Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 03.03.2009)
Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l’ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell’Università di Coventry. Ovvio che risposta non l’ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent’anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l’ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l’autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po’ più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L’autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all’incirca all’età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto - come da sempre illustrano i libri di scuola - chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell’attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui.
Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l’immagine dell’antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è - quasi - mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso - per sempre - le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero - non i singoli ma le intere popolazioni - il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d’un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell’embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l’incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall’una all’altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l’autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant’Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l’uomo soltanto è l’immagine di Dio». Quello musulmano - si sa - fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele». Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.
IN NOME DELL’EMBRIONE, UNA VECCHIA E DIABOLICA ALLEANZA.
Una nota di Federico La Sala *
Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: “[...] fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme”(Françoise D’Eaubonne).
Dopo e nonostante questo - l’acquisizione che i soggetti sono due e che tutto avrebbe dovuto essere ripensato, si continua come prima e peggio di prima.
Anzi, oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: “l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo” spinge lo Stato (con la Chiesa Cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare “la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire, non senza contraddizioni [...].
L’estrazione chirurgica degli ovociti dal corpo femminile evoca la fuoriuscita del seme dal corpo maschile producendo una mimesi fra i due sessi che irrompe sulla scena pubblica -e nella coscienza privata- ancora una volta quando arriva in tribunale: è il caso di una donna che contende al marito, da cui si sta separando, gli embrioni in attesa di essere trasferiti in utero. Ma se la separazione e la conservazione di ovociti e spermatozoi permette l’esistenza separata dei "mezzi di riproduzione" e la loro conduzione sotto l’autorità dello stato, seppure con il consenso degli interessati, a noi donne e uomini spetta l’assunzione di una nuova, perché sconosciuta, responsabilità.
Abbiamo collettivamente riconosciuto, e resa possibile laddove faticava a emergere, la responsabilità e la libertà femminile sul nostro corpo anche quando racchiude la possibilità di un’altra vita, la responsabilità verso altri e altre (e non solo figli); come essere responsabili di un ovocita sia pure estratto a fini riproduttivi, di un embrione concepito altrove?
Forse prendendo la parola, così che argomenti che sembrano interessare solo esperti da un lato e coppie infertili dall’altro entrino nella coscienza collettiva e assumano quel senso che ora fatichiamo a trovare: se le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della "libertà" di generare" (Maddalena Gasparini, Vice-coordinatore del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia, 2002: www.ecn.org; sul tema, inoltre, si cfr. anche Dietro al referendum, una riflessione sulla libertà delle donne: www.universitadelledonne.it).
E, andando oltre, finalmente prendere atto - contro tutte le tentazioni biologistiche e nazistoidi - che due esseri umani occorrono per creare un altro essere umano (Feuerbach) - non solo sul piano fisico (“in terra”), ma anche e soprattutto sul piano spirituale (“in cielo”), e - cosa ancora più importante e decisiva - che il famoso soggetto, cioè ogni essere umano, è due in uno - figlio e figlia della Relazione di Due IO.... e che, proprio per questo, è capace - a sua volta (uscito dallo stato di minorità e giunto, al di là dell’Io penso, all’Io sono...) - di mettersi sulla strada del dialogo con altre o più persone e dare vita alla stessa (e tuttavia sempre nuova) Relazione, generatrice di nuove parole, di nuove azioni, e di nuovi esseri umani.....
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/filosofia Domenica, 13 febbraio 2005.
IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI !!!
di Federico La Sala
Al di là del giudizio specifico sulle opere di Dan Brown, c’è da dire che i suoi due lavori hanno il grande merito di sollecitare a riflettere, a livello planetario (dato il successo), sul problema dei problemi, quello antropologico (il più importante, rispetto a quello etico, metafisico, e religioso!!!): l’equilibrazione del rapporto uomo-donna!!! I due romanzi thrillers non a caso hanno una sola parola in comune, ed è della lingua degli americani Hopi: “koyanisquatsi - la vita priva di equilibrio” (Il Codice da Vinci, p. 151; Angeli e demoni, p. 136). Una parola ‘magica’ (su cui aveva già richiamato l’attenzione, nel 1984, Godfrey Reggio, con il suo importante film e la sua accorata denuncia per la vita stessa sul e del pianeta - con musiche di Phillip Glass - intitolato proprio “Koyaanisqatsi: life out of Balance”) come quella, passando dall’antropologia e dalla letteratura alla politica e a percorsi storici inediti “per la verità e la riconciliazione” (la Commissione istituita nel Sudafrica nel 1995, istituita da Nelson Mandela - con il motto “guariamo la nostra terra”), di “ubuntu”, una parola-concetto della antichissima lingua africana dal significato inequivocabile e di portata ‘biblica’: “le persone diventano persone attraverso altre persone”.
Per uscire dalla barbarie non ci sono altre strade: bisogna spezzare il cerchio vizioso della cecità e della follia e aprire gli occhi all’altro, all’altra, e a noi stessi e a noi stesse. E’ attraverso la mediazione delle cause interne che quelle esterne producono il loro effetto - questo ci hanno sempre detto i grandi saggi, e anche Freud. E, alla fine della sua vita (1938), lo dice in tutta chiarezza: Gesù è stato interpretato edipicamente - in modo tragico! Lo sapeva già anche Dante, che aveva ritrovato la strada alla, della, e nella Comoedìa!. E, oggi, lo sappiamo - tutti e tutte: Gesù non è Edipo!!! E la gerarchia della chiesa cattolico-romana - dopo la morte dell’ultimo vecchio papa, Giovanni Paolo II - non ha più storia. Il Libro è stato chiuso: non è più né madre né maestra, sulla via della vita e della verità!!! Dopo secoli di proposta di un modello di ‘sacra’ famiglia, con un semi-riconoscimento della paternità di Giuseppe, ora ha ‘sponsorizzato’ un modello di ‘sacra’ famiglia forte, biologicamente controllato dallo Stato. Non sapendo più nulla né della “camera nuziale” né della “camera reale”, si vorrebbero pure imitare i faraoni e ricostruire le piramidi, ma non sanno farlo ... e non sanno più risolvere nemmeno l’enigma della Sfinge di Tebe. I faraoni del vecchio Egitto, come del resto lo stesso Edipo, ne sapevano ben di più !!! (18.05.2006)
Federico La Sala
Sul tema, in modo organico e complessivo, si cfr.:
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di Fachinelli.
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’EDIPO.
IL GRANDE BALZO DI DANTE ALIGHIERI, NEL NOSTRO PRESENTE: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE.!!! AL DI LA’ DI PLATONE E DI ARISTOTELE, E DI HEGEL, SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO MA, IMPLICITAMENTE, ANCHE SUL PIANO ANTROPOLOGICO.
MONARCHIA, III. 11:
Gli avversari portano poi un argomento di ragione.
Utilizzando infatti un principio del decimo libro della Metafisica, essi argomentano così:
tutti gli esseri appartenenti ad uno stesso genere si riconducono ad uno, che è misura di tutti gli altri inclusi in quel genere;
ora tutti gli uomini appartengono allo stesso genere;
quindi vanno ricondotti ad uno come misura di tutti quanti.
Se questa conclusione è vera, il Sommo Pontefice e l’Imperatore, essendo uomini, vanno ricondotti ad un solo uomo. Ma poiché non è possibile ricondurre il Papa ad altri, resta che l’Imperatore, insieme a tutti gli altri uomini, deve essere ricondotto al Papa come misura e regola; e così anche con questo ragionamento arrivano alla conclusione da essi voluta.
Per confutare tale ragionamento, ammetto come vera la loro affermazione che «tutti gli esseri appartenenti allo stesso genere debbono ricondursi ad un essere di quel genere, che, nell’ambito di questo, costituisce la misura»; come pure è vera l’affermazione che tutti gli uomini appartengono ad un medesimo genere; ed è vera altresì la conclusione ricavata da tale premessa, che cioè tutti gli uomini vanno ricondotti ad un’unica misura nell’ambito del loro genere. Ma quando da questa conclusione essi inferiscono la conseguenza applicativa nei confronti del Papa e dell’Imperatore, incorrono nella fallacia dell’accidente.
Per afferrare bene questo bisogna tener presente che una cosa è essere uomo e un’altra essere Papa, come d’altra parte una cosa è essere uomo e un’altra essere Imperatore, così come una cosa è essere uomo e un’altra essere padre e signore.
L’uomo infatti è quello che è per la sua forma sostanziale, in forza della quale rientra in una specie e in un genere, ed è posto nella categoria della sostanza; il padre invece è tale per una forma accidentale che è la relazione, per la quale rientra in una specie e in un genere particolari, ed è posto nella categoria dell’«ad aliquid», cioè della «relazione». Se così non fosse, tutto si ricondurrebbe - ma ciò è falso - alla categoria della sostanza, dal momento che nessuna forma accidentale può sussistere per se stessa senza il supporto di una sostanza sussistente.
Pertanto Papa e Imperatore essendo ciò che sono in forza di certe relazioni (quelle appunto dell’autorità papale e dell’autorità imperiale, la prima delle quali rientra nell’ambito della paternità e l’altra nell’ambito del dominio), è chiaro che Papa e Imperatore, in quanto tali, devono essere posti nella categoria della relazione e quindi essere ricondotti ad un elemento rientrante in tale categoria. Quindi affermo che altra è la misura cui debbono essere ricondotti in quanto uomini, ed altra in quanto Papa e Imperatore.
Infatti, in quanto uomini, vanno ricondotti all’uomo perfetto (che è misura di tutti gli altri e, per così dire, loro modello ideale, chiunque esso sia), come a quello che è sommamente uno nel suo genere, come si può rilevare dai capitoli finali dell’Etica a Nicomaco. Invece, in quanto sono termini di relazione, allora, com’è evidente, o vanno ricondotti l’uno all’altro (se l’uno è subalterno all’altro o se sono accomunati nella specie per la natura della relazione), oppure ad un terzo elemento come alla loro comune unità.
Ora, non si può affermare che uno sia subalterno all’altro, poiché, in tale caso, l’uno si predicherebbe dell’altro, il che è falso (noi infatti non diciamo che l’Imperatore è Papa e nemmeno viceversa); e neppure si può affermare che siano accomunati nella specie, in quanto l’essenza formale di Papa è diversa da quella di Imperatore in quanto tale. Quindi si riconducono a qualcos’altro, in cui devono trovare la loro unità.
A questo proposito bisogna tener presente che i soggetti delle relazioni stanno tra di loro come le rispettive relazioni. Ora quelle particolari relazioni d’autorità che sono il Papato e l’Impero vanno ricondotte ad una [suprema] relazione d’autorità, da cui quelle discendono con le loro determinazioni particolari; quindi i soggetti di quelle relazioni, cioè il Papa e l’Imperatore, andranno anch’essi ricondotti a qualche soggetto unitario che realizzi la relazione d’autorità nella sua essenza formale, al di fuori di ogni determinazione particolare.
E questo soggetto unitario sarà o Dio stesso, in cui tutte le relazioni particolari trovano la loro unificazione assoluta, oppure una qualche sostanza inferiore a Dio, nella quale la relazione d’autorità, che proviene da quella relazione assoluta, si particolarizza attraverso una differenziazione nel grado d’autorità. E così diventa chiaro che Papa e Imperatore, in quanto uomini, vanno ricondotti ad un elemento comune, mentre, in quanto formalmente Papa e Imperatore, ad un elemento comune diverso. Attraverso questa distinzione si risponde all’argomento di ragione [portato dagli avversari].(traduzione di Pio Gaja)
FLS
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
8 marzo, verso la prima passeggiata spaziale di sole donne
Protagoniste due astronaute e una donna controllore di volo
di Redazione ANSA *
La giornata della donna quest’anno ha un sapore particolare sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) perché fervono i preparativi per la prima passeggiata spaziale della storia completamente al femminile: programmata per venerdì 29 marzo, avrà come protagoniste due astronaute della Nasa, Anne McClain e Christina Koch, che usciranno dalla Stazione spaziale per circa sette ore supportate da Terra da Kristen Facciol, controllore di volo donna dell’agenzia spaziale canadese Csa, pronta a seguire le operazioni dal Johnson Space Center della Nasa a Houston. Lo ha rivelato lei stessa con un tweet.
"Ho appena scoperto che sarò alla console per dare supporto alla prima passeggiata spaziale tutta al femminile con @AstroAnnimal e @Astro_Christina e non posso trattenere la mia eccitazione!!!!", ha scritto ai suoi follower.
La prima attività extraveicolare (Eva) di sole donne cadrà a quasi 35 anni di distanza dalla prima passeggiata spaziale al femminile: fu compiuta il 25 luglio 1984 dalla russa Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale sovietica Salyut 7 per tre ore e 35 minuti. Da allora diverse donne hanno camminato nello spazio, compresa l’astronauta dei record Peggy Wilson, che nella sua lunga carriera ha condotto ben dieci Eva.
Entrambe le sue ’eredi’, McClain e Koch, arrivano dalla classe di candidati astronauti selezionata dalla Nasa nel 2013 e composta per metà proprio da donne. McClain è già a bordo della Iss da dicembre per la spedizione 58, mentre la collega Koch arriverà il 14 marzo.
PENSARE L’«EDIPO COMPLETO» (S. FREUD). UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe. «In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad».
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. -Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale.
Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Federico La Sala
Donne e potere ...
L’intervista alla storica Mary Beard
“Il primo #MeToo? Lo twittò Penelope”
Nel nuovo saggio, “ Donne e Potere”, la studiosa di Cambridge ripercorre le origini della misoginia Partendo dalla moglie di Ulisse, zittita dal figlio Telemaco in un passaggio sottovalutato dell’Odissea
di Anna Lombardi (la Repubblica, 13.03.2018)
Il movimento #MeToo ha un precedente classico: il mito di Filomele come lo narra Ovidio. Violentata da Tereo, re di Tracia e marito di sua sorella Procne, subisce il taglio della lingua per non svelare la violenza. Ma denuncia ugualmente: tessendo lo stupro sulla tela. Non è simile a quel che fanno le donne in questo momento? Messe a tacere per secoli ora trovano voce su Twitter: la rete è la loro tela». Mary Beard, 63 anni, è la classicista di Cambridge che con bestseller come SPQR ha reso accessibile a tutti, senza mai banalizzarla, la storia dell’antica Roma. La scorsa estate finì nella bufera per aver difeso un cartoon della Bbc che raffigurava un centurione nero, ricordando a chi protestava che “sì, quella romana era una società mista”.
Ora torna a far discutere col suo ultimo saggio, Donne e potere (Mondadori), basato su due conferenze tenute nel 2014 e 2017, dove traccia una storia della misoginia: cercando di spiegare quanto siano radicati nella cultura occidentale i meccanismi che impongono alle donne il silenzio - e tendono a escluderle dalle posizioni di potere. -Partendo da un episodio dell’Odissea: Penelope zittita dal figlio Telemaco per aver chiesto al cantore Femio qualcosa di meno triste del difficile ritorno da Troia degli eroi achei: «La parola spetta agli uomini».
Perché proprio quell’episodio è fondamentale?
«È il primo esempio letterario di un uomo che mette a tacere una donna: dimostra che in questo ambito la cultura occidentale ha migliaia di anni di pratica. L’ho scelto perché, solo capendo quanto sia antico il privilegio dato alla voce maschile, possiamo comprendere il presente: e lavorare sul futuro».
Per comprendere lo scandalo Weinstein e quel che ha comportato dobbiamo dunque andare indietro di 3000 anni?
«Certi comportamenti non sono innati o naturali: sono culturali, tramandati nei secoli. Nell’esporli non ho pensato certo di condannare la cultura classica che pure offre una visione delle donne che deploriamo. Ma per contrastarli dobbiamo capire da dove vengono».
Nel libro lei suggerisce che le donne hanno sempre tentato di rompere il silenzio. Il #MeToo ha dunque radici storiche?
«Battersi per se stesse e le altre alle donne è sempre stato permesso. Il #MeToo dunque rientra in uno spazio tradizionalmente concesso. Plaudo a chi se lo è ripreso: ma non è nuovo».
Nel libro dice di aver notato solo di recente l’episodio di Telemaco che zittisce la madre: siamo così abituate a scene del genere da considerarle norma?
«Temo di sì: per i miei studi ho letto e riletto i classici notando cose nuove ogni volta, ma anche io sono così abituata a veder zittire le donne da non averci fatto caso fino a poco tempo fa. Lavoro a questo tema da prima del #MeToo, ma quel che sta succedendo ha certo ravvivato la nostra sensibilità. Una volta notato quell’episodio non puoi più non vederlo: è un “momento Penelope” inconfondibile, che torna in molti altri esempi letterari. E qualcosa in cui tutte le donne si riconoscono per averlo vissuto sulla loro pelle».
Una sorta di archetipo?
«Piuttosto un’attitudine tramandata e radicata nei secoli. Essendo qualcosa di appreso possiamo disimparare ad attuarla».
Lei nota come da allora la voce femminile in letteratura sia stata irrisa o svilita: ancora oggi quando le donne prendono la parola rischiano ingiurie. Accade anche a lei su Twitter: le sue battaglie coi troll sono celebri.
«C’è ancora chi considera la competenza femminile meno autorevole di quella maschile. E la situazione è più grave per le donne che fanno politica: un esempio è l’immagine di Hillary Clinton decapitata come Medea circolata in ambienti vicini a Donald Trump. O il tentativo di zittire la democratica Elizabeth Warren mentre leggeva una lettera di Coretta King in Senato. La scena ha dato vita allo slogan femminista Nevertheless she persisted, nonostante tutto è andata avanti. Quel “ nonostante tutto” indica che, anche se i tentativi di silenziare le donne falliscono, le cose non sono cambiate abbastanza».
Il silenzio come arma contro le donne nell’America moderna come nella Grecia antica?
«Per fortuna le cose in 3000 anni - e soprattutto negli ultimi 100 - sono cambiate. Non sminuisco i progressi: ma c’è ancora da fare».
Nel libro racconta delle lezioni prese da Margaret Thatcher per rendere la voce più profonda...
«Nei corsi di leadership alle donne si raccomanda ancora di abbassare il tono per renderla più calda: più maschile. Ma perché una voce acuta non è considerata autorevole?».
Lei conosce il passato: come vede il futuro?
«Conoscere la storia mi rende ottimista. Dobbiamo però restare vigili. In tempi di austerità economica i progressi che riguardano le donne subiscono i rallentamenti maggiori».
Il suo è un invito a lavorare sul nostro linguaggio, troppo discriminatorio: dobbiamo inventarne uno nuovo?
«Dovremmo riflettere sulle implicazioni di certe parole. In inglese “ambizioso” è un complimento se rivolto a un uomo, ma un insulto per una donna. Il linguaggio conta. Dobbiamo avviare un processo di aggiustamento e trovare un più giusto modo di esprimerci».
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, CFR.:
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico la Sala
Donne protagoniste della scienza, è la giornata internazionale
Gianotti e Charpentier, siamo ancora poche
di Redazione Ansa *
Stanno aumentando ma sono ancora poche. Le donne nel mondo della ricerca devono ancora oggi affrontare concetti che dovrebbero essere già da tempo superati, come emancipazione e parità di genere. Senza contare la difficoltà di conciliare la famiglia e con il lavoro. E nessuno puo’ dirlo meglio di donne che si sono affermate nel mondo della ricerca come Fabiola Gianotti, prima donna alla guida del Cern di Ginevra, che nel 2012 annunciò al mondo la scoperta del bosone di Higgs, e Emmanuelle Charpentier, una delle ’mamme’ della tecnica che permette di riscrivere il codice genetico, la Crispr-Cas9.
"Un progresso c’è stato, ma bisogna continuare su questa stessa strada", ha detto Gianotti guardando alla Giornata internazionale delle donne nella scienza che si celebra l’11 febbraio, istituita dalle Nazioni Unite per promuovere in tutto il mondo iniziative volte a mettere in luce le tante donne impegnate nella ricerca e per incoraggiare le più giovani a intraprendere studi scientifici. #February 11 è l’hashtag della manifestazione, ideata nel 2015. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
Da allora sono stati fatti prograssi, ma molto c’è ancora da fare. Il Cern, per eempio, ha detto Gianotti "è un luogo che celebra la diversità in tutti i sensi, non solo in termini di genere, ma di etnia, origini e tradizioni". Lì, ha proseguito, "lavorano più di 17.000 ricercatori di 110 nazionalità", tuttavia "le donne sono sempre una frazione minore: attualmente sono il 12%. Non sono ancora un numero sufficiente, ma 20 anni fa erano appena il 4%. Quindi c’è stato un progresso, ma bisogna continuare in questa direzione".
Anche per Emmanuelle Charpentier, direttore dell’Istituto per le infezioni biologiche del Max Planck di Berlino, "è difficile essere una donna scienziata, soprattutto quando si ha una famiglia". Questo perché "spesso ci si deve muovere da un laboratorio a un altro e da un Paese a un altro, per 10-15 anni. Ho l’impressione - ha osservato - che molte ricercatrici, 4 o 5 anni dopo il dottorato, tendano a rinunciare alla ricerca. Per questo in Europa esistono specifici progetti per le donne nella scienza", proprio come la Giornata mondiale.
Per questo motivo, ha osservato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, "abbiamo bisogno di incoraggiare e sostenere ragazze e donne a raggiungere il loro pieno potenziale come ricercatori scientifici e innovatori".
* ANSA 11 febbraio 2018 (ripresa parziale- senza immagini).
Rilettura femminista della Bibbia
di Giulio Busi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.05.2016)
È una porta stretta, quella del pensiero contemporaneo. E chi voglia oltrepassarla, deve spogliarsi di molti panni, antichi e nobili. Come fare a portare con sé fede e innocenza religiosa, anche oltre la soglia della ragione che tutto dubita? Tamara Ross è studiosa e filosofa, una voce importante nel femminismo ebraico di orientamento ortodosso.
Della pretesa degli storici d’essere oggettivi e imparziali ha fatto esperienza fin dai suoi studi accademici, negli Stati Uniti prima , e in Israele poi, dove insegna all’Università Bar Ilan di Tel Aviv.
Rispetto a cosa, vuol essere imparziale uno storico? Alla verità del passato, da ricostruire con il freddo metodo della scienza, o alla verità del presente, che come un mare in tempesta ci lambisce, a volte ci sommerge, quasi sempre c’impensierisce? E la fede, poi, che pretese conoscitive può mai avere, con le sue deboli prove fattuali, con quel credere, così tangibile nelle azioni e nelle parole e pure sfuggente nelle sue cause profonde.
Quando Mosè vuol preparare la sua gente alla rivelazione divina, sul Monte Sinai, mette in guardia il popolo: «Siate pronti fra tre giorni, non vi accostate a donna». Per una donna ebrea di oggi, che sia credente e viva il proprio ruolo con convinzione, quella separazione e tabuizzazione del femminile, proprio alle soglie della teofania, può essere frustrante e incomprensibile.
Ross, che credente e convinta interprete della tradizione lo è senza dubbio, ha cercato, in scritti importanti, di riflettere sullo statuto di immutabilità del testo sacro.
Se la Bibbia e la tradizione rabbinica attribuiscono alla donna un ruolo subalterno, e usano un linguaggio maschilista, dove s’annida l’errore? È l’interprete, che fraintende, o è il testo, che è come avviluppato in un mondo arcaico, paternalistico, discriminatorio?
Tamara Ross ha il dono di una prosa cauta ed equilibrata. E non ama le posizioni radicali. Chiede a se stessa e agli altri con tono educato, sebbene le domande siano gravi ed eloquenti. Se il linguaggio della rivelazione stride con la sensibilità contemporanea, a chi dar retta? Cosa rimane di divino, se ogni testo, anche quello biblico, può essere storicizzato, visto nei limiti dell’ambiente in cui è stato redatto? Molto, risponde la Ross, anzi tutto e un poco di più, ed è affermazione sorprendente quando ci saremmo aspettati un rifiuto o una critica distruttiva.
Il concetto cardine attorno a cui si muove questa rilettura femminista è quello di interpretazione cumulativa. La rivelazione non avviene una volta per tutte, in maniera definitiva, ma dipende e si sviluppa dalla comunità a cui è rivolta, la custodisce, la medita, l’approfondisce. In questo senso, l’apparizione sul Sinai è solo un inizio. E se quest’inizio parla la lingua della società patriarcale del Vicino oriente antico, tutto il lavorio delle generazioni successive, e di quelle attuali, è anch’esso parte costitutiva dell’incontro tra divino e umano.
Partita dalla questione femminile, la Ross giunge a considerazioni che abbracciano il più ampio problema dell’attualità del discorso religioso. Non è modificando il testo che si riscrive il giudaismo. Piuttosto, il giudaismo, di cui le donne fanno ora parte in maniera più consapevole, può impossessarsi sempre più profondamente della forza della Torah.
Come a dire, che il libro sacro, e il patrimonio delle usanze e della legge, non sono contenuti fissati per sempre, ma un’energia, che si libera in ogni generazione, nei modi plausibili e comprensibili per quell’epoca. Non sfugge come questa visione sia calibrata sul senso, tutto postmoderno, di una verità contestuale.
Religione, insomma, non come sistema chiuso ma come esperienza che si avvera nella sua intensità storica ed emotiva.
La porta stretta della ragione e della critica la si può varcare anche di slancio, conservando solo l’essenziale. Tamara Ross è convinta che per continuare a credere nel passato sia necessario cambiarlo, oggi.
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 17.04.2016)
La matematica, come si sa, è la Cenerentola della cultura: un po’ dovunque, ma soprattutto in Italia. È difficile immaginare che la sua storia si concluderà felicemente come nella fiaba, con qualche principe azzurro che la sposerà. Ma ogni tanto, almeno, sulla porta di casa la matematica può appendere un fiocco rosa, per annunciare un suo qualche parto: verginale, ovviamente.
È il caso della nuova rivista mensile Mate, che reca come sottotitolo Da zero all’infinito. È pubblicata dalla casa editrice Centauria, e il suo primo numero si troverà in tutte le edicole da questo mercoledì. Avrà 100 pagine e sarà disponibile sia in edizione cartacea che digitale, per tablet o cellulare. Il suo direttore, Luciano Regolo, ha dichiarato che la rivista vuole «cercare di sfatare il pregiudizio che la matematica sia appannaggio di pochi eletti». Una sfida che verrà affrontata «offrendo uno spaccato di quanto numeri e formule siano nella nostra quotidianità, nella natura, nell’arte e nel tempo libero, nel nostro passato, nel nostro presente e nel nostro futuro».
Ogni numero di Mate conterrà almeno un’intervista, oltre a dossier, studi, approfondimenti, spiegazioni di teoremi teorici e pratici, analisi dei legami con l’attualità, una ricca sezione di giochi e, dulcis in fundo, un “giallo del mese”: tutto a sfondo matematico, ovviamente. Auguri, dunque, e 1000 numeri!
I contributi delle donne alla scienza: ieri e oggi
di Margherita Hack *
La storia delle donne nella cultura e nella vita civile è stata una storia di emarginazione fino alla fine dell’Ottocento e in gran parte ancora fino alla metà del Novecento, almeno nei paesi industrializzati. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Quali possono essere le cause di questa situazione che risale indietro nei secoli? Forse già nelle epoche preistoriche, la forza fisica necessaria per sopravvivere, le numerose gravidanze e il lungo periodo di allattamento e di cura della prole hanno portato alla differenziazione dei compiti. Oggi, i progressi della scienza e della medicina, e le conseguenti applicazioni tecnologiche hanno annullato la condanna biblica - uomo lavorerai con fatica, donna partorirai con dolore - almeno nei paesi industrializzati.
Per secoli le donne che potevano avere accesso all’istruzione erano quelle rinchiuse nei conventi. Forse per questo le donne che sono emerse nel passato erano soprattutto umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse, ma molto più raramente scienziate. Infatti chi ha attitudini artistiche o letterarie può emergere anche senza una preparazione specifica, mentre le scienze, e in particolare le cosiddette scienze "dure" come matematica e fisica richiedono una preparazione di base, senza la quale è quasi impossibile progredire. Solo quelle poche favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie cognizioni, potevano farsi una cultura scientifica. Basta ricordare che ancora all’inizio del XX secolo in molti paesi europei alle ragazze era precluso l’accesso alle università ed anche ai licei.
Perciò le donne, escluse dalle università, escluse dall’educazione scientifica, sono emerse là dove potevano emergere. Così è sorto il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero più adatte alle materie letterarie e linguistiche che non a quelle scientifiche. Le stesse ragazze crescono in mezzo a questi pregiudizi e se ne lasciano influenzare, e scelgono le facoltà umanistiche anche contro le loro naturali inclinazioni, contribuendo così a rafforzare i pregiudizi stessi. Comunque oggi cresce sempre di più il numero di ragazze che scelgono materie ritenute tipicamente maschili come ingegneria.
Malgrado le difficoltà incontrate, non sono poche le scienziate che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate. Ce ne furono una ventina nell’antichità, fra cui emerge il nome della matematica Ipazia; solo una decina nel medioevo, soprattutto nei conventi, quasi nessuna tra il 1400 e il 1500, 16 nel 1600, 24 nel 1700, 108 nel 1800. Oggi solo nel campo dell’astronomia sono più di 2000, ed in ogni campo dei sapere le ricercatrici universitarie superano il 50%, con punte ded’80% nelle facoltà umanistiche, del 60% in quelle di scienze biologiche, dal 30 al 40% nelle scienze abiologiche, più dei 50% nelle matematiche, mentre sono ancora al di sotto dei 20% in facoltà come ingegneria e agraria.
Fra le matematiche va ricordata la già citata Ipazia (370-415 d.C.), figlia del matematico e filosofo Teone. Diventò capo di una scuola platonica di Alessandria d’Egitto frequentata da molti giovani. Fu uccisa barbaramente da monaci, forse anche perché tanta genialità matematica in una donna poteva sembrare indice di empietà. Nel 1700 Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) fu la prima donna ad essere chiamata a ricoprire una cattedra universitaria, all’Università di Bologna, e Sophie Germain (1 776-183 1) fu una riconosciuta esperta di teoria dei numeri e di fisica. Nel XIX secolo ci sono numerose grandi matematiche, fra le quali emergono soprattutto Sofia Kovaleskaja (1850-1891), professore all’Università di Stoccolma, e Emmy Noether (1882-1935), fondatrice dell’Algebra moderna. Fra le matematiche italiane di questo secolo ricordo Pia Nalli ( 1866-1964) professore ordinario di analisi matematica all’università di Cagliari e poi di Catania; Maria Pastori (1895-1975) ordinario di Meccanica Razionale all’università di Messina, Maria Cibrario Cinquini (1905-1992), ordinario di Analisi matematica a Cagliari e professore emerito dell’università di Pavia, Maria Biggiogero Masotti ordinario di geometria presso il Politecnico di Milano.
Fra le fisiche e le astrofisiche vanno ricordate, naturalmente Marie Sklodwska Curie (1867-1934), premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911, e prima donna professore alla Sorbona e la figlia Irene Curie (1897-1956) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1856) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1968) che scopre il fenomeno della fissione nucleare ed è la prima donna ad avere una cattedra universitaria di fisica in Germania; Marie Goeppert Mayer (1906-1972) premio Nobel per la fisica nel 1963 per la sua teoria sui "numeri magici" che determinano la stabilità degli atomi; Wu Chieng-Shiung (1913-1997), professore di fisica alla Columbia University, scopritrice della non conservazione della parità nelle interazioni deboli.
Fra le astronome e astrofisiche va ricordata Caroline Herschel (1750-1848) che insieme al fratello William iniziò lo studio fisico del cielo, occupandosi di quello sfondo di stelle fino allora considerato poco più di uno scenario su cui si muovevano i pianeti. A loro si deve lo studio delle nubi interstellari, la scoperta di regioni apparentemente prive di stelle, che oggi sappiamo essere regioni ricche di polveri che ci nascondono le stelle retrostanti, e lo studio della distribuzione delle stelle sulla volta celeste.
Maria Mitchell (1818-1889) è stata la prima famosa astronoma americana, docente di astronomia al Vassar College e direttrice di quell’osservatorio, che ha preso il suo nome.
Un terzetto di astronome americane che hanno legato il loro nome a scoperte e ricerche fondamentali per la moderna astrofisica sono Henrietta Swan Leavitt (1868-1921), Anne Cannon (1863-1941) e Antonia Maury (1866-1952). La prima scoprì la relazione che lega il periodo di variazione di luce di una classe di stelle variabili dette "Cefeidi" al loro splendore assoluto, facendo di questa classe di stelle uno dei migliori mezzi per la determinazione delle distanze delle galassie. Alla seconda si deve la classificazione degli spettri di più di 225.000 stelle; il risultato del suo lavoro è raccolto nel poderoso catologo "Henry Draper" (dal nome dei finanziatone dell’opera) che è ancora oggi largamente consultato. La terza scoprì alcune caratteristiche degli spettri stellari, che permettevano di stabilire lo splendore assoluto di una stella, e quindi - misurato lo splendore apparente - risalire alla distanza. Essa ha anticipato di almeno due decenni il metodo di determinazione delle distanze dal semplice studio dello spettro.
Una grande astrofisica, iniziatrice dei metodi di studio delle atmosfere stellari e della determinazione della loro composizione chimica è stata Cecilia Payne Gaposchkin (1890-1979). Iniziatrice dello studio dell’evoluzione chimica della Galassia è stata una giovane astrofisica, Beatrice Tinsley, scomparsa prematuramente una ventina di anni fa. Oggi sono numerosissime le astrofisiche di fama internazionale che guidano gruppi di ricerca nei più svariati campi, dalla fisica stellare alla cosmologia, e delle più svariate nazionalità. Si può stimare che in tutto il mondo rappresentino dal 25 al 30% di tutti gli astronomi e astrofisici.
Altrettanto numerose sono le scienziate nel campo della biologia e delle scienze mediche, molte insignite di premio Nobel. Per tutte ricordiamo Rita Levi- Montalcini (1909) premio Nobel per la medicina nel 1986.
Sebbene oggi i contributi delle donne alla scienza vengano riconosciuti, resta il fatto che le scienziate per emergere devono generalmente lavorare di più dei loro colleghi e devono ancora superare numerosi pregiudizi, che, contrariamente a quanto si crede, sono maggiori nei paesi anglosassoni che non in quelli latini.
Spesso mi viene chiesto se ho incontrato molte difficoltà nel corso della mia vita scientifica. Ritengo che molti degli ostacoli di cui si lamentano parecchie ricercatrici dipende anche dall’educazione ricevuta che, almeno fino a qualche decennio fa, tendeva a fare delle bambine persone arrendevoli e servizievoli, poco combattive e desiderose di protezione. Oggi mi sembra che le cose vadano cambiando, la vita e l’educazione comune a bambini e bambine li lascia più liberi di sviluppare le proprie attitudini naturali, senza imporre loro condizionamenti dovuti al sesso.
lo ho avuto la fortuna di avere una famiglia in cui babbo e mamma erano perfettamente eguali, si dividevano i compiti in piena parità, e che non mi hanno mai imposto comportamenti o giocattoli legati a stereotipi sessuali. Anche lo sport che ho praticato per parecchi anni mi ha aiutato a sviluppare quella competitività che e necessaria per riuscire nell’atletica come nella scienza, per vincere sportivamente, allenandosi e studiando e avendo la costanza di perseguire lo scopo di battere un record o di ottenere un risultato scientifico, senza scoraggiarsi davanti agli insuccessi, perseverando con costanza. Credo perciò che l’ambiente familiare in cui ho avuto la fortuna di nascere sia stato estremamente importante per darmi fiducia nelle mie possibilità, e per non provare complessi di inferiorità che ho spesso notato in colleghe della mia generazione e anche più giovani.
Malgrado i grandi progressi fatti dalle donne, ci sono ancora notevoli disparità nel mondo del lavoro, della politica e della ricerca. Nelle università per esempio le ricercatrici sono ormai più della metà di tutti i ricercatori, ma appena si passa al livello superiore, quello dei professori associati, le.donne sono meno del 30% e al più alto livello dei professori ordinari sono appena il 10%. In politica è a tutti nota la scarsa rappresentanza femminile alla camera dei deputati e al senato. Al governo dei comuni sono ancora una minoranza le donne sindaco, mentre sono frequenti gli assessorati alla cultura assegnati a donne, il che mi fa malignamente pensare quanta poca importanza i politici tendono ancora a dare alla cultura, ritenuta un trascurabile centro di potere locale. Quasi sempre si attribuisce questa scarsa presenza femminile nei livelli più alti all’impegno familiare, alle cure dei marito e dei figli, e si chiede un maggiore impegno dello stato nel fornire asili nido, scuole materne, scuole a tempo pieno. Giustissimo! Però rarissimamente si afferma il diritto delle donne e il dovere degli uomini di dividersi al 50% le cure familiari, dalle più umili alle più importanti, anche se la legislazione familiare dà alle donne la possibilità di rivendicare questa reale parità. Sta alle giovani donne educare i propri compagni e ai giovani uomini di incitare le loro compagne ad affermarsi nella vita.
Comunque ritengo che il crescente numero di donne affermate nella scienza, nella politica, nello sport e in tutti i campi dell’attività umana fornisca quei modelli che finora mancavano alle bambine, e che possono dar loro fiducia e stimoli ad eguagliarle.
Wollstonecraft, uno spirito ribelle
La rivolta di Mary: vita «scandalosa» di una donna libera
1792, il primo appello alla parità tra i sessi
di Maria Laura Rodotà (Corriere Della Sera, 01.12.2010)
Mary Wollstonecraft nacque a Londra nel 1759, morì di parto nel 1798, e scrisse la Rivendicazione dei diritti della donna. Che per un secolo e mezzo fu libro trascurato - all’inizio fu deriso, lei fu a lungo nota soprattutto per la sua vita ritenuta immoralissima - ma che negli anni Sessanta del XX secolo venne rivalutato come testo precursore poi fondante del femminismo. A Vindication of the Rights of Woman, secondo molti studiosi/e, ha ancora per molti aspetti un approccio radicale; e analizza la condizione delle donne in una società governata dal mercato e dal profitto, in cui le figure femminili diventano merce di scambio e rappresentanza. E molti suoi giudizi sono abrasivi, e attuali. Uno per tutti: «Quanto è volgare l’insulto di chi ci raccomanda di diventare solo graziosi animaletti domestici?». Lo è, tuttora. Anche se il percorso esistenziale di molte donne intelligenti è un po’ più facile di quello di Wollstonecraft.
Scampata a una vita dickensiana grazie allo studio, alla scrittura, alla determinazione, all’anticonformismo. Seconda dei sette figli di un padre scialacquatore, studiò gli antichi, la Bibbia, Shakespeare e Milton con l’aiuto di un pastore amico di famiglia e di sua moglie. Priva di mezzi, lavorò come dama di compagnia, maestra, governante. Quando tornò a Londra e fondò una piccola scuola, entrò in contatto con la comunità dei Dissenzienti, pensatori radicali riuniti intorno al suo futuro editore e finanziatore Joseph Johnson. Tra loro c’erano Thomas Paine, William Blake, William Goodwin, e Heinrich Füssli: uno scrittore e artista sposato con cui Wollstonecraft ebbe una relazione. Fu l’inizio della sua vita scandalosa; pur di stare vicino a Füssli, lei propose alla di lui moglie una convivenza a tre.
La giovane Mary era già un’autrice originale: dei Thoughts on the Education of Daughters, «Pensieri sull’educazione delle figlie», e di Mary, a Fiction, romanzo autobiografico che influenzò il movimento romantico. Lavorando con Johnson si appassionò agli illuministi francesi. Rousseau però non le piacque per niente. Nella Vindication lo attaccherà perchè nemico delle donne indipendenti, che vorrebbe la donna come «una schiava tutta civetteria per diventare una compagna più dolce per l’uomo ogni volta che questi desideri svagarsi. Si spinge addirittura ad affermare che... per ciò che concerne il carattere femminile, la virtù più importante è l’ubbidienza... Che sciocchezza!».
Intanto, nel 1789, iniziava la Rivoluzione francese. E il lavoro di polemista di Wollstonecraft. Rispose alle Reflections on the Revolution in France del conservatore Edmund Burke con A Vindication of the Rights of Men, uno dei pamphlet sui moderni diritti civili più letti in Inghilterra all’epoca. Tre anni dopo andò a Parigi, dove conobbe l’americano Gordon Imlay, visse con lui, in seguito ebbe una figlia, fu lasciata, tentò due volte il suicidio.
Ma la trentenne appassionata, emotiva, un po’ masochista aveva già, nel 1792, pubblicato il suo capolavoro, la Rivendicazione. «Chi ha reso l’uomo unico giudice, se la donna condivide con lui il dono della ragione?», scriveva. Le donne dovevano coltivarlo. Dovevano poter studiare, ed essere considerate per il loro carattere e le loro conoscenze, non per l’aspetto fisico. Dovevano imparare dei mestieri, per potersi mantenere se rimanevano vedove e non doversi sposare o risposare per necessità. Dovevano interessarsi di politica, e chiedere piena cittadinanza. Wollostonecraft non teorizzava la totale parità tra i sessi. Scrive: «Dalla costituzione fisica, gli uomini sembrano essere stati concepiti dalla Provvidenza per raggiungere un grado più elevato di valore». Ma insisteva sull’eguaglianza morale.
Wollstonecraft consigliava poi di fondare i matrimoni più sull’amicizia che sull’attrazione fisica. E (anche per questo alcune la considerano una madre del «pensiero della differenza») di partorire con donne levatrici invece che con medici maschi. La seconda volta non ci riuscì. Il parto della figlia concepita con William Goodwin, che la sposò già incinta e fu poi il suo indiscreto biografo, fu difficile e mal seguito. Morì dopo dieci giorni di febbre puerperale. Sua figlia Mary Wollstonecraft Goodwin, moglie del poeta Shelley, scrisse il romanzo Frankenstein.
IO RESTO IN ITALIA - FILOMENA
Un filmato dalla parte delle donne *
Care amiche, cari amici,
vi proponiamo il piccolo video che Filomena, la Rete delle Donne ha ideato dopo aver constatato il vuoto informativo sul ruolo che le donne hanno giocato e tuttora giocano nella storia e nella realtà quotidiana di questo paese.
Abbiamo sentito l’esigenza di estrarre dal silenzio una piccola sequenza di figure femminili, del passato e del presente, per farle tornare in superficie in una narrazione più accurata sulla realtà dell’Italia.
E’ stato un esercizio difficile, il nostro. Molte, moltissime altre sono state sacrificate all’esigenza di brevità che il mezzo scelto comporta.
Ci auguriamo tuttavia che il messaggio che Filomena intende veicolare con il nostro piccolo intervento risulti chiaro. Vi chiediamo di far circolare quanto più possibile questo video. Di farlo rimbalzare da un computer all’altro, mettendoci in grado di consegnare alle donne la visibilità che meritano.
Pensiamo che sia opportuno cominciare da un gesto come questo, di ascolto e di diffusione, per riscrivere il necessario racconto sull’Italia.
Paese senza donne, in apparenza. In realtà, paese che da sempre sul lavoro e la fatica delle donne poggia.
Grazie per il sostegno che vorrete darci.
*
FILOMENA, la rete delle donne
www.filomenainrete.com
http://www.youtube.com/watch?v=mQcAkCKp2Nw
per informazioni:
Annarita Budelli
333 3542632
filomenainrete@gmail.com
fb: Filomena Inrete
EVE ENSLER: LE DONNE E IL POTERE *
Abbiamo rivendicato come donne le nostre storie e le nostre voci, ma non abbiamo ancora decostruito gli stimoli culturali alla violenza, e le cause della violenza. Non abbiamo ancora rivelato quella cornice concettuale che in ogni singola cultura permette la violenza, si aspetta la violenza, istiga alla violenza. Non abbiamo smesso di insegnare ai ragazzi la negazione del loro essere tristi, dubbiosi, addolorati, vulnerabili, teneri e compassionevoli. Non abbiamo eletto, ne’ siamo state elette noi stesse, leader che rifiutino la violenza e che mettano la sua fine al centro di tutto.
Non abbiamo ancora fatto della violenza contro le donne qualcosa di anormale, non ordinario, non accettabile. Se vogliamo che la violenza contro le donne finisca tutta la storia deve cambiare. L’unico motivo per avere potere che trovo sensato e’ fare in modo che altre persone scoprano il proprio. L’unico motivo per essere in una posizione di leadership che trovo sensato e’ ispirare gli altri.
La relazione fra donne e potere non puo’ essere lo scalare ad ogni costo l’attuale gerarchia patriarcale e burocratica, perche’ la questione e’: come possono donne che sono state finanziate dalle medesime corporazioni economiche, sostenute dallo stesso sistema di esclusione e corruzione, essere poi differenti nelle loro decisioni? Io ho un’altra visione, in cui le donne che diventano leader, deputate, eccetera, sono quelle per cui l’empatia e’ primaria ed essenziale quanto l’intelligenza, quelle che dicono il nucleare ne’ oggi ne’ mai, quelle che si occupano di contrastare il razzismo, di fermare il surriscaldamento globale, quelle che ritengono prioritarie l’educazione sessuale, la salute riproduttiva, il sostegno al lavoro di cura. Io credo che le donne possano e debbano mostrare questo nuovo tipo di potere.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 802 del 26 aprile 2009
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Eve Ensler (su cui cfr. il sito www.vday.org]
1. Maria G. Di Rienzo: Tre pensierini della sera
2. Maria Grazia Campari: Diritto di famiglia: donne nelle spire dell’ordine patriarcale?
3. Lea Melandri: Se il patriarcato non depone la maschera della neutralita’
1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: TRE PENSIERINI DELLA SERA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento]
"Se e’ vero che gli uomini sono migliori delle donne giacche’ piu’ forti fisicamente, perche’ il nostro governo non e’ composto da lottatori di sumo?". Kishida Toshiko, femminista giapponese del XIX secolo.
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"Poiche’ sono una donna, i miei sforzi per ottenere qualcosa devono essere eccezionali. Se fallisco, nessuno dira’: Clare non aveva le qualita’ per quel lavoro. Piuttosto si dira’: Visto? Le donne non possono farcela". Clare Boothe Luce, donna politica statunitense.
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"Io non chiedo favori per il mio sesso. Tutto quello che chiedo ai nostri fratelli e’ che ci tolgano il piede dal collo". Sarah Moore Grimke’, scrittrice ed attivista antischiavista e suffragista americana del XIX secolo.
2. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: DIRITTO DI FAMIGLIA: DONNE NELLE SPIRE DELL’ORDINE PATRIARCALE?
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Giunge dall’associazione femminista afgana Rawa una riflessione sulla recente proposta di legge che autorizza gli abusi sessuali compiuti dal marito sulla moglie in nome di una pretesa tradizione del Codice di famiglia sciita.
La disposizione e’ considerata quale legittimazione di una pratica ampiamente diffusa che trova il suo antecedente logico nel Trattato di riconciliazione nazionale stipulato dal governo Karzai con esponenti talibani e fondamentalisti, avallato dalle potenze occupanti, Usa in testa.
La legge e’ attualmente sospesa, anche a causa delle reazioni internazionali, ma Rawa ritiene che verra’ ripresa dal Parlamento di prossima elezione, che, prevedibilmente, vedra’ un’ampia presenza di signori della guerra e di esponenti pro-talibani, essendo le potenze occupanti piu’ interessate ad assicurare a se’ il gas dell’Asia centrale che non ad assicurare la democrazia agli afgani.
Di qui la richiesta di mobilitazioni che contrastino i gruppi misogini e fondamentalisti. Una causa giusta, da sostenere nell’interesse di una democrazia partecipata e plurale, unica forma di democrazia effettiva, quella escludente, comunque camuffata, dovendosi, al contrario, ritenere espressione di un ordine oligarchico, spesso connotato da misoginia. Un ordine strutturato sulla diseguaglianza biologicamente motivata, coerente al sistema patriarcale, che ha gravato a lungo, sia pure con pesi differenziati, anche sulle donne italiane.
La Carta Costituzionale lo smentiva formalmente nei suoi principi fondamentali (art. 2 e art. 3) fin dal 1948, ma molta acqua doveva passare sotto i ponti. Le previsioni del Codice Civile Mussolini-Grandi del 1942 (art. 143 e seguenti) e quelle del Codice Penale Mussolini-Rocco del 1938 (art. 570 e seguenti) sancivano una struttura famigliare fortemente gerarchica, una moglie soggetta alle decisioni e ai voleri del marito (insignito di "potesta’ maritale"), sottoposta ai di lui "mezzi di correzione o di disciplina" morali e materiali, fino a lambire il limite estremo del maltrattamento. Gli abusi erano, poi, sanzionati assai lievemente: con pena fino a sei mesi e, in caso di lesioni, con pena ridotta di un terzo rispetto alla normale previsione edittale.
Un’ottica proprietaria e subalterna della donna che consentiva una serie di abusi, non ultimo quello di natura sessuale, presentato come "debito coniugale", nell’ambito di una concezione assai unilaterale della morale famigliare e del dovere di assistenza imposti per legge. Si e’ dovuta attendere la meta’ degli anni Settanta e la riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975 n. 151) per dare corso a principi costituzionali (art. 29 e 30 Cost.) di parita’ fra i coniugi e fra figli legittimi e illegittimi (nati fuori del matrimonio), per l’abolizione della patria potesta’, sostituita dalla potesta’ di entrambi i genitori.
Solo in epoca ancora piu’ recente, con la legge del febbraio 1996 (art. 609 bis e seguenti Cod. Pen.), il reato di stupro e’ stato rimosso dal titolo del Codice Penale dedicato ai "delitti contro la moralita’ pubblica e il buon costume", l’incesto non e’ piu’ crimine contro la "morale famigliare" ma entrambi crimini contro la persona, lesivi della libera disposizione di se’ e della autodeteminazione sessuale.
Una lenta e non uniforme evoluzione giurisprudenziale ha preso avvio dall’art. 2 della Costituzione repubblicana ed e’ giunta ad inquadrare la sessualita’ quale modo di espressione della personalita’, da tutelarsi come diritto inviolabile della persona.
Secondo le pronunce piu’ illuminate della Corte di Cassazione la lesione del diritto alla sessualita’ determina per la vittima un danno da ingiustizia le cui conseguenze pregiudizievoli devono essere accertate e quantificate in termini di risarcimento del danno materiale, morale e alla vita di relazione (esistenziale).
Inoltre, la giurisprudenza ormai prevalente considera che la violenza sessuale possa avvenire anche fra marito e moglie, non essendo coperta da quello che tradizionalmente si definiva come "debito coniugale". Non solo l’assenso al rapporto deve essere esplicito, non viziato o estorto con minacce, ma deve considerarsi sempre revocabile anche in relazione alla tipologia del rapporto stesso, per come viene determinandosi.
In caso di imposizioni, specialmente se ripetute, alla moglie e’ stato riconosciuto titolo a richiedere la separazione con addebito al marito e anche il danno esistenziale per gli effetti dannosi subiti nella propria vita quotidiana di persona offesa, sottoposta a patimenti fisici e psichici che hanno impedito lo svolgimento di una vita coniugale serena e informata al principio dell’amore e del rispetto reciproco. Puo’ esserci "un giudice a Berlino", ma va ricercato e sollecitato attentamente, senza timidezze, sostenute dal rispetto di se’.
3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: SE IL PATRIARCATO NON DEPONE LA MASCHERA DELLA NEUTRALITA’
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Accanto all’allarme per la crisi economica, la disoccupazione crescente, le manovre dei potenti della Terra per porre un argine alla rabbia dei ceti piu’ colpiti, nelle ultime settimane sono tornate ad occupare un posto non trascurabile questioni che vengono ancora genericamente riferite alla vita personale, alla sfera intima, alla coscienza del singolo, benche’ sempre piu’ intersecate con le istituzioni della "cosa pubblica".
Da un lato, e’ passata, come sempre, la cronaca pressoche’ quotidiana degli stupri e degli omicidi in famiglia, con l’unica variante del tipo di parentela che ogni volta lega la vittima all’aggressore. Dall’altro, si e’ venuto imponendo, per circostanze tra loro apparentemente lontane, un dibattito acceso su leggi e principi costituzionali, parlamenti e consulte, diritti, liberta’ delle persone e poteri dello Stato, laicita’ e imposizioni religiose, garanzie democratiche e consuetudini tribali.
La norma votata dal parlamento afgano, che legalizza, per la minoranza sciita, lo stupro in famiglia e la totale dipendenza della donna dall’uomo, la revisione, in Italia, da parte della Consulta, della legge 40 sulla fecondazione assistita, per quanto riguarda "l’impianto unico e contemporaneo" di "non piu’ di tre embrioni", il caso di Kante Katadiatou, la donna ivoriana ricoverata per parto all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli e inquisita per "identificazione urgente", in nome di una clausola del decreto sicurezza non ancora approvato - ma si potrebbe aggiungere anche la vicenda parlamentare del testamento biologico -, parlano sostanzialmente della violazione di alcuni diritti e liberta’ essenziali della persona, garantiti, nei Paesi che si considerano "civili" e "democratici", dalle rispettive Costituzioni, e negli altri casi da organismi e convenzioni internazionali.
Le reazioni che hanno provocato, i cambiamenti di rotta, le spaccature all’interno di gruppi politici che si pensavano ideologicamente compatti - i cento deputati del Pdl che si sono espressi contro l’emendamento della Lega, inteso ad abolire il divieto di segnalazione, da parte dei medici, degli immigrati senza permesso di soggiorno -, gli interventi di Fini contro lo "Stato etico", in difesa della laicita’, la decisione del presidente Karzai di congelare una legge fatta per negoziare il consenso della minoranza religiosa piu’ oltranzista, dicono che le vicende essenziali riguardanti la vita nella sua interezza - il rapporto tra i sessi, la nascita, la morte, la salute, ecc. -, tenute a lungo fuori dalla storia, dai linguaggi e dai poteri pubblici, hanno la forza "perturbante" di una "stirpe oppressa" dalla civilta’, che oggi chiede il conto.
Ma come definire il contesto economico, culturale e politico, nelle sue incomparabili differenze, che oggi, di fronte all’imprevisto, balbetta, si contraddice, attacca e si difende? Se Pierluigi Battista, sul "Corriere della sera" (2 aprile 2009), ha provato a riproporre con poco successo quello che e’ stato il cavallo di battaglia della destra piu’ vicina al Vaticano - lo "scontro tra Islam e Occidente" -, questo non vuol dire che le democrazie occidentali e le loro affiliazioni in terre lontane e inospitali non siano tutt’oggi convinte della loro superiorita’ e unicita’, incapaci di interrogarsi su quei residui arcaici, che le rendono cosi’ simili alla culture "tribali", su quelle inclinazioni fondamentaliste che ancora confondono religione e politica, legge divina e liberta’ della persona.
Se la contrapposizione tra mondo civile e barbarie appare cosi’ netta, se qualcuno, nonostante i casi di violenza quotidiana che lo smentiscono, puo’ ancora parlare di "donne liberate" dell’Occidente, se ci si puo’ illudere che basti schierarsi "in difesa delle donne", rendere giustizia alle "vittime" identificando di volta in volta l’oppressore con qualcuno che e’ "altro da se’" - lo straniero, lo psicopatico, il politico in cerca di consenso facile, ecc. -, e’ perche’ una barriera, forte del senso comune e di un pregiudizio millenario, ancora avvolge le molteplici, multiformi "culture" create dal dominio maschile, in una maschera impenetrabile di neutralita’.
Ma se proviamo a scostare il velo, il paesaggio cambia, il confine tra le citta’ dell’Occidente e i villaggi afgani si fa mobile e impercettibile, i dogmi delle gerarchie vaticane somigliano stranamente ai codici tradizionali della Sharia, la deriva verso lo "Stato etico", il fondamentalismo religioso, criticato e combattuto dall’Occidente in altri Paesi, appare per quello che e’, la prima e l’ultima sponda del patriarcato, il tentativo, di fronte all’irruzione di una "preistoria" - il corpo, la vita personale, il rapporto tra i sessi - mai del tutto addomesticata, di riprendersi un potere antico: il sequestro dei corpi, l’appropriazione della vita dei singoli, la cancellazione di quella conquista inalienabile dell’incivilimento che e’ l’autodeterminazione, il diritto di ogni persona "a prendere in liberta’ le decisioni piu’ intime" (Stefano Rodota’).
Non e’ un caso che, nel dibattito che si e’ acceso intorno a questi temi, si parli ancora esclusivamente di "bioetica", come se la vita che e’ stata ridotta a corpo biologico, la persona, a cui si vorrebbero togliere liberta’ e diritti, non fosse stata, prioritariamente, quella della donna; non e’ un caso che tutte le vicende di cui si e’ parlato sopra abbiano come protagonista il sesso femminile - sia come "oggetto" di violenza che di tutela -, e mai, come ci si dovrebbe aspettare, la consapevolezza e la cultura femminista che, da oltre un secolo, ha cominciato a scuotere i privilegi e le certezze della comunita’ storica degli uomini.
La legge afgana, che sulla sponda "civile" del mondo ha suscitato tanto sdegno, se si riuscisse a guardarla per la verita’ "domestica", violenta, quotidiana, e pressoche’ senza tempo e patria, che porta allo scoperto - la cancellazione della sessualita’ femminile, la donna espropriata di volonta’ ed esistenza propria, sottoposta a un potere di vita e di morte, esclusa dallo studio e da responsabilita’ pubbliche -, potrebbe finalmente far riflettere sull’unico dominio, quello di un sesso sull’altro, che sfugge alle analisi, e quindi ai cambiamenti, che qualcuno ipocritamente vorrebbe circoscrivere a intoccabili "differenze culturali", altri al terreno non meno rispettabile e riservato della sfera intima.
Al sessismo esplicito, impugnato dai mullah come legge naturale, fa riscontro, per la parentela evidente, l’insignificanza - intellettuale, politica, professionale - in cui sono tenute le donne "emancipate" dell’Occidente, casalinghe, madri, mogli sempre e comunque, o, nel migliore dei casi, "conduttrici" di un discorso unico e privilegiato tra uomini, che occupa ininterrotto da secoli la scena pubblica.
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Fonte: NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 245 del 16 aprile 2009
«Donne e potere», il documentario di Olla, passa in rassegna un secolo di conquiste e difficoltà che le donne hanno avuto per accedere al comando. Presentato alla Casa della Memoria con commento di Anna Rossi-Doria.
Potere all’altra metà del cielo?
L’Italia è il fanalino di coda
di Rossella Battisti (l’Unità, 11.03.2009)
Donne e potere: una relazione pericolosa? Agli occhi degli uomini, sembra evidente, visto che hanno fatto (e molti continuano) di tutto per impedire una naturale ascesa ai ruoli del comando. E di certo, relazione avventurosa, per la quale occorrono ancora alle donne determinazione e sacrifici in misura maggiore rispetto all’altra metà del cielo. In Italia più che altrove. Oggi più che mai.
È partito da questa considerazione Roberto Olla per il suo documentario «Donne e potere» - produzione Tg1 e in onda sulla rete ammiraglia della Rai ma nei soliti orari proibitivi. Il filmato è stato riproposto alla Casa della Memoria a Roma ieri, nell’ambito delle iniziative per l’8 marzo, e con l’occasione è stato spunto per alcune riflessioni di Anna Rossi-Doria, studiosa e docente di storia delle donne. «La spinta per questo documentario - spiega Olla - è nata proprio dalla reazione alla situazione italiana, una delle più arretrate al mondo. Siamo agli ultimi posti fra le nazioni democratiche per quello che riguarda l’inserimento nel mondo politico delle donne, e persino molto indietro rispetto a quelle cosiddette non democratiche». La Cina, per esempio, ha Jia Qingling tra i membri di spicco del governo, mentre in America latina sia il Cile con Michelle Bachelet e l’Argentina con Cristina Fernandez de Kirchner, ambedue alla presidenza, hanno dimostrato di saper voltare pagina senza pregiudizi sessisti.
Il documentario di Olla esplora in orizzontale e in verticale l’ingresso in politica delle donne, dagli albori dei diritti delle donne (primo fra tutti, il voto) reclamati dalle suffragiste di fine Ottocento agli esempi di «ferro» contemporanei, Margaret Thatcher e Condoleeza Rice, che a dispetto del nome (che doveva evocare il «con dolcezza» degli spartiti musicali) ha rivelato una natura inflessibile e capace di insinuarsi nei risvolti del potere americano, dove finanche la tosta Hillary Clinton ha dovuto cedere. «La sconfitta di Hillary - chiosa Anna Rossi-Doria - è stato un vero paradosso della storia in cui per la prima volta si presentano alle elezioni un candidato nero e una donna e il primo vince. Un’amara beffa visto che fin dall’Ottocento neri e donne sono stati fermi alleati gli uni delle altre proprio perché discriminati per una differenza incancellabile legata al corpo...».
La lunga marcia delle donne verso l’integrazione ai posti di comando potrebbe comunque far sperare progressi rapidi. «In fondo - commenta Olla - tutta la partita si è giocata nell’ultimo secolo, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento». La Nuova Zelanda concesse già dal 1893 il voto alle donne, mentre in Europa lo scoppio della Grande Guerra di fatto arrestò la maturazione del diritto, ripreso solo dopo il secondo conflitto mondiale. Non solo: «in Italia - ricorda Rossi-Doria - il diritto di voto concesso nel 1945 non si estese, come era previsto, anche all’ingresso delle donne in magistratura, che avvenne solo nel ‘63». Era la paura degli uomini a essere giudicati da una donna, così come dietro alla denigrazione delle suffragiste, passate alla storia con il nomignolo derisorio di «suffragette», si celava «la paura del sovvertimento dei ruoli anche nel privato». Significativo, a questo riguardo, un filmetto del 1912 - di cui alcuni estratti compaiono nel doc - dove ci si fa beffe delle donne che vogliono riunirsi per discutere dei loro diritti, mollando i pargoli ai mariti, ma finiscono per prendersi per i capelli e per venire sbattute in guardina tra i girotondi esultanti dei loro consorti.
Di strada ce n’è ancora molta, ma per una Hillary che non ce l’ha fatta, sorride Michelle Bachelet - tre figli, separata e non cattolica -, che fra i primi atti del suo governo ha incentivato i partiti a presentare più donne, ma solo laddove hanno la possibilità di essere elette. Siamo in Cile. Rispetto all’Italia, dalla parte opposta del mondo. In tutti i sensi.
«8 marzo: una bambina, una donna, senza chiesa»
a cura di Paolo Farinella, prete
Ricevo dagli amici della Comunità “Evangelho è Vida” del Bairro Rio Vermelho di Goiás (Brasile), datata «Giorno per giorno» 6 marzo 2009, questa amara riflessione sulla bambina di 9 anni violata e il vescovo spietato. Ve la comunico senza commenti come antidoto alla stupidaggine dell’8 marzo, un altro inganno per le donne che ci cascano anche. Il titolo in cima è mio. (Paolo Farinella)
Carissimi,
“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5, 20-22). Parole severe quelle di Gesù. Non dissimili da quelle di alcuni maestri del suo tempo, che ricordavano: il comandamento è di non spargere il sangue, ora, chiunque umilia il suo prossimo, chiunque lo fa arrossire di vergogna, è come se ne spargesse il sangue, è perciò lui stesso omicida.
La mattina, alla preghiera, noi non siamo molti, sei, sette, otto persone al massimo. Che oggi, quando, in apertura, si è fatta la memoria della vita, erano tutte, tra lo smarrito e l’indignato. Perché noi non siamo abituati a pastori così. Come quello che è entrato, alla stregua di un carro armato, in una storia, già di per sé fin troppo dolorosa, triste e drammatica.
La storia parla di una bambina di nove anni che, assieme alla sorella quattordicenne (handicappata psichica), era costretta da tre anni a subire le violenze del giovane patrigno. Tali violenze si sono tradotte negli ultimi tempi in una gravidanza gemellare per la bambina più piccola, un fuscello di trentasettechili di peso. Che sua madre, il giorno in cui questa accusa forti dolori al ventre, porta in ospedale a Recife. E lì viene fuori la verità, amarissima. Con tutto ciò che ne segue. L’arresto del patrigno e la decisione di interrompere la gestazione della bimba.
La storia potrebbe anche chiudersi qui, con in più, soltanto, il rispetto, il silenzio, l’abbraccio umano di quanti sono ancora capaci di voler bene. Tra cui, sperabilmente la gente di chiesa. Per alleviare, se mai fosse possibile, l’eccesso del dolore. E invece. Invece arriva fuori lui, il pastore, che da Gesù dovrebbe aver imparato il primato della misericordia, l’invito a non giudicare, la generosità fino al dono della vita. Ma che, sfortunatamente, “mica tutti ne sono capaci”. E così lui sale in cattedra, non sia mai per denunciare i potenti, ma per umiliare e schiacciare i poveri e chi si è fatto toccare dall’enormità della loro sofferenza. E scomunica quanti, per altro, hanno agito nel rispetto della legge: la direzione dell’ospedale dove si è svolto l’intervento, l’equipe medica che lo ha realizzato, la madre che lo ha autorizzato. La bambina non ha invece potuto formalmente scomunicarla, ma solo perché è minorenne.
Fosse stato per lui, chissà! Del resto lui è lo stesso “pastore” inviato nel 1985 all’archidiocesi di Olinda e Recife, per sostituire dom Helder Câmara, normalizzare quella chiesa, demolire sistematicamente il lavoro pastorale del profetico arcivescovo dei poveri.
Il medico che ha coordinato l’intervento, il dott. Rivaldo Mendes de Albuquerque, cattolico, ha dichiarato: “Non riceviamo un solo centesimo per questo tipo di operazioni. Lo facciamo per il rispetto che una donna (in questo caso una bambina!) vittima di violenza merita, e che l’arcivescovo, sfortunatamente, tratta senza nessuna misericordia. È curioso che chi ci ha condannato alla scomunica non ha proferito una sola parola diretta all’uomo che ha stuprato questa bambina. Per dom José Cardoso Sobrinho, l’unica cosa che conta è il Diritto Canonico. Gli manca il cuore. Ho compassione del nostro arcivescovo, che non ha saputo essere misericordioso con una bambina innocente”.
Ha ragione il dott. Rivaldo: non smarrimento, non indignazione, solo compassione. Chissà che domani, salendo all’altare quel vescovo riesca a ricordare la frase di Gesù: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24), e magari, tutto paramentato, vada a cercare quella madre e le sue bimbe, e gli si inginocchi davanti e chieda loro perdono. Per intanto facciamolo noi, ci sarà rimasto qualche cristiano nella chiesa di Olinda e Recife, vero?
Il Postino della Comunità del Bairro
Domande di un lettore operaio
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante vicende.
Tante domande.
Intervento
del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
in occasione della celebrazione della
Giornata Internazionale della Donna
- Quirinale, 7 marzo 2009 -
Rivolgo innanzitutto il più cordiale saluto ed augurio alle donne italiane di ogni età e di ogni condizione sociale. Questa è la vostra Festa, questa è la vostra Giornata, ed è l’occasione per esprimervi la riconoscenza della Nazione, la riconoscenza delle istituzioni che molto debbono alla vostra presenza operosa, al vostro peculiare e insostituibile contributo in tutti i luoghi in cui si costruisce la convivenza civile e il benessere comune del paese.
E sono lieto che domani il ministro Carfagna possa portare anche il mio saluto alle donne che operano con le nostre Forze Armate nella missione in Kossovo.
In un giorno come questo è giusto richiamare l’attenzione in primo luogo sui passi avanti che anche nel corso dell’ultimo anno si sono fatti nel senso dell’affermazione del ruolo delle donne nella società italiana: che si sono fatti per loro merito, grazie al loro impegno. E’ qui il senso del titolo che abbiamo voluto dare a questa celebrazione dell’8 marzo: "Onore al Merito". E è molto significativa la partecipazione, stamattina, di donne brillantemente affermatesi in molteplici attività di studio, professionali, imprenditoriali, sociali, artistiche.
Non c’è dubbio, d’altronde, che la componente femminile si stia imponendo, per migliori risultati, a tutti i livelli, nel sistema di istruzione e formazione; essa, tra l’altro, si rafforza e addirittura prevale in facoltà universitarie considerate un tempo di pertinenza maschile. Abbiamo visto nell’ultimo anno come tenda a rafforzarsi, la componente femminile, nelle organizzazioni dei lavoratori e in quelle dei datori di lavoro; e tenda a rafforzarsi, sia pur lentamente, nei Consigli di Amministrazione delle aziende e nei ruoli dirigenziali. A proposito di questi ultimi, un attento sociologo ha nei giorni scorsi indicato i motivi per cui la promozione di donne a dirigenti "può essere un vero e proprio ’moltiplicatore’ dei risultati aziendali".
Non a caso, dunque, possiamo oggi consegnare onorificenze al merito della Repubblica a un’importante professionista nel campo dell’attività fotografica, alla promotrice di una coraggiosa iniziativa di sostegno dei disabili gravi e delle loro famiglie, a una ricercatrice scientifica di alto livello, ad una giovane stella della danza, a una delle non molte - purtroppo - direttrici d’orchestra, alla prima donna entrata a far parte del Direttorio della Banca d’Italia con il ruolo di Vice Direttore Generale, e ad una eminente veterana dell’insegnamento, un’insigne docente di matematica, Emma Castelnuovo, alla quale rendo speciale omaggio anche perché rappresenta, e ci ricorda, la resistenza al fascismo che oltre a privare le donne di fondamentali ed elementari diritti le costrinse, se ebree come lei, con le infami leggi razziali ad abbandonare con i loro colleghi e studenti le scuole pubbliche rifugiandosi con coraggio in un esperimento di scuola privata esclusivamente ebraica.
Le affermazioni recenti, in vari ambiti, di personalità femminili, quali quelle che ho ricordato, care amiche partecipanti, sono le luci. Ma sappiamo che restano tante ombre: in particolare, quelle della sempre modesta, molto modesta presenza femminile nelle istituzioni rappresentative e in funzioni dirigenti nel mondo della politica. Restano molte ombre sulla strada della parità salariale e innanzitutto della partecipazione delle donne alle forze di lavoro e all’occupazione complessiva. E non possiamo non chiederci in questo momento - nel contesto di una crisi finanziaria ed economica che dà segni piuttosto di ulteriore aggravamento che non di allentamento - quanto rischi di essere particolarmente colpito il lavoro femminile : tema sul quale ancora non si vede concentrarsi abbastanza l’attenzione, la riflessione, l’impegno.
Questo è il panorama generale a cui ci richiama l’8 marzo: un panorama che non può peraltro ignorare l’ombra più pesante di tutte, la vergogna e l’infamia delle violenze contro le donne, degli stupri, e di tutte le forme di molestia, di vessazione, di persecuzione nei confronti delle donne. Nel mondo e in Italia: in una parte del mondo in modi orribili, barbarici; in Italia verso donne italiane o straniere non fa differenza, ad opera di stranieri o di italiani non fa differenza.
Ha scritto ieri il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon: "la violenza sessuale contro le donne è un crimine contro l’umanità. Viola tutto quello per cui si battono le Nazioni Unite. Provoca conseguenze che vanno ben al di là del visibile e dell’immediato. L’impatto sulle donne e sulle ragazze, sulle loro famiglie, sulle loro comunità e sulle loro società in termini di vite e di focolai spezzati, va oltre ogni possibile calcolo".
Nel nostro paese possiamo dire che si stanno facendo dei passi avanti anche nel reagire a ogni sorta di violenza contro le donne e ad ogni sorta di pratiche lesive della loro dignità. Passi avanti sul piano della presa di coscienza e della denuncia, con un crescente coinvolgimento delle scuole, come ci dice il successo del concorso i cui vincitori sono stati appena premiati. E passi avanti sul piano dell’intervento legislativo e dell’azione di governo, come ci dicono le iniziative poco fa richiamate dal ministro Carfagna, alcune delle quali già ampiamente condivise in Parlamento.
Il quadro di riferimento generale per portare avanti la causa delle donne in tutti i suoi aspetti resta, più che mai, la nostra Costituzione. I valori più preziosi per le donne - libertà, emancipazione, partecipazione attiva alla vita sociale e civile, uguaglianza di opportunità, pieno riconoscimento, a parità con gli uomini, dei talenti e dei meriti - sono, lo sappiamo, il prodotto di un lungo processo di trasformazione della società, della cultura e del costume, il prodotto di una graduale maturazione della coscienza collettiva. Ma è con la Costituzione che quei valori si sono fatti principi. E diritti.
Principi cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati. Diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili. Diritti via via sanciti dalla Dichiarazione universale e dalle Carte europee, da ultimo quella del 2000, ora integrata a pieno titolo nel Trattato dell’Unione.
Così, agli articoli 3, 29, 37 della Costituzione repubblicana hanno corrisposto nel corso degli anni la riforma del diritto di famiglia, nel segno dell’"uguaglianza morale e giuridica dei coniugi", e un gran numero di leggi, nazionali e regionali, di sentenze, di accordi sindacali, che hanno concorso a un più alto riconoscimento della condizione della donna da parte della società e dello Stato.
La democrazia si consolida, si pone al riparo da ogni rischio, si sviluppa com’è necessario, se si rafforzano il ruolo e il contributo delle donne attraverso il più conseguente rispetto e svolgimento dei principi e dei diritti sanciti dalla Costituzione. Principi e diritti che fanno della nostra Carta una Costituzione vitale, di assoluta validità in tutta la sua prima parte, anche perché aperta al nuovo, proiettata verso il futuro. Una Costituzione da richiamare non per un qualche omaggio formale ma per un convinto ancoraggio al suo dettato e al suo spirito - insomma, una Costituzione da far vivere: anche con il decisivo impulso delle donne italiane.