La comunità in divenire. Dal principio dialogico di Martin Buber
di Maria Felicia Schepis (www.sifp.it, 26.02.2006)*
1. Il Due è all’origine
La dualità tiene insieme le alternative.
(S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza)
Due indici protesi uno verso l’altro quasi si toccano, intervallati da un brevissimo spazio che demarca la “distante prossimità”[1] tra il Creatore e la sua creatura, tra Dio e Adamo, l’uno di fronte all’altro nella loro assoluta differenza. Questo particolare della Creazione, nel suggestivo affresco dipinto sulla volta della Cappella Sistina, si presta come raffigurazione emblematica di un’apertura relazionale. Un’apertura che l’uomo sembra dover sopportare come costitutiva del suo essere al mondo. All’inizio è infatti la dualità, non l’unità, ricorda la tradizione rabbinica, una dualità simboleggiata dalla ב bet, la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, con valore numerico due, iniziale di bere’šît (“In principio...”), parola inaugurale della Torah[2].
Le riflessioni di Martin Buber muovono a partire da questa prospettiva. Nel tempo di crisi di ogni certezza il filosofo ebreo suggerisce di ricominciare dall’inizio. Di ricominciare proprio dall’uomo. Non come individuo, tuttavia, ma nella sua noità originaria. Lungi dal riferirsi ad un’entità unitaria indifferenziata, egli parla del noi come di una dualità. Pensa cioè il fondamento del reale come una struttura relazionale raccolta nella parola io-tu[3]: una dicotomia intrinseca, io e tu, un’antinomia insolubile. Come quella tra Dio e Adamo nella Creazione michelangiolesca, assicurata dal breve spazio tra i loro indici rivolti l’uno verso l’altro. Chi tenta di pensare una sintesi, afferma Buber, “distrugge il senso della situazione” dell’uomo[4]. Il noi è una realtà eterogenea: ognuno non riceve l’altro che per restare altro da lui. Un con-essere ontologico, dunque, senza fusione, ma nella relazione. Scrive infatti:
Solo la visione dell’ente che mondanamente mi è di fronte nella pienezza della sua presenza e nei confronti del quale io stesso, presente nell’interezza della mia persona, mi sono posto in relazione, mi dà veramente il mondo come totalità e unità[5].
Quest’orientamento supera il principio individualistico, di cui il cogito cartesiano era stato vessillo, secondo cui l’io sia autosufficiente e in opposizione negativa e inconciliabile con ciò che è fuori di esso. Oltrepassa cioè la prospettiva della solitaria essenza stabile e chiusa per sostenere l’esistenza (existieren) dell’io in direzione del tu: non vi è “alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu”, afferma Buber[6].
D’altro lato si discosta pure dal punto di vista di coloro che, come Heidegger, pur intuendo l’impossibilità di un ego che non sia già da sempre un noi (dasein), pensano ad un indifferenziato “si impersonale”[7], ovvero rifiutano l’idea che l’altro stia di fronte all’uno in un rapporto di necessaria separazione, intervallato dal fra, garanzia contro qualunque forma di pensiero totalitario.
Buber constata che tuttavia la nostra epoca - “epoca senza casa (Hauslosigkeit)”[8] - ha dimenticato il fondamento relazionale, riducendo il tu che da sempre ci accompagna all’esso, a oggetto da conoscere, da manipolare, da considerare come “macchina adatta ai molteplici usi”[9]. Allo stesso modo, circondato da “contenuti”, anche l’io è diventato fissità. Incapace di presente egli si è pietrificato come il passato, poiché il presente nasce “solo attraverso il farsi presenza del tu”[10]. Invero, riflette,
in tempi malati succede che il mondo dell’esso, non più percorso e fecondato dal mondo del tu che vi affluisce come una corrente vitale, separato e arenato, come un immenso fantasma palustre, prevale sull’uomo (...)[11].
Per cacciare l’“immenso fantasma”, ossia per superare la tendenza verso l’esperienza oggettivante dell’essità che rende anche l’uomo cosa, Buber ritiene necessario ripronunziare il tu. Unilaterale, egoico, spaesato, solamente nell’incontrarsi con l’altro l’io può far ritorno alla realtà autentica da cui si è allontanato.
Posta nei termini buberiani la domanda “che ne è dell’uomo?”, lungi dal condurre verso soluzioni solipsiste, si capovolge dunque in un’altra domanda: “che ne è della comunità?” Che ne è dell’unico spazio possibile dell’uomo con l’uomo? Per recuperarne le tracce bisogna chiarire innanzitutto il significato di relazione, a partire dalla quale solamente, per Buber, la comunità può essere ricostruita.
Relazione è certamente “reciprocità” (Gegenseitigkeit), ma non “reversibilità”: la risposta del tu cioè, spiega il filosofo, “non è semplicemente un’eco della parola dell’io che rimbalza sul tu”, poiché il tu non è identico all’io[12]. Ciascuno non è una copia come quella prodotta dal Demiurgo greco, bensì un originale, come Adamo, ad immagine e somiglianza di Dio e degli altri uomini, ma non identico ad essi[13]. Reciprocità, dunque, nella più radicale differenza: se il tu non è riducibile ad oggetto, neppure è riconducibile a duplicazione, ad alter ego dell’io. Per Buber insomma tra l’io e il tu deve esistere un intervallo che nel separare distingua, ma che nel distinguere sia anche area di contatto. Parlare di differenza non vuol dire invito a prendere le distanze - atteggiamento tipico della tendenza individualistica all’altruicidio. Differenza significa, invece, allo stesso tempo, distacco - necessario ad impedire la confusione in una totalità indistinta - e legame tra le diverse parti di una realtà. Parti che stanno una di fronte all’altra, legate tra loro senza scopo alcuno. Partecipazione dunque, è la forma dello stare in relazione:
Chi è nella relazione è parte di una realtà, cioè di un essere che non è semplicemente in lui, né semplicemente fuori di lui. Ogni realtà è un effetto di cui sono parte senza poterlo far mio[14].
Un relazionarsi senza nessuno scopo conoscitivo, senza “alcun fine, alcun desiderio, alcuna anticipazione”[15]. Quanto più la relazione al tu è immediata, tanto più la partecipazione si compie.
Partecipazione che rende l’io consapevole di non essere individuo ma persona. Mentre l’individuo, infatti, non è partecipe di alcuna realtà, argomenta Buber, la persona è in un legame costitutivo con gli altri, si delinea nella relazione. Questa distinzione terminologica è ancora più convincente se si pensa che persona è etimo latino di maschera, che per sua natura richiama la proiezione verso l’esterno, evoca l’essere-per-l’altro[16].
Relazione è dunque reciproco prender parte della stessa realtà. Ma è solo nel suo dispiegarsi dialogico che essa può venire pienamente compresa, poiché “i momenti della relazione sono uniti dall’elemento del linguaggio in cui sono immessi”[17].
2. L’apertura dialogica
Conosco tre specie di dialogo: quello autentico - non importa se parlato o silenzioso - in cui ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi (...)[18].
Nel dialogo le differenze trovano una comune abitazione. Dia-logos, non logos. Buber infatti respinge le valenze totalitarie del logos ereditato dalla grecità, che, anche nella pretesa di funzionare come dialogo, era soprattutto tecnica argomentativa per giustificare, dimostrare, motivare ciò che veniva affermato come verità da racchiudere nell’indiscutibilità di un concetto. Logos che, ispirando il sapere scientifico della modernità, si è tradotto in un linguaggio che inchioda nelle sue formule ogni fonema. Un linguaggio “proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva”[19] che finisce per risuonare monologo, fissità, che fa esistere l’altro soltanto come esperienza, fino a sopprimere lo spazio in cui ogni relazione possa avvenire. A vivere nel monologo - riflette Buber - “è colui che non è capace di rendere sostanzialmente reale la società all’interno della quale (...) si muove”. Infatti, rimarca, “l’esistenza monologica” non percepisce nulla “al di là dei limiti del proprio io”[20]. Testimone diretto della crisi occidentale, egli considera questo parlare senza in-tendere responsabile dello sfibramento dei legami sociali. Perciò ritiene essenziale riscoprire il potere dialogico della parola. Quel potere intimamente vitale nelle valenze del dabar della cultura ebraica, alla quale pure egli appartiene, che l’Occidente è ormai incapace di riconoscere. Influenzato proprio dall’ebraismo che svaluta l’immobilità[21], il filosofo pensa infatti il linguaggio in termini di movimento. Non il movimento fondamentale del monologo che è il ripiegarsi, cioè “il sottrarsi all’accettazione dell’essere di un’altra persona”, bensì il movimento fondamentale del dialogo, il rivolgersi, che “significa accettazione dell’alterità”[22].
Dialogo è dunque il medium che impedisce che io e tu dileguino nella reciproca indifferenza. Segnala l’io come presenza e riconosce la presenza autonoma dell’altro come essere unico con un “nome proprio”[23]. È apertura, cammino verso ciò che è distante, verso ciò che rimane nella sua incolmabile distanza. È esodo, sforzo verso una meta, attesa inesauribile di pienezza. È attraversamento della distanza, ponte, prossimità. Prossimità senza fusione, ma piuttosto “carezza”, come direbbe Lévinas, contatto che non profana[24]. Perciò la “reciprocità” di cui parla il filosofo implica la reciproca rinunzia al totale assoggettamento dell’altro alla propria conoscenza, lasciando che l’altro resti irriducibile ad un sapere che incorpora. Un margine di silenzio - “il silenzio di ogni linguaggio” - scrive Buber, “lascia libero il tu”, lo distanzia abbracciandolo, è con lui, impedisce che si trasformi in esso[25].
Nella reciprocità dialogica la parola è domanda dell’io rivolta al tu, ma è anche risposta, responsabilità (respondere) nei confronti di chi interpella:
Responsabilità presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto (...). Questa è la realtà della responsabilità: rendere conto di qualcosa che ci è stato affidato da un essere che ci dà fiducia (...). Dove nessun appello primario mi può toccare, perché tutto è “mia proprietà”, la responsabilità è diventata un’ombra. E contemporaneamente si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi non dà più risposta, non percepisce più la parola[26].
Responsabilità è capacità di rispondere a colui che “mi appella”, a colui al quale “debbo render conto” poiché chiamandomi mi si affida, mi dà fiducia, a colui che mi “presta attenzione”[27]. Responsabilità che dal punto di vista relazionale implica corresponsabilità, una sinergia reciproca, un flusso dialogico che va e viene dall’io al tu. Se cessa tale flusso la relazione, cristallizzandosi, si spegne. Certamente l’ex-posizione è un rischio, avverte il filosofo, poiché la domanda può rimanere senza risposta e il dialogo può morire sul nascere. Ma se la reciprocità si realizza, allora l’interumano fiorisce nel dialogo autentico[28].
Nel tempo in cui sembra salvifico solamente arroccarsi nell’unità, il richiamo di Buber al dialogo responsabile, attraversato da espliciti toni etici, può essere inteso come invito a scardinare la monoliticità della soggettività, a deporre la pretesa dell’io alla sovranità, ad incamminarsi verso la comunità.
3. Verso la comunità
La comunità è per Buber la soluzione al problema dell’uomo. Ma cosa intende il filosofo per comunità? Egli non pensa alla comunità naturale, in cui i rapporti sono determinati da vincoli di sangue o dalla terra, piuttosto che cercati attraverso la tensione e l’impegno personale[29]. E non pensa neppure alla massa, in cui l’uomo “è come un fuscello stretto in un fascio che galleggia sull’acqua in balia della corrente”[30], senza capacità di movimento autonomo, ottusamente perduto in essa. Specifica inoltre che comunità non è da scambiare con alcuna forma di collettivismo verso cui pare incline la modernità: “la conduzione dei gruppi, soprattutto nell’ultimo scorcio della storia umana - scrive infatti - è più incline a reprimere l’elemento della relazione personale a favore di quello puramente collettivo”. “L’uomo - continua - si sente sorretto dalla collettività, che lo solleva dalla solitudine, dall’angoscia del mondo, dallo smarrimento”, ma in realtà limita “l’inclinazione al rapporto personale (...), come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all’opera del gruppo”[31]. Tutte quelle collettività composite sono “affastellamento”: gli individui stanno “impacchettati insieme”, uno vicino all’altro, perduti in una soffocante totalità che tende a rimuovere, in chi ne è parte, persino la capacità di porsi il problema di sé, nell’illusione di vivere in una società tecnicizzata perfettamente controllabile[32]. Perciò - conclude - mentre il collettivo diventa ciò che ha esistenza vera, la persona non è che un’esistenza derivata, cui non compete nemmeno più la piena responsabilità[33]. In fondo il collettivismo per il filosofo non è che “l’atteggiamento complementare e susseguente all’individualismo”[34], nasce anzi proprio dallo scacco strutturale di quest’ultimo, che provoca come reazione “l’immersione e la dispersione nella struttura anonima del gruppo”[35].
Alternativa sia all’individualismo che al collettivismo, la comunità è per Buber un sistema di relazioni interpersonali connesse con un centro. Affinché si realizzi, due condizioni appaiono necessarie.
Prima condizione. La comunità “consiste nel non essere più semplicemente uno vicino all’altro, ma nell’essere uno presso l’altro di una molteplicità di persone che (...) ovunque fa esperienza di una reciprocità, di un dinamico essere di fronte”[36]. Comunità cioè non è da intendersi come un essere comune, come l’heideggeriano “si impersonale”, bensì come un essere in comune, che prevede al suo interno il pluralismo, reso possibile dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti: “il fondamento dell’essere uomo-con-l’uomo”, afferma invero Buber, consiste nel “desiderio di ogni uomo di essere confermato per ciò che è (...) e la capacità innata dell’uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui”[37]. La comunità nasce dunque da eventi d’incontro. Eventi che possono accadere solamente nella “dimensione pubblica”[38], quella “struttura fondamentale dell’alterità”, in cui ciascuno si sente legato, promesso, all’altro. Alcuni atteggiamenti tuttavia, avverte Buber, possono deformare il senso della dimensione pubblica facendo così scivolare l’evento relazionale dalla sua piattaforma essenziale. Ad esempio l’entusiasmo per il momento storico che come una sorta di “estasi” conduce verso la massificazione: “la trasfigurazione della massa è così abbagliante - scrive - da oscurare ogni alterità e la persona, sopraffatta da un’estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica”. Un altro atteggiamento, opposto al precedente, è dato dalla passività, dalla fusionalità, dall’omologazione: «è l’usuale “stare dalla parte” dell’opinione pubblica e del pubblico “prendere posizione”». Atteggiamento che mina il terreno del confronto, cancella i segni dell’alterità e convince “che l’uniformità è la realtà”. Queste distorsioni sono sconosciute da colui che, invece, vivendo con la dimensione pubblica senza affidarsi ciecamente ad alcuno, decide da solo. Poiché “la dimensione pubblica non è affastellamento, ma legame”, in essa il tu è “cercato, incontrato, tratto dalla massa” come persona[39].
Seconda condizione. Per Buber si può parlare di comunità se i prolungamenti delle linee degli incontri io-tu convergono verso il centro, se, in altri termini, si realizza ciò che egli definisce conversione. Con l’espressione “conversione” (Umkehr) Buber intende la capacità di superare l’atteggiamento centrifugo dell’individuo per volgersi-di-nuovo verso il punto da cui si diparte l’onda di ogni sfera di relazione. Conversione è un cambiar direzione, o meglio un ritornare dalla non-direzione alla direzione, alla “via”[40].
Chi abita il centro? Per Buber è il Tu divino, “il custode della sepolta potenza della relazione”[41], colui che può avvertirsi come “soffio” ad ogni incontro con il tu, colui che, definito il “totalmente Altro”[42], è anche il “totalmente Presente”, colui che, “mysterium tremendum”[43], è anche “il mistero di ciò che è ovvio”. La possibilità di relazionarsi con la centralità di Dio, scrive il filosofo, “abbraccia e comprende la possibilità di relazione con ogni alterità”[44].
Ma nel nostro tempo Dio è stato eclissato[45]. Scomparso dal cielo del mondo, la sua centralità viene ereditata dall’uomo da quando il processo di secolarizzazione, facendo cadere nell’oblio la memoria della relazione originaria col “vero centro in cui si dispongono le molteplici relazioni”, ha finito con lo svuotare la dimensione comunitaria della sua anima. Cosicché oggigiorno il mondo è affollato da diverse comunità di interessi che tuttavia appaiono sistemi chiusi, comunità solo di nome.
Buber avverte la necessità di riscoprire la relazione verticale (io-Tu), rispondendo a “Colui che silenziosamente invoca”[46] attraverso la relazione orizzontale (io-tu). Avverte in altri termini la necessità di far ritorno al senso del sacro che possa rendere all’uomo la forza di aprirsi ancora ad una possibilità d’uscita, la forza di attendere che il parlare fatto di domande ottenga un’ultima risposta. La forza di attendere, certo, poiché il tu non è che traccia. Se infatti in tempi di disincanto con il “tu sulle labbra” si è riconsegnati al mondo, tuttavia, constata lo stesso Buber, il mistero - ciò “in cui, da cui e verso cui viviamo” - rimane ciò che era, esso si fa semplicemente “presente a noi”, annunziandosi “come salvezza”, ma non ci dice ancora nulla, non si svela, resta quel silenzio che accompagna ogni suono. Apre una domanda sul senso ultimo che, rimasto inespresso, attende una risposta semplicemente possibile. Il margine di inafferrabilità del mistero non deve però essere interpretato come sconfitta, come il muro invalicabile di fronte al quale le possibilità gnoseologiche dell’uomo si arrestano. Tale margine, invero, come ogni limite segnala un oltre, invita a sporgersi al di là. La mancanza di una risposta definitiva, infatti, alimentando continuamente la domanda, è apertura soteriologia, movimento che spezza la chiusura della totalità. Se il pensiero logocentrico ci ha abituati a pretendere una verità compiuta attraverso risposte certe ed evidenti, l’ebraismo, filtrato dal pensiero di Buber, può condurci a pensare che il vero senso si dà nel silenzio, alla soglia del linguaggio. Nella reciprocità dialogica dell’incontro io-tu, infatti, l’uomo non riceve un “contenuto”, ma una “forza”, la forza di comprendere che il senso “non ha formula o immagine e tuttavia diviene certezza”. Non può essere sperimentato, ma può essere attuato[47].
Così, mentre il logos greco si mostra insufficiente a spiegare il significato che sfugge a questa tempo “non più sostenuto dalla speranza”[48], Buber propone l’idea cronologica di “conversione”: l’azione dell’uomo può mutare il corso storia. Il mutamento storico per il filosofo non è evoluzione, progresso, come voleva il Positivismo, bensì rottura della linearità, attimo senza durata, evento[49].
La malattia della nostra epoca (...) è una discesa nelle spirali del sottomondo spirituale, (...) dove non c’è più un avanti e un indietro, solo l’inaudita conversione”[50].
La comunità si edifica quindi solamente se l’uomo lo decide. Decisione che davanti al “varco”[51] è brivido di estraniazione e il mondo “mette angoscia”[52], come quando, nel mezzo di una triste notte, tu giaci tormentato tra il sonno e la veglia (...) e in mezzo al tormento ti viene in mente: “C’è ancora vita, devo solo farmi strada verso di lei; ma come, come?”. Così è l’uomo nell’ora della riflessione, rabbrividisce, soppesa, non sa dove andare. E tuttavia (...) forse la strada la conosce, è la direzione della conversione[53].
L’ora del varco, l’ora della pura libertà, la libertà di poter essere altrimenti, “è il fecondo punto zero (...), è la rincorsa per il salto”[54]. Pertanto è anche il tempo dell’angoscia, il “tormento di una triste notte”. “Tormento” che oggi può assumere il benefico valore di un elemento dirompente, denunciante, rivitalizzante. È l’inquietudine necessaria a vedere oltre il buio della “notte”, per comprendere che i luoghi del comune abitare sono diventati sempre più somma di individui.
L’ora della libertà, il tempo dell’angoscia, è anche il tempo della solitudine, reputata essenziale da Buber ai fini della decisione[55]. Non nel senso tuttavia in cui l’ha intesa un’intera epoca, come ideale modus vivendi per la realizzazione dell’individuo, bensì come condizione che dispone favorevolmente affinché una questione trovi risposta. La solitudine nel contesto buberiano è in altri termini da intendersi come l’effetto di un momento di crisi di chi sente opprimente la chiusura nei rapporti di sperimentazione e utilizzazione delle cose. Un momento di crisi decisivo che orienta alla scelta, che dà occasione affinché l’uomo affronti in modo autentico il problema di sé. Se la solitudine è la condizione per porre la domanda, la risposta deve essere invece, per il filosofo, il superamento della solitudine stessa: la comunità[56].
Dalla sorda chiusura della solitudine, allora, alla capacità di dare “ascolto”[57]. L’ascolto rinvia infatti alla dimensione pubblica in quanto misura della capacità di relazionarsi, della capacità di prestare orecchio persino alla sofferenza, condividendola. Non solo la sofferenza che abita la città attuale (che forse non è così felice come l’Occidente si è sforzato di far credere[58]), ma anche quella procurata dall’attesa che l’autentica comunità si compia.
Sta dunque all’uomo decidersi. L’atto della decisione nella sua ultima ascesa, fa notare Buber, nella lingua ebraica antica si chiama teshuvah. Ed è significativo che questo termine indichi contemporaneamente sia la conversione che l’attività di ascolto[59].
Se oggi fare comunità sembra impossibile perché non se ne vede più il senso, se anzi l’opacizzazione del senso è la vera questione, il pensiero di Buber suggerisce che paradossalmente la comunità può essere riedificata sulla coscienza di tale opacità, a partire dalla condivisione dell’attuale impossibilità di senso, dall’umile comunione di questa impotenza. Comunità insomma può voler dire comune disponibilità ad attendere che il silenzioso non-detto che sottende il dialogare si apra ad una possibile comprensione. Perciò quella di Buber è “comunità in divenire”[60]: premessa dell’autentica esistenza dell’uomo, essa si pone anche come promessa, destinazione, attesa di compimento.
In margine
La comunità descritta da Martin Buber è libera da accenti sentimentali o romantici: “non nasce dal fatto che le persone nutrano sentimenti reciproci”[61] o dalla “simpatia”[62]. Lontana dall’essere pensabile come un’istituzione che offra “sicurezza”, essa dunque è solo una possibilità. Una possibilità che spetta all’uomo cogliere come alternativa agli atteggiamenti annichilenti dell’individualismo e del collettivismo. “E’ solo una possibilità - scrive il filosofo - ma non esiste altro che questa”[63].
Condividere un dialogo che rinunci alla pienezza della verità, accettare di nominare il tu lasciandolo esistere nella sua inafferrabilità, disporsi al mistero cui allude: può essere proprio questo in fondo il significato puro di comunità, luogo di apertura salvifica piuttosto che di mortifera chiusura. Il dialogo, intervallato da zone di silenzio, rappresenta infatti il limite della comunità, ma anche la possibilità del superamento del limite stesso. La consapevolezza di essere immersi in un linguaggio inesauribile - sembra volerci dire Buber - rappresenta la grande malinconia, ma anche la vera forza che alimenta la speranza, che dà energia allo sforzo verso ciò che salva. In fondo persino Mosè - insegna la tradizione rabbinica - non poteva aprire che quarantanove porte della conoscenza, la cinquantesima gli era stata interdetta!
Certo l’invito del filosofo a fare parte di questa comunità dialogica non è indolore. Accettare di aprirsi di nuovo alla comunità come alla propria originaria dimora vuol dire abbandonare l’abitudine alla scorza protettiva di una conclusa totalità. Significa lacerare la quiete per catapultarsi all’esterno. Significa esporsi nudi al mondo, donarsi senza riserve fidandosi dell’altro o, meglio, affidandosi all’altro come ad uno sconosciuto. Sporgersi verso il tu, riscoprirlo come essenziale al proprio io, eppure dovervi rinunciare: tutto questo può sembrare vertigine. Ma è davvero possibile vivere fuori dal luogo comune? Non è forse più rischioso per l’uomo definire i margini della propria esistenza dentro una monade senza porte e finestre, dove il proprio monologo consuma ogni possibilità di parola a venire?
[1] P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Mondadori, Milano, 2004, p. 60.
[2] In ebraico i numeri si scrivono con le lettere dell’alfabeto, ogni parola è quindi dotata di valore numerico. La gematrìyya, tecnica ermeneutica legata alla tradizione rabbinica, ricava la somma dei valori numerici relativi alle lettere di uno o più termini con lo scopo di interpretare il testo delle Sacre Scritture. L’uso di studiare il senso di una parola a partire dal suo valore numerico è conosciuto anche dai babilonesi, dai greci - in particolare dai pitagorici - dagli egiziani. Questa pratica è stata introdotta in Israele all’epoca del Secondo Tempio. Sulla tecnica della gematrìyya si veda, tra gli altri, per esempio Giulio Busi e Elena Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica, Einaudi, Torino, 1999, in particolare Introduzione, pp. XXXIII-XXXV; anche P. Stefani, La letteratura rabbinica, in P. Reinach Sabbadini (a cura di), La cultura ebraica, Einaudi, Torino, 2000, p. 333; inoltre G. Stemberger, Einleitung in Talmud und Midrasch (1992), trad. it., Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma, 1995, p. 48.
[3] Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. La dualità per Buber è inscritta nella natura stessa dell’uomo: “la parola fondamentale io-tu” scaturisce cioè “dal legame naturale (...). Infatti - continua - nel linguaggio mitico ebraico si dice che nel grembo materno l’uomo conosce l’universo, e lo dimentica alla nascita. E questo legame gli rimane impresso, come misteriosa immagine di desiderio (...). Come ogni essere che sta per venire al mondo, ogni figlio d’uomo riposa nel grembo della Grande Madre, di quell’indiviso mondo originario che precede la forma. Sciogliendosene, si apre alla vita personale (...), al figlio dell’uomo è dato il tempo per passare dal legame naturale che va perdendo al legame spirituale col mondo, cioè alla relazione” (ibidem, pp. 76-77).
[4] Ibidem, p. 128.
[5] M. Buber, Urdistanz und Beziehung (1950), trad. it. A. M. Pastore, Distanza originaria e relazione, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 283 (corsivo mio).
[6] M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. InRechtundUnrecht Buber compieunadistinzione fra i verbi tedeschi vorhandensein ed existieren. Entrambi i verbi, sostanzialmente indistinguibili nel lessico italiano, si traducono con “esistere”. Tuttavia, mette in rilievo l’Autore (come già Heidegger in Essere e tempo), in senso letterale il primo vorhandensein, essere autocosciente, è il mero essere presente di chi ritiene che la misura della vita dipenda dall’Io, di chi non vuole realizzare ciò a cui si è “destinati”. Mentre existieren è l’“esistenza autentica e piena”, di chi concepisce l’esistere come “ex-sistere”, cioè uno “stare” che non ha in sé il proprio centro e punto di equilibrio, ma nell’“ex”, fuori di sé. Si veda M. Buber, Recht und Unrecht (1952), trad. it. T. Franzoni, Il cammino del giusto, Gribaudi, Milano, 1999, pp. 5, 19 e 78.
[7] Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it., Essere e tempo, Utet, Torino, 1969, pp. 214-217.
[8] A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico ed altri saggi, cit., p. 11.
[9] M. Buber, Io e tu, cit., p. 107. Andrea Poma precisa che “non c’è in Buber condanna assoluta del mondo dell’esso, della cultura, della scienza, della tecnica, delle istituzioni, ecc. Tale mondo viene invece riconosciuto non solo come inevitabile, ma come necessario per dare continuità e durata ai frutti della relazione. Ciò che Buber considera come negativo è il prevalere del mondo dell’esso sino al punto di sopprimere lo spazio in cui la relazione possa sempre di nuovo avvenire” (cfr. ibidem, p. 91, nota 20).
[10] Ibidem, p. 67.
[11] Ibidem, p. 97 (corsivo mio).
[12] Cfr. ibidem, p. 64, nota 6.
[13] Su questo aspetto si veda anche la discussione di G. Limone, Il sacro come la contraddizione rubata, Jovene, Napoli, 2000, in particolare p. 270.
[14] M. Buber, Io e tu, cit., p. 103 (corsivo mio).
[15] Ibidem, p. 67.
[16] Cfr. ibidem, pp. 103-105. Sul rapporto tra maschera e persona si veda per esempio C. Bonvecchio, L’uomo e la maschera, Franco Angeli, Milano, 2002, in particolare p. 23. Cfr. anche G. Limone, Il sacro come la contraddizione rubata, cit., p. 8.
[17] M. Buber, Io e tu, cit., pp. 132-134.
[18] M. Buber, Dialogo, cit., p. 205 (corsivo mio).
[19] Ivi.
[20] Ibidem, p. 206.
[21] Significativa la distinzione che in Discorsi sull’ebraismo Buber compie tra l’uomo ebreo, che definisce “uomo motorio”, e l’uomo greco, che definisce “uomo sensorio”. “Ambedue - egli scrive - sono uomini che sentono e che agiscono: ma l’uno sente in movimento, l’altro agisce in immagini (...). Se il Greco vuole dominare il mondo l’Ebreo vuole compierlo; per il Greco esso è, per l’Ebreo sarà”. L’Ebreo ha cioè bisogno di muoversi verso “l’unità che non è ancora” (cfr. M. Buber, Reden über das Judentum (1923), trad. it. D. Lattes e M. Beilinson, Discorsi sull’ebraismo, Gribaudi, Milano, 1996, p. 60).
[22] M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 289; cfr. anche Id., Dialogo, cit., pp. 208-209. La cultura ebraica indica nell’episodio biblico di Caino e Abele un esempio di scacco della relazione, causato dalla mancanza del reciproco rivolgersi la parola: il dialogo tra i due fratelli infatti non si stabilisce e i tentativi compiuti si traducono in fratricidio (cfr A. Neher, L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz (1970), trad. it. G. Cestari, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico ad silenzio di Auschwitz, Marietti, Genova, 1997, p. 107). Tuttavia - come osserva Domenica Mazzù - è proprio nell’eliminare Abele, ovvero il suo altro, la sua regola, il suo limite naturale, che Caino prende coscienza del “problema fondamentale della sua identità” (cfr. D. Mazzù, Il complesso dell’usurpatore, Giuffré, Milano, 1999, p. 33).
[23] M. Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen (1954), trad. it. A. M. Pastore, Elementi dell’interumano, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 304.
[24] Cfr. E. Lévinas, Totalité et infini. Essais sur l’extériorité (1961), trad. it. A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1986, pp. 265-266.
[25] M. Buber, Io e tu, cit., p. 86.
[26] M. Buber, Die Frage an den Einzelnen (1936), trad. it. A. M. Pastore, La domanda rivolta al singolo, in Il principio dialogico, cit., p. 234.
[27] M. Buber, Dialogo, cit., p. 202. Andrea Poma sottolinea che il nesso tra “responsabilità” e “risposta”, presente come si vede anche nella lingua latina, è reso immediatamente evidente da Buber in lingua tedesca, utilizzando rispettivamente Antwort e Verantwortung, che trovano nel termine “parola” (wort) il loro legame (cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 201, nota 8).
[28] Cfr. M. Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 306.
[29] Cfr. G. Bon, La filosofia dialogale di Martin Buber, Rosini, Firenze, 1998, p. 80.
[30] M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 255.
[31] M. Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 296.
[32] Cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218; cfr. anche A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico, cit., pp. 14-15.
[33] Cfr. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274.
[34] Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 105, nota 26.
[35] Cfr. G. Bon, op. cit., p. 65.
[36] M. Buber, Dialogo, cit., p. 218.
[37] M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 288.
[38] M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274 (corsivo mio).
[39] Cfr. ibidem, pp. 252-256.
[40] M. Buber, Io e tu, cit., p. 132, anche nota 48.
[41] Cfr. ivi.
[42] Ibidem, p. 116. L’Autore richiama l’espressione di Barth [cfr. K. Barth, Der Römerbrief (1922), trad. it. G. Miegge, Lettera ai Romani, Feltrinelli, Milano, 2002].
[43] Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 116. Buber riprende qui la definizione di Otto [cfr. R. Otto, Das Heilige (1917), trad. it. E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano, 1992].
[44] M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 256. Purché tuttavia, mette in rilievo Buber, nello scoprire la relazione con il Tu divino non si abbandoni il rapporto con il mondo. Il filosofo si riferisce in particolare a Kierkegaard, con il pensiero del quale si confronta spesso. Se da un lato saluta favorevolmente la categoria kierkegaardiana di singolo nel suo significato di “diventare per qualcosa”, cioè “entrare in relazione”, d’altro lato le muove critica per il fatto di alludere ad una relazione esclusiva con Dio sacrificando il legame con il mondo. La rinuncia personale di Kierkegaard al matrimonio con Regina Olsen, simbolo della rinuncia alla relazione con il tu mondano, sembra a Buber un’ulteriore conferma che il filosofo danese ha frainteso il significato di singolo appena conquistato (cfr. ibidem, pp. 240-248). Afferma infatti Buber: “il singolo realizza l’immagine di Dio (...) quando con tutto il suo essere dice tu agli esseri che vivono intorno a lui” (ibidem, p. 247), la relazione cioè non può prescindere dalla “dimensione pubblica” (ibidem, p. 251).
[45] L’eclissi di Dio è titolo di un’opera di M. Buber: Gottesfinsternis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie (1952), trad. it. U. Schinabel, L’eclissi di Dio, Passigli, Firenze, 2001.
[46] M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 182 (corsivo mio). E’ importante sottolineare che Buber con il suo richiamo alla centralità del Tu divino non intende alludere ad una concezione politica teocratica. Egli rifiuta espressamente lo Stato religioso, consapevole che «Dio è “oltre”, e che pertanto lo Stato non è Dio» (cfr. M. Buber, Profezia e politica, cit., p. 8). La religione invece rappresenta per il filosofo una garanzia della stessa politica, ne costituisce il “limite critico” in quanto richiamo ad una sfera di mete e di mezzi che sta sempre oltre ogni realizzazione storica (cfr. ibidem, pp. 20-21).
[47] Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., pp. 139-140.
[48] Si veda a tal proposito anche Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 128.
[49] Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 146. Tale prospettiva evoca, in termini biblici, il tempo messianico, il cui evento, per Buber, dipende unicamente dalla decisione dell’uomo a convertirsi (cfr. M. Buber, Discorsi sull’ebraismo, cit., p. 61).
[50] M. Buber, Io e tu, cit., p. 98 (corsivo mio).
[51] Ivi.
[52] Ibidem, p. 110.
[53] Ibidem, p. 109.
[54] M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 170. I richiami al linguaggio kierkegaardiano sono evidenti.
[55] M. Buber, Io e tu, cit., p. 134.
[56] Cfr. A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico, cit., pp. 13-14.
[57] M. Buber, Io e tu, cit., p. 106.
[58] Diversi studiosi mettono in rilievo come la nostra società, attraverso le rassicurazioni della tecnica “operatrice di salvezza”, abbia intrapreso una politica di rimozione del dolore (cfr. per esempio F. Riva, op. cit., p. 68).
[59] M. Buber, Discorsi sull’ebraismo, cit., p. 61. Cfr. anche R. Panattoni, La comunità. La sua legge, la sua giustizia, Il Poligrafo, Padova, 2000, p. 125.
[60] M. Buber, Dialogo, cit., p. 218.
[61] M. Buber, Io e tu, cit., p. 90.
[62] M. Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 297. Un concetto rimarcato esplicitamente anche in Sentieri e utopia: “Dall’idea di comunità (...) bisogna tener lontana ogni sentimentalità, ogni esagerazione ed esaltazione. La comunità non è mai stato d’animo e, anche dove è sentimento, è sempre il sentimento di una costituzione. Essa è la costituzione interna di una vita comune (...). È comunanza del bisogno e, di qui, comunanza dello spirito; comunanza della fatica e, di qui, comunanza della salvezza” [M. Buber, Pfade in Utopia (1950), trad. it. A. Guadagnin, Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunità, Milano, 1981, p. 169].
[63] M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 262. Per Buber “l’ossatura della società non è data né dai singoli (individualismo atomistico), né dallo Stato, ma dall’associazione volontaria” (cfr. M. Buber, Profezia e politica, cit., p. 13). Egli sostiene che tra Stato e società debba sussistere una linea di demarcazione che impedisca alla società di servirsi dello Stato per fini di utilità di parte e allo Stato di occupare la società annullandone il pluralismo consociativo. Buber cioè, se non cede all’utopia anarchica dell’estinzione dello Stato - ritenendo anzi che lo Stato e la politica siano realtà perpetuamente necessarie per la vita associata - pensa tuttavia che sia compito dello Stato predisporre le condizioni che permettano alle diverse associazioni la realizzazione armonica e collaborativa delle loro proprie finalità (cfr. ibidem, p. 17; anche Id, Sentieri in utopia, cit., pp. 170-172).
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Il testo, parzialmente modificato, è tratto dal volume Confini di sabbia. Un’ermeneutica simbolica dell’esodo, Giappichelli, Torino, 2005.
Si ringrazia la casa editrice Giappichelli per aver autorizzato la pubblicazione.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud
Testimoni.
Con Buber e La Pira un patto per la pace
Le affinità elettive col sindaco di Firenze in un libro di Tumminelli sul pensatore ebreo. Partecipò a un incontro promosso dal politico italiano nel 1960 per la futura convivenza nel Mediterraneo
Marco Roncalli (Avvenire, domenica 23 febbraio 2020)
Come riconosce Irene Kajon presentando questa monografia di Angelo Tumminelli ( Martin Buber a Firenze, Studium, pagine 224, euro 22,50), sono almeno due i temi poco noti che l’autore approfondisce in queste pagine grazie a documenti inediti rintracciati negli archivi della National Library of Israel a Gerusalemme.
Il primo tocca il periodo del soggiorno fiorentino di Buber nel 1905 e 1906, dopo essere arrivato in Italia fresco di dottorato a Vienna con una dissertazione dedicata a Niccolò Cusano e Jakob Böhme.
Il secondo indaga il coinvolgimento di Buber nei Colloqui Mediterranei per la pace organizzati fra il 1958 e il 1962 dall’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira (Buber partecipò al secondo, nell’ottobre 1960, e mandò un messaggio al terzo), ma pure in altre iniziative dagli stessi intenti (si veda la lettera inedita in questa pagina con l’invito del sindaco a Buber per avere la sua presenza alla celebrazione fiorentina di un anniversario di fondazione dell’Onu).
Il primo tema, dunque, riguarda il rapporto con Firenze, agli occhi di Buber città dell’intreccio tra sapienza razionale e ispirazione religiosa, luogo di raccoglimento al quale si sentiva legato già prima dell’arrivo in Toscana, sin da quando - assistendo a Berlino alle lezioni di Wilhelm Dilthey - si sentiva affascinato dalle città rinascimentali italiane.
Il secondo riflette sulla relazione tra il filosofo-teologo austriaco naturalizzato israeliano e il giurista-politico, padre costituente e parlamentare, approdato dalla Sicilia a Firenze dove, vestito l’abito di terziario domenicano in San Marco già nel 1927, si guadagnò fama di santità come primo cittadino per quasi due decenni, già alla fine degli Anni 50, provando a conciliare bisogni dei cittadini e principi cristiani, nonché perseguendo la pace con i già citati “Colloqui”.
Forse però a emergere soprattutto dal libro sono il Buber giovane e quello anziano, colti appunto nel capoluogo toscano. Due tappe di un’avventura umana, ma anche intellettuale. E un pensiero che muta, si evolve, sino a tradurre in impegno concreto le idee di tensione unitiva e di concezione della realtà come relazione.
I primi anni fiorentini infatti sono quelli in cui il giovane Martin pone l’analogia tra il contesto ebraico a lui contemporaneo e la fioritura del ’400, reinterpretando la tradizione mistica ebraica del Chassidismo alla luce del vitalismo e del pantesimo italiani rinascimentali, accostandosi al testamento spirituale del Baalschem e ai testi dello zaddik Nachman di Bratislava (due maestri lì a indicare che «la salvezza dell’uomo non consiste nel tenersi lontani dal mondo, bensì nel santificarlo, nel consacrarlo al senso divino»). Se poi l’ebraismo del giovane Martin passa di fatto attraverso il filtro della cultura europea di ascendenza grecocristiana, è pur sempre tale da costituire la base per una nuova riflessione sulle espressioni della vita ebraica secondo le esigenze maturate con la crisi dell’approccio razionalistico e liberale dell’’800.
Mentre il Buber più in là negli anni, invece, abbandonati i presupposti metafisici della filosofia dell’unità, acquisita una sua originale impronta personalistica, affinando una sua filosofia del dialogo, dopo essersi concentrato sul ruolo della relazione come tratto dialogico e costitutivo dell’essere umano, capace di inverarsi in ogni situazione sociale e politica.
Ed è in questo quadro che Buber non teme di delineare la più ampia prospettiva di pacificazione auspicando da parte della popolazione ebraica entro lo Stato d’Israele un’apertura alla pace pronta a riconoscere come interlocutori non solo gli arabi palestinesi, ma pure quelli degli altri Paesi mediorientali: una pace, allora, non solo come assenza di guerre o di violenze, bensì come cooperazione effettiva e multilaterale, su diversi piani: economico, culturale, sociale, ecc), affrontando tutta la questione non solo come fatto politico ma anzitutto morale. Da qui, dopo la costituzione dello Stato di Israele, le richieste di aiuto per i rifugiati arabi, le proteste contro l’espropriazione dei palestinesi dalle loro terre, l’idea di una confederazione tra Stato di Israele e Nazioni arabe.
E da qui pure il raffronto che Tumminelli fa nella sua ricostruzione storica, che però è soprattutto ermeneutica dell’evoluzione del pensiero, esaminando la posizione buberiana rispetto quella lapiriana circa la pace nel Mediterraneo, gli appelli che ne indirizzarono lo svolgimento, gli sbocchi del confronto politico, l’insistenza sulla religione e la cultura come strumenti di dialogo. Una prospettiva forse utopica ma tale, secondo Buber, da indicare una direzione alla prassi politica e all’agire quotidiano, in sintonia con l’utopia di La Pira. Sullo sfondo mutamenti anche di scenari internazionali non indifferenti; in primo piano Firenze, modello di città convinta a investire su relazioni autentiche, condizione necessaria dello scambio, della mediazione, della progettualità, oltre ogni perimetro e confine.
Spiritualità.
Se il sabato ebraico è la festa del mondo
Benjamin Gross, da poco scomparso, fu l’ultimo dei grandi maestri ebrei di oggi. Esce ora una sua analisi teologica sul tema che segna l’identità del popolo eletto: Shabbat
di Massimo Giuliani (Avvenire, giovedì 17 gennaio 2019)
Nessuno può dire di conoscere l’ebraismo se non ha davvero compreso cosa sia il Sabato ebraico, e nessuno può dire di averlo capito se non ha vissuto, almeno una volta, lo spirito e le norme dello shabbat. È il segreto palese, se mi è concesso l’ossimoro, della vita ebraica più autentica, ma proprio perché è sotto gli occhi di tutti e perché non si possono leggere le Scritture senza imbattersi continuamente nella santificazione del Sabato (che è esplicitamente uno dei dieci comandamenti), questo precetto è anche tra i più trascurati, per non dire il più frainteso.
Molta cultura cristiana pensa che la domenica sia il ’sabato degli cristiani’. Ma se non si capisce cos’è lo shabbat ebraico, la metafora resta vuota non solo di prassi ma soprattutto di senso. E tradurlo con il termine ’festa’ è estremamente riduttivo: non è una festa, ma la festa nel senso più pieno. Celebra infatti il compimento divino del più grande miracolo umanamente immaginabile: l’esistenza del mondo. Non solo, del mondo questo giorno settimo, che Dio ha comandato di santificare, rivela il senso e la vocazione nonché la trascendenza. Nel ricordo del riposo divino - shabbat vuol dire cessazione e riposo - sono inscritte la finalità e la speranza del creato, inteso come unità di natura e storia.
Non è esagerato affermare che, se esiste, la metafisica dell’ebraismo sta tutta nei valori e nella prassi che costituiscono lo shabbat. Non a caso i rabbini abbiano sempre insegnato: «Non è Israele che custodisce il Sabato ma il Sabato che custodisce e preserva e fa sopravvivere Israele», né è un caso che nelle lingue derivate dal latino questo giorno settimanale abbia fino ad oggi mantenuto il suo nome ebraico.
Il filosofo francese-israeliano Benjamin Gross, da poco scomparso, è l’ultimo dei grandi maestri ebrei contemporanei, sulla scia di Franz Rosenzweig, Joseph Soloveitchik e Avraham Joshua Heschel, ad aver scritto sul valore cosmico e religioso del Sabato nella tradizione ebraica. Nel volume Momento di eternità (appena pubblicato dalle Edb nella collana ’cristiani ed ebrei’), Gross sostiene che esiste un preciso parallelo tra Israele e il Sabato: «La nascita della società ebraica, all’epoca dell’esodo dall’Egitto, rappresenta sul piano della storia ciò che lo shabbat rappresenta sul piano della natura: una traccia della trascendenza inserita nell’universo per testimoniare l’Origine ossia il Creatore. Lo shabbat e Israele sono consustanziali ».
In questo giorno si fa memoria congiunta di due eventi distinti ma paralleli, uno naturale e universale e uno storico e particolare, inscindibili nell’economia del racconto biblico: la creazione del mondo e l’uscita di Israele dall’Egitto. Due memorie che convergono nell’unico giorno che Dio ha voluto ’santo’, che cioè ha separato dagli altri elevandolo a memoriale vivente. Il precetto di santificare questo giorno sta nella lista dei doveri verso Dio, che simbolicamente si trova nella prima delle due tavole dei comandamenti. Ma ciò non significa che esso non racchiuda alcuni doveri verso il prossimo o non veicoli un messaggio sociale e politico.
Anzi, di tutti i comandamenti è proprio quello che contiene la rivoluzione politica più radicale che sia mai stata annunciata: nel giorno del Sabato, infatti, l’obbligo del riposo e della celebrazione investe alla pari uomini e donne, genitori e figli, padroni e servi, esseri umani e animali domestici. Di fatto, sottolinea Gross, lo shabbat prospetta ciò che in linguaggio moderno chiameremmo ’l’abolizione della divisione delle classi, l’insubordinazione verso le leggi dell’economia e il superamento dell’alienazione causata dalla necessità del lavoro quotidiano’. Un’utopia marxiana ante litteram (non dimentichiamo le radici ebraiche del pur ateo Marx) ma che meglio si comprende alla luce della categoria dello shalom messianico.
Come potrebbe lo spirito del Sabato ebraico non includere questa prospettiva escatologica di giustizia, integrità e armonia per tutti gli esseri viventi, animali inclusi? Lo shabbat è, per i maestri di Israele, un sessantesimo del mondo futuro, del paradiso, della redenzione finale; è un anticipo e funge una promessa di ciò che può già essere gustato quaggiù e che diventa modello e ispirazione per i riscatti e le piccole redenzioni di cui necessitano i sei giorni di quotidiano lavoro, che dallo shabbat ricevono luce e orientamento.
Per esplicitare questo senso etico universale, contenuto nella prassi sabbatica, il teologo chassidico Heschel aveva scritto il suo libro più famoso Il sabato e il suo significato per l’uomo moderno, un classico della spiritualità occidentale. L’ebraismo privilegia la santificazione del tempo alla monumentalizazzione dello spazio: non ha lasciato piramidi o cattedrali ma ha consegnato all’umanità un’architettura temporale ossia il suo calendario liturgico e la sacralità del riposo settimanale e dalla speranza messianica. All’uomo contemporaneo, stressato dalla conquista dello spazio e della visibilità, Heschel contrappone la conquista del tempo, che è interiorità e persino nascondimento, perché i valori e i significati profondi dell’esistenza non sono merce da trattativa mercatile. Non si comprano né si vendono, possono solo essere coltivati, curati e condivisi.
Lo shabbat, nell’idea di astenersi dal lavoro e nel porsi un limite, ammonisce l’homo faber a coltivarsi anche e soprattutto come creatura, in una passività che preserva e dà senso alla stessa attività lavorativa. Emmanuel Levinas ha fatto di questa passività, cifra positiva del riposo sabbatico, una parola chiave della sua riflessione etica, eredità dei profeti che i rabbini hanno sviluppato in dettaglio nello studio del Talmud.
Solo un approccio superficiale può liquidare quei dettagli come formalismo o mera esteriorità; al contrario, ogni singola norma per la santificazione del Sabato è spia e rivelazione di una dedizione piena a compiere il progetto divino sul mondo. E nella visione profetico-rabbinica, il valore e la prassi dello shabbat sono un messaggio per tutti, non solo per gli ebrei. Isaia al capitolo 56 ricorda che eunuchi e stranieri, nella misura in cui ’si guarderanno dal profanare il Sabato’, verranno condotti sul santo monte di Sion, casa della preghiera e luogo dove anch’essi offriranno sacrifici.
In Geremia l’osservanza assoluta dell’astensione dal lavoro nel giorno santo non è meno forte e anticipa le prescrizioni del trattato talmudico che porta appunto il nome di Shabbat. Un precetto universale, dunque, che sintetizza quell’imitatio Dei in cui consiste la religiosità ebraica.
«Lo shabbat è stato osservato da Dio prima che dall’uomo, scriveva nel XIX secolo il rabbino livornese Elia Benamozegh, ed è proprio perché Dio lo ha osservato che è stato comandato all’uomo di osservarlo a sua volta». È utile, poi, sapere che l’insegnamento di Gesù sul «sabato che è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» era un’idea diffusa in tutto il giudaismo farisaico dei primi secoli.
La si ritrova, con spiegazione annessa, nel Talmud, trattato Yomà, che è dedicato al ’sabato dei sabati’ ossia al giorno di Kippur: «A voi uomini è stato dato lo shabbat: ciò comporta che ci sono situazioni in cui si deve osservare lo shabbat e situazioni in cui si può profanarlo non osservandolo se ciò è richiesto dalla salvaguardia della vita». Quanti fraintendimenti e quanto pregiudizio antiebraico è stato costruito su quest’affermazione evangelica, che comparando le fonti trova invece Gesù e i farisei in piena sintonia di vedute.
La cifra del Sabato ebraico è il doppio. I maestri di Israele si spingono a ritenere che «all’ingresso del sabato, ogni uomo riceve un’anima supplementare». Ma cos’è questo raddoppio dell’anima umana se non il dono di un’intelligenza nuova, quasi un surplus di coscienza e di consapevolezza circa quel che davvero siamo e soprattutto perché siamo al mondo? Un doppio che viene ritualmente ricordato nell’accensione di due lumi, nella benedizione su due pani (ciascuno doppiamente intrecciato) e nei due verbi, zakor e shamor, ricorda e osserva, che ne comandano la santificazione. L’attesa messianica, nell’ebraismo, è frutto della fede che ’quel giorno’, il giorno storico della redenzione ultima, sarà ’tutto shabbat’, perché sarà il giorno in cui tutti i popoli saliranno con Israele a Sion. E come la Torà è stata data sul monte Sinai nel giorno di shabbat, ricorda Benjamin Gross, così sarà in uno shabbat senza fine dove l’umanità intera abbraccerà «il giogo del regno dei cieli». Se non è metafisica questa.
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Eugen Rosenstock-Huessy: un pensatore impuro
di Filiberto Battistin *
Eugen Rosenstock-Huessy (1888 - 1973) è pensatore pressoché sconosciuto in Italia. Eppure è stato uno dei protagonisti, insieme a Franz Rosenzweig, Martin Buber, Karl Barth del nobile tentativo di offrire nella Germania degli inizi del Novecento, una prospettiva filosofica e religiosa, fondata sul riconoscimento dell’Altro, capace di porsi come alternativa al positivismo, all’idealismo e allo storicismo dominanti nel mondo accademico tedesco.
Tutti questi pensatori avevano, con spirito profetico, intuito che la filosofia della “ragione pura” non sarebbe stata in grado di opporsi alla barbarie del nazismo, in quanto tale dottrina sostiene una visione semplificata e mutilata dell’umanità: l’uomo non è solo puro pensiero, ma carne, cuore, passioni e sentimenti.
Se l’uomo nella sua interezza non viene vivificato dalla Parola di Dio - “Amerai il prossimo tuo come te stesso” -, diventa facilmente preda di ideologie politiche secolarizzate, che facendo perno sui miti del sangue, della razza, della nazione, si impadroniscono del cuore degli uomini, trasformandoli in micidiali strumenti di guerra e di morte. “Tutti gli uomini uccidono, perché i viventi sono obbligati a scannarsi a vicenda, per sopravvivere. E tutti gli uomini muoiono. Allora lo stesso svolgersi della storia non sarebbe potuto accadere, se contro la morte non fosse stato creato alcun rimedio.
La storia della specie umana è per questo motivo composta da un unico tema: come rendere l’amore più forte della morte?” (Rosenstock - Huessy, La trasformazione della Parola di Dio nel linguaggio dell’umanità). In tal senso, la vita di Eugen è stata determinata dalla sua partecipazione come ufficiale dell’esercito tedesco alla prima guerra mondiale, e, più precisamente, dall’aver vissuto in prima persona l’evento più tragico del conflitto, la battaglia di Verdun, che costò la vita a più di ottocento mila soldati nel corso di un anno di feroci combattimenti.
Rosenstock, di famiglia ebraica, ma convertito in giovane età al cristianesimo, esce dal conflitto scosso nelle fondamenta del suo essere, ma con la ferma convinzione che suo dovere di uomo e di cristiano è di impiegare tutte le sue energie per “rendere l’amore più forte della morte”, e ritiene che questo compito richieda in primo luogo l’educazione degli uomini, perché la filosofia è educazione e l’educazione è filosofia, e la vera filosofia è amore per la sopravvivenza materiale e spirituale dell’umanità.
“Filosofi” sono tutti gli uomini di buona volontà che operano per realizzare la pace fra gli uomini e le nazioni. Rosenstock, di conseguenza, non si chiude nel mondo ovattato dell’accademia, ma è uno dei pionieri dell’educazione permanente degli adulti sul territorio.
Sebbene non sia marxista, Rosenstock viene invitato dal Partito Social-Democratico Tedesco a fondare e a dirigere nel 1921 l’Akademie der Arbeit, che offriva agli operai tedeschi corsi e seminari. E’ importante ricordare che alcuni dei lavoratori che parteciparono ai seminari tenuti da Rosenstock saranno protagonisti di un nobile tentativo di resistenza attiva contro il nazismo, che pagheranno con il sacrificio delle loro vite.
Nel 1933, dopo l’avvento al potere di Hitler, Rosenstock emigrò negli Stati Uniti, che divennero la sua seconda patria; anche in America, Eugen continua la sua attività di educazione degli adulti, con la ferma fiducia che lavoratori e pensatori debbano condividere le loro esperienze di sapere.
Due sono i centri attorno ai quali si sviluppa la sua instancabile attività di pensiero: il linguaggio e la storia.
Il grande miracolo che sta all’origine della creazione è il linguaggio, che è la struttura fondante le relazione tra Dio e uomo, tra uomo e natura e fra gli uomini all’interno di una comunità. L’autentico linguaggio nasce dall’Ascolto: non si può parlare se prima non si è ascoltato: solo allora il linguaggio diventa risposta che implica responsabilità amorosa nei confronti di tutti i viventi. In tal senso, secondo Rosenstock, è possibile riassumere il cammino dell’uomo occidentale negli ultimi mille anni della sua storia, in tre formule:
“Credo ut intelligam”, credo per comprendere
“Cogito ergo sum”, penso dunque sono
“Respondeo etsi mutabor”, Rispondo sebbene cambierò
La prima formula esprime il modo di vivere dell’uomo medioevale, che si pone sì sul piano dell’Ascolto, ma finisce con l’irrigidirsi e con il negare il mutamento: l’esito tragico è l’Inquisizione.
La formula cartesiana, che ha dato origine alla modernità, si pone al di fuori della dimensione dell’Ascolto, e afferma l’assoluta indipendenza, autonomia, autosufficienza dell’Io dell’uomo ridotto a pura ragione. Il mondo cartesiano, secondo Rosenstock, fa naufragio nella prima guerra mondiale. Per questo motivo è necessario entrare in una nuova dimensione dell’umanità, che Rosenstock sintetizza con la terza formula: l’umanità deve rimanere fedele alla Parola, nella piena consapevolezza che “tutto scorre”, che la vita è continuo e necessario movimento. Ti rispondo, assumo la mia responsabilità, ma so che cambierò, che dovrò cambiare perché soltanto cambiando potrò rimanerti fedele. La fedeltà, infatti, richiede la capacità di trovare ogni giorno una nuova risposta e il futuro è lo spazio ancora vuoto che spetta a ciascuno di noi riempire con un agire fedele alla verità.
In tal senso, il suo capolavoro è il libro pubblicato nel 1938 “Out of Revolution. Autobiography of Western Man”, nel quale Rosenstock mostra come il concetto di Rivoluzione sia il grimaldello per comprendere la storia dell’uomo occidentale. L’idea di Rivoluzione diventa distruttiva e porta al disfacimento dell’umanità, quando ha la pretesa di creare “nuovi mondi” e “nuovi uomini” senza più porsi in Ascolto della Parola originaria della creazione e con le precedenti Rivoluzioni che l’hanno interpretata nel corso del tempo.
Il “lealista-rivoluzionario” è l’uomo che vive rimanendo fedele alla Parola originaria: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
* Fonte: http://www.nicolasaba.it/, n. 22, settembre 2012.
Come stranieri gli ebrei sotto Hitler
di Marco Roncalli (Avvenire, 25 marzo 2014
Un teologo ed esegeta protestante, noto professore di Nuovo Testamento, ideatore e curatore di un
importante dizionario (il
Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament
arrivato in edizione
tedesca a dieci volumi).
E un pensatore ebreo di origine viennese, fiero della propria identità, forse
il più famoso dopo la morte di Hermann Cohen anche grazie alle sue opere sul chassidismo. E cioè:
Gerhard Kittel e Martin Buber. Sono loro i protagonisti della disputa svoltasi fra il luglio e il
dicembre del 1933, a proposito degli ebrei in Germania e del loro futuro: un confronto ora
ricostruito nella sua completezza da Gianfranco Bonola nel volume
La questione ebraica. I testi
integrali di una polemica pubblica
(Edizioni Dehoniane Bologna, pagine 170, euro 13,50).
Tutto inizia quando Kittel manda a Buber il suo
Die Judenfrage
uscito nel luglio ’33 chiedendogli
un commento pubblico. Come ha sintetizzato Emil L. Fackenheim nel suo
Un epitaffio per
l’ebraismo tedesco
(Giuntina, 2007) «Kittel aveva scritto che se gli ebrei, ridefiniti dalla rivoluzione
nazista degli “ospiti”, si fossero comportati come persone “perbene”, sarebbe giunto il tempo in cui
sarebbero stati trattati come esseri “relativamente inferiori” e non più come “assolutamente
inferiori”. Per farla breve: Kittel era un nazista. Buber replicò pubblicamente, ma con toni
gelidi...». Andò proprio così? Ognuno trova la sua risposta leggendo oltre alla prima edizione del
libretto kitteliano, il primo commento buberiano, la seconda edizione di
Die Judenfrage
rielaborata e accresciuta di due appendici (“Risposta a Martin Buber” e “Chiesa ed ebreo-cristiani”)
uscita nel ’33 e ripubblicata senza variazioni nel ’34, come pure la seconda replica di Buber oltre
alle reazioni, documentate, di Rudolf Bultmann, Ernst Lohmeyer, Hans Philipp: testi tutti raccolti
nel volume curato da Bonola.
Al centro della querelle vi sono le condizioni di vita del ger, lo straniero che in epoca biblica viveva in mezzo al popolo d’Israele, ritenute paradigmatiche per stabilire l’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei che in quel periodo avevano assunto il ruolo di “stranieri” nella società tedesca: una società cristiana, dunque, per Kittel, sottoposta all’autorità della parola biblica.
Una diatriba dotta, che scandagliava il Pentateuco per determinare i diritti del ger in seno al popolo ebraico ospitante, e che dopo essere stata capovolta, diventava questione di stretta attualità, cruciale dopo l’ascesa di Hitler. Nettamente diversa la prospettiva buberiana non ignara dei supporti presuntamente biblici al ruolo destinato agli ebrei dal Terzo Reich, al quale l’interlocutore iscritto dal 1° maggio al Partito nazionalsocialista (e lo rimarrà sino alla fine della guerra) e al blocco religioso fiancheggiatore (i “Cristiani Tedeschi”, dai quali invece dissentirà mesi dopo) è tutt’altro che estraneo.
Tuttavia, scrive Bonola, il giudizio degli studiosi su Kittel non è unanime, accogliendo alcuni autori, almeno in parte, le sue autogiustificazioni del ’46: secondo le quali il suo era un tentativo, nel 1933, di aprire una strada alla giustizia e all’umanità a partire dalla tradizione paleocristiana e veteroecclesiastica di fronte alla montante propaganda antisemita. Insomma, si sarebbe trattato del tentativo di influenzare l’impianto della politica nazionalsocialista verso gli ebrei per mitigarne i tratti violenti.
A parte il fallimento di questa eventuale strategia, l’esame di
Die
Judenfrage,
sorvolando sulla proposta circa un regime giuridico speciale, il “diritto del forestiero”,
colloca Kittel sul fronte ideologico del più bieco antisemitismo.
La convergenza fra le opinioni del
teologo e i più diffusi stereotipi antiebraici usati da Hitler al varo delle prime misure discriminatorie
è totale.
Balza poi agli occhi la sproporzione, nello scritto, tra l’intento inizialmente dichiarato di muoversi contro l’ebraismo «dal terreno di un cristianesimo consapevole» e la successiva trattazione del problema che solo nelle ultime pagine tocca la dimensione religiosa, dopo aver dedicato il pamphlet ad attaccare «l’ebraismo dell’assimilazione, depravato e divenuto infedele alla sua propria missione, scollegato ormai dalla storia dell’autentico ebraismo».
Più interessante accennare al cuore delle risposte buberiane, tese non solo a smontare le distorsioni insultanti con cui Kittel affronta l’ebraismo, o a impedire di utilizzare in senso antiebraico la frattura che l’ipotesi sionista aveva introdotto nelle comunità ebraiche, ma, restando sul versante religioso, ad accusare Kittel di volere considerare operato divino misure discriminatorie tutte umane. Con ironia Buber si chiede perché l’interlocutore si leghi a pochi passi concernenti unicamente il piano giuridico, prescindendo dai moltissimi altri in cui il cristianesimo richiama la sua legge: quella dell’amore.
La sapienza del santo ciabattino
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 13 ottobre 2012)
«Se ci sono uomini morti che vagano nel mondo della confusione e immaginano di stare continuando la loro solita vita, forse anch’io sto dimorando nel mondo della confusione?». Risposta: «Se un uomo sa che c’è un mondo della confusione, allora significa che non dimora in esso».
Questo dialogo che Martin Buber ci ha raccontato dice chi è Martin Buber. Nato nel 1878, sionista a vent’anni, vissuto nella Heppenheim dove abita per un po’ anche Romano Guardini, professore a Francoforte, trasferitosi a Gerusalemme, dove vive fino al 1965, Buber non è solo il filosofo del principio dialogico: è colui che pronuncia e risana la tragedia del Seicento ebraico, che fra il 1676 e il 1677, anni della morte di Spinoza e Shabbatai, sembra avere paralizzato la storia di Israele.
Spinoza, infatti, denuncia uscendo dall’ebraismo l’insufficienza della teologia barocca. Shabbatai, che dopo essersi proclamato messia, aver acceso la speranza di tutta la diaspora e incantato col suo ascetismo le comunità del Mediterraneo si converte all’Islam, crea una devastazione incalcolabile della speranza: un trauma che si propaga nell’Europa orientale fino alla predicazione di Jacob Frank che, a metà del Settecento, si presenta come uno Shabbatai redivivo, entra nel cattolicesimo romano e ne diventa eretico, in un ibridismo minaccioso.
In questo ebraismo violentato e traumatizzato, l’apparizione del Baal Shem Tov (morto nel 1760) e della sua filiazione spirituale segna una svolta su cui Buber torna ne Il messaggio del chassidismo, il capolavoro apparso in ebraico nel 1944, in tedesco nel 1952 e che ora Giuntina offre ai lettori italiani in una edizione ottimamente curata e prefata da Francesco Ferrari.
Il chassidismo risponde a quella tragedia perché è mistica «che si fa ethos», rinnovamento spirituale consapevole del «mondo della confusione», «bontà» comunitaria che unifica osservanza e qabbalà. Una disciplina talmente profonda che alla fine si spiega nel gesto inutile di Abraham Chaim di Zlocow, che ogni sera rilava i piatti della sua taverna «senza volgere il proprio sguardo altrove», e compie così la santità.
Il rinnovamento chassidico si fonda sulla dottrina qabbalistica della creazione dei mondi: quando «la corrente di fuoco della grazia creatrice si riversò nella sua pienezza» in vasi che ressero a una corrente di grazia che «si spezzò in una infinità di scintille, mentre le scorze le ricoprivano».
Entrava «nel mondo la mancanza», ma anche la responsabilità - di Israele, dell’uomo - di redimere le «scintille», frammenti di luce divina imprigionati dalle cose e dalle fantasie di pienezza «che noi possiamo chiamare il Male», ma che «desiderano essere liberate» dalle scorze. Le «scintille» vengono redente da chi ha capito che il mondo nasce da una contrazione del divino, dal limitarsi di Dio che lascia spazio al limitato, e così crea le condizioni dell’incontro fra l’io e il tu.
Un dialogo la cui portata è resa dal racconto di colui che apre la porta solo quando chi bussa non dice «sono io», ma «sono tu» - cioè Dio stesso, quell’«io sono» che si consegna al niente. Questa direzione cosmica dell’autolimitazione, che procede dall’eternità, spinge a cercare «mondi superiori» scendendo con lo sguardo dentro la realtà fino a vedere sotto il mondo ultimato quello della formazione, quello della creazione, quello dell’essenza, quello della separazione, «così fino all’Illimitato, Benedetto Egli sia».
La gratitudine per la santità comunitaria e semplice del chassidismo non è ingenua come in nessun maestro di quella filiera che in Italia arriva a Haim Baharier. Buber misura questi santi ciabattini che uniscono terra e Presenza mentre cuciono in santità una suola alla scarpa con Platone, il sufismo, il monachesimo zen.
Egli coglie nel cristianesimo una sfida ben più seria di quella evitata dalle teologie dello sbaciucchio interreligioso. Capisce che il cristianesimo non «ha» una storia: «è» una storia; con «una cesura, un centro assoluto in cui irrompe la redenzione, cosicché il terreno si spacca e proprio in quel punto ottiene la sua fermezza, di lì in avanti irremovibile». L’ebraismo, invece, deve «lottare per la fine»: e la pietà chassidica - la cui lotta pungola la fede delle Chiese - «vive proprio nell’interruzione, nell’essere esposta» nella profonda consapevolezza dell’impotenza d’ogni conoscenza, dell’incongruenza d’ogni verità posseduta, nella sacra insicurezza».
Questa interruzione è ethos perché se diventa «fondamento l’amore per colui che non sa», forma di tenerezza estrema e di responsabilità per la tenerezza che s’è lasciata catturare da tutto, che ama l’uomo malvagio perché «l’anima di quell’uomo è una parte di Dio. E tu dovresti avere pietà di Dio se una delle sue sante scintille è rimasta imprigionata nelle scorze».
Davanti alla tragedia del Seicento - ma forse anche a quella mai neppur citata del Novecento - Buber vede crescere la vita di Israele, e dunque del mondo, in uno spazio dove la «bontà» è la bontà di non dire tutto di sé. Infatti al discepolo che gli dice il suo amore, Moshè Löb non fa sconti: «Come puoi dire che mi ami? Conosci cosa mi affligge? E allora l’altro tacque, e due sedettero l’uno di fronte all’altro in silenzio, e non c’era niente da aggiungere». In quel silenzio fatto di niente, pianto e convivialità si incontrano, come quando rabbi Bunam chiede all’allievo in lacrime: «Perché piangi?»; «Sono una creatura nel mondo, creato con occhi e membra e non so per quale proposito sono stato creato e a cosa serva il mondo». «Piccolo pazzo - disse rabbi Bunam -, stasera cenerai con me».
Perché il «mondo della confusione» è il mondo dei morti viventi, dove le parole si autoascoltano e la mistica si veste di piccineria furibonda, dove non c’è pietà per Dio e i pazzi non piangono su di sé, scarseggiano i ciabattini dell’Eterno e nessuno apparecchia la tavola sulla quale il profumo del vino redima le scintille che la straripante umiltà della luce ha scritto nelle scorze della Storia.
Gli otto saggi di Martin Buber che compongono “Il messaggio del chassidismo” (a cura di Francesco Ferrari, Giuntina, pp. 204, € 15), scritti tra il 1921 e il 1943, costituiscono il complemento metodologico di quelle centinaia di storie e leggende chassidiche raccolte dal filosofo nell’arco della vita.
Martin Mordechai Buber (nato a Vienna nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965) è stato filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano. Fra le sue opere più importanti “L’io e il tu”, “Racconti chassidici. I dieci gradini della saggezza”, “Racconti di angeli e demoni".
RIFLESSIONE
MARTIN BUBER, UN RIFERIMENTO PER LA PACE
di GIORGIO GOMEL
Per la pace tra ebrei e arabi
[Da "Keshet" n. 3-4 del novembre-dicembre 2008 riprendiamo il seguente articolo dal titolo "Il pensiero di Martin Buber, ieri e oggi" (1) e il sottotitolo "Per la pace tra ebrei e arabi". Ringraziamo di cuore l’autore e il direttore della rivista per avercelo messo a disposizione]
Il Leitmotiv di Buber fin dal 1898, quando appena ventenne aderi’ all’Organizzazione Sionistica Mondiale, fu una costante attenzione alla "questione araba". Il fatto cioe’ che la Palestina, che gli ebrei ritenevano non soltanto il luogo di rifugio e di riscatto dalle persecuzioni ma anche la loro antica patria, era nello stesso tempo il luogo di residenza di una popolazione indigena araba che, soffrendo di condizioni di soggezione coloniale sotto l’impero ottomano prima e poi sotto il mandato britannico, aspirava anch’essa a una identita’ nazionale indipendente.
La singolarita’ di Buber va al di la’ della sensibilita’ etica rispetto alla questione araba, ma si rivela piuttosto nelle sue implicazioni politiche. Il suo messaggio si rivolgeva soprattutto alla leadership sionista, che tendeva a porre in secondo piano la questione araba perche’ intendeva innanzitutto risolvere il problema della liberta’ dell’immigrazione ebraica in Palestina e dell’edificazione di una struttura statuale, nelle condizioni di estrema fragilita’ dell’Yishuv (2). Lo stesso Ben Gurion implorava intorno al 1930 i compagni del movimento sionista di abbandonare il miope "sacro egoismo" e di capire che "per centinaia di anni gli arabi sono vissuti in Palestina, i loro padri e i padri dei loro padri... La Palestina e’ il loro Paese, dove essi intendono vivere in futuro... Questa consapevolezza deve essere fondamento della comprensione e coesistenza fra noi e gli arabi".
Ben Gurion stesso e altri leader sionisti erano consapevoli che l’autodeterminazione degli ebrei in Palestina sarebbe entrata in conflitto con le analoghe aspirazioni degli arabi; ma ritenevano che bisognava soprattutto affermare il diritto all’immigrazione ebraica da un’Europa antisemita: un giorno si sarebbe conseguita una maggioranza ebraica in Palestina e gli arabi l’avrebbero in qualche modo accettata.
Invece Buber insistette molto sul tentativo di comprendere il timore degli arabi di un dominio ebraico, di uno Stato che si formasse con una maggioranza ebraica, e che ne derivasse l’usurpazione della loro terra; per lui era essenziale cercare di conciliare i diritti e le volonta’ dei due popoli. Gli ebrei, proprio in quanto sono coloro che immigrando invadono parte di quella terra, dovrebbero ricercare la fiducia degli arabi, cercare di cogliere aspetti della loro umanita’, della loro cultura, con gesti di buona volonta’ volti alla conciliazione, al dialogo. L’obiettivo sionista di conseguire una maggioranza ebraica, secondo Buber, era sbagliato perche’ avrebbe esacerbato i timori da parte degli arabi e provocato da parte loro risentimenti, reazioni, violenze.
Il pensiero di Buber appare con chiarezza in una conferenza tenuta a Berlino nell’ottobre del 1929, due mesi dopo gli eccidi arabi di Hevron e di Zefat.
Egli dice: "La nazione che e’ divenuta nostra vicina in Palestina, e che condivide un destino comune con noi, ci impone una responsabilita’ maggiore.
Niente sarebbe piu’ contraddittorio per noi di costruire una vita organizzata nella nostra comunita’ e allo stesso tempo escludere gli altri abitanti del Paese, sebbene la loro vita dipenda, come la nostra, dal futuro dello stesso Paese... Ci siamo stabiliti in Palestina accanto agli arabi, non assieme ad essi, accanto. Quando due nazioni abitano nello stesso paese, se quell’’accanto’ non diventa ’insieme’, diventa necessariamente ’contro’.
Questo e’ destinato ad accadere qui; non ci sara’ ritorno a un semplice ’accanto’. Ma malgrado i tanti ostacoli che ci sono ancora, esiste peraltro una via per raggiungere un’intesa ’accanto’. Se non conseguiamo cio’, non realizzeremo mai lo scopo del Sionismo" (3).
Negli anni successivi Buber emigra in Palestina. Nel ’42, insieme con altri, aderisce alla Lega per il riavvicinamento arabo-ebraico. Il programma della Lega era quello di fondare in Palestina uno Stato binazionale arabo-ebraico in cui non ci sarebbero state maggioranze e minoranze, in cui i diritti civili e politici di ebrei e arabi sarebbero stati uguali e comunemente condivisi sotto il mandato britannico. Il programma binazionale della Lega, e in particolare dell’Ichud, uno dei suoi partiti costituenti animato da Buber e Magnes, replicava quello della Lega per la pace (Brith Shalom) fondata nel 1925 da Arthur Ruppin e Gershom Sholem, cui Buber aveva aderito dalla Germania. Nel 1948, con la Dichiarazione d’indipendenza, Buber accetto’ il fatto che nascesse in Palestina uno Stato ebraico, anche se la sua polemica politica in difesa della minoranza araba e della soluzione del problema dei rifugiati palestinesi lo accompagno’ fino alla morte, nel 1965.
Quali insegnamenti validi anche per oggi si possono trarre dal pensiero di Buber? Il primo punto e’ la filosofia del dialogo, idea fondamentale di Buber anche sul piano filosofico: il rapporto con l’altro, l’altro in quanto essere pari a noi. L’insegnamento che ne traggo e’ il rifiuto della disumanizzazione del nemico, dell’avversario, perche’ questo e’ destinato inevitabilmente ad allargare il solco di ostilita’ fra gli individui e le comunita’. Ne discende il dovere del rispetto dei diritti umani e della denuncia allorche’ i diritti umani sono violati.
Noi ebrei abbiamo mancato a questo dovere etico in alcune occasioni in questi anni di quotidiano, aspro conflitto fra Israele e i palestinesi.
Anche noi ebrei diasporici, legati da sentimenti di solidarieta’ e sostegno al popolo d’Israele, non siamo sempre stati disposti a una critica schietta nei confronti di Israele quando Israele ha sbagliato violando i diritti di un altro popolo. E’ una cecita’ questa, spesso in buona fede, dettata dal retaggio delle persecuzioni subite, dal rifiuto di credere che persino noi ebrei possiamo essere soggetti di ingiustizia, da una naturale ma non per questo giustificabile indifferenza alle sofferenze altrui.
Il secondo punto e’ quello dello Stato binazionale. Sarebbe irragionevole, irrealistico parlare oggi di uno Stato binazionale unitario in Palestina.
Forse tra cento anni sara’ possibile, in un mondo che si integri politicamente ed economicamente. Come forse sara’ possibile un’Europa politicamente integrata, e’ possibile immaginare che anche nel Medio Oriente ci possa essere un’unita’ politica nella regione. Ma non e’ proponibile oggi; ne conseguirebbe un conflitto intestino fra le due comunita’, ebraica e araba, un qualcosa di simile ai Balcani... Il principio ispiratore di una soluzione negoziata del conflitto e’ invece quello della separazione, o meglio del divorzio, come disse Amos Oz molti anni fa: se non si vuole che la guerra prosegua, che ci sia un annientamento reciproco tra i due popoli, l’unica soluzione e’ quella della spartizione della Palestina storica tra i due popoli che ne contendono il possesso in virtu’ di diritti di pari dignita’.
I benefici di questo divorzio (pur con tutte le difficolta’ che si frappongono alla trattativa, e le difficolta’ che ci sono di intendersi su come dividere quella minuscola proprieta’, forse magari conservando qualcosa in condominio) eccedono largamente i costi.
E’ chiaro che per Israele il prezzo da pagare per questo divorzio sara’ molto elevato e doloroso, in termini sia materiali che politico-psicologici.
Cio’ spiega in parte la delusione per il fallimento del negoziato ben quindici anni dopo gli accordi di Oslo. I costi materiali derivano da una oggettiva disparita’ sul campo: mentre il ritiro di Israele dai territori occupati costituisce per i palestinesi un vantaggio materiale immediato, per Israele i vantaggi si misurano soltanto nel lungo termine, quando si coglieranno i frutti del consolidarsi della pace. Di qui l’insistenza giustificata di Israele soprattutto sulle misure di sicurezza, sull’esigenza di un periodo anche lungo di transizione per garantire che tali vantaggi si realizzino.
Ma anche i costi politici e psicologici saranno rilevanti per il conflitto che opporra’ una parte del Paese all’altra: i coloni e i loro sostenitori da una parte, l’opinione pubblica moderata o pacifista dall’altra. Non sappiamo quali saranno le forme e le "armi" di questo conflitto, se saranno legali o extra-legali, violente o non violente, ma esso provochera’ un solco molto lacerante nel Paese, come alcuni segni dell’estremismo di frange virulente dei coloni lasciano presagire.
D’altra parte, il costo che il ritiro dai Territori e lo sgombero delle colonie imporra’ a Israele sara’ minore del costo dello status quo, del mantenere l’occupazione, in termini di risorse, di vittime, di degrado della societa’ israeliana.
Note
1. Martin Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba, a cura di Paul Mendes-Flohr, edizione italiana a cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella, La Giuntina, Firenze 2008.
2. In ebraico "Insediamento". Termine usato per descrivere la comunita’ ebraica in Palestina prima prima della fondazione dello Stato.
3. "Patria nazionale ebraica e politica nazionale in Palestina".
Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/
Numero 702 del 16 gennaio 2009
E Balthasar «dialoga» con Buber
Il pensatore svizzero dedicò un saggio allo studioso del chassidismo, anticipando l’incontro tra giudaismo e cristianesimo
di Jacopo Guerriero (Avvenire, 14.10.2006)
Era interessato al principio dialogico - l’io prende coscienza di se stesso davanti al Tu di Dio -, che porrà a fondamento della sua Teodrammatica. Di Martin Buber, forse il maggiore dei dialogici insieme a Ferdinand Ebner, aveva letto Due tipi di fede, l’opera più nota, come «un dialogo profondo e nobile, anche un dialogo duro». Ma Hans Urs von Balthasar, introducendo il proprio volume dedicato al grande esponente dell’ebraismo europeo, teneva a specificare, con l’abituale linguaggio suggestivo, la volontà di prenderne in considerazione il lavoro complessivo e non solo il testo più famoso.
Esce ora in edizione italiana Dialogo solitario. Martin Buber e il cristianesimo, dopo una dilazione fin troppo lunga: l’originale è del 1958. Balthasar pensava questa monografia come un confronto a tutto campo con le diverse anime dell’autore di Due tipi di fede, filosofo del pensiero dialogico, studioso di chassidismo teso all’individuazione di un’«identità ebraica», appassionato uomo di fede.
L’approccio balthasariano al pensiero di Buber muove dal suo approdo, da quel «tacere senza più interlocuzione», che giustifica il titolo dell’opera di Balthasar e che secondo il pensatore viennese doveva ultimamente definire i rapporti tra fede ebraica e fede cristiana. Il dialogo infatti non può risultare da un depotenziamento reciproco, ma la relazione è invece il frutto del recupero più rigoroso dell’identità dei soggetti in campo.
Ogni idea di sincretismo veniva positivamente respinta da Buber, che attraverso il suo metodo intravedeva la possibilità di andare dritti al cuore delle proprie radici per poter riconoscere una reale e diversa passione credente. Von Balthasar risponde concorde che «dialogare ha un valore là dove il dialogo è difficile e non può essere sostenuto altrimenti che nella lotta. Ciò nonostante esiste nel dialogo la situazione dell’ultimatum - quasi di un monologo, verrebbe da dire - che può portare molto vicini alla rottura. Il modo in cui ambedue i grandi dialoghisti, Buber e Jaspers, sogliono parlare con la Chiesa, illustra questo fatto».
Silvano Zucal, nella lunga introduzione al volume, scrive che «c’è in Buber, per Balthasar, il latente rifiuto al diritto di reciprocità, nel momento in cui ricostruisce la genesi ebraica del Cristo e del cristianesimo compatibili con quella genesi. Occorre invece, per uscire da un dialogo altrimenti condannato in partenza alla solitudine, ammettere due premesse: se è vero che "solo l’ebreo, e in ciò Buber ha ragione - scriveva Balthasar -, può veramente comprendere dall’interno certi aspetti del Cristo", e quindi alla Chiesa non può mancare Israele, egualmente "al popolo di Israele manca amaramente la Chiesa"».
Il teologo svizzero non dimentica di riconoscere con decisione gli errori compiuti dalla cristianità nel corso di millenni, non ultimi gli «abissali fraintendimenti e i cortocircuiti teologici». Anche per questo preferisce rifarsi a quello che, sulla scia di Karl Barth, considera il testo fondante di ogni dialogo ebraico-cristiano: la Lettera ai Romani (con particolare riferimento ai capitoli 9-11) nei quali il rapporto Israele-Chiesa non è inteso in termini di esclusione-superamento, bensì di concordia dei Testamenti per la redenzione del mondo, «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili». Il teologo svizzero è esplicito nel dire che «non venne vista l’immensa luce escatologica che l’XI capitolo della Lettera ai Romani proietta su Israele; riaccesasi appena una volta con Origene, si è subito rioscurata».
D’altra parte, a voler storicizzare, quando von Balthasar scriveva questo volume, nel 1957, dovevano ancora venire il Vaticano II e la dichiarazione Nostra aetate. Soprattutto non si profilava neppure all’orizzonte la figura di Giovanni Paolo II, il quale con la sua visita alla sinagoga di Roma e al Muro del pianto di Gerusalemme operò una svolta epocale.
A von Balthasar, a maggior ragione, va riconosciuto il merito di aver colto l’apertura di Buber e aver così avviato un dialogo tanto più autentico quanto fiero e centrale, con uno degli autori che solo in tempi più vicini a noi, nel contesto più complessivo di un rinato interesse per il mondo ebraico, ha conosciuto una effettiva frequentazione.
Hans Urs von Balthasar
Dialogo solitario
Martin Buber e il cristianesimo
Jaca Book. Pagine 141. Euro14,00
Martin Buber tra veggenti e santi ebrei
Ristampato dopo un lungo silenzio «Gog e Magog» in cui lo scrittore, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si ispira per la narrazione chassidica a due comunità del ’700, Lublino e Pzysha: gli uni si affidavano ai miracoli, altri al rinnovamento interiore
E l’autore sente l’avvicinarsi di una «crisi tellurica»
DI FULVIO PANZERI (Avvenire, 30.01.2010)
Finalmente ritorna in libreria uno dei grandi libri del Novecento, in Italia non ancora conosciuto abbastanza per l’importanza che riveste nel mettere a frutto due potenzialità quali l’estrema lucidità del pensiero e l’accurato voler essere nella realtà attraverso la tradizione.
Parliamo di Gog e Magog, il grande romanzo epico che ha come sfondo la Polonia di fine settecento e le guerre napoleoniche di espansione e porta in primo piano il mondo chassidico attraverso una serie di personaggi e di storie, ognuna legata all’altra, in quella che l’autore stesso, definisce come un metodo strutturale differente: «Qui, non si trattava, come si fa normalmente con del materiale di carattere leggendario, di mettere un aneddoto vicino all’altro; al contrario quello che bisognava mettere in risalto era proprio il filo, esteriore e interiore, che univa queste differenti tradizioni».
E qui Buber fa riferimento alle due differenti convinzioni tra le comunità chassidiche, quella di Lublino e quella di Pzysha, che diventano l’anima e rappresentano l’epicità del racconto. Ognuna è caratterizzata da un grande Maestro, il «Veggente di Lublino » e il «Santo Ebreo» di Pzysha.
Le visioni teologiche sono diverse: il primo sostiene una tradizione mistica che ammette il ricorso alla magia per giungere al «miracolo »; il secondo crede fermamente nella necessità di una trasformazione interiore.
Una contrapposizione di questioni teologiche che ha un suo fondamento e riscontro storico, come riferisce lo stesso Buber, quando dice che «alcuni zaddiqim hanno tentato, per mezzo di atti teurgici (la cosiddetta Qabbalà pratica) di fare di Napoleone il ’Gog del Paese di magog’ di cui è scritto in Ezechiele, e alle cui guerre, come dicono alcuni testi escatologici, deve seguire la venuta del Messia; ed è anche vero che altri zaddiqim hanno opposto a questi tentativi l’ammonimento che non per mezzo di atti esteriori ma solo attraverso il completo ’ritorno’ dell’uomo si possa preparare il terreno per la Redenzione».
Sono questioni assai complesse, soprattutto da riportare nel contesto epico di una narrazione così caratterizzata dalla tradizione chassidica come quella che interessa a Buber, tanto da rendere complessa la scrittura del testo, a cui lo scrittore aveva iniziato a lavorare dopo la fine della prima guerra mondiale, ma che non ebbe né una prima, né una seconda stesura.
Buber non abbandona questa idea: aspetta, sa che è necessario maturarla piano piano dentro di sé: «Tutta la mia esperienza di lavoro mi ha insegnato che quei libri che uno ha l’incarico di scrivere maturano lentamente e soprattutto quando non ci si occupa di loro».
All’autore, poi non resta altro che «trascriverli». Arrivò così anche il momento tragico che mise alla strette il suo autore: la seconda guerra mondiale, «quell’atmosfera di crisi tellurica, il tremendo ponderarsi delle forze e il segno di un falso messianesimo d’ambo le parti».
Così questo grande libro, pubblicato nel 1949, che si nutre della grande tradizione leggendaria chassidica, trae la sua forza in questo susseguirsi naturale di storie emblematiche sui rabbini, che mettono a fuoco caratteri e grandi questioni teologiche. Si tratta di quello che Buber definisce «il sacro aneddoto», ovvero «la concatenazione di un avvenimento con una enunciazione» e porta al suo culmine, attraverso lo sviluppo di un’autentica epicità, la necessità del suo autore di ricostruire, anche in modo critico, e di portare ad un diverso grado di conoscenza, il senso e la natura di questo movimento religioso di origine popolare, sorto nelle comunità ebraiche e galiziane.
Del resto Buber precisa: «Certo io non sono del mondo dei chassidim con tutta la mia esistenza - in simile condizione si sono trovati coloro che hanno voluto rendere così attuale per gli uomini qualche cosa di passato, da fargli produrre nuovo effetto - ma il mio fondamento è lì, e i miei impulsi sono imparentati ai loro».
È un libro che lancia sempre, ad ogni diversa lettura, una serie di allarmi e pone l’attenzione sulla necessità del dialogo e soprattutto sul rifiuto dei fanatismi. E si pone all’insegna della speranza, quella che auspica Buber, dichiarando di essere senza «dottrina», ritenendo che questa comunque sia del tutto superflua.
Le sue parole risuonano, dopo più di sessant’anni, ancora oggi attualissime, là dove indica la necessità forte «di riconoscere la realtà eterna, per poter, con la sua forza, tener testa alla realtà presente». Da qui la convinzione che «in questa notte oscura non si tratta di mostrare una strada; si tratta di aiutare a perseverare con anima pronta finché sorgerà l’aurora e una strada si mostrerà ai nostri occhi là dove nessuno la supponeva».
Martin Buber
GOG E MAGOG
Guanda. Pagine 300. Euro 18,50
Esce in Italia il saggio di Emil Fackenheim che indaga come ricucire le ferite provocate nella storia dai totalitarismi
Riparare il mondo dopo la Shoah
Non serve a nulla demonizzare il pensiero anti-umano: quel che occorre è salvarlo, purificarlo dalle sue patologie in un vasto programma educativo
di PAOLA RICCI SINDONI (Avvenire, 13.02.2010)*.
Strani destini regolano, a volte, la vita dei libri, messaggeri potenti e silenziosi dei loro creatori: alcuni messi rapidamente nel circolo dell’industria editoriale che ne segna la fama, altri, meno fortunati e trascurati, anche se grandi, rischiano di cadere nell’oblio. È questo il caso di Emil Fackenheim (1916-2003), filosofo ebreo-tedesco di altissimo livello, rifugiatosi - dopo la persecuzione e l’internamento - in Canada, dove visse per quarant’anni prima di trasferirsi nel 1983 a Gerusalemme. Solo nel 1977 è apparso in Italia un piccolo e denso saggio, La presenza di Dio nella storia, e poi nulla, sino ad oggi quando esce nelle librerie, per i tipi della Medusa di Milano, il suo capolavoro del 1982: Tiqqun - Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah.
Un libro splendido, ricco di suggestioni e di sane provocazioni alla filosofia e alla teologia, opera che non si può che avvicinare ad altri classici del ’900, come La stella della redenzione di Franz Rosenzweig o Totalità e infinito di Emmanuel Lévinas, come giustamente nota Massimo Giuliani nella sua intensa prefazione. Né si pensi che queste riflessioni che intrecciano filosofia, storia, politica e teologia, appartengano solo all’ebraismo, siano cioè circoscritte ai superstiti e alla loro capacità di sopravvivenza, dal momento che sono legate alla grande questione di come curare le ferite della ragione, del pensiero, della cultura umanistica e della civiltà occidentale, che non solo non hanno previsto Auschwitz, ma che non possono passare indenni dentro quell’immane disastro.
È lo stesso Fackenheim a chiamare in causa, in questo serrato confronto con alcuni protagonisti del pensiero filosofico, da Kant a Hegel, da Spinoza a Rosenzweig e a Heidegger, la necessità di una riprova storica non tanto con la memoria ferita dei sopravvissuti, quanto con la responsabilità dei loro carnefici, quei tedeschi, in prevalenza cristiani, che hanno collaborato consapevolmente alla costruzione dell’orribile macchina burocratica e tecnologica dell’annientamento degli ebrei.
L’urgenza di ’riparare’ questa enorme frattura dentro il mondo consiste perciò non nel demonizzare quel pensiero cercando altre alternative, ma nel doverlo salvare, purificare dalle sue stesse patologie, coinvolgendo in un vasto programma educativo e culturale cristiani, ebrei e tedeschi delle nuove generazioni, insieme volti a neutralizzare quelle spinte negative, culminate ad Auschwitz, luogo simbolico del nichilismo fattosi esperienza storica antiumana per milioni di persone e per lunghi anni. Per evitare il ripetersi di simili tragedie, che oggi potrebbero ancora colpire Israele nella sua stessa necessità di sopravvivenza come Stato, bisogna in primo luogo stare dentro la storia, sfuggendo ad ogni tentazione teoretica di leggerla con gli occhi impoveriti del pensiero astratto.
Da qui la tensione etica che promana da questo libro, in cui finalmente Fackenheim riesce a trovare una sintesi coraggiosa e sofferta fra le due anime che lo abitavano, i due ’cappelli’, che di volta in volta era chiamato ad indossare (come icasticamente dirà nella sua Autobiografia, fra poco in uscita per Giuntina): da una parte l’esigenza di redimere l’’età d’oro’ della filosofia classica tedesca che da Kant sino a Hegel ha disegnato il volto della cultura umanistica occidentale, ma che è apparsa impotente a fornire antidoti contro l’inumano che ha avvolto i lager, dall’altro la teologia ebraica, custodita negli anni durante gli studi a Berlino per il rabbinato e che sembrava rappresentare l’unica forma di custodia di sé, oltre gli orrori della storia.
Questi due ’cappelli’ non potevano che rinvenire un momento di felice sintesi in questa opera, dove la forma simbolico-cabalista del tikkun (secondo cui al momento della creazione scintille divine si sono sperdute nel mondo, fuoriuscite dalla rottura dei vasi che le contenevano) riesce a disegnare la forza d’urto del bene che va ricostruito dentro le oscurità del pensiero e della storia.
Quando nel 1967, durante la Guerra dei Sei giorni, gli israeliani hanno tremato ancora per la loro sopravvivenza, si è tragicamente compreso come ancora ’tutto’ poteva accadere di nuovo, che il male sconfitto covava dentro la storia, che i morti nei lager rischiavano davvero di essere morti invano, che il nazismo poteva guadagnare la sua vittoria postuma.
Nasce da questo nuovo sussulto del male storico l’esigenza a moltiplicare le energie morali per una nuova opera di resistenza verso tutte le forme di disumanizzazione dell’umano, per costruire un fronte comune dove ebrei e cristiani, soprattutto, lavorino insieme per aggiustare il mondo e renderlo più abitabile per tutti.
Molta letteratura ebraica sulla Shoah sembra ancora incapace di individuare forme di identità comune, oscillando fra la soluzione ’confessionale’ della comunità religiosa, unita nell’identità del Patto che ancora vive fra Israele e il suo Signore, e la soluzione ’politica’ e laica che oggi sostiene lo Stato e le sue istituzioni. Per Fackenheim però né supremazia né contraddizione fra questi due poli, perché è la storia, ancora una volta, a dettare il suo verdetto.
Ricorda al riguardo un drammatico episodio, avvenuto il giorno dello scoppio della Guerra dei Sei giorni. Era la festa di Yom Kippur e moltissimi si trovavano in sinagoga a pregare, quando i giovani, richiamati immediatamente alle armi, correvano per raggiungere le loro postazioni. Fu allora che alcuni anziani a Gerusalemme interruppero le loro preghiere, corsero fuori e strappando i loro libri sacri, donarono fogli sparsi ai soldati in partenza. Da parte loro - nota Fackenheim - i militari non esitarono ad accettare il dono, sia che fossero religiosi o laici: «A Yom Kippur alcuni combatterono perché altri potessero pregare, e alcuni pregarono perché altri potessero combattere». Un modo intenso e tragico per ridire la forza della volontà di sopravvivere insieme e di restituire al mondo una lezione di resistenza al male, oltre le divisioni, oltre le ricadute.
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Emil Fackenheim
TIQQUN
Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah
Medusa. Pagine 300. Euro 24,50.
A due a due per annunciare la luce
di Ermes Ronchi (Avvenire, 12.07.2012)
XV Domenica Tempo ordinario-Anno B
Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Perché, se è solo, l’uomo è portato a dubitare perfino di se stesso. La prima predicazione è senza parole, è già in questo accompagnarsi, l’uno al passo dell’altro. Partono forti di una parola e di un amico: ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza, un amico per appoggiarvi la solitudine.
E proclamarono che la gente si convertisse, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Il loro messaggio è conversione: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Le loro mani sui malati annunciano: Dio è già qui, è vicino a te con amore, e guarisce la vita, girati verso di lui. Quello dei dodici è un viaggio dentro l’uomo più autentico, liberato da tutto il superfluo: non portate né pane né sacca né denaro, perché la nostra vita non dipende dai nostri beni, voi vivrete di fiducia: fiducia in Dio, che non farà mancare nulla, e fiducia negli uomini, che apriranno le loro case. «Bagaglio leggero impone il viaggio e cuore fiducioso. Domani non so se qualcuno aprirà la porta ma confido nel tesoro d’amore disseminato per strade e città, mani e sorrisi che aprono case e ristorano cuori...» (M. Marcolini).
I dodici, senza parole, con il loro stile di vita, contestano il mondo dell’accumulo, dell’apparire, del denaro. Proclamano: «ci sono due mondi noi siamo dell’altro» (Cristina Campo). In questo mondo altro, la forza non risiede nei grandi mezzi materiali, ma nel fuoco interiore, nel suo contagio misterioso e lucente. La povertà dei discepoli fa risaltare la potenza creativa dell’amore. Invece le cose, il denaro, i mezzi, lungo i secoli hanno spento la creatività della Chiesa. L’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande. Sono partiti a due a due, con niente. Ma i dodici avevano un fuoco. Il fuoco si propaga col fuoco.
Entrati in una casa lì rimanete. Ecco il punto di approdo: la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera, abbracciata dal cerchio degli affetti che fanno vivere.
E il Vangelo deve essere significativo lì, nella casa, deve parlare e guarire nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute... Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti solo un po’ di polvere scossa dai sandali. E non deprimetevi per una sconfitta, non abbattetevi per un rifiuto: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada germoglia l’infinito. (Letture: Amos 7,12-15; Salmo 84; Efesini 1,13-14; Marco 6,7-13).