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IL SUPERCAPITALISMO, I PROBLEMI DELL’UMANITA’, E IL SILENZIO DEI FILOSOFI. L’"appello" di Guido Rossi, in una intervista di Federico Rampini - a cura di pfls

venerdì 6 giugno 2008.
 

-  La filosofia e il mercato.
-  Questo mondo senza equità

di Federico Rampini *

«I grandi filosofi del passato non vivevano fuori dal mondo, al contrario cercavano risposte ai problemi più concreti e urgenti dei loro contemporanei. Oggi i filosofi che si rifugiano nella metafisica parlano di un mondo che non c’è, si ritirano dalle loro responsabilità».

Guido Rossi non perde mai il gusto della provocazione e della polemica. A pochi giorni dall’uscita del suo nuovo libro, Perché filosofia (Editrice San Raffaele, pagg. 122, euro 14), l’autorevole giurista è visibilmente divertito: proprio la casa editrice di don Verzé gli pubblica questo ciclo di lezioni tenute all’università San Raffaele su un tono radicalmente laico. Non mancano le critiche a papa Benedetto XVI, compresa una provocatoria negazione delle radici cristiane dell’Europa.

In questo libro lei non si cimenta solo con la filosofia del diritto. È anche un atto di accusa verso quegli intellettuali che sembrano incapaci di dare risposte agli interrogativi pressanti del cittadino.

«In positivo, è un appello ai filosofi, ai teologi, agli scienziati, a tutti i, perché si occupino di diritto e di economia: cioè le materie che vanno al cuore dei problemi dell’umanità. Una delle ragioni fondamentali per cui ho accettato l’invito a insegnare filosofia del diritto, è l’interesse a trattarla raccogliendo l’ispirazione di John Rawls e la sua "Teoria della Giustizia". Il diritto e l’economia devono avere al centro la questione della giustizia sociale. È valido più che mai il "pregiudizio" in favore dei più deboli che Rawls affermò con il celebre principio del velo d’ignoranza. Quando una società deve darsi delle regole, nel dubbio ogni attore deve decidere dietro un velo d’ignoranza, senza sapere cioè se egli sarà dalla parte dei privilegiati o dei diseredati: è l’unico criterio che garantisce una equità universale».

Un tema tutt’altro che astratto. È proprio un deficit di equità che oggi sembra far vacillare il consenso verso la globalizzazione, anche nei paesi più forti e tradizionalmente liberisti come gli Stati Uniti.

«Infatti è su questo che si svolge un dibattito acceso e appassionante, con i contributi degli economisti americani più lucidi: Paul Krugman, Robert Reich, Larry Summers. Quest’ultimo ha aperto di recente una discussione cruciale sulle colonne del Financial Times. Summers sostiene giustamente che la globalizzazione rischia di entrare in una crisi drammatica, se non riesce a conquistare il consenso delle fasce più deboli: ivi compresi i colletti blu e la middle class americana che è attraversata da angosce e paure nuove».

Lei affronta il fenomeno del Supercapitalismo: un’economia dove le élites hanno perso i legami con la maggioranza delle popolazioni. Perfino nei paesi più sviluppati le diseguaglianze fra i chief executive delle multinazionali e i loro dipendenti raggiungono livelli mai visti nella storia. Si rompe ogni legame di solidarietà, perfino il concetto di cittadinanza si svuota quando la classe dirigente si isola da ogni rischio, non partecipa più dei destini della società.

«All’arricchimento si accompagna la deresponsabilizzazione. Altro che etica protestante del capitalismo. Un tempo i dirigenti delle aziende incassavano un premio economico che era sorretto da una legittimità: la loro ricchezza era commisurata ai risultati che offrivano agli azionisti, ai dipendenti, all’insieme della società che beneficiava della creazione di benessere e occupazione. Oggi lo spettacolo che offre il nuovo capitalismo è ben diverso. I dirigenti uccidono le aziende, distruggono valore azionario, gettano sul lastrico i dipendenti, e se ne escono dopo essere stati premiati con buonuscite sempre più generose. Si arricchiscono dopo aver impoverito la collettività. Il fenomeno va ben oltre la sfera dell’economia, spezza una regola fondamentale della democrazia rappresentativa. C’è un tradimento dei doveri della classe dirigente, una rottura fra rappresentanti e rappresentati».

Lei scrive che oggi nei mercati globali le grandi corporation possono legare le loro attività alla manipolazione dei mercati, alla frode, alla corruzione, all’evasione fiscale e al narcotraffico. Complici il segreto bancario, i paradisi fiscali offshore, e una interpretazione mistificante del diritto alla privacy. La mancanza di un quadro giuridico all’altezza dell’economia globale, nel suo libro è indicata come un arretramento perfino rispetto alla globalizzazione medievale, quando almeno la presenza della cosiddetta lex mercatoria rappresentava una sorta di regolazione per gli scambi tra mercanti.

«Il richiamo al Medioevo ci riporta alle origini di alcuni istituti del diritto. La legge fallimentare che in Italia usa il termine di bancarotta, in inglese bankruptcy, si rifà alle regole delle fiere medievali: quando un venditore non era più in grado di pagare i debiti, i commissari della fiera gli "rompevano" fisicamente il banco per segnalare e sanzionare la sua insolvenza. Oggi la regolazione non si è adeguata alle nuove dimensioni dei mercati. Molte emergenze dell’economia globale possono sfociare in un conflitto tra ordinamenti. Basti pensare alla crisi alimentare, alla emergenza di una nuova fame mondiale di cui si è discusso in questi giorni al vertice di Roma della Fao: non esistono regole all’altezza della dimensione di questa calamità, che chiama in causa le multinazionali dell’agroalimentare e della biogenetica, i protezionismi sovranazionali di americani ed europei, le strategie energetiche, la finanziarizzazione del capitalismo che ha invaso anche i futures dei generi alimentari necessari per la sopravvivenza. Mentre i grandi poteri dell’economia si muovono in questo orizzonte globale, mancano le autorità pubbliche capaci di proiettarsi nella stessa dimensione. Dovremmo cominciare dall’Europa, per esempio con la costruzione di una vera agenzia europea con poteri sui mercati finanziari del continente».

Nella rivalutazione dei grandi filosofi di un tempo, che si confrontavano con le sfide politiche più concrete, non poteva mancare Adam Smith. Che fu un filosofo etico prima di essere il fondatore della moderna scienza economica. Un grande pensatore, secondo lei travisato profondamente.

«Uno dei suoi concetti più equivocati è quello della mano invisibile. Nella vulgata si è imposta l’idea che Adam Smith con la mano invisibile abbia inteso dire che il mercato deve essere lasciato a se stesso perché raggiunge automaticamente un equilibrio virtuoso. La mano invisibile è diventato l’argomento principe in favore di politiche di laissez-faire, fino ai neoliberisti. In realtà Adam Smith prende a prestito l’immagine della mano invisibile, con molta ironia, dal terzo atto del Macbeth di Shakespeare. Macbeth parla della notte e della sua mano sanguinolenta e invisibile che gli deve togliere il pallore del rimorso prima dell’assassinio. Smith ha preso in giro ferocemente quei capitalisti che credevano di avere il potere di governare i mercati. Tra l’altro Adam Smith capì allora che la Cina sarebbe tornata ad essere una grande potenza dell’economia mondiale, e auspicò una sorta di Commonwealth universale per governare il nuovo ordine internazionale».

Lei è reduce dal Festival dell’Economia di Trento che quest’anno ha messo al centro delle sue discussioni il rapporto fra mercato e democrazia. Di fronte all’ascesa di nuovi capitalismi autoritari e illiberali è entrato in crisi un determinismo economico: l’idea che lo sviluppo porta automaticamente alla libertà politica.

«Quella illusione fu smentita anche in tempi più lontani. Nel marzo del 1975 il profeta del neoliberismo economico, Milton Friedman, andò in Cile per convertire il dittatore Pinochet al mercato, perché aprisse il suo paese al commercio mondiale e agli investimenti stranieri. Subissato di critiche da parte dei liberal americani, Friedman sostenne che il mercato era il presupposto della democrazia e dei diritti umani. In realtà la dittatura di Pinochet durò per altri 15 anni».

* la Repubblica, 06.06.2008


Così il supercapitalismo uccide la democrazia

di Guido Rossi (la Repubblica, 30.05.2008)

Il supercapitalismo inizierebbe verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando l’America aveva creato un capitalismo democratico, inteso come un’economia pianificata, sia pur diretta dalle grandi corporation. Le famiglie americane, che in quegli anni erano prevalentemente composte da operai e impiegati, godevano di salari decenti, di garanzie sindacali del posto di lavoro, di stabilità economica, di assicurazione sulla malattia e sui diritti alla pensione. In queste ultime situazioni, favorite da uno stabile sviluppo economico, garantito da poche grandi imprese, come la General Motors, in un’America abbastanza chiusa e protezionista, si potevano riconoscere i principi fondamentali di una democrazia sostanziale che, d’altra parte, non aveva politicamente mai avvertito incertezze o vocazioni antidemocratiche. Non era proprio l’età dell’oro. Ma si trattava comunque del capitalismo democratico.

La rivoluzione, o comunque il grande cambiamento, si verifica sul finire appunto degli anni Settanta, quando l’economia americana si apre a mercati più concorrenziali e il potere si sposta dai cittadini verso i consumatori e gli investitori e così gli aspetti democratici del capitalismo declinano. L’affermazione è tassativa, sicché gli spocchiosi nostrani adepti del libero mercato e della concorrenza dovrebbero forse avere oltre che un sussulto alla lettura delle pagine di Robert Reich [Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life. 2007], - professore a Berkeley, già ministro del lavoro sotto la presidenza Clinton e attualmente uno dei consiglieri economici di Barack Obama - anche qualche spunto di umile autocritica. Insomma, il libero mercato e la concorrenza spietata fra le imprese, cioè il supercapitalismo, hanno minato, se non distrutto, una parte assai importante della democrazia e dei diritti dei cittadini. La tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione hanno dato potere ai consumatori e agli investitori e i cittadini l’hanno perduto. Tutto questo ha creato una concorrenza spietata fra le industrie americane e straniere per cui, per attrarre i consumatori, si abbassano i prezzi e il metodo più semplice è quello di tagliare salari e diritti dei lavoratori. Il cittadino ha perso, non il consumatore, che con la deregolamentazione dei mercati finanziari diventa alla fine investitore nelle nuove potenti istituzioni, i fondi pensione e quelli di vario genere, oltre alle continue invenzioni di nuove strutture per attivare il risparmio da parte del sistema bancario. E anche qui, con i rischi che abbiamo appena vissuto, è la concorrenza l’unica responsabile.

E’ allora il momento di trarre qualche conclusione. La prima e più inquietante è che è pur vero che la globalizzazione e il supercapitalismo riducono la differenza fra i vari paesi - prendiamo ad esempio Cina e Stati Uniti -, ma all’interno di ciascun paese aumentano vertiginosamente le disuguaglianze, con conseguenze politiche ancora imprevedibili. E con esse aumentano l’insicurezza (non solo del posto di lavoro) e la paura del futuro, alle quali si accompagna l’unico potere dello Stato, quando non gli è tolto o col quale collude qualche grande corporation nel controllo sulle comunicazioni, sui movimenti, sulle opinioni. Gli Stati supercapitalisti arretrano continuamente fino a mettersi a disposizione di un nuovo padrone: la concorrenza nel libero mercato che soddisfa, facendo scendere i prezzi, il consumatore (e l’investitore, ma qui Reich sbaglia) che ormai si è dimenticato di essere un cittadino con dei diritti.

Il libro è rivoluzionario: al centro del supercapitalismo c’è la concorrenza che uccide la democrazia. Così scompare la tanto amata tesi - il luogo comune degli economisti - che il libero mercato è prodromico alla democrazia. E puntualmente alla prima pagina del libro l’autore ricorda questa tesi sbandierata dall’economista Milton Friedman nel marzo del 1975 a sostegno di Pinochet, la cui dittatura brutale durò ben altri quindici anni. Strano destino: i due morirono a poche settimane di distanza verso la fine del 2006. Infine, la concorrenza necessaria a soddisfare il consumatore e l’investitore diventa un male inesorabile e incurabile.

E come libro rivoluzionario l’autore invita indirettamente a una rivolta: il cittadino schizofrenico è inconsciamente esortato a far rientrare lo Stato a garantirgli i diritti di varie generazioni, secondo la terminologia di Bobbio, e a limitare il ruolo delle corporation, soprattutto nella loro operatività e struttura. Ma le ricette predisposte sono poche sicché personalmente non so neppure quanto l’autore si sia reso conto che aver sottolineato la dissociazione consumatore-cittadino, l’aver indicato nella concorrenza e nel libero mercato la caduta senza ritorno della democrazia, sia un manifesto rivoluzionario. Se identifichiamo la classe medio-alta con la nuova borghesia, a partire dalla fine degli anni Settanta la trasformazione è evidente: da lavoratori e impiegati a professionisti e dirigenti, con un’indagine spietata sui lobbisti e sugli avvocati che condizionano a Washington sia l’operato del governo, sia del potere legislativo, c’è ovviamente l’assimilazione borghesia-corporations.

Un’osservazione finale mi appare necessaria per inquadrare e valutare, entro i suoi giusti limiti, un libro che deve essere letto da chiunque voglia capire il mondo in cui viviamo e non si lasci affascinare dai falsi sacerdoti che vanno noiosamente, ma insistentemente predicando che tutto si può risolvere con la concorrenza e il libero mercato. Un libro, tuttavia, che tradisce un difetto di certa cultura americana, in base alla quale le crisi finanziarie sono delle malattie temporanee che in qualche modo si risolvono. Di conseguenza il sistema americano non è e non può essere oggetto di discussione, perché è il solo che può garantire sviluppo economico e globalizzazione. Questa è la tesi sottostante.

L’impostazione non regge, prima di tutto perché il supercapitalismo è soprattutto un capitalismo finanziario, e qui invece la finanza non appare quasi neanche come comprimaria. È mai possibile, mi chiedo, che un attento studioso come Robert Reich non si sia reso conto che solo la concorrenza sfrenata che ciascuno di noi vuole come consumatore non sia l’unica origine del deficit di democrazia, ma che dalla fine degli anni Settanta nella struttura stessa delle corporation e dei mercati è apparso un vero e proprio malanno che ha minato l’intero sistema e ha oltraggiato spesso la stessa concorrenza: cioè il conflitto di interessi, neppure nominato nel libro. Così, come ho già detto, è assente qualunque critica al sistema bancario e finanziario. Quindi non si è neppure accorto che il vero deficit di democrazia sta nella nuova lex mercatoria, di medievale memoria, la quale è imposta dalle multinazionali, dai suoi studi legali, dalle sue private corti arbitrali, e che esclude spesso le norme fissate dai legislatori e certamente non tiene in minimo conto i diritti del cittadino o i più elementari principi di democrazia.

Quel che a me pare, in definitiva, è che il deficit grave di democrazia debba essere invece affrontato mettendo sotto accusa l’intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumisti e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che, come del resto ho scritto nel mio ultimo libro, abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme. Ma ciò vale anche per il clima, l’ambiente, per la lotta alla povertà, per il diritto cosmopolitico dei popoli ad avere asilo e una vita decente.

E’ purtroppo una scelta alternativa, condizionante per il resto del mondo, sapere se gli Stati Uniti vorranno continuare a pensare che il supercapitalismo è ineluttabile o che la democrazia dei diritti di varie generazioni, secondo le classificazioni di Norberto Bobbio, sia il valore prioritario da perseguire per tutti.


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