MAURIZIO VIROLI intervista
AMY GUTMANN sull’EDUCAZIONE DEMOCRATICA*
Maurizio Viroli: Professoressa Gutmann, i piu’ grandi teorici della democrazia hanno sottolineato l’importanza dell’educazione democratica dei cittadini per i regimi di quel tipo. Puu’ fornirci un quadro del pensiero classico sull’educazione democratica?
Amy Gutmann: Sin dagli albori, la democrazia non si e’ mai basata esclusivamente sul potere della maggioranza. I piu’ grandi esponenti del pensiero democratico classico - filosofi come Rousseau, John Stuart Mill e John Dewey - erano convinti che il potere della maggioranza nascondesse il pericolo di una sua tirannia. Si rendeva, dunque, necessario studiare il modo migliore di affidare alla maggioranza il destino politico di un paese e vedere per quale motivo l’unico modo per riuscirci era far si’ che tutti i cittadini venissero educati a conoscere i propri interessi. La democrazia, infatti, si basa sulla premessa che i cittadini conoscano perfettamente i loro interessi. Tale premessa e’ realizzabile solo se le persone non sono analfabete, se ricevono un’istruzione che chiarisca loro cosa e’ meglio, sia per se stessi che per la societa’ in generale.
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Maurizio Viroli: Quali sono i motivi per cui l’istruzione e’ cosi’ importante per la democrazia?
Amy Gutmann: La mia posizione consiste in un’estensione del pensiero democratico classico, ma con una piccola variazione. L’estensione sta nell’idea che ogni democratico conosce i propri interessi meglio di chiunque altro se ne occupi al suo posto. In questo senso, un democratico rifiuta il concetto di elite; egli e’ convinto che, sia nella teoria che nella pratica, la gente debba occuparsi in prima persona dei propri interessi. Per questo ritengo che l’educazione sia essenziale per la democrazia. La variazione e’ la seguente: l’educazione non e’ solo strumentalmente necessaria alla democrazia (cioe’, essa non e’ solo un mezzo per arrivare alla democrazia), ma fa parte del concetto stesso di cittadinanza.
L’educazione rientra nel concetto dell’essere cittadino perche’ non insegna solo a leggere e scrivere, ma insegna anche determinati valori, che sono appunto i valori democratici. Fra questi c’e’, ad esempio, quello del rispetto per coloro con cui ci troviamo in disaccordo, o il cui stile di vita differisce dal nostro; senza educazione - e per educazione intendo quella pubblica - tale rispetto non puo’ esserci. L’educazione e’ importante per la democrazia semplicemente perche’ l’essenza della democrazia sta nella virtu’ civica. La virtu’ civica richiede comprensione e rispetto per i modi di vivere degli altri. L’unico modo in cui le persone che fanno parte di una famiglia, o di una comunita’, possono riuscire a conoscere e a rispettare stili di vita diversi dal proprio e’ quello di essere educate a contatto con persone diverse da loro, di comprendere gli altri osservando come sono fatti, di rendersi conto sin da bambini che ci sono sia differenze che somiglianze. A mio avviso, dunque, capire l’importanza di un’educazione democratica e’ tutt’uno con il capire cosa significhi essere un cittadino democratico e possedere una forma di virtu’ civica. Senza educazione non puo’ esserci virtu’ civica.
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Maurizio Viroli: Professoressa Gutmann, nel suo lavoro sul governo della Polonia Rousseau sembra vedere l’educazione democratica indirizzata alla formazione di patrioti. Lei e’ d’accordo con questa interpretazione dell’educazione democratica?
Amy Gutmann: No, io non credo che l’educazione democratica debba essere rivolta alla formazione di patrioti. Vorrei pero’ aggiungere che Rousseau e la sua teoria hanno avuto una profonda influenza sul modo di intendere l’educazione. Nel mio paese - gli Stati Uniti - esiste oggi un movimento caratterizzato da uno spirito molto rousseauiano che, pur non facendo diretto riferimento a Rousseau (forse perche’ Rousseau non e’ molto noto all’americano medio), si propone di educare al patriottismo. Sono convinta che si tratti di un movimento minoritario, ma al tempo stesso decisamente pericoloso. Il motivo per cui lo ritengo pericoloso dal punto di vista democratico e’ che sono convinta che i cittadini debbano conoscere pregi e difetti del loro paese. Virtu’ civica non significa "il mio paese ha sempre ragione", non significa che sosterro’ il mio paese qualsiasi cosa faccia. Virtu’ civica significa assumersi la responsabilita’ di fare in modo che il proprio paese si trovi dalla parte della ragione. L’unica forma di educazione alla virtu’ civica che sia compatibile con l’obiettivo di migliorare il proprio paese e’ quella che insegna alla gente a pensare in modo critico al proprio paese, al suo ruolo nel mondo e al suo modo di trattare gli altri cittadini. Questa non e’ affatto un’educazione al patriottismo nel senso rousseauiano del termine. Certo, e’ importante e necessario sentirsi patriottici nel senso di avere a cuore il proprio paese, perche’ e’ la’ che ognuno ha maggiori responsabilita’ e capacita’ di intervento. In questo senso, dunque, siamo tutti patrioti e se possediamo un senso di virtu’ civica dobbiamo sentirci responsabili innanzi tutto di quanto succede intorno a noi, nel quartiere, nello stato e nel paese in cui viviamo.
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Maurizio Viroli: Finora abbiamo parlato solo dell’educazione dei cittadini. Non crede, invece, che una parte fondamentale dell’educazione democratica dovrebbe riguardare gli uomini politici? E quali potrebbero essere i criteri fondamentali di una tale educazione?
Amy Gutmann: Si’, educare i cittadini significa anche educare i leaders politici. In democrazia, i cittadini diventano leader, ma se l’educazione si rivolge solo ai cittadini comuni, rischia di trascurare l’educazione dei leader. Parte dell’educazione democratica invece deve occuparsi della formazione dei futuri leader della societa’, affinche’ essi comprendano esattamente le particolari responsabilita’ di cui sono investiti proprio in base al maggior potere di cui dispongono rispetto ai cittadini comuni. Ora, se diamo per scontato che il potere corrompe, e che il potere assoluto corrompe in modo assoluto, ci sono diversi principi che andrebbero insegnati a coloro che detengono il potere. Il tutto non si risolve nel seguire semplicemente il volere della maggioranza. Al contrario, questo principio fa parte di un’educazione sbagliata, perche’ governare un paese comporta necessariamente la responsabilita’ di guidarlo. Naturalmente, non si tratta neanche di fare tutto quello che si ritiene giusto, senza curarsi dell’opinione altrui. Ci sono, quindi, due aspetti che riguardano l’educazione di un leader democratico. Il primo riguarda la necessita’ d’ispirargli il coraggio e la capacita’ di capire che vale la pena di battersi per cio’ che si ritiene giusto, e di spiegarlo alla gente. Il secondo e’ quello di fargli capire che, anche se ritiene che le sue azioni siano giuste, ed anche se le illustra ai cittadini in modo a suo avviso soddisfacente, puo’ succedere che i cittadini rispondano: "Ci dispiace, ma secondo noi e’ sbagliato". In tal caso, indipendentemente dal suo valore come politico, e’ suo dovere ritirarsi.
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Maurizio Viroli: Professoressa Gutmann, come sa, uno dei mali piu’ seri che minacciano le societa’ democratiche e’ la corruzione del mondo politico. Cosa pensa di questo problema?
Amy Gutmann: L’elemento piu’ comune che porta un politico alla corruzione e’ la convinzione che riuscira’ a farla franca, non solo nel senso che non verra’ scoperto, ma anche in quello di pensare che i cittadini comuni non riusciranno mai a capire veramente cosa sia la politica. Partendo da questa visione, gli uomini politici, sebbene democraticamente eletti, possono fare praticamente cio’ che vogliono e possono farlo in un modo che li soddisfi in pieno. L’educazione democratica e’ il miglior antidoto che abbiamo contro questa forma di corruzione, che si nutre di due elementi. Il primo e’ la visione dall’alto, dalla posizione dei leader politici, da cui il cittadino comune non appare abbastanza intelligente, o interessato alla propria societa’ democratica, da riuscire a esercitare un controllo sui suoi rappresentanti. Il secondo e’ cio’ che io chiamo l’"apatia" dei cittadini, cioe’ la sensazione provata da questi ultimi che gli uomini politici siano in ogni caso incontrollabili, che non ci sia nulla che i cittadini possano dire, o fare, per impedire ai politici di fare cio’ che vogliono. E’ proprio questa la ricetta per la corruzione: l’arroganza da una parte e l’apatia dall’altra.
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Maurizio Viroli: Esistono rimedi per correggere queste deviazioni?
Amy Gutmann: L’educazione democratica, se riesce nel suo intento, dovrebbe rappresentare un antidoto sia per l’apatia che per l’arroganza, un antidoto che lavora in modo molto sottile. Per prima cosa, pur non trasmettendo ai cittadini comuni la sensazione che possono fare quello che vogliono, o di essere piu’ potenti di quanto non siano in realta’, l’educazione democratica puo’ fare in modo che essi comprendano meglio cosa sia la politica e che osservino con molta attenzione gli atti dei loro leader politici. Il migliore, l’unico antidoto sia all’apatia che all’arroganza, quindi, e’ la comprensione, la conoscenza, lo studio. Quello di sconfiggere l’ignoranza di fondo di molti cittadini e’ un passo importantissimo, che nessuna societa’ democratica ha ancora compiuto con successo. Un altro antidoto alla corruzione e’ una valida educazione democratica, cioe’ un’educazione basata sulla filosofia democratica, che insegni ai futuri leader che il politico non e’ al di sopra della gente comune, se non per le responsabilita’ che comporta il suo compito di governare e di rendere conto del suo operato alla maggioranza. Parte dell’educazione democratica dei futuri leader quindi sta nel far comprendere loro che dovranno dar conto alla gente di tutte le loro azioni, che la loro capacita’ di giudizio non e’ affatto migliore di quella della gente comune, se non per il fatto che essi si trovano in una posizione da cui e’ possibile difendere il proprio operato in pubblico e che hanno il dovere di difenderlo. La piu’ grande lezione di educazione democratica per i leader politici e’ quella impartita da Kant quando affermo’ che la condizione assoluta per qualsiasi azione etica e’ il suo carattere pubblico, la sua trasparenza. Se non puo’ sostenere l’esposizione alla luce del sole, o lo sguardo del pubblico, allora e’ necessariamente un’azione corrotta. E’ l’apparenza della corruzione, e l’apparenza della corruzione in democrazia corrisponde alla realta’ della corruzione stessa: essa non puo’ sostenere la chiarezza del controllo pubblico, ne’ attraverso il normale processo decisionale, ne’ attraverso un processo di qualsiasi altro tipo.
* [Dal sito dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente intervista di Maurizio Viroli a Amy Gutmann avvenuta il 21 maggio 1992 alla Princeton University, Usa. Su Maurizio Viroli dal medesimo sito riprendiamo la seguente scheda: "Maurizio Viroli (Forli’, 1952) e’ professore di teoria politica all’Universita’ di Princeton. Ha insegnato e trascorso periodi di ricerca presso le Universita’ di Cambridge, Georgetown (Washington D. C.), e presso la Scuola normale superiore di Pisa. Si e’ laureato in filosofia all’Universita’ di Bologna e ha conseguito il dottorato in scienze politiche e sociali all’Istituto universitario europeo di Firenze con una tesi sul pensiero politico di Rousseau poi pubblicata con il titolo Jean Jacques Rousseau and the "Well-Ordered Society", Cambridge, Cambridge University Press. E’ inoltre autore di From Politics to Reason of State. The Acquisition and Transformation of the Language of Politics (1250-1600), Cambridge University Press; For Love of Country: An Essay on Patriotism and Nationalism, Oxford, Oxford University Press. Clarendon Press; Machiavelli, Oxford, Oxford University. Tutti i suoi lavori sono stati tradotti in italiano e in altre lingue. Con Gisela Bock e Quentin Skinner ha curato Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge University Press, 1990. Fra i suoi lavori piu’ recenti Il sorriso di Niccolo’. Storia di Machiavelli, Bari-Roma, Laterza, 1998; Repubblicanesimo, Bari-Roma, Laterza, 1999. Dialogo intorno alla repubblica con Norberto Bobbio, Bari-Roma, Laterza, 2001. Collabora a "La Stampa" ed e’ presidente dell’Associazione Mazziniana".
Su Amy Gutmann dal medesimo sito riprendiamo la seguente scheda: "Amy Gutmann e’ nata a New York il 19 novembre 1949. Ha ottenuto nel 1972 il Master of Sciences alla London School of Economics, e il Ph. D. ad Harvard nel 1976. Dal 1975 in poi ha insegnato all’Universita’ di Princeton, dal 1990 in poi come Laurance S. Rockefeller Professor. Nel biennio 1995-97 e’ stata decana della Facolta’ di Scienze Politiche a Princeton. E’ redattrice di svariate riviste di filosofia politica, tra cui Journal of Political Philosophy, Raritan, Cambridge Studies in Philosophy and Public Policy, Teachers’ College record. E’ redattrice dell’University Center for Human Values Series in Ethics and Public Affairs dell’Universita’ di Princeton. Amy Gutmann si e’ occupata costantemente di temi connessi alla democrazia e ai suoi problemi: ha lavorato sul Welfare State, sui conflitti razziali, sull’etica politica e sull’educazione democratica, sui concetti di eguaglianza e liberta’, sulla liberta’ di associazione. Opere di Amy Gutmann: ha pubblicato svariati libri, tra cui: Liberal Equality, New York-London: Cambridge University Press, 1980; Democratic Education, Princeton University Press, Princeton, 1987; con Dennis Thompson, Democracy and Disagreement, Belknap Press, Cambridge, Usa, 1996; con Anthony Appiah, Color Conscious: The Political Morality of Race, Princeton University Press, Princeton, 1996. Gutmann e’ stato curatrice dei seguenti volumi: Democracy and the Welfare State, Princeton University Press, Princeton, 1988; Multiculturalism and "The Politics of Recognition", Princeton University Press, Princeton 1992 (tradotto in otto lingue, tra cui l’italiano); A Matter of Interpretation, Princeton University Press, Princeton, 1997; Freedom by Association, Princeton University Press, Princeton, 1997-’98"]
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO, Numero 1345 del 3 luglio 2006
Ci hanno tolto la patria
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare
vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
L’agognata libertà dei servi
di Furio Colombo (il Fatto, 11.06.2010)
Per quanto i cortigiani siano tra loro diversi e fra loro ostili, la corte è massa e ha il potere di irradiare i propri comportamenti fino agli angoli più lontani della nazione, come il ragno al centro della tela, se si muove, tutto si muove. Il comportamento dei cortigiani, ha scritto Elias Canetti, deve contagiare gli altri sudditi. E ciò che i cortigiani fanno sempre deve indurre gli altri sudditi a fare almeno talvolta altrettanto.
La citazione è dal libro La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza). Viroli che insegna teoria politica all’università di Princeton scrive all’inizio del testo, uscito adesso in versione italiana, che il libro gli è stato chiesto dall’editore americano per spiegare ai disorientati cittadini del mondo che cosa succede oggi in Italia. La libertà dei servi lo fa con chiarezza pedagogica. Usa il modello della vita di corte, noto anche a chi conosce appena la storia d’Italia, per raccontare un’immagine diversa dalla brutalità della dittatura, ma altrettanto esigente quanto ai comportamenti: o sei dentro o sei fuori. O conti o non conti. O esisti o non esisti. È questo che ha indotto ciò che, un tempo, era l’opposizione a elaborare i tre espedienti per opporsi senza rompere: la "opposizione propositiva"; quella del dire un sì per ogni no (come per farsi perdonare); quella del male minore.
Tutte e tre le soluzioni comportano un certo rischio di sguardo irritato del sovrano nella vita di corte. Sempre meglio che essere ignorati per sempre dal principe. E’ consigliabile, infatti, mantenere ruolo e visibilità nelle cerimonie, che adesso si svolgono quasi sempre in televisione. Vuol dire confidare nelle buone maniere e decidere che niente è mai troppo per interrompere la vita a corte. C’è sempre un male minore da proteggere per evitare un male peggiore.
Dobbiamo presumere che tutto, finora dal “pacchetto sicurezza” che autorizza i sindaci a negare il pasto e il trasporto scolastico ai bambini immigrati, al trattato con la Libia, che permette la caccia e la detenzione senza limiti ai rifugiati politici che cercano asilo in Italia sia un accettabile male minore. E non provo neppure a includere nella lista una serie di atti di collaborazione offerti, certo in buona fede, e sempre celebrati come trionfo della controparte, come la Lega Nord che ha vinto le elezioni regionali vantando il federalismo fiscale votato anche dall’opposizione. O come i ministri Bondi (legge sugli Enti lirici) e Calderoli (legge sugli Enti locali), che hanno potuto dire alla Camera e ripeteranno, appena possibile, nei talk show di cui sono star fisse che questa legge non sarebbe stata possibile senza la leale collaborazione dell’opposizione, che ringraziano. Insieme a tanti italiani, sono stupito che nessuno nel PD, tra coloro che competono per la leadership, abbia mai tentato di confrontarsi con i promotori del male minore, del "è bene dire sempre un sì dopo il no" , della opposizione propositiva, con l’unica denuncia possibile: perdiamo pezzi, approvazione, senso di appartenenza, orgoglio.
Si continuano a ripetere fiere espressioni come cambio di passo, colpo di reni, un salto in avanti, noi siamo pronti, per poi disporsi esattamente come prima, anche quando un leader ne caccia un altro. Permangono intatte le decisioni che hanno segnato l’opposizione fino ad ora: affrontare ogni dibattito come se fosse normale il governo, la legge che si discute e le ragioni per cui dobbiamo discuterla. E sempre lavorare duro per migliorare, ove possibile, il provvedimento, che vuol dire (se e quando lo sforzo riesce) che il governo e la sua maggioranza potranno vantarsi per gli errori evitati. E nessuno, mai, a cominciare dalla cronaca del giorno dopo, riconoscerà l’eventuale merito di chi avrebbe, solo e sempre, dovuto opporsi.
Perché solo e sempre? Non è eccessivo? Rispondo ricordando che, qualunque forma di confronto umano , dal gioco a scacchi alla partita in campo, conosce un’unica conclusione. Ci sono tante regole di disciplina e di lealtà, ma nessuna prevede di dare una mano a migliorare la strategia dell’avversario. Infatti non esiste un esito per il bene della partita. Quel bene, che è comune (altrimenti ci sarebbero lo scontro fisico e la violenza) prevede che una parte perda e una parte vinca, e non conosce o accetta alcuna altra via d’uscita per arrivare alla fine. Dunque, l’opposizione-proposta, che è una caduta nel vuoto; l’impegno di dire tanti “sì” insieme ai “no”, che è un modo curioso di muoversi con dei pesi aggiunti; la teoria del male minore, che è un’etichetta di buone maniere (non siamo così villani da respingere sempre tutto) non sono che tre modi di arrendersi.
Come non vedere che un simile comportamento non lascia alcun segno nell’attenzione e nella memoria dei cittadini, eccetto la delusione e un triste senso di solitudine? Come non vedere lo spazio che separa gli elettori del Pd e si allarga, dopo ogni male minore, dopo ogni costruttiva proposta? Come non accorgersi della solitudine disorientata dentro il Pd?
La Carta offesa a Predappio
Il raduno per celebrare la marcia su Roma realizza l’apologia del fascismo e offende gli italiani: la legge, sarebbe ora di capirlo, va difesa sempre, contro tutte le violazioni
di Maurizio Viroli (il Fatto, 06.11.2010)
Domenica 31 ottobre, nella ridente cittadina di Predappio, qualche migliaio (ma i numeri hanno poca importanza) di individui hanno offeso pubblicamente la Costituzione rendendosi apertamente responsabili del reato di apologia del fascismo ai sensi della legge n. 645 del 1952, nota anche come legge Scelba (democristiano, è bene ricordarlo, non un fazioso comunista). Mi riferisco al raduno per celebrare la marcia su Roma che, a detta dei fascisti, portò Mussolini al governo (ma è una solenne cretinata perché Mussolini andò al governo chiamato da quel delinquente del re), e segnò l’inizio del regime che ha regalato all’Italia ventuno anni di totalitarismo, guerre coloniali combattute con crudeltà bestiale, una guerra mondiale e una guerra civile.
CHE UN EVENTO del genere insulti la coscienza di chiunque abbia ancora un minimo di intelligenza e di sensibilità morale non dovrebbe essere difficile da capire, visto che il fascismo è nato e vissuto per offendere in ogni modo la dignità della persona umana, imponendo il silenzio, uccidendo a freddo, torturando, imprigionando, condannando al confino.
Ed è del pari facile capire perché oltraggia la Costituzione dato che tutta la nostra Carta fondamentale è antifascista e contiene una norma finale, la XII, dove si legge: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Che poi ci siano gli estremi di reato (con relative pene e multe, allora in lire) lo afferma la legge in questione. -Art. 1: “Riorganizzazione del disciolto partito fascista. Ai fini della XII disposizione si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”.
Art. 4: “Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, indicate nell’articolo 1 è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000. Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.
Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni”. Art. 5: “Manifestazioni fasciste. Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da 400.000 a 1.000.000 di lire”. Se, come è molto probabile, visti i precedenti, i partecipanti all’oscena parata di Predappio si sono resi responsabili dei reati così bene descritti mi pare evidente che devono essere perseguiti ai sensi della legge. E se la polizia e i carabinieri avessero ravvisato la volontà manifesta di delinquere non avrebbero dovuto vietare la manifestazione?
Se non sbaglio, mi corregga Travaglio, vige in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione). E dunque le autorità preposte non si assumono, tollerando, una pesante responsabilità?
MA PRIMA della responsabilità penale c’è quella morale e c’è quella politica. La prima impone ad ogni essere umano (cittadino o non cittadino) di alzare una ferma, civile, pacata voce di protesta (e i cattolici e la Chiesa, taceranno anche questa volta di fronte a gente che offende la coscienza cristiana?). La seconda impone alle autorità politiche, a cominciare dai sindaci di Romagna, dal presidente della Provincia e dal presidente della Regione di esprimere almeno la più severa condanna e di invitare la magistratura ad intervenire. La legge, sarebbe ora di capirlo, va difesa sempre, contro tutte le violazioni. Solo in questo modo la lotta per la legalità acquista forza e credibilità.
LA VICENDA di Predappio, offre, per fortuna, anche una bella occasione. La vedova di uno dei figli ha minacciato di far traslare le ceneri di Mussolini da Predappio a Roma. Se fossi di Predappio accoglierei la proposta con entusiasmo e farei di più e meglio. Mi attiverei affinché le ceneri di Mussolini siano disperse in mare, fuori dalle acque territoriali italiane, come hanno fatto in Israele con le ceneri di Eichmann. Questo sarebbe vero atto di pietà per chi ha perso la vita e ha sofferto per colpa di quel criminale di Benito Mussolini e un dovuto atto di rispetto per l’Italia, che per il fascismo e del fascismo dovrà sempre e solo vergognarsi.