La Stampa 1 giugno 2005
Si svolge in questi giorni presso l’Università di Honolulu la nona «East-West Philosophers Conference», a cui partecipano tra gli altri Richard Rorty e Gianni Vattimo, che discutono sul tema della filosofia tra Est e Ovest la sera del 31 maggio. Pubblichiamo in questa pagina una parte dell’intervento di Vattimo. Il tema dei rapporti tra filosofia occidentale e cultura (o filosofia) orientale non è solo un modo di introdurre anche nella riflessione filosofica il problema, fin troppo popolare oggi, della globalizzazione. Almeno non nel senso banale in cui si intende generalmente questo termine, per il quale sembra che, date le nuove condizioni della tecnologia che facilitano ogni tipo di comunicazione, il nostro mondo sarebbe finalmente sul punto di «rovesciare Babele», ripetendo all’inverso il prodigio della confusione delle lingue di cui parla la Bibbia. In un filosofo «epocale» come Heidegger, ma anche presso molti altri pensatori degli ultimi decenni, l’avvento della società globale ha prodotto, invece, una spinta verso la ricerca delle differenze. Non si tratta cioè di coltivare una riflessione «comparativa» sulle culture e le filosofie con lo scopo di provocarne una unificazione (sempre ricercata anche in nome della pace): si tratta invece di riconoscere le differenze con il proposito di provare a collocarsi in punti di vista diversi. Persino l’ermeneutica, che è certo un punto di riferimento fondamentale per molti di noi qui, sembra dover assumere un senso a cui, forse, Gadamer non pensava quando parlava di Horizontverschmelzung, fusione di orizzonti.
E’ come se l’utopia a cui si è ispirata tanta filosofia del passato, fino a Hegel e persino a McLuhan, stesse riconoscendo che il solo senso che può avere è quello di divenire decisamente eterotopia. In questi termini si può riassumere un vasto movimento della filosofia tardo-novecentesca, quello a cui si è anche dato il nome di post-moderno; e che, sia pure un po’ paradossalmente (almeno rispetto alle intenzioni dell’autore), può trovare le proprie basi persino nella Dialettica negativa di Adorno, e nella sua affermazione secondo cui, contrariamente a quello che pensava Hegel, «il tutto è il falso». Ma nella stessa direzione si può sostenere che vadano grandi romanzi «epocali» come L’uomo senza qualità di Musil - incompiuto, certo, e dunque forse solo contingentemente «babelico»; che però non sembra riducibile semplicemente alla nostalgia per la totalità, ma indica piuttosto il proposito di cercare nella molteplicità irriducibile una forma di emancipazione che ancora non riusciamo a definire (se mai ciò è possibile). Di fronte alla «globalizzazione», cioè alla società multietnica, multiculturale, multilinguistica che ci diviene accessibile, e anzi che ci assedia, nel mondo della comunicazione generalizzata, si può sia cercare di salvare l’unità a tutti i costi ; sia assumere la pluralità come ineludibile orizzonte della nostra esistenza. E’ questo ultimo il senso del passaggio dall’utopia all’eterotopia.
Di questo passaggio - anch’esso «epocale», nel senso almeno che non è un fatto della teoria, ma un fenomeno che riguarda la società stessa, la politica, i rapporti internazionali - si hanno segni e testimonianze di ogni genere: l’uso che fa Popper del termine «società aperta» è, in questo senso, sintomatico. Il comunismo sovietico è caduto per una quantità di cause di carattere economico, culturale (l’influenza dell’immagine del papa polacco, tra l’altro) e psicologico; ma forse il fattore più potente è stato l’esigenza di una apertura delle frontiere. La gente tentava di scappare da Berlino Est perché voleva migliori condizioni materiali di vita; ma di queste condizioni materiali non facevano parte solo i beni di consumo immediato, era la stessa libertà di movimento che contava come una leva potente.
Quello che intendo proporre richiamandomi alla nozione di Andenken (rammemorazione) di Heidegger è la tesi che proprio in questa nozione si condensi il compito della filosofia nell’epoca della globalizzazione. Andenken non significa raccogliere le voci del passato o di altri allo scopo di farne una sintesi; il legen - raccogliere - a cui pure Heidegger riporta la nozione di logos ha piuttosto da fare con il lesen, leggere, che contiene un aspetto di vagabondaggio e di indeterminato «lasciarsi andare» alle suggestioni delle parole, non sempre riassumibile nel senso finale del testo.
E’ importante, qui, non equivocare sul significato dell’ermeneutica, sia quella di Heidegger sia quella di Gadamer, quali che siano le differenze tra le loro posizioni. L’ermeneutica non è una filosofia della verità, ma invece una filosofia dell’alterità, se vogliamo dirlo in una formula. Una delle ultime opere di Paul Ricoeur, scomparso pochi giorni fa si intitola Soi meme comme un autre, che esprime in modo molto netto il senso del legen-lesen ermeneutico: non si tratta di ridurre l’altro a sé in un atto di appropriazione che condurrebbe all’unità di una verità posseduta finalmente in un atto semplice e pieno; il senso dell’incontro con l’altro è piuttosto una dislocazione che non lascia l’interprete, e nemmeno l’interpretato, nella loro propria condizione, senza però collocarli in un orizzonte davvero unico. L’interprete «invade», per dir così, lo spazio, lo spirito, dell’interpretato, ma se ne appropria solo nel senso ambiguo in cui Heidegger, nelle opere tarde, parlerà dell’evento dell’essere, l’Ereignis, che egli descrive come un movimento di Uebereignen, transpropriazione, nel quale l’evento non si quieta mai in un punto di arrivo definitivo.
Ci sono molti esempi di autori «classici» del pensiero contemporaneo nei quali è evidente che il pensare ha i tratti dell’Andenken, e persino del vagabondaggio, invece che quelli della conoscenza «concludente». Nietzsche è sicuramente uno di questi. L’atteggiamento che nel saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita egli attribuisce all’uomo «decadente» del secolo XIX, che si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali che può indossare e lasciare a piacimento, diventa poi, più o meno esplicitamente, il suo stesso modo di guardare alla storia nell’ultimo periodo della sua vita. «Io sono tutti i nomi della storia», scriverà in un appunto del periodo torinese (1888-89) in cui certo era già clinicamente pazzo ma forse diceva ancora quello che davvero pensava. Del resto, questa ipotesi è coerente con la sua dottrina dell’eterno ritorno, anzi può esserne una giustificazione «ragionevole» e accettabile.
L’esempio di Nietzsche, ma poi quelli di Gadamer e di Heidegger, persino di (un certo) Wittgenstein, quello dell’analisi dei vari «giochi linguistici», sono qui intesi a giustificare un’idea del rammemorare, come una forma di nomadismo. Che, nel nostro mondo di meticciato, di pluralismo babelico, significa non il proposito di incontrare gli altri per costruire sintesi unitarie - che dovrebbero servire alla pace, ma che vengono utilizzate solo per legittimare ogni genere di imperialismo; bensì l’idea di muoversi tra i molteplici orizzonti con cui le varie culture e visioni del mondo ci mettono in contatto per «sospendere» criticamente la pretesa validità definitiva delle nostre prospettive.
Niente estetismo, niente curiosità frivola per la molteplicità irriducibile a unità, dunque, ma critica degli assoluti attraverso l’esperienza delle differenze. In altre epoche, di pensiero unico, di autorità tradizionali, di assoluta «unità» della verità, la critica degli assoluti poteva avere il senso di opporre un principio più vero, o un’autorità più alta, a quelli che si volevano contestare. Oggi, nel mondo plurale in cui ci troviamo a vivere, la sola esperienza della autenticità che ci è data non è più quella di una sola realtà trascendente, ma quella della molteplicità da percorrere rammemorandone le varie vicende. Può darsi che sia anche il modo post-moderno di attuare il precetto evangelico secondo il quale «solo chi perde la propria anima la salva».
Gianni Vattimo
Su La Stampa del 1 giugno 2005
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