimo La Torre cominciando dal saggio su Proudhon degli anni Ottanta, non può non aver atteso da tempo questo suo libro tutto dedicato al pensiero anarchico. Un’attesa felicemente ricompensata dal risultato; perché è un libro bello, importante, per chi crede vi possa essere un’idea alta di politica, una politica che si lega intimamente alla libertà ed «è dialettica di conflitto e d’azione in concerto». Ma, in fondo, anche per chi crede in un’idea nobile della filosofia, come pensiero critico rivolto alla complessità e alla rilevanza del reale.
Nostra legge è la libertà è un libro che con sensibilità rara rende giustizia finalmente all’anarchismo; sin dal titolo, e poi in ogni sua pagina. Un libro che ne coglie il valore e il significato autentico, teorico e umano, che permette di avvertirne il portato più profondo in termini di libertà. Un libro insomma contro i mille fraintendimenti, le volute semplificazioni, i tanti silenzi.
RECENSIONI *
"La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale"
Sherry Turkle
Einaudi, Torino 2016, pp. 456, € 26
di Marco GUI *
Negli ultimi anni, Sherry Turkle - sociologa e psicologa statunitense, responsabile di un importante centro di ricerca su tecnologia e identità al MIT di Boston - si è imposta come una delle voci più ascoltate nella letteratura sugli effetti collaterali della rivoluzione digitale. Fin dagli anni ’80 ha pubblicato importanti volumi su questi temi, maturando nel corso del tempo un atteggiamento sempre più critico sulle conseguenze del digitale, in particolare per il suo impatto sulle relazioni umane.
Nel suo penultimo libro, Insieme ma soli, l’A. si era già concentrata sulle conseguenze che smartphone e social hanno sui rapporti interpersonali. Al centro di quest’ultimo volume vi è - più alla radice - la conversazione: una risorsa, un’arte, un bisogno umano che la mediazione digitale del dialogo mette a rischio. In particolare, secondo l’A., esiste una connessione stretta tra la capacità di conversare e quella di empatizzare, che è a sua volta fondamentale per stringere rapporti significativi con le persone, e quindi per essere felici. Turkle mostra come, proprio oggi che la comunicazione digitale ci permette di “bypassare” i vincoli del dialogo faccia a faccia, ci accorgiamo di quanto invece esso sia essenziale: «Ora siamo consapevoli di avere bisogno di cose che i social media inibiscono» (p. 26). Il libro costituisce un’occasione molto preziosa di arricchimento per chi vuole riflettere sulle dinamiche relazionali in un mondo sempre più pervaso dal digitale, dove secondo le ultime statistiche statunitensi la permanenza media davanti a uno schermo (computer, smartphone o televisore) ha superato le 11 ore al giorno.
La struttura del libro è ispirata a una frase del filosofo David Thoreau, che diceva di avere in casa «tre sedie; una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia» (p. 15). “Una sedia” rappresenta il rapporto con se stessi, il primo a essere messo in difficoltà dal riempimento dei vuoti tipico dello smartphone e fondamentale anche per poter conversare con gli altri. Le “due sedie” rappresentano il dialogo con un altro significativo, un partner o un amico intimo, ma anche un collega o un conoscente. “Tre sedie” servono invece per le conversazioni collettive. A questi tre capitoli, l’A. ne aggiunge un altro sulla conversazione civile, cioè sulla democrazia, e uno su una “quarta sedia”, rappresentata dal dialogo con interlocutori non umani (le macchine e i robot).
Il modo di procedere del testo non è sistematico, ma mira a costruire una consapevolezza crescente nel lettore, attraverso le storie delle persone intervistate: studenti, manager, impiegati, genitori e figli. Ogni racconto aggiunge un tassello all’esplorazione degli effetti della mancanza di conversazione faccia a faccia, come ad esempio quelli di adolescenti che vivono con dolore la scarsa attenzione ricevuta dai genitori, immersi nei loro device tecnologici: privati di una fondamentale palestra di dialogo, i ragazzi e le ragazze intervistati finiscono per rifugiarsi a loro volta nel mondo virtuale, trovandovi un qualche conforto, che tuttavia per sua natura non può che essere superficiale.
Nonostante in alcuni passaggi sconfini in un tono nostalgico, l’A. non vuole cadere in una tecnofobia grossolana: anche i “Mi piace” «possono essere i primi passi di un processo empatico [...] tutto dipende da quello che succede dopo» (p. 207).
La tecnologia può essere un aiuto alla conversazione, ma da sola non basta. Nessuno strumento di mediazione può essere, infatti, così ricco dal punto di vista comunicativo come il dialogo in presenza, con la voce, i movimenti del corpo, le espressioni, la gestualità, lo sguardo, il contatto e le emozioni che tutte queste cose producono.
Nelle storie dei giovani intervistati emerge un’allarmante mancanza di allenamento alle difficoltà, ma anche alla ricchezza della conversazione, che li spinge a rifugiarsi nei più sicuri confini di email, sistemi di messaggistica e social network, strumenti meno problematici, meno limitanti e più controllabili. Le conseguenze negative della povertà di capacità conversazionali si vedono nelle storie sentimentali delle nuove generazioni e nelle loro esperienze lavorative.
L’A. ci porta quindi all’interno di alcune aziende americane, dove gli effetti collaterali di un modo di lavorare concentrato sui terminali cominciano a manifestarsi in modo pesante. Le aziende corrono ai ripari cercando di trovare nuove modalità organizzate di socializzazione e costruiscono spazi appositi per questo, tuttavia si scontrano con generazioni abituate a pensare che l’efficienza si ottenga soprattutto con una dedizione allo schermo del proprio device. Poco abituate all’arte del conversare, le nuove leve sono sempre meno in grado di creare un legame personale con i clienti, di capirne in profondità i bisogni, di trovare soluzioni creative nel confronto con loro. Del resto, dati di ricerche scientifiche citati insieme ai vari racconti confermano un calo delle capacità empatiche nelle ultime generazioni.
Ci rendiamo anche conto, storia dopo storia, che le applicazioni digitali, costruite a partire dall’idea di ottimizzare le nostre relazioni, paradossalmente rendono più difficile fare esperienze di relazione significative. È il caso di Tinder, una applicazione che consente di cercare possibili compagni e compagne per un appuntamento, selezionati sulla base di caratteristiche desiderate. L’uso di Tinder - ci mostra Turkle - pone in realtà i soggetti in una situazione di grande indecisione, presi dall’ansia di verificare costantemente se là fuori non ci sia di meglio e, alla fine, di forte solitudine. Le forze spese nella scelta tra quell’enorme assortimento finiscono per togliere tempo ed energie all’esperienza reale di una compagnia, alla possibilità di approfondire un rapporto con qualcuno.
In più, le stimolazioni continue portate dalla digitalizzazione hanno conseguenze anche sulle relazioni già consolidate. C’è una crescente “suscettibilità alla stasi”, per cui i «piccoli momenti di noia» (p. 50) della vita ci diventano via via più intollerabili: sullo smartphone ci attende sempre un mondo più stimolante. Così, in famiglia, la sola presenza di un cellulare è sufficiente a togliere profondità e coinvolgimento a una conversazione.
La soluzione? Imparare a confinare le tecnologie, in modo che non limitino gli spazi della relazione con se stessi e con gli altri; immaginare hardware e software di nuova generazione che non spingano a un sovra-consumo ma che siano progettati addirittura per essere lasciati da parte quando necessario.
La lettura del libro può risultare faticosa per chi preferisce una maggiore concisione e un’esposizione più concettuale, tuttavia i racconti offrono una notevole ricchezza di stimoli, senza le semplificazioni che deriverebbero da una sintesi. Se qualcosa si può rimproverare a questo testo, è di non riuscire in molti casi ad andare alle radici dei problemi che affronta. Spesso, infatti, risulta chiaro che le tecnologie non fanno che rendere espliciti problemi indipendenti da esse.
L’A. ad esempio racconta spesso di come dipendenti e manager delle aziende si sentano stressati da un uso intensivo delle tecnologie, nell’ansia di non restare esclusi da qualche flusso di informazioni rilevanti (la cosiddetta “FOMO”: Fear of Missing Out), ma non è mai affrontato il tema delle logiche economiche alla base di questo tipo di sfruttamento degli strumenti digitali. Turkle insiste nel sottolineare che una reintroduzione delle conversazioni faccia a faccia farebbe bene alla produttività stessa delle aziende, ma non mette in discussione che sia proprio la logica della produttività esasperata e immediata a generare un uso distorto delle opportunità tecnologiche, né che queste logiche siano incorporate nel design degli hardware e software più diffusi.
Come ha scritto Jonathan Franzen recensendo il libro sul New York Times, «Le tecnologie digitali accelerano il capitalismo, e iniettano la sua logica di consumo e promozione, di monetizzazione e di efficienza in ogni minuto della giornata» [traduzione mia]. Allo stesso modo l’A. non prende in considerazione il modo in cui le problematiche del digitale si legano a quelle della disuguaglianza sociale: è ugualmente possibile disconnettersi dalla tecnologia - come lei consiglia - per lavoratori di livello e grado di autonomia diversi? È possibile che persone con risorse socioeconomiche diverse possano raggiungere allo stesso modo una consapevolezza sugli effetti collaterali della comunicazione digitale? Turkle non distingue, ma l’impressione è che i suoi riferimenti attingano soprattutto ai settori più privilegiati della società.
Infine, l’A. non si addentra nell’analisi dei motivi per cui abbiamo tanto bisogno di conversazione. Leggendo questo libro viene spesso in mente una famosa frase di Erich Fromm: «Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità di amare». Ma nonostante le aspettative in tal senso, Turkle non parla mai di amore.
Dopo tutto questo elogio della conversazione e dell’empatia, il lettore gradirebbe che l’A. si sbilanciasse in un’antropologia e ci spiegasse qual è l’esigenza umana di base che la comunicazione mediata dal digitale tende a farci accantonare. Qui sta, a nostro parere, un’occasione di riflessione che rimane ancora da sviluppare: il bisogno di fare silenzio per comprendere se stessi e gli altri o quello di instaurare relazioni profonde e continuative non sono certo delle novità, ma gli effetti collaterali del digitale ci spingono a farci i conti urgentemente, a un livello molto concreto. Il design futuro di hardware e software potrebbe allora diventare una nuova occasione per esplorare le esigenze relazionali più profonde dell’essere umano.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS - NON IL "LOGO"! La questione della "Parola" e della "Lingua" ...
L’improvvisazione intima del tango
di Enrica Morlicchio ((Il Mulino, 12 maggio 2017)
Negli ultimi anni sono state pubblicate negli Stati Uniti alcune interessanti ricerche sociologiche sul tango che ne hanno esplorato diversi aspetti: l’industria del turismo e della moda (i «pellegrinaggi» organizzati degli appassionati a Buenos Aires), i nuovi flussi migratori alimentati dai maestri argentini e uruguaiani e dalle loro famiglie, il profilo socio-demografico dei frequentatori delle milonghe (i luoghi al chiuso nei quali si balla il tango) o dei luoghi pubblici all’aperto dove essi convergono in occasione dei flashmob. Questa ampiezza di temi di ricerca è del tutto comprensibile se si pensa alla ampia diffusione geografica di questo ballo e al suo carattere di massa. Mancava tuttavia in questo panorama un libro, come quello di Davide Sparti (Sul tango. L’improvvisazione intima, Il Mulino, 2015), che affrontasse il tango come una specifica pratica simbolica di interazione tra due persone (non necessariamente un uomo e una donna) che entrano in contatto mediante l’abbraccio e l’energia dei corpi mediata dal suolo.
Benché l’autore del libro, professore di Epistemologia delle scienze sociali e di Teorie dell’identità nell’Università di Siena, dichiari fin dalle prime pagine di essere un ballerino (si intuisce esperto), il suo libro non si basa su una ricerca etnografica (anche se il capitolo quinto ha come titolo «Etnografia di una milonga»). La sua argomentazione si inserisce piuttosto in un filone di studi che egli conduce da tempo sulla «improvvisazione nella vita quotidiana» . In modo analogo a quanto sviluppato nei precedenti lavori sul jazz, Sparti usa il tango come occasione per riflettere sulla questione teorica più ampia e generale del carattere «in situ» e procedurale dell’agire sociale e in particolare su quel particolare tipo di agire che è l’improvvisazione nella vita quotidiana.
In altre parole Sparti usa il tango come dispositivo per comprendere la fenomenologia dell’interazione. Nonostante l’indubbio interesse del capitolo primo, che ricostruisce l’origine sottoproletaria del tango rioplatense (che, nota l’autore, si distingue in ciò dal valzer che celebra l’unità della coppia borghese) e le sue radici afrodiasporiche e creole, è il nucleo centrale del libro a presentare le maggiori sfide teoriche.
Per Sparti, al pari del jazz e di altre pratiche d’improvvisazione, il tango richiede un’accurata conoscenza della struttura e delle regole che informano il campo di riferimento, regole relative al corpo, alla maniera di muoversi, all’uso dello spazio e del tempo, all’interazione con gli altri (esiste ad esempio un preciso galateo della milonga al quale i ballerini devono attenersi). «In questo senso» - egli scrive - «quella del tango è un’improvvisazione strutturata» (p. 102). Esso «mette in luce non l’affrancamento dai vincoli nella speranza di approdare a uno spazio supposto libero e indifferenziato, ma la capacità di riconoscere vincoli e di esplorare le possibilità (di movimento) in essi implicite, che è poi la capacità di scoprire fino a che punto quei vincoli sono mobili (piuttosto che eliminabili)» (p. 105).
La natura contingente e improvvisa dell’incontro dei corpi nel tango - un incontro che mobilita in primo luogo energia, anche se il tango è più frequentemente associato alla sensualità - apre una varietà di opportunità di azione. Tale esperienza configura una particolare forma di socievolezza, nel senso dato da Simmel di modalità nel relazionarsi in cui non viene perseguito alcun obiettivo preciso, se non il gusto del «fare società». Nei quindici minuti circa di durata di una tanda (cioè della successione di tre o quattro esecuzioni consecutive durante le quali per convenzione la coppia rimane unita nel ballo) la concentrazione richiesta dalla esecuzione dei passi, dal controllo della sala per non urtare le altre coppie, e da tutto il resto riduce al minimo la conversazione tra i ballerini.
Il tango si balla in silenzio. «Finita la tanda - scrive Sparti - siamo restituiti alla nostra vita di entità separate. La fusione, se emerge, emerge in quel tempo breve, e il legame intrecciato con l’altro nella sala da ballo raramente transita fuori della pista» (p. 157). Per questo motivo la milonga non è, come comunemente si ritiene, un luogo per cuori solitari alla ricerca di un partner. Essa è piuttosto la «celebrazione estetica della vita in comune» (p. 155).
In questo senso il tango, anche se l’autore non fa riferimento a questo tipo di letteratura, può essere annoverato tra quelle forme in chiave minore dello stare insieme in pubblico che Ash Amin e Nigel Thrift definiscono togetherness. Grazie a questi microincontri e alla condivisione di spazi fisici comuni gli individui giungono a negoziare significati, a condividere valori comuni e a fare esperienza dell’essere con l’altro. In queste interazioni in «chiave minore» non sono necessarie forme di elaborazione sul piano strettamente culturale e identitario del tipo prospettato dalle politiche di «riconoscimento» e del vivere con la differenza, così come nel tango, abbiamo visto, non è necessaria una conoscenza approfondita dell’individuo con il quale si balla. In tal senso la milonga può diventare un prototipo di luogo pubblico di conciliazione e integrazione nel quale le persone possono sentirsi libere dagli obblighi di riconoscimento reciproco tra estranei, diventare «indifferenti alle differenze» senza tuttavia rinunciare ad interagire e ad incontrare l’Altro.
IL TANGO IN ITALIA *
PIO X E LA FURLANA
Per quanto riguarda quest’argomento, il non plus ultra doveva verificarsi e si verificò - almeno in apparenza - a Roma dove si diffuse la notizia che lo stesso Papa Pio X sarebbe stato interpellato sul tema della decenza della danza rioplatense e avrebbe assistito al ballo di un tango nel suo appartamento. È questa una storia che tutti menzionano e pertanto sembra giunto il momento di chiarire i suoi contorni alla luce dei documenti. Pio X, che sarebbe morto lo stesso anno e sarebbe stato in seguito canonizzato, fu un innovatore sotto apparenze conservatrici. Col suo secondo Motu proprio del 25 aprile 1914 operò una riforma della musica sacra e incaricò i monaci benedettini dell’Abbazia francese di Solesmes della preparazione di un’edizione vaticana del canto gregoriano sulla base di una revisione dei codici antichi. Per questo motivo occupa un luogo nella storia della musica liturgica cattolica.
Però, la leggenda che lo mette in relazione con il tango nacque, in realtà, il 28 gennaio del 1914, quando il Corriere della Sera pubblicò ciò che segue: "Il corrispondente romano del Temps, Jean Carrère, raccoglie la voce curiosa che il Papa abbia raccomandato la furlana, l’antica danza veneta, ad una giovane coppia patrizia da cui si sarebbe fatto dare un saggio del tango. Il Papa, vedendo le smorfie che i due giovani erano costretti a fare per ricordarsi ogni movimento, li commiserò dicendo:
Capisco che voi amiate la danza. Essa conviene alla vostra età, e così è sempre stato come sempre sarà. Ballate, dunque, poiché ciò vi fa piacere. Ma invece di adottare queste ridicole contorsioni barbare, perché non scegliere quella meravigliosa danza veneta che io vedevo spesso ballare nella mia giovinezza e che è così elegante, così distinta, così latina: la furlana?.
La furlana? domandarono sorpresi i due giovani adepti del tango.
Come, non conoscete la furlana?
E il Papa, tutto arzillo, avrebbe accennato già ad alzarsi, come se avesse inteso rivelare egli stesso le armoniose movenze di questa danza graziosa.(...) Jean Carrère si dice convinto che la "danza del Papa" non tarderà a detronizzare completamente ogni altra danza mondana. La storiella è graziosa e si può accoglierla a titolo di curiosità." [...]Questo significa che, almeno in un primo momento, la stampa non espresse alcun dubbio sull’inverosomiglianza della storia. Anzi, indicò in varie occasioni il nome dell’autore dell’invenzione. Con il passar del tempo, però, e a forza di ripetere l’aneddoto con piccoli cambiamenti, gli stessi giornalisti finirono col considerarlo vero. Le prime smentite da parte del Vaticano arrivarono subito.
Già il 30 gennaio sotto il titolo "Il Papa e la Furlana: una protesta", si legge nel Corriere della Sera che... "Il ridicolo di tutto il pubblico sarebbe degno e sufficiente castigo dei pretesi informatori vaticani per l’offesa dignità dell’augusta persona del Pontefice, gratuitamente immischiato in queste invenzioni grossolane, se non reclamasse anche la protesta disdegnosa di ogni cattolico."
E due giorni più tardi, nello stesso periodico si pubblica che "Di fronte alle voci diffuse negli ultimi giorni da alcuni giornali secondo i quali dinanzi al Papa avrebbe avuto luogo una rappresentazione di tango, la Nunziatura pontificia è autorizzata a dichiarare che queste voci offensive per Sua Santità sono completamente infondate."[...] Il tentativo di Carrère da i suoi frutti. La furlana entra in competizione con il tango, almeno negli spazi che questo aveva occupato nella stampa. [...] Il più completo degli articoli che si pubblicano durante quei giorni di febbraio sul tentativo di sostituire il tango con la furlana e la conseguente variazione nella moda dei balli, tratta il tema con tale ricchezza di dettagli e con una varietà così grande di epiteti che supera ogni possibile commento: "Corrono giorni tristi e difficili per il tango. Un successo immediato, clamoroso, un furore, una mania, una pazzia, una popolarità sconfinata: tutto il mondo conquistato e intangato in un momento. Il parossismo. Nessuna danza ha mai avuto una così fulminea e così vasta celebrità. Ma ecco che a due o tre mesi appena dal suo maggior trionfo, il tango comincia a declinare, a piegarsi, a tramontare.(...) Viveva glorioso e incontrastato. Era il padrone, e non aveva rivali. Adesso invece ne ha uno, ed è una rivale. Ahimè, si: la furlana. Tango?, o furlana? Il dubbio è grave (...) e il tango vacilla sul suo piedistallo. (...) I cinematografi si sono impadroniti subito dell’avvenimento e le proiezioni della furlana hanno un grande successo (...) La voga improvvisata mette un grande interesse attorno alla vivace danza veneta. (...) Tango? O furlana? E una cosa che non si può risolvere così, su due piedi, ce ne vogliono almeno quattro." (Il Corriere della Sera - 08/02/1914)
* PASSIONE ARGENTINA. IL TANGO IN ITALIA NEGLI ANNI ’30
*Museo dell’Audiovisivo
Discoteca di Stato
Universidad de Valladolid
© 2002
LA "COPPIA FREUDIANA". L’OPERA DI CHRISTOPHER BOLLAS "disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca":
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Freud e Binswanger divisi dal demone della metafisica
Psicoanalisi. Introdotto da Jung, Binswanger conobbe Freud nel 1907 e avviò subito con lui un carteggio, che fu preludio di una lunga amicizia
di Andrea Calzolari (il manifesto, 29.05.2016)
Sentii parlare per la prima volta dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger da Luigi Gozzi, membro del Gruppo 63, drammaturgo allora esordiente, poi direttore a Bologna del Teatro delle Moline. Era la fine degli anni sessanta e Gozzi stava elaborando una poetica centrata sul manierismo dell’attore, ispirata, tra l’altro, anche a Tre forme di esistenza mancata, il primo libro di Binswanger, del 1956, tradotto in italiano nel ’64. Dedicato al manierismo, il saggio ne proponeva una accezione assai ricca e complessa, nutrita non solo dall’esperienza clinica ma anche da vaste conoscenze in ambito figurativo e letterario: utilizzava, per esempio, il capolavoro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, del 1948, per dimostrare come la pratiche linguistiche di alcuni manierismi schizofrenici, che affettano caratteristici stereotipi espressivi, si apparentino a antiche tecniche letterarie e retoriche.
Mentre si capisce, dunque, l’analogia tra il manierismo attoriale cui Gozzi si dedicava nel teatro d’avanguardia di quegli anni e la «paranoia critica» surrealista, ancora più interessante è vedere come il risultato delle ricerche di Binswanger fosse un brillante esempio di quella che egli chiamò la Daseinanlyse, tradotta un po’ approssimativamente qui da noi (e in francese) come «analisi esistenziale», vale a dire una indagine che cerca la fondazione delle categorie psichiatriche nella fenomenologia husserliana e nel pensiero di Martin Heidegger.
Una delle conseguenze di questo orientamento, e uno degli aspetti più significativi della Daseinanalyse, stava nello sfumare il confine tra il normale e il patologico, mostrando le radici dei fenomeni studiati dalla psichiatria nell’esistenza umana cosiddetta normale, vale a dire nell’essere-del-mondo dell’Esserci (Dasein) come era stato indagato in Essere e tempo da Heidegger. Poco dopo che Binswanger pubblicò Tre forme , dedicato a Heidegger, questi sconfessò lo psichiatra svizzero - che del resto era sempre stato consapevole del fatto che le sue indagini riguardavano i problemi dell’esistenza e non la domanda sull’esistenza - e liquidò con pochi, sprezzanti giudizi quel Freud che, viceversa, Binswanger avrebbe considerato sempre un maestro.
Figlio e nipote di psichiatri, Binswanger aveva studiato nel Burghölzli di Zurigo, la celebre clinica diretta dal grande psichiatra Eugen Bleuler, dove aveva lavorato con 0Chiunque conosca le affascinanti ma turbolente vicende della nascita e del primo sviluppo della psicoanalisi sa che quasi mai il distacco degli allievi dal padre fondatore si è consumato senza traumi e recriminazioni, e sa come di solito questi si concludessero non solo nell’interruzione di ogni relazione, ma nella reciproca disistima: il rapporto tra Binswanger e Freud costituisce una felice eccezione.
La storia di questa solida e generosa amicizia, che si mantenne nonostante il dissenso intellettuale tra i due, venne descritta dallo psichiatra svizzero in un volumetto del 1956 -Ricordi di Freud (Astrolabio 1971) seguendo la falsariga della sua corrispondenza con Freud, ora integralmente tradotta e curata da Aurelio Molaro in un bel libro: Sigmund Freud-Ludwig Binswanger, Lettere 1908-1938 (Cortina, pp. 316, euro 29,00) di piacevole interesse, benché l’introduzione sia impegnativa e un po’ ridondanti le note, fin troppo erudite.
Sullo sfondo delle vicende della scuola freudiana, si possono seguire le biografie dei due corrispondenti, scoprendo, per esempio, un Freud affettuoso, che nel 1912 pur di visitare Binswanger gravemente ammalato (era stato operato per un tumore) urta la suscettibilità di Jung, che pure considera il suo allievo più promettente: come si sa, i primi dissapori con quello che gli era sembrato l’erede destinato a succedergli alla guida del movimento psicoanalitico sarebbero sfociati nella più famosa delle eresie e nella costituzione di un indirizzo di ricerca ancor oggi autonomo e rivale alla teoria e al metodo freudiani.
Se non si consumò una rottura tra Binswanger e Freud, questo dipese non solo dal carattere di entrambi, ma anche dalla apertura della loro intelligenza, nonché da una disponibilità alla speculazione teorica, particolarmente pronunciata nello psichiatra svizzero, attratto fin da giovane dalla filosofia, interesse al quale nemmeno il suo interlocutore era peraltro estraneo.
Le divergenze tra i due, in effetti, non derivano tanto dalla maggiore apertura di Binswanger al pensiero filosofico, da lui fin troppo sottolineata, di contro all’orientamento più scientifico di Freud, quanto a ciò che si rende evidente in una lettera del padre della psicoanalisi, il quale scherzosamente mette in guardia l’allievo dal «demonio» della filosofia, intendendo le speculazioni metafisiche che secondo lui, risolutamente ateo e materialista, possano ostacolare la conoscenza.
Così, quando Binswanger nel 1928 gli fece avere il suo volumetto sul sogno, Freud da una parte si congratulò, ma dall’altra non mancò di criticare la pagina conclusiva in cui Binswanger faceva appello a una metafisica dello spirito che non poteva non condurre all’idea di Dio.Paragonando la religione a una sbronza senza alcol, Freud scriveva di essere sempre stato sobrio, se non astemio: aveva appena pubblicato L’avvenire di un’illusione, ma - diceva - mentre i bevitori di razza gli incutevano rispetto, «solo chi riesce a ubriacarsi con una bevanda analcolica mi è sempre apparso piuttosto ridicolo».
Giudizio che ribadì, seppur temperandolo nei modi, otto anni dopo, quando nel 1936, per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, Binswanger tenne una conferenza, La concezione freudiana dell’uomo alla luce dell’antropologia, che è forse il suo testo più maturo e organico fra quelli dedicati al maestro. In quelle pagine espone i tratti a suo avviso essenziali della dottrina freudiana, centrata sull’idea dell’homo natura, vale a dire dell’uomo in quanto creatura naturale (in opposizione alle altre figure in cui una tradizione millenaria ha di volta in volta identificata l’essenza umana: l’homo coelestis, l’homo universalis e l’homo existentialis).
Se Binswanger non esita a paragonare Freud a Goethe o a Nietzsche, nonché a riconoscere la grandezza rivoluzionaria e il rigore delle sue concezioni, è tuttavia ugualmente deciso nel prenderne le distanze, accusando la psicoanalisi di frantumare la totalità dell’esperienza umana e di ridurne la ricchezza, irrigidendola nella tensione tra pulsioni e illusioni.
Nel ringraziare affettuosamente Binswanger, Freud ribadì le sue posizioni con queste parole destinate a restare famose: «Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono sempre limitato al parterre e al souterrain dell’edificio - Lei sostiene che cambiando il punto di vista si possa vedere anche un piano superiore in cui abitano ospiti distinti come la religione, l’arte e altri ancora. Non è l’unico a pensarlo, è di questo parere la maggior parte degli esemplari civilizzati di homo natura. In tal caso è Lei il conservatore, io il rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, mi permetterei di assegnare a simili individui di alto lignaggio un posto nella mia casupola. Per la religione l’ho già trovato, da quando sono approdato alla categoria di “nevrosi dell’umanità”. Ma probabilmente ci parliamo senza capirci, e il nostro contrasto si appianerà solo fra qualche secolo».
OperaViva Magazine un’arte del possibile
Prendere l’uomo alla radice
Le domande di Elvio Fachinelli
Il maestro ignorante
di Marina Montanelli, Francesco Raparelli (Opera viva, 09 maggio 2016)
La nostra è una generazione sfortunata, deve ammetterlo anche Mario Draghi, e sta diventando superfluo ripeterlo. Così sfortunata che, oltre alla disoccupazione, al working poor, gli tocca in sorte la psicoanalisi di Stato, Massimo Recalcati e molto altro. Non bastavano il primato delle neuroscienze, il trionfo della psicologia al servizio della «mediazione», pure la riscoperta dei tabù, della Legge e del Nome del Padre: non c’è che dire, un vero e proprio accanimento.
Un volume da poco in libreria, edito da DeriveApprodi, ci ricorda che la psicoanalisi italiana ha vissuto momenti decisamente migliori: si tratta degli scritti politici di Elvio Fachinelli, dal titolo, bello quanto i testi raccolti, Al cuore delle cose (DeriveApprodi, 2016). Una penna affilata, quella di Fachinelli, che ha trasformato, tra gli anni Sessanta e Settanta, la psicoanalisi in un campo di battaglia; di più, l’ha resa arma utile per farla finita con la famiglia e il Leviatano. Psicoanalista, giornalista, militante politico: una grandissima figura del Novecento italiano ed europeo, di cui, neanche a dirlo, è stata in buona parte smarrita la memoria.
Di certo è ricordato da una parte delle istituzioni psicoanalitiche, di certo non sanno chi sia, o quasi, i giovani militanti del nostro tempo, e la filosofia accademica continua a non leggere i suoi testi fondamentali sul tempo, la ripetizione, l’estasi. Al cuore delle cose, completando e arricchendo la nota raccolta, Il bambino dalle uova d’oro, edito nel 1974 da Feltrinelli e oggi di nuovo disponibile per i titoli di Adelphi, rende finalmente possibile la «rammemorazione», lascia finalmente scoccare «l’ora della leggibilità» di questo autore, consegnandoci con forza l’attualità della sua ricerca, della sua lingua.
I blocchi tematici che articolano il volume sono davvero molti, proviamo a indicare, perciò, i più rilevanti: la riflessione sul Sessantotto e la rottura generazionale; la centralità, politica e psicoanalitica, dell’infanzia e l’«educazione proletaria»; la droga; le nuove «istituzioni d’amore»; le «estasi metropolitane». Prima di addentrarci tra i testi, preferiamo individuare le domande utili per orientare la nostra fugace esplorazione. Non è quella di Fachinelli d’altronde, così come segnalato nel suo testo programmatico del 1970, Cosa chiede Edipo alla sfinge, una «psicoanalisi interrogante»? Un «processo» aperto, un «lavoro», piuttosto che un sapere corporativo, cristallizzato nel feticcio positivistico dell’obiettività dei dati?
Ebbene sono due le domande che, a nostro avviso, attraversano per intero queste pagine di Fachinelli - la loro ricerca pratica oltre che teorica. La prima compare nelle battute introduttive de L’Erba voglio (il libro, 1971), nel volume DeriveApprodi titolate Quale autorità nella scuola?: «ma allora, conviene impegnarsi in esperienze scolastiche autonome, fuori dall’apparato istituzionale, come gli asili autogestiti - oppure in un’azione nella e contro l’istituzione scolastica esistente»? La seconda, esplicita in un articolo breve e potente dal titolo Single, ripete la domanda arrogante che i vincitori (siamo ormai negli anni Ottanta) non smettono di ripetere ai vinti: «dove siete finiti? Siete falliti, non è vero?».
La prima questione nasce in primo luogo dall’esperimento, straordinario, dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano. Momento di lotta, condiviso con Lea Melandri e Luisa Muraro, ma anche di istituzione alternativa. L’interrogazione, posta nel mezzo di una pratica situata, colpisce per la sua attualità e, come un taglio, segna tanto la psicoanalisi quanto la politica, indicandone la più intima delle giunture. D’altronde, già nella traduzione e commento, per Quaderni piacentini (1969), dell’allora inedito benjaminiano, Programma per un teatro proletario di bambini, il punto dirimente di tale interrogazione viene scorto e chiarito: seguendo le parole di Benjamin, è nel «gesto infantile» che bisogna individuare il «segnale segreto dell’avvenire», quello «veramente rivoluzionario».
E Fachinelli, che usa il Sessantotto e Benjamin (non casualmente riscoperto dal movimento studentesco tedesco) per ripensare la psicoanalisi, approfondisce: «se infatti è vero, come ritengo, che la crisi della psicoanalisi della risposta sia cominciata, e sia destinata ad aggravarsi, a livello della secessione giovanile, allora il primo e unico luogo privilegiato della psicoanalisi interrogante sarà dato dalla giovane generazione. Penso innanzitutto ai punti in cui, appena superato il rapporto biologico, tra virgolette, con la madre, comincia una fase di socializzazione che in realtà è di apprendimento, precocissimo, delle regole vigenti nella nostra società in via di massificazione». Allora l’infanzia diventa il luogo che fa la differenza.
Allora la prassi sovversiva non può che essere anche, e soprattutto, auto-formazione, educazione non autoritaria, discontinuità antropologica, proliferazione istituzionale oltre e contro le istituzioni dello Stato. Allora la psicoanalisi deve smettere di essere «istituzione tabù» normativa, semplice «sistema genitoriale accessorio», per farsi, invece, «lavoro senza fissa dimora», per rompere la sua immagine più consolidata, «quella della segregazione in un rapporto duale socialmente e culturalmente privilegiato», quella di un «settore specializzato [...] detentore di un sapere-potere separato, la psicologia» appunto.
Proseguendo nella direzione indicata da Benjamin, la possibilità della rivoluzione è indissolubilmente legata con la costruzione di un’altra pedagogia e, quindi, di un’altra antropologia: prestar fede all’infanzia, muoversi e lavorare all’interno del suo «continente», significa assumere fino in fondo il gesto davvero sovversivo di Freud, quello che - secondo le parole del bellissimo testo sul fondatore del movimento psicanalitico (Adelphi, 2012) - cercava nelle «tracce del banale, del comune a tutti» le condizioni del cambiamento, della trasformazione dell’esistente. In altri termini e, soprattutto, riscoprendo in tutta la sua serietà l’ispirazione antropologica marxiana, «politica radicale» vuol dire «prendere l’uomo alla radice», là dove «la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso». Soltanto dall’interno del processo medesimo di costruzione dell’umano è possibile immaginare l’uomo nuovo.
La seconda domanda riguarda le nuove «istituzioni d’amore» degli anni Sessanta e Settanta, in primo luogo; più in generale, a nostro avviso, i movimenti, le grandi rotture esistenziali e politiche. Ci si avvicina alla fine degli anni Ottanta, risuona con forza la boria dei vincitori, la paccottiglia postmoderna che dichiara finita la Storia, e Fachinelli tenta di riannodare i fili del «desiderio dissidente». Contro la famiglia («luogo chiuso, coatto, defecatorio»), negli anni della lunga Comune italiana sono spuntati ovunque i «gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche solo di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là».
Simili - ed ecco una eccellente definizione di istituzioni non statali - «a quelle strutture chiamate cristalli liquidi». La voce odiosa degli anni Ottanta non si fa attendere, interrompe il ricordo: «siete falliti, non è vero»? La risposta di Fachinelli è netta: «non c’è fallimento, non c’è scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà». Ma cosa sia questa logica, e come costituisca i gruppi, nella loro proliferazione libera, ostile all’unificazione sovrana, Fachinelli lo aveva chiarito proprio nel Sessantotto, facendo i conti - lui sì seriamente - con la «secessione giovanile».
L’esodo dalle forme di vita consolidate, per un’intera generazione, prende le sembianze di una sorta di gruppo-processo dove «ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno reale [...] non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato del desiderio». Se c’è morte del gruppo, quella è la morte del desiderio. E un desiderio morto, per dirla col filosofo, è una potenza interamente incarnata, senza resti. In una potenza che sa rimanere inattuale, in una richiesta che non smette di chiedere ancora, lì c’è il movimento, nonostante la sconfitta, nonostante l’inverno.
Elvio Fachinelli: una nuova lingua per la psicoanalisi
di Massimo Recalcati (Doppiozero, 01.04.2016)
La recente pubblicazione di alcuni scritti politici di Elvio Fachinelli, curati con attenzione dal filosofo Dario Borso, col titolo semplice ma suggestivo Al cuore delle cose (DeriveApprodi, Roma), suggerisce un bilancio dell’opera di una tra le figure più notevoli e originali della psicoanalisi italiana.
Non a caso Jacques Lacan aveva sempre considerato, sin dalla fine degli anni sessanta, il giovane Elvio Fachinelli come il suo erede più promettente in Italia, il quale però, non a caso, come tutti i suoi migliori allievi, aveva fatta propria l’indicazione di Lacan: “fate come me, non imitatemi!”. In Fachinelli, nella persona e nell’opera, non ritroviamo, infatti, nessuna di quelle farsesche riproduzioni dello stile di Lacan - alla Verdiglione per intenderci - che hanno contrassegnato e penalizzato gravemente la diffusione del lacanismo in Italia negli anni Settanta.
Fachinelli, pur conservando una posizione critica nei confronti del suo establishment, resta membro della Società psicoanalitica italiana rifiutandosi di finire fagocitato nel culto della personalità del grande psicoanalista francese - destino fatale per quasi tutti i suoi allievi, francesi e non.
E tuttavia, considerando l’itinerario del suo lavoro teorico, risulta evidente come egli si sia ricollegato, sebbene in modo mai scolastico, ad alcune profonde intuizioni di Lacan conferendo loro uno sviluppo singolare. Prima fra tutte lo sforzo, avvertito da entrambi come necessario, di costruire una nuova lingua della psicoanalisi. Il codice della psicoanalisi si è logorato, cristallizzato, è divenuto un tecnicismo senza vita nel quale il discorso universitario (per Lacan “l’ignoranza consolidata”) ha preso il sopravvento reificando in categorie morte la vitalità che permeava il discorso originario di Freud.
Si rilegga in questa luce la breve introduzione a La freccia ferma (1979) dove Fachinelli dichiara esplicitamente di voler mettere tra parentesi la terminologia psicoanalitica “classica - “irrigidita in un formulario ipostatizzato che spesso impedisce, anziché facilitare, la comprensione delle situazioni concrete" - al fine di poter seguire con maggiore coerenza il filo della sua interrogazione originale sul senso del tempo.
Il punto ancora più rilevante è che la grande e raffinata descrizione della nevrosi ossessiva che egli sviluppa in questo primo lavoro finisce per coincidere con l’involuzione della dottrina psicoanalitica stessa che, alla stregua del suo paziente gravemente ossessivo, dall’essere stata una impresa originariamente sovversiva si è trasfigurata “nel battito impersonale di una macchina morale”. La pietrificazione mortificante del soggetto ossessivo coincide dunque con quella che ha investito la dottrina psicoanalitica. Fu lo stesso problema che attraversò il pensiero di Lacan, il quale si sforzò, nel suo stesso stile di insegnamento, di trovare una lingua in grado di riflettere, se non addirittura di imitare, le infinite tortuosità dell’oggetto di cui la psicoanalisi si occupa (l’inconscio).
Solo che mentre Lacan prende risolutamente la via di una lingua formalmente barocca ma capace di generare una batteria impressionante di concetti inediti, Fachinelli, meno magistralmente, adotta piuttosto quella di un ricorso sempre più frequente all’esperienza fenomenologica capace di raggiungere il cuore delle “cose stesse” sospendendo, con una epochè di fatto, i codici ormai logori e rituali della dottrina psicoanalitica classica.
Ma il punto dove più sensibilmente si manifesta il lacanismo originale di Fachinelli concerne proprio lo statuto epistemico dell’inconscio. Come per Lacan, anche per lui l’inconscio non è l’istintuale, l’irrazionale, l’animale che un rafforzamento pianificato dell’Io - posto come obbiettivo principale della terapia analitica - dovrebbe governare sino a sedare. Fachinelli si mantiene sulla via aperta da Lacan nel ritenere che l’inconscio non sia il luogo di una minaccia che deve essere scongiurata ma di una apertura che diventa una occasione di trasformazione del soggetto.
Più radicalmente, per Fachinelli la dottrina psicoanalitica è stata colpevole di essersi eretta come una vera e propria “difesa” nei confronti dell’inconscio finendo per perdere il contenuto più specifico della propria invenzione. È lo stesso giudizio che Jacques Derrida dava di Freud: se per un lato questi aveva con un primo passo sovversivo aperto la ragione all’incontro con l’alterità radicale della follia, con un secondo passo aveva invece provato a colonizzare quella alterità attraverso la concettualizzazione razionale della propria dottrina.
La tesi di Fachinelli diventa sempre più chiara e audace col passare degli anni. Quello che ne La freccia ferma attribuiva a una certa degenerazione scolastica della psicoanalisi, ne La mente estatica (1989) viene descritto come un problema già presente nell’originaria posizione di Freud. Per Fachinelli la psicoanalisi stessa, già con Freud, tende a difendersi dall’inconscio, non essendo altro che un tentativo (“infantile”) di arginare la sua potenza e la sua forza eccedente.
L’apertura de La mente estatica, nell’intensissimo racconto fenomenologico delle proprie percezioni sulla spiaggia di San Lorenzo, pone al centro l’interpretazione di Freud e della psicoanalisi come barriere, argini, barricate nei confronti dell’eccedenza dell’inconscio.
La sua tesi è chiara: “la psicoanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare, attenti, allontanare... Ma certo questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato”
Questa “apologia della difesa” dall’inconscio anziché rendere possibile l’incontro con l’inconscio come occasione, apertura, evento stesso dell’apertura, finisce per sbarrarne l’accesso, per richiudere anziché aprire l’inconscio. Vigilanza ossessiva, senso perenne del pericolo, rafforzamento delle barriere difensive. È la metafora, giudicata da Fachinelli “soffocante”, che Freud in Introduzione alla psicoanalisi offre dell’inconscio come “salotto” borghese separato dall’“anticamera”. Metafora “triste come la sua casa in Bergasse, con la finestra dello studio rivolta ad un muro di cemento”[1].
La stessa tristezza che orienta il simbolismo psicoanalitico che finisce per ridurre in modo angusto la potenza e la bellezza del mare a simbolo della madre senza cogliere che, caso mai, come fa notare Ferenczi, opportunamente citato da Fachinelli, si dovrebbe dire il contrario, ovvero che è la madre a simboleggiare il mare. È la “miseria” che ispira la cosiddetta psicoanalisi applicata all’esperienza estetica che finisce per trasformare l’artista in un paziente e la sua opera nel suo sintomo, quando, invece, come giustamente ricorda Fachinelli, “la legna da ardere non spiega il perché del divampare del fuoco”.
In gioco come si vede è per Fachinelli, come del resto per Lacan, lo statuto stesso del soggetto dell’inconscio. Come intendere l’inconscio senza ricondurlo paranoicamente a una minaccia? Come pensare l’eccedenza che ci abita? Come interpretare quella trascendenza che pur essendo interna al soggetto lo trascende? In diverse occasioni Fachinelli ha ricordato, a questo proposito, l’importanza della rilettura lacaniana del famoso detto di Freud Wo es war soll Ich werden (tradotto da Cesare Musatti in italiano: “Dove era l’Es deve subentrare l’Io”) che conclude la celebre lezione 31 della nuova serie di lezioni di Introduzione alla psicoanalisi.
Quello che Fachinelli trova decisivo di questa lettura è l’accento nuovo che Lacan pone non tanto sull’Io come istanza deputata a bonificare l’Es, ma sull’Es come luogo di una apertura inedita, di una possibilità nuova e, al tempo stesso, antica, scritta da sempre, che chiama il soggetto alla sua ripresa, alla sua soggettivazione in avanti. In questo senso Fachinelli si spinge a pensare, con Lacan, l’inconscio al futuro, all’avvenire; non come mera ripetizione del già stato, ma come non ancora realizzato.
Per questa ragione in La mente estatica può scrivere che il sogno non è solo la ripetizione di tracce mnestiche già scritte, ma il testimone di “ciò che vuoi essere” e di “ciò che puoi essere". Si tratta di cogliere “l’inaudita penetranza dell’inconscio”, la sua capacità di “creare il futuro”. In altri termini il sogno non è più il prodotto di una difesa dall’inconscio - di una attività di censura - ma una chiamata dove qualcosa - una trascendenza interna al soggetto, direbbe Lacan - si manifesta, “osa”.
Un secondo grande tema della riflessione di Fachinelli, presentissimo anche in questa ultima raccolta di scritti politici, è quello del legame sociale, o, più precisamente, della possibilità di realizzare una comunità umana non alienata: è possibile emancipare le relazioni tra chi gestisce il potere e chi lo subisce essendone escluso? “È utopico pensare di costituire delle relazioni di eguaglianza tra non uguali?”, si chiede Fachinelli. La relazione di uguaglianza non può essere una relazione che appiattisce le differenze ma che le emancipa dall’incubo della “dipendenza". La relazione di uguaglianza non può mai essere tra uguali. Per questo Fachinelli ribadisce che essa può accadere solo se implica l’esistenza di non eguali. Non si dà, infatti, Comunità possibile se non sullo sfondo di una impossibilità condivisa: l’impossibilità della Comunione, di fare e di essere Uno con l’Altro, di scrivere il rapporto sessuale, direbbe Lacan.
È questo un tema decisivo in Fachinelli (la sola condizione in comune è l’impossibilità del comune), che troverà, in anni più recenti, in Jean-Luc Nancy, Giorgio Agamben e Roberto Esposito sviluppi considerevoli. Ma la particolarità psicoanalitica e non filosofica della riflessione di Fachinelli consiste nel mettere in connessione la problematica della Comunità con quella della femminilità.
Anche con questa mossa egli mostra di conoscere bene la lezione che Lacan sviluppa a ridosso del 1968, in particolare nel Seminario XX (1972-73), sul rapporto tra sessuazione maschile e sessuazione femminile considerate come possibilità di declinare, in modi diversi, il legame sociale.
Nel caso della sessuazione maschile o fallica il fondamento del legame è concepito a partire dall’eccezione che si sottrae alla regola e che garantisce attraverso la sua sovranità l’immedesimazione e l’eguaglianza dei suoi membri. Si tratta di un modello che trova il suo fondamento nel mito freudiano dell’orda come Freud afferma in Totem e tabù: è il padre totemico, quello che gode di tutte le donne, a garantire l’esistenza dell’eccezione sulla quale si fonda il patto tra i fratelli.
Diversamente, la sessuazione femminile non è garantita dall’esistenza di una eccezione esterna a fondamento dell’insieme, dell’eccezione che sfugge, come il padre dell’orda, alla Legge della castrazione. In questo caso non è più l’eccezione che fonda la regola ma è l’eccezione stessa che diventa la regola. L’insieme femminile non è fondato sull’identificazione verticale all’eccezione ma sulla sua distribuzione orizzontale. Se, come ripete Lacan, La donna all’universale non esiste è perché esistono le donne al singolare, una per una, come incarnazioni singolari e non seriali dell’eccezione: è perché l’eccezione non fonda la regola ma è la regola.
In questo senso Fachinelli concepisce in una pagina fondamentale dell’articolo titolato Desiderio dissidente, apparso originariamente in Il bambino dalle uova d’oro e poi in Al cuore delle cose, riprendendo la classica distinzione lacaniana tra bisogno e desiderio ne propone una applicazione originale alla clinica dei gruppi umani.
Il gruppo che preserva la sua generatività è quello che è capace di interpretare il desiderio non a partire dal suo Oggetto ma come una condizione, come uno “stato” che abbandona l’illusione che possa esistere un Oggetto del desiderio. Solo se il gruppo si sottrare a questa illusione riesce a non scadere in un “gruppo di bisogno” che intrattiene fatalmente rapporti di dipendenza con l’Oggetto che viene incarnato fatalmente dal leader. In questo modo il desiderio da impresa collettiva viene sequestrato in una cristallizzazione transferale all’Uno solo che priva i membri del gruppo di ogni facoltà critica rendendoli degli adepti[2].
Allora, conclude il suo ragionamento Fachinelli, “il gruppo di desiderio diviene un gruppo di bisogno”. Ma anche in questo caso, come si vede, il punto prospettico resta quello di una valorizzazione del femminile come antidoto alle tendenze settarie e totalitarie, dipendenti, del gruppo.
È questo il punto dove la sua concezione dell’inconscio, che ho inizialmente riassunto, si incrocia risolutamente con la problematica della sessuazione femminile. Fachinelli è davvero esplicito su questo punto. Da una parte riconduce il gruppo di bisogno, il gruppo morto a livello del desiderio, a una declinazione solo fallica della Comunità, ovvero a una concezione dell’inconscio come minaccia che dà luogo, come abbiamo visto, a una concezione paranoica della terapia come difesa, arginamento, antagonismo verso l’inconscio stesso.
Questa versione dell’inconscio risente di una priorità del “sistema vigilanza-difesa” ed ha, precisa Fachinelli, una chiara “impostazione virile" L’alternativa all’esclusione dell’inconscio sarà allora quella della sua ospitalità, della sua accoglienza. Si tratta di un movimento di apertura che riguarda innanzitutto gli psicoanalisti e la psicoanalisi: “Accogliere chi? Un ospite interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace della prudenza di chi edifica muraglie". In sintesi estrema si tratta di accogliere l’inconscio come eccedenza, di dare “accoglienza del femminile”. Ci si deve incamminare, come suggeriva anche Lacan, in una direzione opposta a quella della compattezza identitaria che caratterizza la sessuazione maschile: “diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa”. Sebbene, come precisa giustamente Fachinelli, questa nuova via non si configuri affatto come il rovesciamento simmetrico della prima. Piuttosto si tratta, ancora una volta, di mettere in movimento “un’altra logica”. Di nuovo risorge il problema della lingua, di un’altra lingua per la psicoanalisi. “Come scrivere tutto questo?”, si chiede Fachinelli. Come, dunque? Come dare figura all’eccedenza irraffigurabile del femminile? All’ospite che ci attraversa? “Vento sulla fronte, rombo del mare, luce, torpore, pensiero dell’accettazione, gioia con senso di gratitudine, verso chi?”.
***
[1] Anche la lettura che Fachinelli propone del noto episodio autobiografico raccontato da Freud relativamente a un disturbo della memoria accadutogli sull’Acropoli è assai significativa. La sua tesi è che questo disturbo denuncia l’avvertimento di una “gioia eccessiva eppure reale, che minaccia di sconvolgere un equilibrio, un’intera economia psichica - di qui un dubbio radicale di realtà, di tale violenza da funzionare come barriera”.
[2] L’opposizione che viene sviluppata ne La mente estatica tra religione e misticismo riflette l’opposizione tra gruppo del bisogno e gruppo del desiderio. Mentre il mistico non teme il rapporto con la “gioia eccessiva”, con l’assoluto tutto o l’assoluto nulla, il religioso si costituisce come argine nei confronti dell’Altro godimento aperto dal mistico: “il mistico eccede ogni religione - e perciò il religioso, nel suo fondo, rifiuta il mistico”.
IL SOGGETTO COLLETTIVO
Dalla psicanalisi a due alla psicanalisi a enne
di Antonello Sciacchitano (psychiatryonline, 19 marzo, 2016)
L’Elvio, nel senso di Fachinelli, non si è mai concesso al maestro.
Ogni volta che passava per Milano - siamo negli anni Settanta - Lacan faceva visita a Fachinelli o gli lasciava un biglietto per dirgli che l’aveva cercato.
Cosa cercava Lacan in Fachinelli?
Per rispondere a questa domanda bisogna aver ben presente il sintomo (o la sublimazione?) di Lacan. Più vicino alla perversione che alla nevrosi, il sintomo di Lacan, che si poneva in posizione di maestro, era mes élèves; gli allievi erano il feticcio di Lacan. Riuscì ad averne un migliaio, che seguivano i suoi seminari; il top, se non sbaglio, ai seminari su Joyce senza inconscio.
Non soddisfatto di mille, Lacan cercava l’uno. Fachinelli era l’uno che gli mancava. Cosa aveva di speciale Elvio? Semplice: Elvio era un lacaniano pensante; era diverso dagli allievi parigini di Lacan, che erano semplicemente lacaniani. Cosa pensava Elvio? Pensava la psicanalisi del collettivo, una dimensione carente in Freud, fissato alla psicanalisi individuale, e appena abbozzata in Lacan con la teoria del discorso come legame sociale. Ma l’ “Elvio cacato” praticava effettivamente - non solo pensava - una psicanalisi collettiva, cioè di tutti e per tutti, senza bisogno di indottrinare nessuno; la “faceva” all’asilo non autoritario di Porta Cicca, quartiere popolare e ai tempi degradato di Milano.
Insomma, Elvio era il prezioso pezzo mancante alla collezione di allievi del maestro parigino. Il collezionista forse pensava di farlo suo, sfruttando la posizione ambigua - un po’ dentro, un po’ fuori - di Elvio rispetto alla società musattiana di psicanalisi. Ingenuo, il maestro. Elvio non entrò mai nel cerchio magico che il maestro cercava di disegnare in Italia, il “tripode” di Verdiglione, Contri, Drazien, che avrebbe dovuto formare il nucleo di una scuola lacaniana in Italia. Insomma, non glielo diede.
Dettagli personali a parte, che sono di scarso interesse, la lezione che il potenziale allievo diede all’attuale maestro, ha una rilevanza teorica non piccola, tuttora da recepire e che forse il maestro non recepì.
Si tratta della freudiana Versagung, che dovrebbe caratterizzare il regime in cui condurre l’analisi terapeutica. I freudiani ortodossi traducono con “frustrazione”, nel senso che in analisi non si dovrebbe soddisfare il desiderio del paziente. I lacaniani, che pretendono - wollen, si direbbe in tedesco - tornare a Freud, oscillano tra varie versioni: dalla “disdetta” al “diniego”, passando per l’improbabile dottrina morale lacaniana, per cui l’etica dello psicanalista sarebbe non cedere sul proprio desiderio.
Niente di tutto questo. La Versagung è la funzione dell’oggetto del desiderio che “non si concede” al soggetto. Sich versagen in tedesco significa “non concedersi” (la negazione è nel prefisso ver); non significa “dire di no”, ma “non dire di sì”; introduce così una sospensione temporale nel cui intervallo fa avvenire qualcosa del soggetto.
La mia versione non antropomorfa di questa situazione è che l’oggetto del desiderio, essendo infinito, non si concede al soggetto finito. Ma non entro nei dettagli di una complessa topologia, che non ha niente a che vedere con la topologistica lacaniana. Mi limito a ricordare che, originario del Trentino, Elvio sapeva un po’ di tedesco. E diede una lezione di tedesco al maestro francese.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA, L’ILLUMINISMO, E LA "VIA MAESTRA" DELLA "CRITICA" ....
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI -GALILEI.
Invito alla rilettura dell’opera del 1786, "Che cosa significa orientarsi nel pensiero" - e della "Critica della ragion pura" (1781/1787).
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
MAESTRI. Galileo attaccò il filosofo greco, poi in tarda età se ne proclamò seguace
Aristotele che fisico!
Le sue teorie scientifiche godono di cattiva fama. Ma a torto: furono la base dei successivi progressi
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera-La Lettura, 18.10.2015)
Cadono alla stessa velocità oggetti di peso diverso? A scuola ci raccontano che Galileo Galilei avrebbe mostrato che la risposta è sì, lasciando cadere delle palle dalla torre di Pisa. Nel corso dei due millenni precedenti, invece, sarebbero stati tutti accecati dal dogma di Aristotele secondo cui oggetti più pesanti cadono più in fretta; curiosamente, a nessuno era mai venuto in mente di provare. Galileo e i suoi contemporanei osservano la natura, e si liberano dalla camicia di forza del dogmatismo aristotelico.
Bella storia, ma c’è un problema. Provate a buttare dal balcone una biglia di vetro e una pallina di carta. Neanche per idea arrivano assieme: la biglia pesante cade molto più veloce, esattamente come dice Aristotele. Qualcuno obietterà che questo avviene a causa dell’aria. Ma Aristotele non ha mai scritto che le cose cadrebbero a velocità diversa se togliessimo l’aria. Ha scritto che le cose cadono a velocità diversa nel nostro mondo, dove l’aria c’è. E non sbagliava. Aveva osservato la natura con attenzione. Meglio di generazioni di insegnanti e studenti moderni, che si bevono nozioni senza pensarci, e senza provare.
La fisica di Aristotele gode di cattiva stampa. Viene descritta come costruita a priori, svincolata dall’osservazione, palesemente sbagliata. È un giudizio largamente ingiusto. La fisica di Aristotele è rimasta a lungo la teoria di riferimento per la civiltà mediterranea: non perché fosse dogmatica, ma perché è ottima. Descrive bene la realtà, e offre uno schema concettuale così efficace che per due millenni nessuno è riuscito a fare di meglio. Il succo della teoria è che, in assenza di altre influenze, un oggetto si muove verso il suo «luogo naturale»: più in basso per la terra, un po’ più in alto per l’acqua, ancora più in alto per l’aria, ancora più in alto per il fuoco; la velocità del «moto naturale» cresce con il peso e diminuisce con la densità del fluido in cui l’oggetto è immerso. Una teoria semplice e generale che rende conto con eleganza di una grande varietà di fenomeni, per esempio perché il fumo va in alto, o perché un pezzo di legno scende in aria, ma sale in acqua. Ovviamente la teoria non era perfetta, ma se è per questo neanche la scienza moderna è perfetta.
Il cattivo nome di cui soffre la fisica di Aristotele è in parte colpa dello stesso Galileo, che nei suoi scritti attacca Aristotele a testa bassa, e fa apparire sciocchi i suoi seguaci. Ne aveva bisogno a fini polemici. In parte è dovuto alla separazione che si è scioccamente allargata fra le culture scientifica e umanistica-filosofica. Chi studia Aristotele in generale conosce poco la fisica e chi si occupa di fisica si interessa poco ad Aristotele. La genialità scientifica dei libri di Aristotele come il De Coelo, o la Fisica, il libro che ha dato il nome alla disciplina, passa facilmente inosservata.
Ma c’è un altro fattore per la cecità odierna alla genialità di Aristotele scienziato. Ed è quello più interessante: l’idea che non si possa, anzi non si debba, confrontare pensieri prodotti da universi culturali così lontani, come Aristotele e la fisica moderna. Molti storici oggi inorridiscono all’idea di guardare la fisica aristotelica come approssimazione della fisica newtoniana. Per capire l’Aristotele originale, sostengono, dobbiamo studiarlo alla luce del suo tempo, non con schemi concettuali successivi di secoli. Questo è vero se siamo interessati a meglio decifrare Aristotele, ma se siamo interessati a capire il sapere di oggi, come è emerso dal passato, sono le relazioni fra mondi distanti che ci interessano.
I filosofi e storici della scienza Karl Popper e Thomas Kuhn, che hanno avuto grande influenza sul pensiero odierno, hanno sottolineato l’importanza delle rotture nel corso dell’evoluzione del sapere. Esempi di tali «rivoluzioni scientifiche», dove si abbandona la vecchia teoria, sono i passaggi dalla fisica di Aristotele a Newton, o da Newton ad Einstein. Nel corso di tali passaggi ci sarebbe, secondo Kuhn, una ristrutturazione radicale del pensiero, al punto che le idee precedenti diventano irrilevanti, addirittura incomprensibili: «incommensurabili» con la teoria successiva, scrive Kuhn.
Popper e Kuhn hanno avuto il merito di mettere a fuoco questo aspetto evolutivo della scienza e l’importanza delle fratture, ma la loro influenza ha portato a una assurda negazione degli ovvi aspetti cumulativi del sapere. Peggio, a non voler vedere le chiarissime relazioni logiche e storiche fra teorie prima e dopo ogni passo avanti: la fisica di Newton è perfettamente riconoscibile come approssimazione della relatività generale di Einstein; la teoria di Aristotele è perfettamente riconoscibile come approssimazione all’interno della teoria di Newton.
Non solo, ma all’interno della teoria di Newton si riconoscono aspetti della struttura della fisica aristotelica. Per esempio, la grande idea di distinguere il movimento «naturale» di un corpo da quello «forzato», sopravvive intatta nella fisica newtoniana, e poi in quella di Einstein. Cambia il ruolo della gravità: causa di moto forzato in Newton (dove il moto naturale è rettilineo uniforme), parte del moto naturale in Aristotele, e, curiosamente, di nuovo in Einstein (dove il moto naturale, chiamato «geodetico», torna ad essere quello di un oggetto in caduta libera, come per Aristotele).
Gli scienziati non avanzano né per solo accumulo, né per rivoluzioni totali, in cui tutto è buttato e si ricomincia da zero. Avanzano piuttosto, come in una bella analogia di Otto Neurath spesso citata da Willard Van Orman Quine, «come marinai in mare aperto che devono ricostruire la loro barca, ma non possono farlo da zero: dove tolgono una trave devono subito rimpiazzarla (...), in questo modo, pezzo a pezzo avanza la ricostruzione». Nella grande nave che è la fisica moderna si riconoscono ancora antiche strutture - come la distinzione fra moto naturale e forzato - della vecchia barca del pensiero aristotelico.
Torniamo allora ai corpi che cadono nell’aria o nell’acqua, e vediamo cosa effettivamente succede. La caduta non è né a velocità costante e dipendente dal peso, come voleva Aristotele, né ad accelerazione costante e indipendente dal peso, come voleva Galileo (neanche se trascuriamo l’attrito!). Quando un corpo cade, attraversa una prima fase in cui accelera, per poi stabilizzarsi a velocità costante, maggiore per i corpi pesanti. Questa seconda fase è ben descritta da Aristotele.
La prima fase invece è di solito molto breve, difficile da osservare, e per questo è sfuggita ad Aristotele. L’esistenza di questa fase iniziale era già stata notata nell’antichità: nel terzo secolo prima della nostra era, per esempio, Stratone di Lampsaco (città sullo stretto dei Dardanelli) osserva che un filo d’acqua che cade si rompe in gocce: questo indica che le gocce cadendo accelerano, come una fila di auto che si sgrana man mano che le auto prendono velocità.
Per studiare questa fase iniziale, difficile da osservare perché tutto avviene in fretta, Galileo scova uno stratagemma geniale. Invece di osservare corpi che cadono, osserva palle che rotolano lungo una lieve pendenza. La sua intuizione, difficile da giustificare al suo tempo ma corretta, è che la «caduta rallentata» delle palle che rotolano riproduca il moto di oggetti che cadono liberi. In questo modo, Galileo riesce a notare che all’inizio della caduta è l’accelerazione ad essere costante, non la velocità. Forte di questa nuova capacità di interrogare la natura, e di una padronanza della matematica che mancava ad Aristotele, Galileo è riuscito a stanare il dettaglio quasi impercettibile ai nostri sensi dove la fisica di Aristotele funziona male. È come l’osservazione all’inizio del Novecento usata da Einstein per superare Newton: il movimento del pianeta Mercurio, a ben guardare, non segue esattamente le orbite di Newton. Il diavolo è nei dettagli.
Einstein farà di Newton quello che Galileo e Newton hanno fatto di Aristotele: mostrerà che nonostante la sua efficacia, anche questa fisica è solo buona in prima approssimazione. Oggi sappiamo che anche la fisica di Einstein non è perfetta: sbaglia là dove entra troppo in gioco la meccanica quantistica. Anche la fisica di Einstein ha bisogno di essere migliorata. Ma non siamo ancora ben sicuri di come.
Galileo non ha costruito la sua nuova fisica ribellandosi a un dogma o dimenticando Aristotele. Al contrario, ha saputo modificare aspetti della cattedrale concettuale aristotelica, imparando a fondo da Aristotele: non c’è incommensurabilità fra lui e Aristotele, c’è serrato dialogo.
Credo che sia lo stesso fra le culture, le persone, i popoli. Non è vero che, come oggi si ama ripetere, mondi culturali diversi sono intraducibili, impermeabili. È vero il contrario: le frontiere fra teorie, discipline, epoche, culture, popoli, persone, sono terribilmente permeabili, e il nostro sapere si nutre degli scambi attraverso questa permeabilità. Anzi, il sapere è il risultato in continua evoluzione di questa fitta rete di scambi. Quello che ci interessa di più è proprio questo scambio: confrontare, scambiare idee, imparare, costruire dalle differenze. Mescolare, non tenere separato.
C’è grande distanza fra l’Atene del IV secolo e la Firenze del XVII. Ma né rottura radicale, né incomprensione. È perché sa dialogare con Aristotele, e penetrare a fondo la sua fisica, che Galileo riesce a trovare il passaggio stretto dove correggerla e migliorarla. Lo dice splendidamente lui stesso, in una lettera scritta in tarda età: «Io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contraddizioni alla sua dottrina».
La Fisica e Del Cielo di Aristotele si trovano nel terzo volume delle sue Opere edite da Laterza (traduzioni di Antonio Russo e Oddone Longo, 1973). La metafora della barca e dei marinai dello studioso austriaco Otto Neurath (1882-1945) è citata dal filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) nel libro Parola e oggetto (introduzione e traduzione di Fabrizio Mondadori, Il Saggiatore, 1970). Il riconoscimento di Galileo Galilei nei riguardi di Aristotele si trova nella «Lettera a Fortunio Liceti, 15 settembre 1640», a pagina 247 nel diciottesimo volume delle sue Opere (Giunti-Barbera, 1890). Carlo Rovelli ha approfondito questi temi nell’articolo Aristotle’s Physics: A Physicist’s Look («La fisica di Aristotele: lo sguardo di un fisico»), uscito di recente sulla rivista «Journal of the American philosophical association». Il famoso saggio dell’epistemologo americano Thomas Kuhn (1922-1996) La struttura delle rivoluzioni scientifiche è stato pubblicato in Italia nel 1969 da Einaudi (traduzione di Adriano Carugo)
“Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”
Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta”
Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini (La Stampa, 11.03.2015)
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste...
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
...e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».
ALL’OLANDA, AD AMSTERDAM, E A RENZO PIANO, UN OMAGGIO.
Una scheda dettagliata sul
Museo della scienza e della tecnica - Amsterdam
Gaetano Benedetti
La follia ci aiuta a capire l’uomo
di Laura Andreoli (Corriere della Sera, 02.01.2014)
Il 2 dicembre, esattamente un mese fa, a Basilea, è mancato Gaetano Benedetti. Un maestro, un pioniere in quei territori della malattia psichica che, come la psicosi, più interrogano l’uomo nella sua dimensione esistenziale. Aveva 93 anni, ma la sua morte appare comunque qualcosa di irreale a chi ha sperimentato il suo pensiero, la sua presenza così viva nelle supervisioni, da diventare una voce costante nel proprio mondo interno, in particolare nei momenti terapeutici più difficili. La sua stessa storia, di uomo e di ricercatore, testimonia l’esigenza di rivolgersi alla follia come un elemento essenziale per capire l’uomo.
Assistente alla clinica universitaria di Malattie Nervose e Mentali di Catania (dove è nato nel 1920), in un tempo in cui la psichiatria in Italia quasi non esisteva ed era per lo più relegata alla semplice custodia manicomiale, volge il suo appassionato interesse verso quei malati psichiatrici che egli vede nel cortile dell’Ospedale di Catania «accoccolati per terra, fra stracci e camicie di forza».
Questa fortissima esigenza di ricerca che appariva estranea alla psichiatria italiana, allora caratterizzata da un contesto positivistico in cui dominavano le teorie di Lombroso, trova invece una terra felix nella clinica Burghölzli di Zurigo; a 27 anni, il giovane Benedetti lascia l’Italia per poter aprirsi all’esperienza della psichiatria di lingua tedesca di quel periodo: dalla visione clinica di Eugen Bleuler, a cui si deve proprio l’introduzione della categoria della schizofrenia, fino alla corrente fenomenologica che in psichiatria pone attenzione alla esperienza vissuta e alla comprensione intuitiva.
Nonostante il pensiero di Benedetti molto debba a questo retroterra fenomenologico, gli è indispensabile qualche cosa che egli avverte come più fecondo per poter veramente «entrare» nella sofferenza del paziente «sentendone tutto il peso».
È la relazione terapeutica al centro della cura: in tal senso «sterili» gli appaiono come strumenti le sole diagnosi psichiatriche, ma anche il troppo impersonale «essere con» della fenomenologia; è nella psicoanalisi freudiana che trova, nella comunicazione tra inconsci del terapeuta e del paziente, il motore della cura.
Qui si colloca il suo contributo, che rompe il tabù freudiano di una impossibilità di cura psicoanalitica della psicosi e pone un capovolgimento della terapia della psicosi. Per arrivare in questo territorio, la psicoanalisi ha bisogno di ampliare il proprio statuto, il punto nodale della cura è che proprio nella costruzione di un inconscio «duale» stia il vero potenziale di cura.
Benedetti «scopre» e precorre l’importanza terapeutica di attivare codici non verbali, come particolare linguaggio dell’inconscio, quando le radici del pensiero sembrano inattingibili. Ciò che più sostiene la sua «fiducia» terapeutica è il rivolgersi all’inconscio non solo come archivio di tutte le sofferenze, ma come forza generativa dell’unica possibilità di sentirsi «esistere», contro «l’identità di non-esistenza», che è - per lui - la fondamentale cifra del vivere psicotico. Nelle sue parole «il sintomo psicotico... è sia la fonte della massima sofferenza del paziente come il suo unico fronte di sviluppo potenziale».
Il pensiero e l’esperienza clinica sulla psicosi di Benedetti sono arrivati in Italia alla fine degli anni Settanta e hanno trovato un terreno particolarmente recettivo, quasi un «laboratorio» di trasformazione radicale della cura psichica. Ma sarebbe una lezione necessaria anche oggi, in un momento storico in cui le istituzioni di cura del malato psichico non vivono un momento felice, tra una psichiatria che rischia di rinchiudersi nelle griglie strette di protocolli diagnostici e farmacologici e una psicoanalisi che deve potersi aprire alle nuove potenzialità di cura di un inconscio «a circuito aperto».
Il Rinascimento di Galileo
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore-Domenica, 22.12.2013)
L’ italiano che ha avuto più influenza sulla storia del mondo, sullo sviluppo della civiltà nella quale viviamo oggi, è con ogni probabilità Galileo Galilei. Il suo contributo alla cultura dell’umanità è impressionante. Galileo è stato il primo a comprendere che possiamo imparare interrogando la natura con degli esperimenti: i primi esperimenti scientifici della storia sono stati compiuti da lui. È stato il primo ascrivere una precisa legge matematica per descrivere i movimenti delle cose sulla Terra. Questo ha aperto la strada al mondo moderno, dove oggi calcoliamo tutto usando la matematica: dai ponti ai computer, dalle previsioni del tempo ai viaggi interplanetari Galileo è stato il primo a usare strumenti scientifici (il telescopio) per osservare il mondo. È stato il primo a osservare cose, fuori dalla Terra, che nessun umano aveva mai visto prima: dai satelliti di Giove, alle fasi di Venere, dagli anelli di Saturno alle macchie solari. Il mondo con Galileo si è ingrandito immensamente: l’umanità si è resa conto di avere la possibilità di vedere lontano. Quasi nulla, né della nostra attuale visione del mondo, né del modo in cui viviamo oggi esisterebbe, senza questo passaggio essenziale che è stata la scoperta della metodologia scientifica di base. Il fatto che sia stata la stessa persona a essere il primo sperimentatore, il primo fisico matematico, e il primo a osservare il cielo, ha del prodigioso e lascia ancora esterrefatti. Eppure l’uomo Galileo Galilei resta controverso, come è stato tutta la sua vita. La valutazione di ciò che ha fatto, perché lo ha fatto e come lo ha fatto, resta dibattuta. Chi era Galileo Galilei? Italianissimo nelle sue straordinarie doti di acume e inventiva, quanto nei suoi giganteschi difetti, è stato descritto come megalomane, attaccabrighe, inaffidabile, adulatore, venditore di fumo, vanitoso, isterico. Un ciarlatano, per il filosofo della scienza austriaco Paul Feyerabend. Un disonesto, per Arthur Koestler. Anche il modo in cui è arrivato ai suoi risultati mirabolanti è oggetto di controversia. La sua prima legge ci dice che i corpi pesanti cadono con accelerazione costante. Oggi ci sembra naturale, ma per secoli nessuno lo sapeva. L’idea stessa di accelerazione, rivelatasi poi fondamentale per la fisica di Newton e la scienza moderna, è stata chiarita con precisione solo da Galileo. Galileo scrive che ha scoperto la sua legge misurando la velocità a cui rotolano palle lungo una discesa. Ma negli anni Trenta lo storico della scienza Alexandre Koyré ha messo in dubbio il suo resoconto, sostenendo che Galileo non aveva mai fatto gli esperimenti che dice di aver fatto. Sennonché negli anni Sessanta lo storico inglese Stillman Drake ha mostrato che Koyré sbagliava, studiando i manoscritti sparpagliati che restano di Galileo, riuscendo a ricostruirne l’ordine cronologico grazie all’evoluzione della grafia (mettete la data sulle vostre note, se pensate di avere qualche chance che il futuro si interessi a voi) e trovando i numeri delle misure delle palle che rotolano, a conferma, almeno parziale, della versione di Galileo.
Ma la questione che più suscita conflitto è l’accanimento della Chiesa cattolica contro di lui. Aveva ragione Galileo a dire che la Terra gira attorno al Sole. Però aveva ragione il cardinale Bellarmino, poi santo, a dire che prove certe Galileo non le aveva, e quindi si trattava solo di ipotesi. Ma aveva ragione Galileo a dire che era alle «sensate osservazioni e ragionevoli deduzioni» che bisognava rivolgersi per sapere chi girasse intorno a cosa, e gli interpreti della Bibbia avrebbero dovuto adeguarsi. Ma aveva ragione Bellarmino a dire che chi interpretasse la Bibbia era affare della Chiesa e non di Galileo. D’altra parte aveva ragione Galileo a dire che lui voleva poter cercare la verità a modo suo. E ancora oggi di questo la Chiesa cattolica non è del tutto convinta. Ma obbligare un vecchio di settantanni, malato, stanco, coraggioso, un immenso scienziato, a inginocchiarsi davanti ai Cardinali e chiedere perdono per le sue idee («Io, Galileo inginocchiato davanti a voi ... giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e... sempre crederò, tutto quello che tiene e predica et insegna la Santa Chiesa... abiuro e maledico e detesto i miei errori ed heresie... giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione»), impedirgli di scrivere quello che pensava, imprigionarlo in casa per il resto della vita, tutto questo resterà un’onta sul cattolicesimo. Ma in fondo non era forse colpa di Galileo, che aveva dato importanza al Vaticano? Fosse restato a Padova, avesse parlato di scienza con gli scienziati del Nord Europa, come Keplero che non chiedeva che di comunicare di più con lui, invece di andare a Firenze e poi a Roma, probabilmente nessuno gli avrebbe dato fastidio. Forse Galileo è stato troppo buon cattolico, cercando di smuovere quello che non si poteva smuovere. Da parte sua, quello che la Chiesa cattolica è riuscita a ottenere condannando Galileo è stato solo tagliare fuori l’Italia dalla crescita culturale dell’Europa dei secoli seguenti. L’eredità del grande italiano sarà raccolta in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia, dove le gerarchie cattoliche potevano poco. Da ogni parte lo si guardi, Galileo è personaggio che suscita controversie. Come potrebbe essere altrimenti, forse, per l’uomo che ha preteso di essere il paladino della ricerca libera della verità, ma ha abiurato per paura? L’uomo che poteva starsene a Padova, sotto la libera e liberale Venezia che lo lasciava pubblicare quello che voleva, ma è andato invece a cacciarsi sotto l’ala di un principe assolutista a Firenze, Cosimo dei Medici, e poi di sua volontà a Roma a disturbare gesuiti e cardinali per farsi dare ragione anche loro?
A cercare di mettere ordine in questo guazzabuglio storico, e fare un punto sulla vasta letteratura dedicata a Galileo, esce in Italia un corposo volume di un grande storico della scienza inglese, John Heilbron, ottimamente tradotto da, e a cura di, Stefano Gattei. Con una quantità di informazioni che lascia stupiti, e una acuta comprensione del mondo in cui si muove Galileo e della sua scienza in farsi, Heilbron ricostruisce puntigliosamente la sua vita tempestosa, i suoi scontri, l’evolvere delle sue idee, le cautele e le presunzioni. Soprattutto, le sue molte relazioni intellettuali, dalle amicizie giovanili dalle quali nascono le prime idee sul moto, all’inizio dell’Accademia dei Lincei («una banda omoerotica incline al misticismo e al melodramma, organizzata come un ordine religioso e pericolosamente vicina all’eresia»; oggi è cambiata, l’Accademia dei Lincei). Heilbron cerca di alleggerire il testo aggiungendo ironia e giochi di parole (Galileo, carattere ostinato, che va verso Roma a cavallo di una mula diventa: «La piccola mula e il grande mulo»...), giochi di parole continui, fortunatamente diradati nella traduzione italiana. La vita di Galileo scorre giorno dopo giorno davanti ai nostri occhi, con i suoi crucci e le sue debolezze. Il Galileo che ne emerge è un uomo profondamente parte della cultura tardo rinascimentale italiana, un prodotto di questo momento splendido del nostro passato.
Grandissimo scrittore, forse fra i più grandi prosatori che abbia avuto la nostra lingua, musicista, critico letterario, artigiano, cortigiano, intrallazzatore, capace di mettere tutto questo al servizio di una grande nuova idea. È bella questa immagine di Galileo umanista, appassionato di Dante e innamorato di Ariosto quanto di Euclide e Archimede, grande maestro nell’uso delle parole, che ci riporta all’unità e alla coerenza spesso dimenticata del nostro sapere. Il segreto del genio di Galileo, per Heilbron, è nella combinazione delle sue doti di scrittore, musicista, artigiano, disegnatore, matematico e filosofo, nella capacità profondamente rinascimentale di fare funzionare tutto questo insieme. La scienza moderna è radicata in questa splendida alchimia italiana. Ma il Galileo di Heilbron è anche un Galileo che sembra si occupi di più di politica che di scienza, un Galileo che sembra trovare per caso sue straordinarie intuizioni, e si occupa principalmente di divulgarle. Tutt’altro Galileo era descritto in La figlia di Galileo di Dava Sobel, ripubblicato l’anno scorso da Rizzoli nella Biblioteca Universale. Costruito come un commento intorno alle lettere che Suor Maria Celeste, ovvero Virginia, figlia prediletta di Galileo, mandava regolarmente al padre adorato, il libro si legge con facilità e ci mostra un lato molto umano dello scienziato. A Padova, dove aveva fatto le prime scoperte che lo renderanno famosissimo, il giovane scienziato aveva amato Marina, donna Veneziana del popolo, senza poterla sposare, e ne aveva avuto tre figli «nati da fornicazione» come si diceva, a cui era rimasto molto legato. Virginia muore a trentatré anni, poco dopo il processo di Roma e l’abiura che hanno devastato suo padre. «Una tristizia e melanconia immensa, inappetenza estrema, odioso a me stesso, et insomma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliola», scrive il vecchio leone.
Continuerà a lavorare scrivendo in vecchiaia pagine fondamentali per la nascita della meccanica, ma perderà la vista: «Quell’universo ch’io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente creduto da’ sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch’è maggiore quello che occupa la persona mia». Il libro di Dava Sobel aggiunge poco a quello che di Galileo già si sapeva, ma ci fa sentire il suo dolore, la sua passione, ci fa meravigliare alla sua grandezza. Forse non è ancora stata scritta la biografia di Galileo che sappia ricostruire il Galileo che stava dietro tutto questo. Quello che deve avere passato innumerevoli notti a guardare le stelle con il suo cannocchiale mal funzionante, prendendo appunti alla luce di una candela, provando e riprovando una lente dopo l’altra. Quello che deve avere passato innumerevoli ore a scrivere e riscrivere linee di matematica su taccuini sgualciti, a rileggere Aristotele per capire dove fosse il giusto e dove fosse l’errore, rileggere Archimede per trovare il teorema giusto. Quello che deve avere passato giorni e giorni a fare rotolare palle lungo discese di legno, senza all’inizio riuscire a capire come davvero cadessero. È da questo Galileo segreto e forse irraccontabile, credo, che è nata la scienza moderna, non dall’attaccabrighe che voleva farsi dare ragione dai cardinali. Heilbron prova a permettersi solo un’occhiata verso tutto questo, in un bellissimo dialogo sulla scienza del moto fra Galileo e Alessandro, un suo alter ego immaginario, che è la pagina più bella del libro. Non di più. Qualcosa di questo genio universale, che ha cambiato la nostra relazione con la realtà, resta ancora misterioso. Ma chiunque fosse stato davvero Galileo, ci resta il cuore del suo messaggio, un messaggio di scoperte, di idee e di metodo che hanno fondato il mondo moderno, un messaggio scritto in libri bellissimi, in un italiano incantevole, che indicano una strada che si è rivelata essere una strada meravigliosa: la possibilità di studiare e comprendere il mondo, di imparare cose infinitamente utili, di guardare più lontano. Grazie Galileo.
John Heilbron, Galileo, trad. e cura di Stefano Gattei, Einaudi, Torino, pagg. 544, € 32,00
Dava Sobel, La figlia di Galileo, Rizzoli, Milano, pagg. 426, € 10,90
Freud secondo Elvio Fachinelli
di Raoul Bruni (Alfabeta2, n. 25, 06.12.2012)
Sono molte le ragioni per cui vale la pena (ri)scoprire oggi la straordinaria figura di Elvio Fachinelli. Attivo nel campo della pedagogia antiautoritaria, lo psicoanalista trentino fondò l’importante rivista (e casa editrice) “L’erba voglio” e si impegnò in prima persona nell’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; pubblicò pochi ma fondamentali volumi, oggi inseriti nel catalogo Adelphi, ai quali però vanno aggiunti molti sorprendenti scritti estravaganti, come quelli raccolti, per l’appunto, in questo libretto Su Freud. Fachinelli, che ne tradusse varie opere, a incominciare da L’interpretazione dei sogni, instaurò col padre della psicoanalisi un dialogo ininterrotto, tra fedeltà e slanci eterodossi, condotto in sostanziale sintonia con quel “ritorno a Freud” propugnato da Jacques Lacan. Ma a qual era il Freud a cui tornare, secondo Fachinelli?
Nel denso ritratto di Freud, risalente al 1966, che inaugura il volumetto, si punta l’accento, prima ancora che sullo scienziato, sull’uomo e sullo scrittore: «Il rapporto tra il creatore e la sua opera è in questo caso [nel caso di Freud] assai vicino al legame di figliolanza carnale, per così dire, che si stabilisce fra lo scrittore e il suo libro, fra il pittore e il suo quadro, che non al riferimento indiretto dello scienziato con la sua scoperta. C’è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà di ‘collocarla’ positivamente tra le altre scienze».
Del Freud “scrittore” Fachinelli prospetta (in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” nel 1986, incluso in questo libretto) anche un suo proprio canone, inidcandone persuasivamente il vertice nei casi clinici, definiti «dei quasi racconti, dei nuclei narrativi ora più ora meno elaborati» (intuizione che prefigura la recente e felice iniziativa, di Mario Lavagetto, di ripubblicarli, nella collana einaudiana dei “Millenni”, sotto il titolo di Racconti clinici). Sotto questo aspetto, verrebbe da dire, Fachinelli fu perfettamente fedele a Freud, dato che molti dei suoi stessi scritti sono caratterizzati da un evidente afflato narrativo.
Le distanze tra l’autore e il suo nume titolare vengono invece in luce in un articolo in margine al celebre saggio del 1915 in cui Freud, dialogando con un poeta identificabile con Rilke, fornisce una giustificazione filosofica del dramma della caducità. Freud collega la questione della caducità al disastro bellico che allora incombeva sull’Europa, sostenendo che, una volta trascorsa questa terribile crisi, l’uomo avrebbe ricostruito «ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima».
A differenza di tutti i precedenti commentatori, Fachinelli non sottoscrive la conclusione freudiana, ma anzi osserva: «Il mondo solido e duraturo che Freud si augurava sorgesse dalla catastrofe non sorse affatto. Al contrario. In Europa sorsero nazismo e fascismo e con essi scoppiò una guerra ancor più spaventosa della prima». In questa cogente confutazione della tesi freudiana, si intravede la tipica inquietudine del pensiero psicoanalitico fachinelliano, intrinsecamente riluttante ad ogni soluzione consolatoria dell’enigma dell’esistenza. Fachinelli respinge infatti la tendenza all’«onniesplicabilità, rovinosamente attiva sia dentro l’analisi stessa, sia all’esterno, nel comune gergo psicoanalitico» e auspica invece un’idea quasi zen dell’analisi, basata sull’«elemento sorpresa»: «tutto può essere attivo e fecondo [...] se nasce come sorpresa inaspettata».
L’articolo da cui sto citando (che chiude il volumetto) risale al 1989, l’anno della morte di Fachinelli, e mostra come questi abbia saputo coraggiosamente spingersi ben oltre Freud; d’altronde, in quel periodo, egli stava concludendo La mente estatica, la sua opera testamentaria, incentrata su un’area tematica estranea non solo al freudismo, ma a tutta la tradizione razionalistica occidentale.
La terapia creativa di Elvio Facchinelli
“Su Freud”, una raccolta di scritti dell’analista italiano
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 20.12.2012)
Elvio Fachinelli è stato probabilmente, insieme a Franco Fornari, ma diversissimo per stile e vocazione teorica, lo psicoanalista italiano più originale e creativo degli anni Settanta-Ottanta. La sua opera non ha mai assunto quello spirito di sistema che ha invece caratterizzato il pensiero di Fornari e anche per questo ne costituisce, seppure nel solco comune della tradizione freudiana, una alternativa radicale.
Se Fornari diede luogo alla psicoanalisi come macchina interpretativa (teoria coinemica), Fachinelli non ha mai smesso di ricordare la centralità dell’imprevisto e della sorpresa nell’esperienza singolare dell’analisi. Se il primo si muoveva attraverso l’uso programmatico di codici simbolici immutabili, il secondo sospingeva la teoria della psicoanalisi al limite dell’indicibile, al confine con l’esperienza estatica rivendicandone il carattere anarchico e avverso ad ogni sistematizzazione che pretendeva di proporsi come definitiva.
Se il primo insisteva sul carattere trasmissibile della psicoanalisi, sulla possibilità di farne una disciplina universitaria, il secondo metteva in guardia sulla dimensione didattica della psicoanalisi che ai suoi occhi appariva come una truffa, una mistificazione intellettuale dell’autentica esperienza dell’inconscio come incontro con il non ancora visto, né saputo. Se il primo è stato un produttore infaticabile di scritti teorici sulla psicoanalisi ordinati in un sistema concettuale rigoroso, il secondo ha sempre scritto nella forma del frammento, dell’intervento breve, privilegiando la parola orale a quella scritta a partire dalla convinzione che lo spirito della psicoanalisi abbia a che fare con il dialogo vivente più che con il carattere immobile della scrittura.
Per tutte queste ragione, e per altre ancora, Jacques Lacan lo considerava il suo allievo prediletto in Italia, sebbene Fachinelli avesse sempre declinato garbatamente l’investitura ufficiale decidendo di non lasciare mai la sua società di appartenenza (la Società psicoanalitica italiana).
Ho incontrato di persona Elvio Fachinelli una sola volta nella mia vita. L’occasione fu quella di un convegno di psicoanalisi svoltosi verso la fine di novembre del 1988 alla Casa della Cultura di Milano. Intervenne tra gli ultimi e mi colpì come la sua parola si differenziasse nettamente da quella pesantemente erudita e scolastica di altri relatori.
Ora questo breve intervento è disponibile in una piccola raccolta di suoi scritti rari proposta da Adelphi col titolo Su Freud.
La mole anoressica di questo libretto conferma il carattere nomadico e anti-sistematico dell’opera di Fachinelli. Il lettore troverà la tesi che ha ispirato tutto il suo lavoro di analista: non si dà esperienza dell’analisi se non attraverso un effetto imprevisto con qualcosa che scompagina l’ordine costituito dei nostri pensieri. Questo significa che un’analisi non è una semplice acquisizione di sapere già dato attraverso la sua accumulazione progressiva. Il sapere analitico si incontra e si produce solo a partire da una sorpresa, da una sospensione del sapere dell’Io, da un suo vacillamento.
E’ questo il contributo decisivo di Freud che in queste pagine Fachinelli ci ricorda puntualmente: la psicoanalisi come nuova pratica della cura non si applica ad un paziente passivo, ma esige un movimento attivo di ricerca da parte dei soggetti (l’analista e il paziente) che vi sono impegnati. Fu questo il contributo più profondo di Freud: porsi lui stesso, nella sua carne e nelle sue ossa, come malato di inconscio.
Egli, ci ricorda Fachinelli, diverrà, con una lucidità che potrà apparire persino “disumana”, “paziente di se stesso” (“Il malato che più mi preoccupa sono io stesso”). E’ su questa base freudiana che egli propone di differenziare una “psicoanalisi della risposta” (quale è, per esempio, quella della teoria coinemica di Franco Fornari) da una “psicoanalisi della domanda” che anziché applicare un codice interpretativo alle parole del paziente dovrebbe essere in grado di sapersi rinnovare ogni volta proprio grazie a quelle parole.
Questo è il grande contributo di Freud: il sapere della psicoanalisi non si trova nelle biblioteche, non è sapere scritto, catalogato, codificato, ma è sapere sempre in movimento, vivente nella dimensione orale della parola di cui si nutre la pratica della psicoanalisi. Per questa ragione, sempre secondo Fachinelli, l’autentico spirito freudiano non va rintracciato nei paradigmi positivistici che riducono la malattia mentale ad una malattia del cervello, ma nell’aver dato valore al potere trasformativo della parola, nell’aver dato forma ad una “conversazione conoscitiva” la cui tradizione si inaugura con la “nobile sofistica” di Protagora e Socrate.
L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro
“Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”
Una nuova anima
“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”
di Luciana Sica (la Repubblica, 18.12.2012)
«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle? Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse... Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno... Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!».
Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden - tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale - avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave - “pluralismo” e “internazionalizzazione” - e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.
Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana... Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?
«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno - in nome dell’ortodossia freudiana - potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”».
Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?
«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».
Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?
«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».
Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?
«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».
Un peccato mortale per un analista classico?
«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare...».
Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?
«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training - nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica - non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».
Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?
«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».
Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci... Avrà qualche ragione?
«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».
Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?
«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio... Lei ne difende o no la centralità?
«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”... Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».
Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?
«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o - come direbbe Ogden - di sognare».
Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci... Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?
«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».
Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?
«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’...».
Addio a Daniel Stern, cambiò la psicoanalisi
È morto a Ginevra il grande studioso del rapporto madre-bambino
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 14.11.2012)
È scomparso in questi giorni a Ginevra lo psicoanalista americano Daniel Stern, molto conosciuto in Italia per i suoi libri e per la forte presenza nel mondo universitario, nei seminari annuali dell’Istituto italiano per gli studi filosofici a Napoli.
Grande merito di Stern, è di aver rivoluzionato la nostra concezione della mente umana. Il mondo psicoanalitico americano, dove si è formato, era ancora fortemente influenzato dalla Psicologia dell’Io e in particolare dalla lezione di Rapaport - da un modello della mente rigido e autocentrato. Sempre in questa prospettiva si era mossa Margaret Mahler che aveva riaffermato il carattere addirittura autistico del mondo del lattante, riprendendo la metafora freudiana dell’uovo che contiene al suo interno le sostanze nutritizie.
Ècon una ricerca del 1977 che Stern sbaraglia questa concezione monadica del lattante descrivendo le interazioni fra una madre e i due figli gemelli nei primi mesi di vita: mentre con il primo lo scambio è soddisfacente, con l’altro vi è un reciproco rincorrersi senza mai incontrarsi. Questa ricerca, come altre realizzate nel suo laboratorio alla Cornell University, è la base su cui Stern costruisce una nuova concezione dello sviluppo umano, che si intreccia fin dai primi attimi di vita con l’altro, con la storia, con il mondo dei significati intersoggettivi.
Nel 1985 viene pubblicata la sua opera più organica - Il mondo interpersonale del bambino (Bollati Boringhieri) - che mette a confronto la psicoanalisi con la psicologia dello sviluppo: Stern ripercorre le tappe che portano alla costruzione del sé infantile non solo dal punto di vista del comportamento ma anche dell’esperienza soggettiva, del modo in cui ci si apre agli altri. È un libro che mette in discussione molte certezze della psicoanalisi, anche perché le nuove concezioni si basano su un rigoroso lavoro di revisione scientifica che esclude ogni conclusione impressionistica, poco giustificata. Nonostante l’attenzione si concentri sul mondo del bambino, le sue implicazioni riguardano l’intero edificio teorico e clinico della psicoanalisi, con reazioni molto contrastanti: c’è chi pensa che il modello psicoanalitico non può rimanere ingessato evitando il confronto con altre discipline scientifiche, ma anche chi respinge le tesi di Stern come del tutto estranee alla psicoanalisi.
Il suo gusto creativo per la ricerca comunque non si ferma e si indirizza sempre più al campo clinico, com’è testimoniato da Il momento presente (Cortina, 2005). Qui l’attenzione viene rivolta allo scambio fra terapeuta e paziente secondo il codice implicito - attraverso la mimica, la gestualità, la postura del corpo, l’inflessione e l’intonazione del linguaggio, tutti elementi determinanti nello scambio e nella comprensione immediata dell’altro. E’ in questo contesto relazionale che possono verificarsi i cosiddetti “now moments”: è l’incontro intenso fra due menti a rivelare improvvisamente verità profonde su se stessi e sul rapporto intersoggettivo. Momenti decisamente trasformativi.
Negli ultimi anni Stern ha poi affrontato un tema abbastanza inesplorato dalla psicoanalisi: quello della vitalità, come esperienza fondamentale nella vita quotidiana, “sperimentata continuamente, come l’aria che respiriamo”. E profondamente radicata nel corpo. A questo proposito, vorrei concludere con un ricordo personale: solo una settimana fa ho parlato per l’ultima volta con Daniel Stern, ricoverato in ospedale. Quando gli ho chiesto come stava, mi ha risposto “we are still alive” (siamo ancora vivi), sottolineando ancora la profonda vitalità del suo stare al mondo e la dimensione intersoggettiva che come sempre ci legava.
Psicoanalisi anti crisi
A Milano un Centro Musatti offre assistenza gratuita
Il presidente Giuseppe Pellizzari «In questa epoca di incertezza e smarrimento vogliamo fare la nostra parte e ritrovare la vocazione sociale del nostro lavoro»
di Stefania Scateni (l’Unità, 13.11.2012)
Succede in tempi come questi, precari e oscuri per l’animo e la carne, epoca «delle crisi»: economica, politica, spirituale... D’altronde la crisi è «il mestiere» della psicoanalisi: strada maestra verso il cambiamento, la crepa è un momento di verità che porta alla trasformazione, passaggio, attraversamento verso qualcosa di ignoto, nuovo. Oggi l’angoscia che permea il vissuto soggettivo è impalpabile e incombente, difficilmente identificabile, subita e imprendibile come le ombre scure dei film dell’orrore. L’angoscia che accompagna le vicissitudini del nostro mondo è senza prospettiva, è angoscia allo scoperto. Uno stato dell’anima ancora tutto da esplorare e conoscere radicalmente diverso dai disturbi del passato anche recente.
In mancanza di chiarezza analitica, di questa congiuntura odierna si fa la conta in percentuali di disagio: in Grecia, dal 2008 al 2011, le persone tra i 25 e i 34 anni con problemi di ansia o di depressione sono passati dal 3,8% al 13,6%. La psicoanalisi stessa soffre della crisi e registra, negli ultimi tre anni, un crollo dei pazienti del 20%. Ma persino questo «disfacimento» può essere letto come un’indicazione al cambiamento.
«Oggi viviamo la scomparsa dei grandi contenitori ideologici e simbolici, sperimentiamo una grande sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, ci sentiamo derubati del futuro ci dice il presidente del Cmp Giuseppe Pellizzari -. La crisi ha acuito questo senso di smarrimento e incertezza. La decisione di proporre il nostro servizio clinico nasce dall’esigenza di fare la nostra parte: per la psicoanalisi questo è un ritorno alle origini, quando nel 1919 nacque, in un momento di grave crisi post bellica, l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, con chiari intenti sociali. Per un decennio funzionò benissimo e nell’istituto lavorarono i migliori analisti di quegli anni». Il loro intento sociale era ispirato a ciò che Freud disse durante il Congresso di Budapest del 1918: la gente ha diritto di essere curata non solo per la tubercolosi, ma anche per le malattie nervose, e lo Stato dovrebbe andare incontro a queste esigenze.
L’iniziativa milanese non è solamente e semplicemente un andare incontro ai cittadini. «Le difficoltà contemporanee non sono soltanto economiche spiega Pellizzari -, la crisi interessa anche i valori, i fondamenti simbolici della vita delle persone. E questo ci interessa, interessa la psicoanalisi. Non possiamo guardare questo fenomeno dall’esterno, perché anch’essa vive una crisi dei suoi fondamenti. Ed è un momento di grande fecondità. Il servizio che vogliamo offrire al territorio ha anche uno scopo formativo per chi ci lavora e uno scopo di ricerca per noi. I “nuovi” pazienti hanno caratteristiche nuove e poco conosciute e per questo possono rappresentare un’occasione importante per imparare cose nuove e sollecitare la psicoanalisi a funzionare in modo nuovo rispetto ai canoni classici».
Oggi le nevrosi classiche, le sindromi ossessive, le isterie e le perversioni, non sono le più diffuse come lo erano un tempo; ad esse si sostituiscono sindromi narcisistiche, disagio, insoddisfazione, vuoto, apatia diffusa, disturbi difficili da trattare perché quasi incosistenti, senza un sintomo predominante e urgente. Quelle più profondamente mutate nel più breve tempo sono le problematiche adolescenziali: non ci sono più i ragazzi ribelli che si scontrano con la cultura dei genitori e vogliono cambiare il mondo. Moltissimi adolescenti oggi non sanno cosa piace loro, non sanno cosa fare, non sanno chi sono, non studiano e non lavorano, non fanno niente.
E infine, la domanda dalle cento pistole: ci avete sempre detto che pagare il trattamento è essenziale e indispensabile per la pulizia e l’efficacia della terapia. Come la mettiamo con il vostro trattamento gratuito?
«Ci sono sempre stati analisti che hanno trattato gratuitamente qualche paziente, ma questo ha sempre posto dei problemi nella conduzione tecnica dell’analisi, cioè nell’ambito del transfert e controtransfert, perché il paziente potrebbe sentirsi diverso, speciale, oppure un povero oggetto di elemosina. Ci siamo resi conto che è molto importante il fatto che la nostra è un’iniziativa istituzionale, del Centro Milanese di Psicoanalisi, non del singolo analista che è tanto buono. La mediazione istituzionale consente una gestione più libera». Miracoli della crisi.
Rivoluzione freudiana
di Aurelio Molaro *
Probabilmente ha ragione David Meghnagi nel momento in cui molto efficacemente definisce la psicoanalisi freudiana come una semplice «battuta di spirito di un ebreo nei confronti della società occidentale». Il Witz, d’altra parte, cristallizza in maniera esemplare l’essenza stessa della rivoluzione operata da Freud nel contesto della storia della cultura europea. Una rivoluzione, in fondo, che nelle alterne vicende che l’hanno caratterizzata - censure, divisioni, ripensamenti e perfino fallimenti - ha saputo incarnare con magnifica profondità la vita e la personalità del suo stesso propugnatore: un’archeologia del banale la cui unica finalità fosse quella di cogliere «i due termini antitetici di un conflitto radicato nell’uomo», legato alla ricerca del passato nel presente, dell’aggressività nella passività, e viceversa.
Come Heinrich Schliemann, il fortunato scopritore della mitica città di Troia, Freud ha dimostrato infatti una «fede assoluta in ciò che l’orgoglio intellettuale disprezzava», concentrando così la propria attenzione su quel banale «residuo morto della nostra infanzia», figlio della nostra (umana) plurisecolare idealizzazione, che ritorna costantemente nei nostri sogni e fantasie.
Un uomo, Freud, che con «l’impulso del Conquistatore, o meglio, del Conquistador» non ha mai rinnegato, perfino negli ultimi anni di lotta contro un cancro che lo stava divorando, quel giuramento materialista della scuola di Helmholtz con il quale aveva dato inizio al proprio noviziato scientifico ma che seppe reinterpretare intellettualisticamente con assoluta e sconcertante originalità. È questo, in fondo, il Freud di cui con particolare sapienza Elvio Fachinelli - uno dei suoi seguaci italiani meno ortodossi ma certamente più geniali, morto a Milano alla fine del 1989 - tratteggiava l’enigmatico profilo in una serie di scritti recentemente raccolti da Adelphi e pubblicati sotto il titolo Su Freud. Il volume, edito per la storica collana «Piccola Biblioteca», ripropone con alcune integrazioni (soprattutto per ciò che riguarda i riferimenti testuali all’edizione delle Opere a suo tempo curata da Cesare Musatti) la voce su Freud che Fachinelli scrisse per l’XI volume dei Protagonisti della Storia Universale, oltre che una serie di articoli che lo psicoanalista trentino pubblicò nella seconda metà degli anni Ottanta per il Corriere della sera e per il manifesto e un breve intervento sulla pratica psicoterapeutica e il problema dell’imprevisto in analisi.
L’elemento certamente più originale di questa piccola "antologia psicoanalitica" è tuttavia rappresentato dal saggio Psicoanalisi, ancora inedito, a suo tempo redatto nel 1984 per l’Enciclopedia Europea della Garzanti ma mai pubblicato. Nella sua (forse non così nitida, soprattutto se consideriamo alcune eloquenti affermazioni di Freud contenute in Al di là del principio di piacere e in L’Io e l’Es) sostanziale differenza dalle scienze naturali e dalla biologia, la psicoanalisi freudiana ha conosciuto - scrive Fachinelli - un tipo di diffusione «ampia, ma con notevoli e durature esclusioni; lenta, ma insistente e continua» che ricorda più l’espansione di un movimento ideologico o di un fenomeno religioso che l’irrompere di una rivoluzionaria scoperta scientifica nel rigoroso panorama della ricerca contemporanea. Un Einfall - una trovata, diremmo noi - che ha in se stessa la propria origine e la propria costituzione e che è nata e si è sviluppata al di là di un semplice orizzonte naturalistico (che Freud comunque non ha mai rinnegato) alla ricerca di quella dimensione strutturale del fenomeno psicopatologicico che trova nelle «parole dell’altro» il proprio significato più nascosto, ovvero lo svelamento di sé nella sua verità.
Ed è così che al semplice Einfall freudiano davano conferma, nella terapeutica mediazione del transfert, anche gli Einfälle («ciò che capita nella mente») di ogni individuo, ovvero le sue libere associazioni. Pur movendo, di fatto, da un orizzonte scientifico largamente meccanicista e tendenzialmente biologizzante, Freud si dimostrò capace, secondo Fachinelli, di far convivere nella sua riflessione differenti modelli di comprensione e di spiegazione, come quello energetico, quello dinamico-conflittuale e quello topico. La psicoanalisi, in fondo, concentrandosi primariamente «sul rapporto dell’uomo con sé stesso, della coscienza con sé stessa e con l’altro da sé», non ha potuto non segnare una parte assai rilevante della storia della cultura occidentale: lo dimostra - scrive Fachinelli - il sempre vivo tentativo di ricondurla ogni volta «nell’ambito della psicologia generale, della religione, della letteratura, della filosofia, dell’etica e così via». D’altra parte, come ogni Witz, per non rischiare di perdersi in una semplice, genuina e piacevole risata, la psicoanalisi ha tuttavia bisogno di consolidarsi in un proprio autonomo statuto epistemologico che le dia autorevolezza e una certa legittimità scientifica: le «chiacchiere», infatti, per quanto si facciano assai spesso «racconto», possono anche far male alla scienza.
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Su Freud
di Elvio Fachinelli
Adelphi Editore
113 p., brossura
12 euro
* Il Sole-24 Ore, 30 ottobre 2012
Bertolucci, viaggio al termine della solitudine
di Furio Colombo *
La solitudine è un luogo molto lontano e praticamente introvabile, come un altro mondo o un altro continente. In questo caso è una cantina nella stessa casa, separata non solo dalla messa in scena di finte telefonate, ma da una sorta di confine magico che ti rende invisibile. Poiché il protagonista ha 14 anni, niente è più vicino al vero. Ma poiché stiamo parlando della storia e del film di Bernardo Bertolucci ”Io e te”, e poiché leggete quasi subito, nei titoli di testa che il film è “tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti”, credo che sia giusto proporre un’interpretazione di questo riferimento al libro.
Il film ti tiene col fiato sospeso come un thriller, benché tu sia entrato in sala solidamente preparato sul testo, perché il regista apre con lo scrittore un dialogo di cui non puoi sapere (e infatti non sai) la fine. Ma il dialogo non è una civetteria di artisti. È ciò che avviene quando generazioni creative separate dal tempo si confrontano con la stessa storia e la vivono fino in fondo, con fedeltà e passione ma non nello stesso modo. Perciò “Io e Te” è due volte un esperimento. Ammaniti voleva farti capire quanto solo è, e quanto invisibile vuole essere e può essere, un ragazzino intelligente e goffo di 14 anni, che capisce tutto, sbaglia tutto, soffre di tutto e disperatamente combatte, specialmente contro i soli appigli disponibili della sua vita. Bertolucci non sposta il presente al passato - o almeno a un altro tempo - come ti aspetti che faccia il più anziano. Piuttosto osserva e racconta (e raccontando trasforma senza alterare) e capisci subito che diverso è solo il suo punto di vista di persona che ha attraversato più vita.
E’ interessante che nel film (come nel libro) vi sia un battibecco sul “punto di vista che ti cambia l’identità, quello che sei e quello che fai”. Quel battibecco è il cuore stesso del rapporto che si è stabilito in questo film fra il regista e lo scrittore, fra la prima trama e la seconda, fra lo scrittore, più giovane e spietato, e il regista che soffia dentro i due personaggi l’anima calda di una vita che attraversa la solitudine e schiva la morte. Due personaggi? Ricordiamo ai lettori e anticipiamo agli spettatori che il ragazzino che ha inventato per sé una solitudine da recluso e un’invisibilità da stregone, è raggiunto dal suo doppio, una sorella (sorella di madre) che quasi non conosce e che è sola nell’altro modo (non sa dove andare). Allo stesso modo si difende con aggressiva brutalità perché cerca un solo piccolo punto di legame col mondo, che non trova.
Per lei, che è un poco più adulta, il mondo è già usato e inservibile (la droga ha lasciato la sua orma di distruzione). Ma, come per il ragazzo quattordicenne, ha bisogno di un punto magico e misterioso di raccordo affinché la fortezza della solitudine, o la palude del degrado, abbandonino la presa. Cercano e non sanno. Ma qui Ammaniti e Bertolucci si accostano. I loro personaggi (quelli che amano e a cui i due autori restano vicini) sono buoni e integri, qualunque cosa accada. E allora si compie il miracolo annunciato dal gesto della Cappella Sistina che ha segnato una svolta di umanità: due mani si protendono per toccarsi. Nel buio di uno scantinato dove si può solo morire di solitudine o droga, le loro mani si toccano. E quando diventa un abbraccio forte e disperato che riassume tutti i momenti di immensa emozione di tutti i grandi film di Bertolucci, tu capisci che il regista più anziano ha preso il sopravvento sullo scrittore più giovane.
Ed è splendida la “correzione” che Bertolucci porta alla storia quando decide che la ragazza vive, che correre via dalla foresta e salvarsi è umano - dunque possibile - come soccombere. E tu, spettatore, ti rendi conto che quel gesto libera il ragazzo dalla sua solitudine imprigionata. Perché sia l’uno sia l’altra hanno trovato almeno un essere umano da stringere forte. E quell’abbraccio rompe l’incantesimo. Come un grande manierista, Bertolucci dipinge, sul disegno bello e duro di Ammaniti, un quadro caldo di empatia e di speranza. So che la parola è banale perché è troppo usata a vuoto, e serve sempre da generica consolazione. Ma conta nel film di Bertolucci perché non consola, constata. La sua constatazione, che ti fa toccare con mano alla fine della serrata e intensa storia del ragazzo prigioniero e della principessa che libera il suo salvatore con lo stesso gesto, e nello stesso modo e momento, è che finché scorre una scintilla di umanità fra esseri umani, siamo salvi.
Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2012
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE! AL DI LA’ DELLA "PULSIONE DI MORTE" DEL CATTOLICISMO ATEO E DEVOTO ...
"CANTICO DEI CANTICI": CANCELLATA OGNI DIFFERENZA, L’AMORE E’ FORTE COME LA MORTE, E LA MORTE E’ FORTE COME L’AMORE. Finalmente su Piazza San Pietro, sventola il “Logo” del “Dominus Iesus”: “Deus caritas est”!!! Il Terzo Millennio prima di Cristo è già iniziato ...
Federico La Sala
Stesi sul lettino nei Paesi dell’Islam
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, o5.10.2012)
Lo scorso 26 settembre, di fronte al numeroso corpo consolare insediato a Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», sottolineava l’urgenza di «progredire nella pace e nel dialogo in una società multietnica». Per una coincidenza tanto casuale quanto indicativa dell’attualità di questi propositi, domani si terrà all’Università di Pavia, nella storica sede del Collegio Ghislieri, un seminario internazionale dal titolo «Geografie della psicoanalisi». La metafora rinvia al confronto e al dialogo tra le molte psicoanalisi operanti oggi nel mondo. Una prospettiva coraggiosa per un sapere nato all’inizio del Novecento, nell’ambito della minoranza ebraica viennese in cerca d’identità e integrazione.
Come spesso accade nella storia del pensiero scientifico, dallo scandaglio del particolare sono emersi paradigmi ritenuti universali. Il primato dell’Inconscio, il complesso di Edipo, il disagio della civiltà e la pulsione di morte, insieme alle regole per lo svolgimento della cura, hanno costituito, sotto la tutela dell’IPA, la Società internazionale di Psicoanalisi, un corpus teorico e clinico sostanzialmente stabile e omogeneo. Ma ora l’intensificarsi di relazioni multietniche induce a chiedersi: «Che cosa sopravvive della psicoanalisi, una volta messa a dimora in culture estranee e lontane?
Dalla rivista «Psiche», cui il seminario s’ispira, sono state anticipate alcune questioni. Ad esempio, si può trasferire la prassi del lettino in contesti, come quello islamico, caratterizzati dalla intransigente affermazione della superiorità maschile? Per lo psicoanalista Gehad Mazarweh dell’Università di Teheran, intervistato da Daniela Scotto di Fasano, la posizione frontale è preferibile soprattutto per la paziente donna, che ne trae una conferma della sua emancipazione. A una conclusione analoga giunge la psicoanalista Gohar Homayounpour osservando che, in Iran, un uomo non si sdraierebbe mai dinnanzi a un’analista donna.
Anche il fine della terapia è diverso: nel mondo occidentale si tratta di ricomporre un individuo frammentato rimettendolo in contatto con le parti rimosse della sua identità e con i rapporti sociali spezzati dall’affermazione narcisistica di sé. In società ad alto indice di collettività si chiede invece alla psicoanalisi di sostenere l’emancipazione dai condizionamenti familiari e ambientali, l’acquisizione di spazi di libertà personale.
Nei nuovi rapporti culturali e professionali Lorena Preta teme possano emergere atteggiamenti neocolonialisti, improntati a una presunta superiorità della cultura occidentale. Una tentazione evitabile privilegiando la psicoanalisi della domanda, cogliendo le provocazioni dell’alterità, sopportando l’ansia del dubbio e la fatica della ricerca, accettando la reciprocità e il cambiamento.
Non dimentichiamo che l’esilio impronta la storia e la teoria della psicoanalisi, fondata sul decentramento dell’Io e l’interpretazione dell’Inconscio. Il seminario si svolgerà attraverso colloqui tra psicoanalisti italiani e stranieri che studiano e lavorano in paesi islamici, mentre Livio Boni, dell’Università di Tolosa, affronterà il contatto con l’India, un subcontinente che suscita in noi contrastanti fantasie di «origine assoluta e irriducibile alterità».
Perché questa straordinaria avventura di traduzioni e ibridazioni reciproche s’inaugura a Pavia? Perché in quell’ateneo gli studi psicoanalitici sono sempre stati aperti alla storia e al confronto con le altre discipline, tra cui una intensa collaborazione con la psichiatria e l’antropologia.
In linea generale, dalla geografia della psicoanalisi ci si attende un contributo alla comprensione di chi, proveniente da paesi lontani, pur vivendo accanto a noi, ci rimane estraneo.
E, in modo specifico, una riflessione su tecniche e saperi minacciati, come sempre accade, dall’irrigidimento delle tradizioni e dal conservatorismo delle istituzioni.
Stefano Bolognini "Ecco perché la psicanalisi scopre l’Oriente"
Il cinese sul lettino
Stefano Bolognini ora presidente di tutti i freudiani del mondo. "La nostra disciplina si diffonde ovunque"
"A Pechino non solo ci tollerano, ma contano su di noi per creare una società armoniosa"
"Ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis Le terapie si fanno on line, via Skype"
di Luciana Sica (la Repubblica, 30.06.2011)
Se un cinese sogna di mangiare un chow chow, vorrà mordere il suo analista che è un cane o cibarsi di una vera prelibatezza? Non si sottrae allo humour, Stefano Bolognini: «Li amo talmente i cani, io, che un sogno del genere mi metterebbe davvero in difficoltà. Sarei comunque un pessimo analista di un paziente del genere, altro che neutralità!». Poi, più serio: «Non esistono interpretazioni oggettive, formule precostituite e valide per tutti. Èil singolo sognatore che conta: per il paziente cinese, potrà darsi il primo caso, il secondo, o anche - in modo condensato - tutti e due. Andrebbe analizzato senza preconcetti, direi anzi senza pre-concezioni troppo legate alla sua tradizione culturale».
Paziente orientale, analista occidentale. Tutt’altro che un’ipotesi astratta, visto che a sorpresa la Cina comunista risulta estremamente interessata alla psicoanalisi. E a occuparsene sarà proprio Bolognini, da un paio d’anni alla guida della Società psicoanalitica e ora - ed è la prima volta per un italiano - neopresidente dell’International Psychoanalytical Association: l’Ipa, che fu fondata da Freud nel 1910 e oggi conta dodicimila iscritti. «Un gran riconoscimento per la creatività della psicoanalisi italiana», per dirla con la punta di enfasi di Bolognini, che sarà proclamato President Elect al congresso mondiale di Città del Messico in programma dal 3 al 6 agosto. Altra notizia: alla vicepresidenza del tempio dei freudiani ci sarà la svedese Alexandra Billinghurst - mai prima d’ora una donna aveva conquistato i vertici dell’Associazione.
"Non sanno che portiamo la peste", è la celebre frase - del 21 agosto del 1909 - pronunciata da Freud, salpando con Jung (e Ferenczi) alla volta di New York. Dopo un secolo, dottor Bolognini, la psicoanalisi ha "appestato" il mondo?
«Non potrebbe essere diversamente, visto che è il più serio strumento di conoscenza e di cura del mondo interno degli esseri umani che mai sia stato messo a punto. Con una sottolineatura: la psicoanalisi ha una complessità concettuale e tecnica molto maggiore di quella di una volta».
Quali sono i Paesi "nuovi" in cui si sta diffondendo?
«Fino a pochi anni fa erano la Turchia, il Libano, tutto l’Est europeo, in Asia la Corea e in America Latina il Paraguay. Oggi, oltre alla Cina, ci sono il Mozambico che per ragioni linguistiche conta sugli analisti brasiliani, l’Iran dove le classi colte sono affamate di psicoanalisi (a Teheran lavorano otto analisi formati a Parigi e negli Stati Uniti), l’Egitto e il Marocco anche lì con analisi di derivazione francese, il Sudafrica in cui già operano quattro analisti iscritti all’Ipa e la stessa Cuba che ha preso i primi contatti con gli analisti latinoamericani sempre dell’Ipa».
La novità assoluta è la Cina. Nessun problema politico?
«Sono le attività esplicitamente antigovernative ad essere sotto controllo. La psicoanalisi non solo è tollerata ma addirittura inserita in un progetto politico volto a creare una "harmonious society"».
Una società armoniosa, grazie agli epigoni di Freud?
«È così che la pensa la nomenklatura cinese, e a Pechino - lo scorso ottobre - si è svolta la prima conferenza asiatica dell’Ipa, con oltre cinquecento partecipanti. Nella capitale ci sono nove candidati in analisi dalla moglie dell’ambasciatore tedesco e altrettanti a Shangai, sempre da un analista tedesco che si è trasferito lì. Inoltre èstato riconosciuto un "Allied Center" composto da psichiatri e psicologi per così dire tifosi della psicoanalisi, una sorta di "testa di ponte" culturale favorevole all’arrivo di analisti didatti o alla possibilità che terapeuti locali vadano a formarsi all’estero per poi rientrare. Università e ospedali sostengono il progetto formativo di nuovi analisti... E ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis, di terapie on line, via Skype».
Ammetterà una certa alterazione del setting. Non saràun addio al divano?
«Assolutamente no. Intanto il primo anno di analisi è quello "tradizionale", poi la Rete consente almeno il vis-à-vis, ma solo quando c’è un problema di distanza».
I pazienti quanti sono, e soprattutto chi sono?
«Di questo sappiamo pochissimo, non esistono statistiche né censimenti. E al momento ci sono soprattutto analisi di formazione, visto che stanno iniziando. Ma in linea generale, in un paese come la Cina, dove la concezione collettivista ha depersonalizzato gli individui, credo che il recupero della soggettività sarà uno degli elementi decisivi nella richiesta di analisi».
La qualità non verrà decisamente annacquata in Oriente come in Africa?
«Gli inizi in aree lontane dai grandi centri psicoanalitici sono sempre difficili, e così è stato anche nei Paesi ora evoluti quando la psicoanalisi era agli albori - compresa l’Italia, negli anni pioneristici prima della Seconda guerra mondiale».
Mettiamo la celebre riscrittura del "romanzo familiare" dei pazienti. In realtà antropologiche così differenti dalle nostre, dove le famiglie possono essere comunità anche estese, come lavorerà un analista?
«I riferimenti teorici sono comunque quelli classici, validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana. Naturalmente le specificità locali vengono rispettate: del resto, già il contesto socioculturale della Sicilia varia molto rispetto a quello dell’Alto Adige. E gli analisti lo sanno».
Ma la psicoanalisi innestata in culture diversissime da quella occidentale, non produrrà nuovi ibridi?
«No, al massimo delle "nuances" differenti. Le pulsioni, il narcisismo, i conflitti di dipendenza sono universali. La sessualità, l’ambivalenza, l’aggressività, le difese contro il dolore riguardano la natura di base di tutto il genere umano».
La psicoanalisi sembra comunque prendersi una rivincita, dopo i requiem intonati negli scorsi anni. Anche grazie ad alcuni studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel?
«Il riconoscimento della compatibilità con le neuroscienze è stato senz’altro importante, ma è solo una delle ragioni per cui la psicoanalisi non è destinata a morire».
Tutte le scienze evolvono: oggi lei si farebbe operare con una tecnica chirurgica di cent’anni fa o con strumenti di ultima generazione? Nel mondo, la psicoanalisi guarda a Freud come al fondatore o come a un referente teorico ancora attuale?
«La psicoanalisi rischia di diventare una religione se pone le teorie in una posizione "teologica", come fossero verità assolute rivelate. Ma questa non era la posizione mentale di Freud. Certi cultori integralisti ne assumono le teorizzazioni come elementi sacri e indiscutibili, se non come un feticcio. E invece la psicoanalisi va "vista" come un grande albero: se le radici e il tronco sono la base freudiana, tutti i rami successivi sono di una ricchezza irrinunciabile. Lo sviluppo c’è stato, e anche molto grande, ma comunque "sulle spalle di Freud"».
Se la psicoanalisi mette il mondo sul lettino
Come cambia la sua funzione in altre culture
Oggi a Pavia si tiene un seminario internazionale intitolato “Geografie della psicoanalisi”
di Luciana Sica (la Repubblica, 06.10.12)
Un musulmano in analisi si stenderà tranquillamente sul lettino? Probabilmente no, tanto più se l’analista è una donna. La posizione sdraiata potrebbe restituirgli un senso di sottomissione, non sempre accettabile. Anche la paziente islamica tenderà a preferire il vis-à-vis, non avere seduto alle spalle l’analista, ma di fronte, guardarlo negli occhi. Seppure per la ragione opposta, perché il lettino - quella situazione inevitabilmente seduttiva - potrebbe rappresentare per lei l’umiliante conferma di un ruolo subordinato. Del resto, questo fa la psicoanalisi quando si misura con la cultura di certi Paesi: tende a recuperare il femminile, mettendo in discussione la figura del padre dominante. E questo - per dire - fa anche in India, dove la neutralità analitica deve tener conto della particolare richiesta di calore, di “compassione”, come tratto culturale caratteristico di quella vasta regione: lì, in terapia, oltre alle parole saranno particolarmente importanti i gesti, l’intonazione della voce, le espressioni facciali.
Sono solo esempi, ma rendono con immediatezza il senso di un interrogativo obbligato per gli epigoni di Freud: che ne è infatti della “loro” psicoanalisi quando s’innesta in culture completamente diverse da quella occidentale? La grande diffusione di una disciplina eternamente sotto attacco si direbbe una buona notizia per chi ne difende la vitalità intellettuale e terapeutica, le sofisticate teorie e la qualità della clinica. Ma - aldilà dei facili trionfalismi - il sapere freudiano, che tanto si è evoluto nel corso di oltre un secolo, “trapiantato” se non “esportato” in contesti lontani e in più differenti tra loro solleva anche una gran quantità di problemi, e non di non poco conto.
A occuparsi di una questione poco esplorata e attualissima, è un seminario internazionale in programma domani al Collegio Ghislieri di Pavia. Con un titolo - Geografie della psicoanalisi - che rimanda a un numero della rivista Psiche, presentato al congresso di Pechino dell’International Psychoanalytical Association (l’istituzione fondata da Freud nel 1910, dodicimila iscritti in tutto il mondo).
Per dieci anni alla guida di quel periodico molto apprezzato, firma al femminile del mondo freudiano, è Lorena Preta la principale artefice di un appuntamento su “le molte psicoanalisi” disseminate nelle varie aree del mondo, in particolare in India e nei paesi dell’Islam. «Sembra una contraddizione - dice lei - ma la psicoanalisi è in crisi e in crescita nello stesso tempo, perché da un lato deve misurarsi con il ricorso diffusissimo agli psicofarmaci e le terapie brevi che promettono miracoli, dall’altro è considerata sempre più importante nei Paesi asiatici e musulmani... “Non sanno che portiamo la peste”, è la celebre frase di Freud in viaggio per New York.
Oggi si direbbe che tutto il mondo è stato “appestato”, ma è la funzione della psicoanalisi che tende a cambiare, a seconda dei contesti. Se da noi, in Occidente, l’analisi tende a ricomporre le parti spesso frammentate di soggetti disorientati e privi di riferimenti sia psichici che sociali, altrove non è così. Nel mondo orientale spesso ci sono regimi totalitari o anche apparati religiosi che impongono comportamenti rigidissimi. In quelle realtà i pazienti cercano soprattutto di emanciparsi dal controllo del gruppo, di conquistare spazi di libertà individuale».
Oltre alla Preta, a Pavia prenderanno la parola analisti come Fausto Petrella e Maurizio Balsamo, Vanna Berlincioni e Daniela Scotto di Fasano, due docenti universitari - Marco Francesconi che insegna a Pavia e Livio Boni, professore a Tolosa, grande esperto della cultura indiana - ma sono attesi soprattutto gli interventi di Fethi Benslama, docente maghrebino a Parigi e fondatore dell’Association Psychanalytique Marocaine, e dell’iraniana Gohar Homayounpour, didatta del Teheran Psychoanalytic Institute. Saranno loro a dire se nel mondo la psicoanalisi sta producendo nuovi ibridi “sulle spalle di Freud” o se almeno i principi classici fondamentali restano salvi. A cominciare dalla centralità dell’inconscio nel funzionamento della mente umana - ovunque, da sempre.
Galileo, il più grande scrittore italiano
La sua lezione: Poesia e conoscenza non si escludono a vicenda
di Piergiorgio Odifreddi (il Fatto, 03.10.2012)
Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza. Peccato però che l’affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste.
Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: “Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore”. Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica”. Il secondo, esterno, notava che “Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto”, e che “Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte”.
In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un’ideale linea di forza della nostra letteratura. Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un’interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna. Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo : “quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e intrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo’”.
La “scrittura rampante” del Dialogo sui massimi sistemi
Nelle ultime righe del Barone rampante si legge “Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Benigni declama i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l’altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo? In fondo, “a voler dir lo vero”, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche della Commedia a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico.
Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano.
La nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista.
Sulla Luna prima di Leopardi. E sulle leggi dell’universo prima di Einstein
Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell’elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro. Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d’evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell’uso che Galileo fa della Luna. Prima di lui, e fino all’Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d’acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all’ippogrifo dell’Orlando Furioso.
Portiamo pure a teatro Dante. Ma insieme a Newton e Galileo
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né Keplero hanno avuto bisogno di andarci di persona per capire come si sarebbe vista la Terra dalla Luna, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica. I poeti dell’inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c’`e. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere nel 1819 che la Luna “da nessuno cader fu vista mai se non in sogno”, benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che “la Luna cade continuamente verso la Terra”, ma aveva anche calcolato esattamente di quando essa cade.
Che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo: una poesia che “intender non la puo’ chi non la prova”, e che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritta”.
Perché la matematica?
di Piergiorgio Odifreddi *
Due settimane fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia.
“Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori”, si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici. Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica?
Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.
Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard.
Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.
Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.
Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, “intender non le può chi non le prova”.
E’ ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.
Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio.
Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. E’ per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.
ANTITETICA DELLA RAGION PURA
di Immanuel Kant *
Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.
L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.
Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.
Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.
Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.
Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.
Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.
Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.
Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.
Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.
Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.
Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.
Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.
Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.
*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.
Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”
di Elena Dusi (la Repubblica, 10.10.2012)
PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola».
La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente. Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».
Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».
«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».
Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.
La scuola, per loro un male necessario
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 10.10.2012)
MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali.
È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola.
Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?
L’uomo non è un algoritmo
Il Nobel per l’economia a Lloyd Shapley e Alvin Roth
Premiati per la «teoria delle allocazioni», cioè i meccanismi di scambio fuori mercato
Si può ridurre tutto alla matematica però?
di Pietro Greco (l’Unità, 16.10.2012)
I due hanno ottenuto il premio «per la teoria delle allocazioni stabili e la pratica della progettazione del mercato». Tradotto dal gergo tecnico significa che il primo, Lloyd Shapley, ha contribuito, già a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, a elaborare teorie economiche per spiegare meccanismi di scambio fuori dal mercato. E il secondo, Alvin Roth, per aver applicato, a partire dagli anni ’80, quelle teorie a problemi pratici. Entrambi hanno utilizzato molta matematica.
In realtà sono molti decenni che gli economisti cercano di trasformare la loro disciplina in una scienza fortemente matematizzata. Cosicché spesso un premio Nobel per l’economia potrebbe trasformarsi in una Medaglia Fields per la matematica. E viceversa. Non a caso grandi matematici da von Neumann a Nash hanno elaborato teorie economiche e molti economisti uno fra tutti, Keynes erano matematici.
UN SISTEMA DINAMICO
Un’idea centrale nelle teorie economiche fortemente matematizzate è che il mercato sia una sorta di grande piazza in continua trasformazione, un sistema dinamico, dove agiscono persone che hanno sempre presente il loro interesse (economico) e cercano di massimizzarlo. Sulla base di questo assunto, i cui presupposti risalgono al pensiero di Adam Smith, nel corso del tempo sono stati elaborate teorie economiche fondate su veri e propri teoremi. Tuttavia, si chiese Lloyd Shapley alla fine degli anni ’50, non tutto al mondo è (o dovrebbe essere) mercato. Per esempio è possibile spiegare con un algoritmo il modo migliore e più efficace per far sposare dieci donne con dieci uomini? In questo caso si tratta di allocazioni stabili: fatta la scelta, essa resta (meno di divorzi). Il problema delle «allocazioni stabili» fu risolto, in via matematica, da Lloyd Shapley e da David Gale con un algoritmo: l’algoritmo Gale-Shapley. Naturalmente (e fortunatamente) femmine e maschi per sposarsi non seguono non sempre, almeno le vie (considerate ottimali dagli economisti) dell’interesse della matematica, ma le vie più inafferrabili (e anche più piacevoli) dell’amore e della passione.
Cosicché l’algoritmo di Gale-Shapley restò a lungo inapplicato. Fino a quando Alvin Roth non pensò di applicarlo a problemi reali, dove l’interesse (non economico) ha comunque la preminenza rispetto alla passione. Per esempio l’allocazione dei giovani medici negli ospedali. Come far incontrare, nel modo più favorevole possibile per entrambi, ospedali e medici? O, anche, reni da trapiantare con pazienti che attendono il trapianto? Nessuno di questi problemi può essere risolto sulla base delle leggi di mercato.
Ma non per questo è saggio lasciarle al caso o all’egemonia di uno dei contraenti o alle raccomandazioni all’italiana. Soluzioni molto buone, sostenne e provò Alvin Roth, possono essere trovate con l’algoritmo di Gale-Shapley. La cosa ha funzionato talmente bene, negli Stati Uniti almeno, da meritare un Nobel.
Resta la domanda di fondo. È la matematica il risolutore dei problemi economici, sia nella dinamica di mercato che in condizioni di stabilità come quelle studiate dai due nuovi laureati a Stoccolma? Nessun dubbio che la matematica aiuti. Ma anche nessuna illusione. I nostri problemi economici vengono dalla politica. Una politica che, ovviamente, tiene conto dello sviluppo dell’economia matematizzata. Ma anche del fatto che gli uomini non sono solo gli omologhi «agenti razionali» che popolano le teorie economiche. Gli uomini sono portatori di diversità e di una ben più profonda razionalità, che tiene in conto anche altri interessi (da quelli estetici a quelli sociali a quelli ideali) che vanno ben oltre il mero interesse economico. Non sempre, per fortuna, questi interessi altri sono completamente riducibili ad algoritmi. Confinabili in modelli generali.