E Afrodite conquistò la bilancia della Giustizia
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 17.11.2008)
Nacque dal mare, Afrodite. O meglio, dalla spuma del mare. Particolare non irrilevante: la spuma infatti, racconta Esiodo nella Teogonia, si era formata «attorno all’immortale membro». Vale a dire, per chi non ricordasse la storia, attorno ai genitali di Urano, tagliati da suo figlio Crono e da questi gettati tra i flutti. Una storia in verità alquanto trucida, ma molto significativa.
Afrodite è la dea di un amore associato alla sessualità, sia matrimoniale (quel poco di sessualità indispensabile alla funzione riproduttiva), sia, soprattutto, irregolare. Di regola, infatti, gli amori ispirati dalla dea sono illeciti: quello di Medea, ad esempio, quelli di Fedra e di Elena. Ma è sbagliato associare Afrodite solo all’amore e alla bellezza, dice James Hillman nel testo di una conferenza tenuta a Capri, pubblicata dalla casa editrice La Conchiglia nella bella traduzione e con le note (molto opportune) di Silvia Ronchey.
Come segnala il titolo - La giustizia di Afrodite - il libro ci conduce verso terreni inaspettati, abitualmente lontani dal mondo evocato dalla dea: la Giustizia, appunto, e in particolare il suo rapporto con la Bellezza. Un rapporto difficile, osserva Hillman, che coglie un presagio di questa difficoltà nella favola di Amore e Psiche, inserita nelle Metamorfosi di Apuleio.
Psiche, una donna mortale così bella da essere venerata come una dea, suscita l’oltraggiata indignazione di Afrodite (per i romani Venere), che la punisce servendosi di suo figlio Eros (per i romani Cupido). Colpita dalle frecce del dio alato, la psiche umana soffre le pene d’amore: la giustizia di Afrodite.
Il trascurato legame della dea con il mondo del castigo emerge anche dal suo rapporto con un’altra divinità, Nemesi, ovvero la retribuzione, intesa come risposta a un’offesa intollerabile, che a volte provoca una reazione così passionale da superare la misura del dovuto. Ma Nemesi - legata al regno dei morti - nel suo culto a Smirne è circondata dalle Cariti, le Grazie: Thalia, la Fiorente; Aglaia, la Splendente; Kalle, la Bella; Euphrosyne, la Gioiosa. I greci non separavano l’amore dall’eccesso, la gioia dalla tragedia.
L’amore, dunque, è legato alla Giustizia: e questa, a sua volta, è legata alla Bellezza. Nel secondo inno omerico ad Afrodite, la dea, appena nata, viene accolta dalle Horai, le Ore, che la coprono con vesti bellissime, la incoronano d’oro, ornano i suoi lobi, il suo collo e il suo petto con preziosi monili. Ma le Ore sono figlie di Themis, la legge di natura, e si chiamano Eirene, la Pace, Dike, la Giustizia, ed Eunomia, il Buon Governo. Bellezza e giustizia non sono separate, come nel nostro mondo, in cui etica ed estetica (Bellezza e Giustizia, appunto) hanno camminato e camminano per strade diverse.
La mente occidentale ha perso le sue radici mitiche, dice Hillman: nella percezione collettiva Afrodite è priva di sensibilità etica. Dobbiamo rivedere la nostra visione del mondo, far crollare le barriere che separano le discipline. Un discorso complesso, che richiederebbe più spazio di quello possibile, e molte competenze diverse. Una considerazione, tuttavia, viene alla mente, pensando al rapporto tra sentimenti, emozioni e impulsi, da un canto, e giustizia dall’altro.
Da secoli considerata territorio della ragione, al riparo della irrazionalità delle passioni, la giustizia è oggi al centro di un ripensamento da parte di giuristi, psicologi, sociologi, economisti e antropologi. In un numero speciale di «Theorethical Criminology», del 2002, si legge tra l’altro che «per avere un dibattito più razionale sul crimine e la giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale». E Martha C. Nussbaum, a cavallo tra filosofia e diritto, sostiene che per comprendere la realtà e se stessi non basta la ragione. Neppure il diritto è solo logica: in esso devono vivere anche emozioni come l’amore, l’ansia, la vergogna, che non solo non sovvertono la moralità, ma, al contrario, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale.
Afrodite sembra riavvicinarsi alla giustizia. Che questo sia un bene o un male, naturalmente, può essere ed è oggetto di discussione. Ma indica un ripensamento su temi di grande attualità e importanza che sarebbe sbagliato sottovalutare.
JAMES HILLMAN
La giustizia di Afrodite
trad. di Silvia Ronchey
LA CONCHIGLIA
Sui temi, nel sito, si cfr.:
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE 2021: OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Addio a Hillman
così si muore da filosofo antico
Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni
Malato di cancro, ha rinunciato alla morfina per ragionare fino all’ultimo con i discepoli sulla sua esperienza estrema
UN NUOVO MODO DI PENSARE "Ci dava non solo le risposte ma le domande. Le correggeva, le guariva dalla loro inerzia"
UN TACCUINO VICINO AL LETTO La moglie trascriveva le parole che pronunciava nel sonno per poi analizzarle insieme
di Silvia Ronchey (La Stampa, 28.10.2011)
THOMPSON (CONNECTICUT) «James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte. Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».
Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926. Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005
“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande.
Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia. Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut.
Conosceva non solo molte lingue - incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava - ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.
A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima a La forza del carattere aUn terribile amore per la guerra . Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo».
Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.
Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi - anche se non voleva la si chiamasse così - di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.
L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso - in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio - in termini alchemici.
Le immagini del processo di dissolutio e coagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano - la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore - dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.
Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno - Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici - potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui.
Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.
Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. «Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».
Dall’analisi di Jung ai miti greci addio al poeta dell’anima
Il celebre studioso è scomparso all’età di 85 anni. Aveva allargato l’orizzonte della psicoanalisi convinto che oggi il malessere individuale affondi nella società Individua l’origine della sofferenza nell’incapacità di pensare agli altri con il cuore Ha superato l’insegnamento dei maestri, puntando uno sguardo lucido e critico sul mondo
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 28.10.2011)
Chi era James Hillman? Lo psicoanalista che ha allargato l’orizzonte della psicoanalisi al di là della condizione e della sorte dell’anima individuale, partendo dalla persuasione, che quella che oggi va curata è, come lui la chiamava: l’"anima mundi" che ha perso il mondo immaginale, per raccogliersi nel chiuso di una ragione solo concettuale, dove non è più possibile rintracciare quella capacità immaginativa del cuore che sa che cos’è l’amore, la bellezza, la giustizia, e quella verità interiore di cui abbiamo perso sia l’origine, sia la traccia.
Esiste certo un malessere dell’individuo, ma le sue radici oggi non vanno cercate tanto nella sua infanzia, che induce spesso una condizione solipsistica e impotente di sé, ma nel modo con cui l’individuo interiorizza la società in cui vive, le sue forme di potere, la conflittualità che la percorre, l’habitat che lo circonda perché, scrive Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante».
E allora cos’è quel Terribile amore per la guerra (Adelphi) che aveva reso così inquietante la corrispondenza tra Freud e Einstein? Cosa sono quelle Forme del potere (Garzanti) che fanno smarrire a ciascuno di noi la nozione di "cittadino", che sempre più maschera la nostra condizione di impotenza? Che ne è de La forza del carattere (Adelphi) che rischiamo di conoscere solo nella vecchiaia, quando più nessuno si occupa di noi e, riflettendo, ci accorgiamo che di noi ci si occupava solo a partire dalla nostra efficienza e produttività: puri funzionari d’apparato senz’anima.
E l’Anima (Adelphi), questa parola intorno a cui ruota tutta la riflessione hillmaniana, nulla ha a che fare con sfondi religiosi e neppure con il dualismo platonico e il suo bimillenario conflitto col corpo. L’"anima" di Hillman non è neppure solo la controparte sessuale di ciascun di noi come il suo maestro Jung aveva insegnato, ma è, come lui scrive, quella «fede nelle immagini e nel pensiero del cuore che porta a un’animazione nel mondo. Anima crea attaccamenti e legami. [...] Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto il mio lavoro».
Se la società, nel modo con cui è strutturata e nelle modalità con cui fa vivere gli individui è, più dell’infanzia, la responsabile della sofferenza di cui si occupa Il mito dell’analisi (Adelphi) è perché la nostra società non ha più anima, più non conosce le relazioni tra gli uomini, se non come relazioni di interessi e di profitto, più non si commuove per il dolore del mondo, più non sa immaginare tutto ciò che non rientra nella concettualità, nella funzionalità e nel calcolo delle utilità, in cui ciascun individuo è costretto a vivere, smarrendo quel pensiero del cuore, come scrive Hillman ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore (Adelphi), di cui erano capaci i Greci che pensavano col cuore.
Di qui il recupero hillmaniano della mitologia greca non per un intento filologico o erudito, ma per mostrare come "si pensa col cuore", quindi non per concetti, ma per immagini. Apprendiamo così dal suo Saggio su Pan (Adelphi) cos’è il panico, la masturbazione, l’incubo, la seduzione delle ninfe, così come da La giustizia di Afrodite (Edizioni La Conchiglia) apprendiamo come inscindibile sia la bellezza dalla bontà e dalla verità. Concetti che la cultura cristiana ha separato, mentre il mito e la filosofia greca tenevano ben saldi nella parola kalokagathon, bello e buono insieme.
Perché la "vera" bellezza è nella bontà che trasfigura il volto e rende lo sguardo sereno. In gioco qui non c’è la verità concettuale della scienza o della filosofia e ancor meno quella dogmatica delle religioni, ma quell’essere pervenuti alla conoscenza di sé, a cui invitava l’oracolo di Delphi, perché in ciascuno si creasse quell’armonia interiore in cui si radica bellezza. Ma siccome per il Greco antico la bellezza individuale non è raggiungibile senza una Politica della bellezza (Edizioni Moretti & Vitali), di nuovo ritorna il motivo che solo una società ben governata può ridurre la sofferenza di tanti individui.
Ma perché questo ritorno alla Grecità, già percorso da Hölderlin, Nietzsche, Heidegger? Non per motivi poetici o filosofici, ma per resuscitare quel politeismo della mitologia greca che, a differenza del modello monocentrico della cultura giudaico-cristiana che tanto ha influenzato la psicoanalisi di Freud, consente di recuperare quella dimensione policentrica, così essenziale oggi, dove la confluenza delle culture chiede una disposizione dell’anima che consenta quella tolleranza e quell’accoglienza che solo il relativismo, di cui le religioni sono incapaci, sa concedere.
«Gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo» scrive Nietzsche. Hillman non raccoglie sarcasticamente e neppure polemicamente questo riso, ma ci propone tutti gli dèi, celesti e inferi, non come semplici espressioni delle passioni umane e quindi iscritte nella "patologia" («Gli dèi sono diventati malattie» ebbe a scrivere Jung), ma per restituirli alla "mitologia", dove nessun dio vuol essere il solo, perché, nonostante La vana fuga dagli déi (Adelphi) propria dell’Occidente cristiano, indispensabili sono le figure mitologiche in cui l’anima può rispecchiarsi e, rispecchiandosi, avere un’immagine di sé, per non vivere alla cieca, a propria insaputa.
Non si legga Hillman solo per la potente seduttività della sua scrittura. A percorrerla per intero c’è una radicale revisione dello scenario psicoanalitico, a partire dalla persuasione che, se l’uomo è un animale sociale, non c’è sofferenza individuale disgiunta dal mondo in cui si vive. Ed è su questo mondo e sulla sua anima che Hillman ha puntato il suo sguardo lucido e critico.
Calasso: "Un pensatore originale e solitario"
"Certamente non era un uomo da scuole. Ma è impossibile liquidarlo come un brillante bricoleur"
di Luciana Sica (la Repubblica, 28.10.2011)
Roberto Calasso è a Barcellona, in una libreria. Controlla la data del primo libro che ha pubblicato di James Hillman, Saggio su Pan, era il ’77. «Ma poi sono usciti i suoi due saggi fondamentali: Il mito dell’analisi nel ’79 e Revisione della psicologia nell’83...».
Ma quando l’ha conosciuto?
«All’inizio degli anni Settanta, ad Ascona, durante i colloqui di Eranos. Lì c’era gente come Scholem, Corbin, Portmann, Eliade e ricordo come mi è apparso lui: l’unico americano e però perfettamente addentro a tutto il tessuto della cultura europea, era anche il più giovane, ma con una grande intensità e una grande autorità naturale».
Interloquiva con il fior fiore degli intellettuali...
«Ah sì, certamente. Non era affatto in soggezione».
Aveva tutta l’aria di un puer, qualcosa di fanciullesco...
«Fanciullesco forse è troppo dire... Ma sì, era un puer, con un suo slancio molto evidente, di energia e anche di giovinezza».
Il vostro rapporto ha avuto anche una natura affettiva?
«Fin dall’inizio è stato così, e ho seguito le varie fasi della sua vita. Èstato un rapporto molto buono, con le vicissitudini editoriali che si possono immaginare: un libro che ritarda o che si deve rifare, ma è andato sempre tutto bene. L’ultima volta l’ho visto un paio di anni fa, a Milano - veniva spesso in Italia, dov’era più conosciuto che nel suo Paese».
È stato uno psicoanalista o piuttosto un grande umanista?
«È stato il primo e forse l’ultimo di quelli che sono partiti da Jung facendo poi un percorso unico, originale, mentre gli altri sono rimasti più o meno prigionieri di quella che era la loro origine».
Allievo diretto di Jung, Hillman muore esattamente cinquant’anni dopo il maestro zurighese. Che ha "tradito", o no?
«Beh, è una storia complicata. Perché Hillman ha anche diretto l’Istituto Jung fino a quando non l’hanno cacciato via... ».
Ma è stato lui stesso a dire di aver avuto "una crisi di fede", inventando poi la "psicologia archetipica", ribattezzata a dispetto del ridicolo "una terapia degli dei". Lei come la vede?
«Io vedo lui molto solitario, sia in America che in Europa, non un uomo da scuole... La cosa importante è stata il suo modo di rovesciare il rapporto con il mito in genere: non pretendere da psicoanalista di spiegare il mito, che sarebbe stata un’operazione ingenua. E’ il mito che spiega noi, e Hillman ha seguito questa idea con la stessa analisi, dove ad agire - lui dice - è il mito apollineo...».
Contro la parola, il Logos, il cuore della psicoanalisi e della cultura occidentale... Ma non era un po’ troppo quando voleva "stendere l’anima del mondo sul lettino e rimanere in ascolto delle sue sofferenze"?
«"Anima" è la parola chiave per capire Hillman, un’anima che insieme è interna ed esterna, appartiene anche al mondo proprio della natura, non della società e neppure del collettivo».
Qualcuno l’ha liquidato come "un brillante bricoleur".
«Lévi-Strauss diceva che i miti stessi sono un’operazione di bricolage, ma poi ha passato l’intera vita a tentare di capire com’era fatto quel bricolage... Mi spiace non fargli omaggio del libro per gli amici che facciamo a fine anno, una specie di bibliografia ragionata di opere neoplatoniche a partire dal Quattrocento fatta da un grande libraio antiquario che è Paolo Pampaloni e Marco Ariani, uno dei curatori della nostra Hypnerotomachia Poliphili. E’ ancora in bozze, purtroppo non abbiamo fatto in tempo».
Hillman detectve delle tenebre
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 29.10.2011)
Ricordate Stephen Dedalus, il Telemaco dell’Ulisse di Joyce, che solitario sulla spiaggia della baia di Dublino medita sui confini dell’anima? Fin dove essa si estende? Forse, fino all’ultima stella che si scorge all’orizzonte.
Dunque, l’anima non è imprigionata dentro il corpo, come pretendeva molta filosofia - da Platone a Cartesio - ma è il nostro corpo che fluttua nell’anima. Questa tentazione antidualistica, che nell’Occidente ritroviamo nella filosofia della luce di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 circa), come negli ultimi Cantos di Ezra Pound, attraversa la riflessione del grande eretico della psicoanalisi James Hillman, scomparso all’età di 85 anni. Hillman è stato accusato di aver «tradito» Carl Gustav Jung, a sua volta traditore di Sigmund Freud; per di più «l’eresia nell’eresia» di Hillman ha fatto irruzione nei campi dell’antropologia, della storia e persino della politica. Sul lettino viene ora «analizzata» l’intera società, con la miriade di relazioni che si stabiliscono tra quelle irripetibili singolarità che sono gli individui.
Se c’è un classico che mi viene in mente quando sfoglio un volume di Hillman, questo è il filosofo Giambattista Vico (1668-1744): l’anima del singolo individuo non è una sostanza ma un’attività, qualcosa che partecipa alla continua trasformazione dell’Anima del Mondo. Ma al Dio unico che come un monarca reggeva la compagine dei cieli, Hillman preferiva l’apparente caos del politeismo, con le sue tante divinità dalle mille facce. Gli antichi dèi non sono mai morti; al più si sono addormentati, e nel loro sonno continuano a sognarci come noi li sogniamo a nostra volta. Ed è un’illusione pensare che si possano esorcizzare riconducendoli con la stessa terapia psicoanalitica alla razionalità dell’esistenza diurna. Ermes ed Ercole, Apollo e Afrodite, il terribile Dioniso e il grande dio Pan si risvegliano nelle pieghe della vita di ogni giorno, nei tanti contrasti e conflitti che costellano la nostra società apparentemente così disincantata e tecnologizzata.
Ma anche il Disincanto, la Tecnica e la Psicoanalisi sono un intreccio di miti: Prometeo, Dedalo o Edipo non sono comparsi invano sulla scena delle idee. Per Hillman non è il mito che va spiegato, ma il mito è la spiegazione stessa. Come ebbe a scrivere in Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, 1988): l’esploratore dell’anima cerca «un’apertura nella trama del fato», che è anche «un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più complicato o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento giusto, perché il varco ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre esso resta aperto». Così il setting psicoanalitico si tramuta in una incessante investigazione, aperta a tutti coloro che riescono a praticare l’arte di cogliere l’occasione.
Hillman ha saputo raccogliere in questo modo la sfida dell’oracolo di Delfi, che è anche quella della filosofia di Socrate: conosci te stesso. Soleva dire che «il mondo è come un giardino» che ci si offre con l’immediatezza «di un riflesso sul lago». Ma il giardino dell’anima può essere labirintico, e come quello dell’Eden ospitare... il suo Serpente. Il caos del politeismo produce anch’esso dell’ordine, ma è un ordine instabile pieno di fenditure: guai che qualcuno pensi di aver trovato la risposta definitiva alla domanda di Delfi. Conoscere se stessi è l’indagine più difficile, rischiosa e talvolta persino mortale. Nessuna formula pronta per l’uso è a disposizione.
Nel libro di Hillman che ho amato di più, Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, 1984; il Saggiatore, 1996; Adelphi, 2003), quel che impedisce all’ordine della mente di diventare odiosa burocrazia dello spirito è il meccanismo del revel/rebel. Una baldoria (revel) tutt’altro che innocua, ma che getta i semi dell’insurrezione dell’anima. Così i suoi confini ci sfuggono di continuo, e scopriamo che vana è la pretesa di illuminare in modo completo ciò che è dentro di noi. Ma questa non è una maledizione, bensì una grazia che ci viene dal «mondo infero», cioè dagli strati dell’inconscio che sottendono le avventure della nostra consapevolezza. Dopotutto - come dicono i mitici personaggi di Joyce - siamo «tenebra che splende nella luce».
Hillman, lo sciamano dell’anima
È morto a 85 anni lo psicoanalista e filosofo americano. Allievo di Jung ha re-immaginato l’analisi junghiana riportandola nel mondo. Paladino di una psicologia ecologica non voleva curare i singoli, ma «la civiltà»
Nel 1989 lascia l’attività: basta parlare all’io, vuole la città come interlocutore
di Romano Màdera (l’Unità, 29.10.2011)
È morto James Hillman, uno dei pochi psicoanalisti che si era impegnato in un’impresa straordinaria quanto stravagante, forse infantile o donchisciottesca: curare la civiltà, non più i singoli pazienti! Si può dire che la psicoanalisi ci ha sempre provato, ma senza dirselo, perché in fondo il cambiamento di pochi individui, diventati più attenti alle proiezioni del male sugli altri, più disposti a cercare faticosamente la verità su se stessi, dovrebbero essere anche più capaci di autocritica e di tolleranza. Ma insomma, cambiare il mondo non è compito di un analista, la politica deve rimanere fuori dallo studio.
E invece, all’apice del successo, Hillman, nel 1993, ha osato scrivere Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Si è interrogato su quello sguardo psicologico che chiude le finestre sul mondo, separa il paziente dalla sua storia, dalla sua cultura, dalle immagini che ne hanno modellato la percezione, e poi rovescia tutto e fa nascere il mondo dai seni della mamma e dalla camera da letto dei genitori. Hillman si è chiesto se la psicopatologia dei singoli non contenesse invece la sofferenza (pathos) dell’anima (psiche) che cerca di articolare un’espressione, un discorso (logos). Il singolo non è messo al mondo dalla famiglia, in realtà la sua nascita avviene nel mondo che dà forma e voce al carattere e alla vocazione di ciascuno, ed è nel mondo che ciascuno incontra il suo destino.
Quali sono le forme e le voci del mondo? Chi ascolto quando ascolto un sintomo, per esempio quando qualcuno è ossessionato da internet, dal telefonino, dal traffico, dagli appuntamenti di lavoro? Hillman è stato capace di divinare, nell’accelerazione del tempo e nella contrazione dello spazio, così tipici della nostra epoca, una epifania drogata di Ermes-Mercurio il dio degli scambi, dei confini, dei commerci. Certo è la storia che mi parla in un soggetto, e nella storia la sua biografia, e tuttavia c’è qualcosa che evoca, da dentro quella stessa esperienza, un modo di essere e di costruire la realtà che intesse i fili del tempo, che collega le civiltà, che è vasto e profondo quanto solo l’immagine può suggerire senza mai chiudersi in una definizione esaustiva.
L’immagine porta nei pressi dell’anima del mondo, della matrice dei nostri vissuti, delle nostre fantasie, delle psicopatologie. Si tratta allora di rimanere aderenti alle immagini, di farle dialogare tra loro senza costringerle nella camicia di forza riduttiva delle spiegazioni, di dischiuderne la forma che le apparenta: queste forme sono archetipali, in se stesse inattingibili, proprio perché origini comuni capaci di generare immagini sempre diverse, per tempi e per culture diverse.
L’anima del mondo è intessuta, secondo HIllman, da queste energie formatrici che si condensano, volta a volta, in immagini guida di altri immagini: gli dei.
Il politeismo di Hillman non ha però niente di teologico: nella mitologia greco-romana, lui, ebreo americano educato in Europa, trova un repertorio che, rivisto come sguardo psicologico, può curare un mondo afflitto da una postura monoteistica, e quindi intollerante, insofferente delle differenze, incapace di scorgere divinità e bellezza nelle infinite variazioni della natura e dell’arte, senza irrigidirle in qualche direttiva moraleggiante.
Tutto si potrà rimproverare a Hillman, tranne il fatto che abbia solo teorizzato la terapia della civiltà, senza provare di persona a imboccare questa diversa strada. Nel 1989, nel bel mezzo di una carriera professionale ricca di riconoscimenti, abbandona la pratica analitica privata e si dedica allo sviluppo della sua idea di psicologia archetipica, cerca di parlare il suo linguaggio fuori dallo studio, di fare della città il suo interlocutore. Hillman ha scritto di questa decisione come di una profonda «crisi morale». Andava tutto bene con i pazienti, ma sentiva che non stava facendo la cosa giusta, che ritagliare il proprio intervento sul soggetto umano significa rimanere in una prospettiva di tipo cartesiano: voler dedurre la realtà dall’io, per quanto corretto con l’aggiunta dell’inconscio.
IL SUO «POLITEISMO»
Avrebbe potuto però fermarsi a questa critica e continuare a praticare l’analisi junghiana, della quale era uno dei più importanti esponenti nel mondo. Neppure Jung, il suo maestro, gli è bastato: sì, Jung era andato in una direzione che potremmo chiamare terapia delle idee, e non più solo del singolo, ma rimaneva nel solco della tradizione cristiana e monoteista: la sua direzione guardava all’asse che congiunge l’io al Sé, dove il Sé è il nuovo centro unitario del rapporto fra coscienza e inconscio. Troppa unità, troppo «io» ancora. La varietà del mostrarsi dell’anima del mondo è irriducibile alle nostre pretese di afferrarla in una qualche rappresentazione unitaria, per quanto complessa essa voglia essere.
E poi via dall’antropocentrismo della nostra civiltà, dalla sua malattia che infetta le architetture delle nostre città insieme alla devastazione delle foreste e degli oceani: Hillman si è fatto paladino di una nuova psicologia ecologica.
Le rutilanti idee-provocazione di Hillman sono state coraggiose e affascinanti, hanno proposto la via di un pensiero psicologico capace di superare il romanzo familiare. Rimane oggi da vedere se il suo radicale antiumanesimo, la sua celebrazione del differire infinito, non sia però, anch’esso, troppo figlio del nostro tempo, troppo post-moderno, troppo collusivo con le varie morti di Dio, dell’uomo, del soggetto, dell’io, della morale, dell’unità ... troppo neonietzscheano, insomma. Forse il corpo del mondo, e quello degli individui, ha invece un disperato bisogno di unità, di progetto, di gerarchie di senso, di ordinato equilibrio.
James Hillman è morto l’altro ieri a Thompson, in Connecticut all’età di 85 anni. Era malato da tempo, ma ha respinto le cure più invasive pur di conservare la sua lucidità e libertà di giudizio. psicologo analista di formazione junghiano, James Hillman nasce nel 1926 ad Atlantic City. Compiuti gli studi di filosofia a Parigi e Dublino, ha studiato psicologia all’Università di Zurigo. Entrato a far parte dell’Istituto di psicologia analitica C.G. Jung, lo dirige tra il 1959 e il 1969. Esponente tra i più originali della psicologia junghiana, è autore di una critica radicale della psicoanalisi, che per lui non deve restare confinata all’interno del rapporto medico-paziente, ma diventare uno strumento di esplorazione della natura umana e di comprensione del disagio dell’uomo nella società.
Hillman, il profeta dell’Anima
di Franca D’Agostini (il Fatto, 29.10.2011)
La morte di James Hillman spinge a riflettere sulla grande vague anti-teoretica, anti-logica, anti-concettuale che ha attraversato la cultura europea e nordamericana a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e di cui Hillman è stato un illustre e raffinato esponente. La formidabile carenza di logica e di sensatezza di cui è afflitto il linguaggio pubblico recente, specie italiano (ma anche il dibattito di lingua inglese non scherza, a giudicare da quanto scrive Julian Baggini nel suo repertorio di assurdità Do They Think You’re Stupid?, Granta), ci dice che l’operazione culturale di svilimento del logos a vantaggio del pathos perseguita da Hillman e da molti altri ha avuto gran successo. Ma ci dice anche che forse è il caso di chiudere quel capitolo e che concetti come anima, cuore, emozione interiorità e amore possono tornare tranquilli a fare il loro dovere, senza bisogno di essere lanciati come cubetti di porfido contro il contrafforte del logos che - secondo il paradigma emozionalista - ospiterebbe la potente e venefica città della Scienza, della Tecnica, e (per gli americani) della Filosofia.
PER COMPRENDERE l’operazione di Hillman credo sia necessario collocarla in due contesti ben definiti: il tramonto della psicoanalisi, e la latitanza culturale della filosofia. La psicanalisi nelle diverse forme inizia un suo chiaro e vistoso declino in Europa già negli anni Settanta dello scorso secolo, le psichiatrie alternative e antiedipiche segnalano con chiarezza che il paradigma freudiano, anche nella versione lacaniana, regge male le nuove condizioni dell’immaginario e del linguaggio condiviso, mentre la versione junghiana sempre più chiaramente trascolora in terapeutica culturale astratta.
La situazione non è chiara per il grosso pubblico che ancora pensa a Freud, Jung e Lacan come un’avanguardia culturale, ma non sfugge alla sensibilità di Hillman che procede senz’altro a rivoltare la psicologia analitica come un guanto e a riciclarla come filosofia. La psiche, insegna Jung è abitata e sovrastata dal collettivo, e dai contenuti mitici immaginativi archetipici che l’umanità intera condivide. Perché allora curare i singoli?
La psicanalisi di Hillman esce dallo studio e dalla clinica individuale e diventa terapeutica delle idee, dell’umanità intera, e non delle singole persone. Programma tipicamente filosofico: ecco Hillman incamminato a svolgere il ruolo husserliano di “funzionario dell’umanità”. Il programma destinato a fare di Hillman il maestro e profeta degli animisti mitomani e antilogici di tutto il mondo si annuncia nel Mito dell’analisi del 1972. L’Occidente, così si spiega nel libro, avrebbe umiliato e assoggettato l’immaginazione e l’anima, e in generale il femminile (anima junghianamente è per l’appunto il femminile).
Di qui il rilancio dell’idea di Keats, secondo cui il mondo è la “valle del fare anima”. Cosa si deve fare in questa vita? Semplice: making soul, contro una cultura che ha dimenticato gli dei e l’anima e il potere fantastico dell’invenzione creati-va umana. La critica naturalmente era rivolta al tendenziale positivismo della psicanalisi, specie freudiana, ma il making soul divenne una cifra importante della psicologia archetipica hillmaniana, facendone il paradiso del femminismo differenzialista.
Americano di nascita, ma europeo di formazione (studia alla Sorbona e a Dublino) Hillman torna in America nel 1984, e qui ha una visione chiara del gioco che contrappone i cosiddetti techies e i fuzzies, i tecnocrati e i vaghi, si direbbe. È una guerra politico-culturale che infuria nei tardi anni ottanta, ed è tipica di contesti e culture dove la filosofia (che appunto dovrebbe chiarire le idee sull’irrilevanza della dicotomia: essendo la tecnica stessa estremamente vaga, e le vaghezze necessariamente determinate , dovendo dirsi in parole) è povera o assente.
IN QUESTA GUERRA l’anti-positivismo di Hillman ha buon gioco. Il suo progetto a mano a mano (e con lieve contraddizione rispetto all’assunto) diventa un vero e proprio sistema filosofico, dotato di una metafisica, un’antropologia, un’etica, e anche in prospettiva una politica.I
n breve quella hillmaniana è una metafisica panteistica, e panpsichistica. Il mondo “è pieno di dèi”, Hermes, Afrodite, Ares sono le immagini archetipiche che ci guidano nel vivere amare e soffrire. La psiche inoltre non è solo dentro di noi, è tutto intorno a noi. All’uomo psicologico (che vive “facendo anima”) Hillman oppone l’uomo spirituale (mirante a una perfezione trascendente) e l’uomo normale (che si identifica con l’adattamento pratico e sociale). Il codice dell’anima del 1997, rivede la terapia: si tratta non di crescere ma di decrescere, tornare alle nostre radici, vedere da vicino quale sia il mito o il dio che ci guida, e così conoscere la nostra “vocazione”.
Naturalmente, non è filosofia vera, e pertanto originale e intellettualmente esigente, ma una popularphilosophie gentile, che rielabora materiali largamente presenti nella tradizione della filosofia pratica, ed è piena di colore, di narrazioni, miti e figure. Un fenomeno editoriale insomma (il suo Codice dell’anima fu un best seller in tutto il mondo).
Hillman è stato in definitiva un grande divulgatore e grande narratore dell’inconscio. Ma i contenuti per così dire politici della sua dottrina - al di là delle sue intenzioni - hanno fatto non poco danno in un’epoca che certo aveva bisogno di filosofia, ma non di quella filosofia, e che voleva una scossa da torpedine marina, ma non quella scossa emozionalistica e psichistica. Coloro che hanno fatto del socratismo visionario di Hillman una ideologia a volte sono andati troppo in là. In un libro di un intellettuale hillmaniano, di cui non farò il nome, si legge che le donne sarebbero superiori in quanto avrebbero l’intelligenza dei sentimenti, “e come dice l’etimo della parola stessa, ‘sentimento’ vuol dire: avere il senso, il sentire, nella mente” (?!). Il povero Hillman, conoscitore di molte lingue ed esperto di etimi ingegnosi e sottili, come avrebbe valutato una simile idiozia?
*Docente di Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino
Tutti gli animali che incontriamo nei nostri sogni
Escono i saggi che James Hillman dedicò al rapporto interrotto tra l’uomo, la sua psiche e la natura
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 04.05.2016)
«Chi siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno? e perché venite a noi, proprio a noi, che abbiamo trascorso gli ultimi due secoli a sterminarvi regolarmente, a un ritmo sempre più rapido, senza pietà, specie per specie, in ogni parte del mondo?». Benefattori segreti, portatori di un fuoco che non si vede e di una parola che non si sente, gli animali che balzati da lontananze primordiali nel buio del nostro letto condividono con noi la profonda intimità onirica ci legano sia al microcosmo psichico, alla sua cognizione primordiale che ci definisce in quanto “animati”, sia al macrocosmo in cui ciascuna nostra anima è inserita e partecipa: al mondo sfigurato dallo sterminio della natura, che ha accentuato la nostra separazione dalle loro vite, che ci mostra quotidianamente le loro sofferenze. Non li chiamiamo, ma ne siamo chiamati. Perché senza questa residua familiarità con le loro immagini, con i loro comportamenti nelle nostre anime, non possiamo capire noi stessi come esseri umani.
Alla fine del secolo scorso, James Hillman percepiva con estrema chiarezza gli effetti della distruzione ecologica sulla psiche collettiva. La grande malattia umana del XX secolo, la depressione, nella diagnosi di Hillman dipendeva dalla percezione profonda della distruzione portata negli ultimi secoli al mondo naturale. «Se c’è un’Anima del Mondo e noi ne facciamo parte, allora ciò che accade nell’anima esterna accade anche a noi. L’estinzione degli animali, come quella delle piante, è una sofferenza insita nel mondo. Noi siamo parte dell’anima mundi e intimamente soffriamo della sofferenza che vi si sta producendo».
In un saggio apparso per la prima volta nel 1982, poi più volte rielaborato e ora ripubblicato da Adelphi ( Il regno animale nel sogno, in Presenze animali), Hillman indica una terapia: salvare gli animali nella nostra ecologia psichica, se non in quella fisica del pianeta in sistematica via di distruzione; fare posto nella nostra intelligenza alle sembianze zoomorfe di un non-umano onnipresente come sovra-umano nel sentimento religioso delle civiltà antiche; concedere il rispetto dei nostri pensieri più profondi a questi semi eterni, a queste divinità uccise che hanno peraltro già solcato la via della nostra anima attraverso i sogni.
Hillman aveva raccolto sogni su animali per quarant’anni. Ne possedeva un enorme repertorio. Conosceva bene la potenza di quei sogni e ne ricavava elementi forti per la sua revisione critica della psicologia del profondo. La sua comprensione delle immagini oniriche degli animali era strettamente legata al concetto, centrale nel suo pensiero, di anima mundi, che riprendeva, come il lavoro sul mito, dagli antichi greci e dai loro esegeti bizantini e fiorentini del Rinascimento.
Era radicalmente diversa da quella della tradizione psicoanalitica, che li relegava a «rappresentazioni delle nostre brame, delle nostre istintualità», a meri travestimenti allegorici dei cosiddetti istinti umani, non dissimili da quelli enumerati nei bestiari medievali o nei topoi morali di padri della chiesa come Gregorio di Nissa. Occorreva invece disfarsi non solo dell’idea freudiana dell’animale del sogno come funzione interiore dell’umano (gli impulsi passionali simboleggiati da animali feroci; il gatto, il topo, il serpente come equivalenti fallici; il rospo come grembo materno e così via), ma anche dalle varianti di quella stessa interiorizzazione psicologica offerte dal pensiero junghiano contemporaneo, per cui l’animale del sogno, traccia filogenetica, antenato totemico, è rappresentante di un livello “ctonio”, “primitivo” della psiche, se non tout court di parti e funzioni di un “corpo” del quale l’io moderno, nella sua condizione troppo razionalizzata, potrebbe rischiare la perdita.
Per Hillman la degradazione degli animali a funzioni interiori dell’umano, il loro assembramento in un “serraglio dell’anima”, dissipava colpevolmente l’intuizione di Jung, per cui occorreva invece immedesimarsi nell’animale, entrargli dentro, per entrare più a fondo in noi stessi. «Comprendi che hai in te stesso greggi di buoi, greggi di pecore e greggi di capre. Comprendi che in te ci sono anche uccelli del cielo. Comprendi che tu sei un altro mondo in piccolo, e che in te ci sono il sole, la luna e anche le stelle», scriveva Origene nel III secolo.
Massimo sistema simbolico della coscienza umana dai tempi di Altamira, gli animali raffigurati dagli uomini preistorici sulle pareti di quelle grotte erano stati in realtà dipinti, argomenta Hillman, «traendoli dalla visione interiore, nel buio claustrofobico». Gli uomini delle caverne potevano raffigurarli con tanta verosimiglianza perché facevano parte di loro. Il microcosmo precede il macrocosmo.
L’origine della specie, l’animale, è dentro l’anima. Hillman si considerava un neoplatonico e quella di Hillman è, naturalmente, una visione platonica. Non solo nella concezione di anima mundi che sta alla base della sua psicologia archetipica, ma anche e soprattutto nella teoria dell’immagine che ovunque la pervade. «Il corpo è sempre portato dall’anima in un modo particolare, e questo modo di portare deriva dalle immagini dell’anima ».
Per Hillman non esiste il corpo in quanto tale. Quel particolare tipo di esistenza che è l’esistenza corporea viene veicolata in noi dalle immagini animali, che non presentano il “nostro” corpo, ma il “loro”: come il topo, il piccolo mercurius, che sulla minuscola schiena grigia porta la repentinità dell’inventio, che pratica fori e apre passaggi, continuamente cacciato dal gatto che controlla la casa per il suo egocentrico comfort. Guardarsi dall’intrappolare il topo del sogno nelle teorie della repressione sessuale, salvare il fenomeno (o noùmeno?) animale entrando nella fantasia teriomorfica: questa è l’”arca”.
Come in tutto il pensiero di Hillman, il procedimento è quello della deletteralizzazione. L’approdo è acquisire “l’occhio animale” e salire a bordo dell’arca seguendo l’immagine in quanto tale: la via estetica, in questo caso quella che Hillman, con Scholem e Corbin, chiama la visione zaffirica, la materia incorruttibile del caelum attraverso cui il mondo fisico percepisce attraverso una luce metafisica. Il regno animale è prima di tutto un’ostensione estetica perché l’occhio animale rivela la bellezza del fenomenico e il suo eterno ritorno e ci permette di vedere gli avvenimenti come rivelazioni, come “presentazione di immagini”.
Perché, dunque, gli animali vengono a noi in sogno? Sono teofanie che richiamano l’anima onirica al loro regno. L’anima è in esilio dalla sua dimensione platonica. Il recupero dell’arca, espresso oggi come nostalgia ecologica, è preliminare alla preservazione dell’anima dalla propria estinzione. «L’animale», come scrive Hillman, «è la risposta più risoluta al nichilismo». Il recupero delle forme animali nei nostri sogni ripristina «la fede animale nella ripetizione delle realtà durature» e ricapitola ogni mattina, al risveglio, il giardino dell’Eden: la nostra cieca, pia, regolata fiducia nella realtà dell’essere.